L'ho sentita e mi sono ricordata chi l'amava molto questa canzone... chissà se, dove sta, ancora la canta con la sua voce da mezzo soprano.... Aveva una bella voce, era svagata come pochi, ma era una strana forza della natura, dirompente e devastante, a volte, altre ancora era l'accoglienza fatta persona. Sapeva essere anche ben stronza, certe volte. Ma c'era amore in tutto quello che faceva. Ecco era così.
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sabato 24 ottobre 2009
sabato 8 agosto 2009
Del potere allucinogeno dei fondamentalisti
Premessa: questo racconto-ricordo me lo ha evocato questo post (e successivi commenti) di London Alcatraz.
Siamo ai tempi del mio dottorato. Sono in Italia e sto portando avanti un lavoro con due tutor, uno nelle terre patrie e uno negli USA. Quest'ultimo mi convoca oltre oceano nonostante io faccia resistenza, durante l'anno ho fatto avanti e indietro così tante volte che la sola idea di un altro viaggio aereo mi fa vomitare. "Farlocca è necessario che tu venga, c'è il mega-convegno-internazionale qui, è una grande occasione e tu devi presentare il nostro lavoro. Serve anche a convincere i colleghi che vale la pena averti qui da noi per un po'... e poi il tuo fidanzato è a New York, così lo vedi e il biglietto lo pago io..." peccato che di vedere il fidanzato non mi va, peccato che il luogo del mega-convegno-internazionale è praticamente il buco del culo del mondo spostato sui monti Appalachi. Chino la testa e salgo in aereo. In fondo sono l'unica scontenta, il fidanzato è tutto allegro, il tutor italiano anche (e vai mi si leva di torno per un po', lo visualizzo mentre danza dato che non gli sono mai stata simpatica) e il tutor americano è il più contento di tutti (siamo ancora grandi amici) visto che dei tre è forse l'unico che mi apprezza e mi vuol bene davvero. Arrivo a New York, sto un paio di giorni, affitto una macchina e parto. Siamo a maggio, a Roma fa caldo, a New York è tutto fiorito, ma sui monti Appalachi siamo all'inizio del disgelo. Guido tra chiazze di neve sporca, alberi spogli e una natura che comincia appena a stiracchiarsi uscendo dal letargo invernale. Dopo 5 ore di guida a velocità legali (50 miglia orarie all'epoca) arrivo nel già citato buco-del-culo-del-mondo. Mi reco alla sede del convegno, mi registro, sorrido a tizio e caio, abbraccio con calore e gioia il mio tutor americano e vado a posare i bagagli in un orrido motel poco lontano. Sì orrido, uno di quei posti da 15 dollari a notte che erano pochi pure per l'epoca. Un coso a moduli prefabbricati, con copriletto in ciniglia (lisa) arancione, moquette a fiori macchiata al punto che del colore originale si è persa notizia, specchio sbreccato, mega-letto al centro della stanza con televisore (decrepito) che domina ogni cosa (ci vuol poco dato che la stanza è sostanzialmente un loculo). Ho poco da mugugnare, sono un'infima studentessa di Phd non posso sperare in nulla di meglio. Mi reco alla conference hall e mi immergo nella scienza. Fa un freddo cane fuori e dentro un caldo infernale, come sempre negli Stati Uniti. Al secondo giorno comincio a starnutire, devo presentare il lavoro il terzo giorno, incrocio le dita e prego gli dei tutti di limitarsi ad un raffreddore nel punire i miei molti peccati. Non mi ascoltano. Il terzo giorno ho la gola in fiamme, gli occhi che lacrimano e mi gira la testa. Rantolo fino alla sala seminari dove devo presentare. Il mio tutor mi vede e si preoccupa, tossisco una rassicurazione e procedo. Riesco a presentare senza fare troppo schifo, rispondo alle domande tossendo e starnutendo. La tortura finisce e mi accascio su di una sedia. Il tutor, padre di famiglia, arriva mi sente la fronte e scuote la testa "no, not good at all... you need a doctor..." scuoto la testa, non se ne parla proprio, voglio solo dormire dico, vedrai che passa tutto. Il problema vero è che nel giro di due giorni devo risalire in macchina e tornare a New York. Là dovrei anche vedere della gente della Columbia University con la quale abbiamo da finire delle cose.
Rotolo alla macchina, sto uno schifo, parto e mi fermo ad un drugstore. Acquisto 2 cartoni da 2 litri di succo di arancia, qualcosa da mangiare, aspirine, vitamine e un termometro. Torno all'orrido motel. Mi stendo sul letto bevendo succo d'arancia, mi sento davvero male, il termometro segna 102... dopo un iniziale infarto mi rendo conto che è in farenheit e non in gradi celsius, bene significa che ho quasi 39 di febbre. Manciata di aspirine, accendo il televisore e comincio a fare zapping. Mi addormento immediatamente. Il sonno è agitato, mi muovo nel letto, rotolo, sudo, tossisco. Ad un certo punto una voce mi esplode nelle orecchie: "Hell is waiting for you!!! Sinners, confess to Jesus.... " (l'inferno vi aspetta!!! peccatori confessate a Gesù..) dallo schermo un tizio in giacchetta azzurro intenso, capello phonato biondo e cerone a tonnellate, urla verso di me. Ora punta anche un dito che sembra riempire tutto lo schermo "You, I'm talking to you!!!" (tu, sto parlando con te!!) e grida contro la mia blasfemia, il mio ateismo-giudaismo-comunismo-sarcazzochealtro.... Nel fumo cerebrale della febbre non mi rendo conto immediatamente di cosa sia successo, resto un po' lì con gli occhi sgranati, il copriletto di ciniglia tirato su fin sotto al mento e scuoto la testa come a negare ogni addebito. Visioni dantesche riempiono la mia testa febbricitante, lingue di fuoco lambiscono la moquette zozza e certamente tra un attimo mi avvolgeranno riducendomi in cenere. Poi un pensiero penetra tra le circonvoluzioni neuronali un po' abbrustolite, è come una brezzolina fresca: "Ma che cazzo vuole da me questo? chi lo conosce? perché fa così caldo qua dentro?". Lentamente un barlume di coscienza si fa strada. Mi rendo conto che, nel mio rotolare febbricitante, sono finita sul telecomando e ho cambiato canale, ora sto vedendo uno di quei programmi di predica che una stazione televisiva cristiano-fondamentalista trasmette a ciclo continuo. Ridacchio sollevata mentre il tipo phonato continua ad esortarmi ad abbracciare Gesù. Questo però ancora non spiega la temperatura tropicale della stanza. Sono debole e prima di esplorare l'impianto di riscaldamento (chiaramente prodotto nel Giurassico) misuro la mia di temperatura: 100 ovvero circa 38 celsius. Bene sto migliorando. Mi alzo, zittisco il predicatore, comincio a smanettare l'impianto di riscaldamento che emana onde al calor bianco. L'aggeggio emette un singulto, un semi-rutto, tremola e succede qualcosa: smette di funzionare. Guardo l'orologio sono le 8 di sera, ho dormito quasi tutto il giorno. Le gambe non mi reggono e la testa mi rintrona come un tamburo. Chiamo la reception e una voce mi comunica che "we are very sorry, but we have no way to fix it before tomorrow morning, the janitor just went home" (sono molto spiacenti ma non hanno modo di aggiustarlo prima di domani mattina, l'addetto alla manutenzione è appena andato a casa). Chiedo coperte extra, arrivano, il motel è pure pieno. Mi incarto come Tutankamon e scivolo nell'incoscienza con lo stomaco pieno di aspirine e un po' di cibo. Domani è un altro giorno e si vedrà.
In conclusione a New York ci tornai grazie ad un sintomatico potentissimo, che mi permise anche di tornare in Italia ed avere una conversazione semi-lucida con quelli della Columbia. Arrivata a Roma però il malefico virus che si era impadronito di me, ritornò alla carica e mi costrinse a letto per dieci giorni con frequenti incubi da predicatore-phonato.
Rotolo alla macchina, sto uno schifo, parto e mi fermo ad un drugstore. Acquisto 2 cartoni da 2 litri di succo di arancia, qualcosa da mangiare, aspirine, vitamine e un termometro. Torno all'orrido motel. Mi stendo sul letto bevendo succo d'arancia, mi sento davvero male, il termometro segna 102... dopo un iniziale infarto mi rendo conto che è in farenheit e non in gradi celsius, bene significa che ho quasi 39 di febbre. Manciata di aspirine, accendo il televisore e comincio a fare zapping. Mi addormento immediatamente. Il sonno è agitato, mi muovo nel letto, rotolo, sudo, tossisco. Ad un certo punto una voce mi esplode nelle orecchie: "Hell is waiting for you!!! Sinners, confess to Jesus.... " (l'inferno vi aspetta!!! peccatori confessate a Gesù..) dallo schermo un tizio in giacchetta azzurro intenso, capello phonato biondo e cerone a tonnellate, urla verso di me. Ora punta anche un dito che sembra riempire tutto lo schermo "You, I'm talking to you!!!" (tu, sto parlando con te!!) e grida contro la mia blasfemia, il mio ateismo-giudaismo-comunismo-sarcazzochealtro.... Nel fumo cerebrale della febbre non mi rendo conto immediatamente di cosa sia successo, resto un po' lì con gli occhi sgranati, il copriletto di ciniglia tirato su fin sotto al mento e scuoto la testa come a negare ogni addebito. Visioni dantesche riempiono la mia testa febbricitante, lingue di fuoco lambiscono la moquette zozza e certamente tra un attimo mi avvolgeranno riducendomi in cenere. Poi un pensiero penetra tra le circonvoluzioni neuronali un po' abbrustolite, è come una brezzolina fresca: "Ma che cazzo vuole da me questo? chi lo conosce? perché fa così caldo qua dentro?". Lentamente un barlume di coscienza si fa strada. Mi rendo conto che, nel mio rotolare febbricitante, sono finita sul telecomando e ho cambiato canale, ora sto vedendo uno di quei programmi di predica che una stazione televisiva cristiano-fondamentalista trasmette a ciclo continuo. Ridacchio sollevata mentre il tipo phonato continua ad esortarmi ad abbracciare Gesù. Questo però ancora non spiega la temperatura tropicale della stanza. Sono debole e prima di esplorare l'impianto di riscaldamento (chiaramente prodotto nel Giurassico) misuro la mia di temperatura: 100 ovvero circa 38 celsius. Bene sto migliorando. Mi alzo, zittisco il predicatore, comincio a smanettare l'impianto di riscaldamento che emana onde al calor bianco. L'aggeggio emette un singulto, un semi-rutto, tremola e succede qualcosa: smette di funzionare. Guardo l'orologio sono le 8 di sera, ho dormito quasi tutto il giorno. Le gambe non mi reggono e la testa mi rintrona come un tamburo. Chiamo la reception e una voce mi comunica che "we are very sorry, but we have no way to fix it before tomorrow morning, the janitor just went home" (sono molto spiacenti ma non hanno modo di aggiustarlo prima di domani mattina, l'addetto alla manutenzione è appena andato a casa). Chiedo coperte extra, arrivano, il motel è pure pieno. Mi incarto come Tutankamon e scivolo nell'incoscienza con lo stomaco pieno di aspirine e un po' di cibo. Domani è un altro giorno e si vedrà.
In conclusione a New York ci tornai grazie ad un sintomatico potentissimo, che mi permise anche di tornare in Italia ed avere una conversazione semi-lucida con quelli della Columbia. Arrivata a Roma però il malefico virus che si era impadronito di me, ritornò alla carica e mi costrinse a letto per dieci giorni con frequenti incubi da predicatore-phonato.
giovedì 6 agosto 2009
La strada II
Continua da qui
Sono le 6 del mattino, fuori la luce ha appena cominciato a cambiare, ho dormito parecchio. I bagagli sono pronti in un attimo, scendo alla reception, pago e vado a cercarmi un posto per fare colazione. La colazione è per me il pasto principale della giornata e negli Stati Uniti trovo davvero "pane per i miei denti". La mia fame lupigna del mattino si appaga con pancakes, caffè lungo (fragrante, buonissimo) e succo di frutta fresco per completare l'opera. Satolla e gongolante riprendo la 290 in direzione Fredericksburg. Anche oggi è nuvolo, intorno i prati coperti di blue bells incantano gli occhi e guidare la Jeep rossa è un vero piacere. Canticchio seguendo la radio, qua e là mi lancio in una sorta di karaoke stonato sorridendo a chi mi incrocia e mi guarda perplesso. In realtà di domenica mattina non c'è molta gente per strada. Attraverso la cittadina di Frederiscksburg, molto tipica, molto texana, molto noiosa. Mi fermo solo un momento per chiedere indicazioni che mi vengono date con la cantilena tipica, un po' masticata, dell'inglese che si parla qui. Gli uomini portano il cappello a falde larghe, le camicie a scacchi e i jeans, molte donne sono vestite allo stesso modo, ma essendo domenica si notano abbigliamenti più ricercati per andare alla messa. Uomini con cappello a falde larghe, camicia bianca, stivali lavorati e cravattino di cuoio con ferma cravatta in turchese, signore in gonna al ginocchio (di ogni foggia e tipo), camicette bianche abbottonate fino alle orecchie e borsette varie, rigorosamente intonate alle scarpe. La gente si saluta e si dirige alle varie chiese. Negli Stati Uniti l'appartenere ad una chiesa è praticamente obbligatorio. Tranne che nelle grandi città come New York e Houston, là puoi far finta di nulla. Nel mio primo soggiorno extra-urbano negli Stati Uniti finii in un paesino della Pensylvania, c'era solo l'università o quasi ed io ero lì per svolgere parte del mio dottorato. All'arrivo mi diedero molte indicazioni: dove era il centro commerciale, dove trovare assistenza medica, il posto di polizia e una mappa con tutte le chiese/comunità religiose del paesotto in cui ero. C'era di tutto, anche una piccola moschea e un minuscolo tempio indù. Io non capivo cosa ci dovessi fare ed ebbi l'ingenuità di dirlo. La faccia della signora dell'ufficio stranieri mi fece capire che avevo detto la cosa sbagliata. Tossii e andai via quasi di corsa. In seguito, la mia mancanza di attività religiosa fu notata e mi creò alcune difficoltà, ma questa è un'altra storia.
La strada per il parco prosegue verso nord. Voglio trascorrerci la giornata, arrampicarmi sulla Enchanted Rock e, se ho fortuna, veder volare le aquile da là sopra. Arrivo all'ingresso del parco verso le 9:30, parcheggio, mi procuro una bottiglia d'acqua e una mappa. Sono pronta e mi avvio per i sentieri. C'è parecchia gente, il parco è bello e non fa caldo, l'ideale per camminare. La Roccia incantata è una collina di granito rosa isolata (si eleva per circa 140 metri) al centro di un'area piuttosto piatta. Gli indiani Tonkawa dicevano che era un posto stregato, in realtà la roccia si scalda molto durante il giorno e di notte, raffreddandosi, emette suoni e qualche fuoco fatuo, roba che se non sai cosa è può, oggettivamente, spaventare. Insomma lo consideravano un posto magico tra il temibile e il meraviglioso. Cammino per un'oretta, facendo un giro largo fino ai piedi della collina e poi salgo. Mi inerpico sulla roccia quasi liscia, tra pozze d'acqua piovana, arbustelli e piccoli cactus fioriti. Il cielo è nuvoloso, a tratti piove, ma solo un po'. Lo spettacolo naturale è mozza fiato.
Arrivata in cima mi siedo e ascolto il vento. Non ci sono altri rumori. La gente è rimasta giù, nessuno ancora sale, solo qualche ragazzino stava cercando di trascinare i genitori per la salita ma al momento senza successo. Resto lì come stregata, respiro e basta. Poi sento un rumore, uno sbattere di ali, un grido, sono fortunata, c'è un'aquila che volteggia sopra di me.
Non ho idea di quanto tempo siamo rimaste io e l'aquila a scrutarci dalle rispettive posizioni. Lei (o lui) volteggia in alto, poi scende quasi a toccare la roccia, poi risale. Io mi riempio gli occhi di questo movimento desiderando di poter fare altrettanto nella mia vita. Diventare capace di volare alto e poi saper scendere, sfiorare la terra e di nuovo risalire. Prendo la cosa come un buon auspicio.
Rumori umani, arriva gente e l'aquila si allontana. Mi alzo e scendo. Mi rendo conto che è ormai quasi l'una, riprendo a camminare, questa volta prendo la via breve e alle 2 sono di nuovo alla macchina. Prossima meta San Antonio.
Torno a Fredericskburg e vado verso la I10, l'autostrada, sta piovendo e piove sempre di più. Strada facendo mi fermo in un vivaio e compro semi di blue bells e qualche piantina fiorita per casa. Dopo quella colazione, ovviamente non ho fame. Arrivata a San Antonio verso le 5 del pomeriggio ho un muro d'acqua davanti agli occhi. Giro un po' per le strade della città, ma non smette di piovere. Sono stanca e con questo tempo l'idea di fermarmi, trovare un albergo e magari poi passare la serata e la mattina seguente chiusa nel medesimo causa meteo avverso, mi sembra idiota. Così decido di non fermarmi e di proseguire per Houston. La cosa in fondo è semplice, devo solo continuare sulla highway 10. Certo sono quasi 200 miglia (circa 300km) ma tutte di autostrada. Proseguo e mentre vado mi rendo conto di essere veramente stanca, gli occhi cercano di chiudersi e la monotonia della strada non aiuta. In questi casi, normalmente, mi fermo e dormo un po', oggi però sono su questo specifico tratto di autostrada. Gli amici del luogo mi hanno fatto una testa a cembalo dicendomi che è un tratto di strada pericolosissimo, che non mi devo fermare a dormire per nessun motivo, che rischio la pelle etc etc. raccontandomi ogni sorta di raccapricciante delitto, possibilmente ai danni di povera-donna-sola, verificatosi lungo la I10 tra Houston e San Antonio. Mi fermo e bevo un bel bibitone di caffè (abbastanza schifoso). Dopo un'altra mezz'ora di guida ho gli occhi che mi si chiudono di nuovo. Mi fermo e bevo una coca cola. Continuo a guidare e di nuovo le palpebre calano. Mi fermo e mi ricordo di una bibita, la Mountain Dew, che pare sia una bomba di caffeina. La trovo e la bevo. Riparto e finalmente sono sveglia come un grillo, pure troppo, penso. Arrivo saltellante e in gran forma a Houston verso le dieci di sera, sotto l'acqua battente ci ho messo quasi 4 ore. Parcheggio, entro a casa e non ho nemmeno un'ombra di sonno. Per fortuna il lunedì è festa, anche se non dormo non mi preoccupo.
Il risultato dell'overdose di caffeina è stato che, dopo una giornata di lunedì frenetica (sembravo fatta di coca) ho preso sonno la sera verso le 8. Be' più che preso sonno ho, farlocchescamente, collassato per le successive 12 ore.
La strada per il parco prosegue verso nord. Voglio trascorrerci la giornata, arrampicarmi sulla Enchanted Rock e, se ho fortuna, veder volare le aquile da là sopra. Arrivo all'ingresso del parco verso le 9:30, parcheggio, mi procuro una bottiglia d'acqua e una mappa. Sono pronta e mi avvio per i sentieri. C'è parecchia gente, il parco è bello e non fa caldo, l'ideale per camminare. La Roccia incantata è una collina di granito rosa isolata (si eleva per circa 140 metri) al centro di un'area piuttosto piatta. Gli indiani Tonkawa dicevano che era un posto stregato, in realtà la roccia si scalda molto durante il giorno e di notte, raffreddandosi, emette suoni e qualche fuoco fatuo, roba che se non sai cosa è può, oggettivamente, spaventare. Insomma lo consideravano un posto magico tra il temibile e il meraviglioso. Cammino per un'oretta, facendo un giro largo fino ai piedi della collina e poi salgo. Mi inerpico sulla roccia quasi liscia, tra pozze d'acqua piovana, arbustelli e piccoli cactus fioriti. Il cielo è nuvoloso, a tratti piove, ma solo un po'. Lo spettacolo naturale è mozza fiato.
Arrivata in cima mi siedo e ascolto il vento. Non ci sono altri rumori. La gente è rimasta giù, nessuno ancora sale, solo qualche ragazzino stava cercando di trascinare i genitori per la salita ma al momento senza successo. Resto lì come stregata, respiro e basta. Poi sento un rumore, uno sbattere di ali, un grido, sono fortunata, c'è un'aquila che volteggia sopra di me.
Non ho idea di quanto tempo siamo rimaste io e l'aquila a scrutarci dalle rispettive posizioni. Lei (o lui) volteggia in alto, poi scende quasi a toccare la roccia, poi risale. Io mi riempio gli occhi di questo movimento desiderando di poter fare altrettanto nella mia vita. Diventare capace di volare alto e poi saper scendere, sfiorare la terra e di nuovo risalire. Prendo la cosa come un buon auspicio.
Rumori umani, arriva gente e l'aquila si allontana. Mi alzo e scendo. Mi rendo conto che è ormai quasi l'una, riprendo a camminare, questa volta prendo la via breve e alle 2 sono di nuovo alla macchina. Prossima meta San Antonio.
Torno a Fredericskburg e vado verso la I10, l'autostrada, sta piovendo e piove sempre di più. Strada facendo mi fermo in un vivaio e compro semi di blue bells e qualche piantina fiorita per casa. Dopo quella colazione, ovviamente non ho fame. Arrivata a San Antonio verso le 5 del pomeriggio ho un muro d'acqua davanti agli occhi. Giro un po' per le strade della città, ma non smette di piovere. Sono stanca e con questo tempo l'idea di fermarmi, trovare un albergo e magari poi passare la serata e la mattina seguente chiusa nel medesimo causa meteo avverso, mi sembra idiota. Così decido di non fermarmi e di proseguire per Houston. La cosa in fondo è semplice, devo solo continuare sulla highway 10. Certo sono quasi 200 miglia (circa 300km) ma tutte di autostrada. Proseguo e mentre vado mi rendo conto di essere veramente stanca, gli occhi cercano di chiudersi e la monotonia della strada non aiuta. In questi casi, normalmente, mi fermo e dormo un po', oggi però sono su questo specifico tratto di autostrada. Gli amici del luogo mi hanno fatto una testa a cembalo dicendomi che è un tratto di strada pericolosissimo, che non mi devo fermare a dormire per nessun motivo, che rischio la pelle etc etc. raccontandomi ogni sorta di raccapricciante delitto, possibilmente ai danni di povera-donna-sola, verificatosi lungo la I10 tra Houston e San Antonio. Mi fermo e bevo un bel bibitone di caffè (abbastanza schifoso). Dopo un'altra mezz'ora di guida ho gli occhi che mi si chiudono di nuovo. Mi fermo e bevo una coca cola. Continuo a guidare e di nuovo le palpebre calano. Mi fermo e mi ricordo di una bibita, la Mountain Dew, che pare sia una bomba di caffeina. La trovo e la bevo. Riparto e finalmente sono sveglia come un grillo, pure troppo, penso. Arrivo saltellante e in gran forma a Houston verso le dieci di sera, sotto l'acqua battente ci ho messo quasi 4 ore. Parcheggio, entro a casa e non ho nemmeno un'ombra di sonno. Per fortuna il lunedì è festa, anche se non dormo non mi preoccupo.
Il risultato dell'overdose di caffeina è stato che, dopo una giornata di lunedì frenetica (sembravo fatta di coca) ho preso sonno la sera verso le 8. Be' più che preso sonno ho, farlocchescamente, collassato per le successive 12 ore.
lunedì 3 agosto 2009
La strada
E' l'alba di un giorno americano del 1999. Il sole comincia a sbucare da dietro le cime degli alberi che circondano il comprensorio in cui vivo a Houston. C'è silenzio intorno, qualche uccello canta, qualcuno esce per andare a correre sull'argine di quella specie di marana che delimita un lato della proprietà. Anche io sto per uscire. E' un fine settimana, sabato, ci sarebbe l'allenamento da fare, ma oggi non ne voglio sapere. Oggi ho affittato una macchina, l'ho presa ieri sera e, per mia grande fortuna, dato che non avevano il modello base che avevo prenotato, mi hanno dato un modello superiore allo stesso prezzo. Una Jeep Cherokee rossa fiammante, con stereo futuristico e tanti di quei comandi sul cruscotto che mi servirebbe un dottorato in ingegneria elettronica per capire a che servono. Stamattina parto. Non ho una meta precisa, so che ci sono dei posti belli verso Austin, la città stessa vale la pena di una visita. Poi c'è San Antonio e ci sarebbe anche Dallas, ma l'ho già visitata e mi ha, sinceramene, fatto schifo. Forse perché là sono andata anche per lavorare ed ho avuto modo di entrare in contatto con l'élite del luogo, bigotta, meschina e priva di cultura. Mai stata così a disagio negli Stati Uniti come in quel caso. Il momento peggiore è stato una cena tra maggiorenti locali ed accademici-intellettuali della Southern Methodist University e della Dallas Baptist University. Fu una serata in cui l'unico modo per non creare una rissa, fu stare zitta e rispondere a monosillabi solo se direttamente interrogata. Allontano dalla mente il ricordo, non vale la pena rievocare quel senso di rabbia e frustrazione; mi aspettano le strade del Texas, la natura splendida e la libertà assoluta di un viaggio da sola.
Salgo in macchina, studio un po' le istruzioni, capisco cosa è meglio non toccare e cosa mi può essere utile, sono pronta parto, direzione Austin. La strada è a 4 corsie, enormi SUV, qualche grossa moto con pittoresca fauna locale a bordo e molti grandi camion mi accompagnano. Accendo la radio e gioco tra una stazione country e una di jazz, passando per un po' di rock assortito. Imbocco la 290. Non è l'itinerario più veloce, è una strada statale più stretta, dell'autostrada ma passa attraverso splendidi paesaggi. Macino chilometri, il senso del viaggio è questo negli Stati Uniti, almeno per me. E' davvero il paese in cui ha più senso il percorso che l'arrivo. Si annuvola e una pioggia leggera comincia a cadere. E' l'inizio della primavera qui, siamo all'inizio di marzo, non fa caldo e i prati si coprono di piccoli fiori blu. Lungo la strada incontro campi, aree in cui ancora vivono branchi di bisonti. Mi fermo a guardarli mentre, quasi immobili, brucano sotto la pioggia. Dopo un po' sono all'altezza della cittadina di Carmine e lo sguardo mi cade su di un cartello: "Goat cheese - 2 miles". Giro per il viottolo di campagna e lo percorro. Arrivo ad una fattoria e mi fermo. Mi arrivano incontro 4 ragazzini dai 13 ai 5, forse 6 anni, mi salutano e chiamano la madre. Arriva una donna minuta, bionda e sorridente, in jeans e maglione. Iniziamo a parlare, chiedo informazioni sul formaggio di capra e dopo poche parole la signora passa ad un perfetto italiano. Lei e il marito hanno vissuto quasi dieci anni a Genova, poi si sono stancati della vita che facevano, era anche nato il terzo figlio. Così hanno venduto casa, mollato i rispettivi lavori e si sono comprati questo pezzo di terra, dove coltivano varie cose e fanno formaggi. Arriva anche il marito, con la sua aria da americano in salute, ha un bel sorriso, i capelli scuri e due occhi sottili e chiari alla Clint Eastwood. Trascorro un paio d'ore con la famiglia, assaggiando formaggi e pontificando sulla vita in generale, saltellando tra italiano e inglese come se fossero una sola lingua. Saluto tutti e riparto con formaggi di capra al seguito. Dopo ancora qualche ora arrivo ad Austin. Trovo un hotel da pochi soldi e mi fermo. Austin si può girare a piedi, cosa rara per le città americane, qui si trova una delle più grandi università statali degli USA, a camminare per le sue strade si ha l'impressione che l'età media sia vent'anni. Mi sento vecchia mentre continuo a girare per tutto il giorno. Chiacchiero con camerieri di ristoranti e baristi, mi faccio indicare un qualche locale dove ci sia musica dal vivo per la sera. Trascorro la giornata a vagare per le strade, a percorrere il lungo fiume e a ficcanasare per la zona universitaria. Arriva la sera e noto che, come spesso accade nei paesi di cultura anglosassone, essendo sabato, il tasso alcolico per le strade è piuttosto alto. Mi dirigo verso una sorta di pub dove servono cucina texana, suonano blues e brani di Steve Ray Vaughan a cui è anche dedicata una statua in città. La musica è buona, il suono caldo e la voce della cantante morbida e struggente. Ascolto godendomi ogni sensazione: i suoni, il cibo che è ottimo, i rumori di fondo. Mi sento in paradiso in mia compagnia. Non ho fatto però i conti con l'ubriachezza molesta locale e con il fatto che sono una donna sola ad un tavolo di sabato sera in una città americana (che non è New York). Nel giro di mezz'ora ho dovuto scacciare almeno tre ubriachi molesti, il quarto me lo leva di torno quasi di peso il cameriere. Non è che io sia una fata, è che donna-sola-sabato-sera-in-locale-pubblico=vuole-rimorchiare, almeno nel linguaggio non scritto del luogo. Quando il cameriere mi consiglia di andarmi a sedere ad un tavolo con altre ragazze (peraltro palesemente sbronze pure loro) al fine di evitare altri incidenti, mi alzo e vado in albergo. Sdraiata sul letto alle 10:30 di un sabato sera mi assale quel senso di rabbia e frustrazione che ho spesso provato nei miei viaggi solitari. Ripenso ad Atene dove, alle 9 di sera, mi sono dovuta barricare in camera a causa di un altro ospite dell'ostello, giovanotto tedesco, per altro sobrio, che dopo un po' di chiacchiere (neanche tanto amichevoli dato che non mi era simpatico) s'era rapito d'amore (non corrisposto) per me. Ripensavo al meccanico di quella sperduta cittadina sui monti Appalachi che, pochi anni prima, si sentì autorizzato a farmi complimenti molto pesanti, solo perché viaggiavo sola (lo precisò lui nemmeno fosse un siculo dell'entroterra di Caltanisetta negli anni '50) o al tipo, conosciuto per caso a casa di amici a Parigi, che al primo appuntamento mi diventò aggressivo perché gli ricordavo la ex-moglie (mi diede una spinta e io lo mollai in mezzo a Boulevard Saint Michel saltando su di un taxi).
Per quanto una sappia cavarsela, per quanto una possa sapersi difendere, ad un certo punto deve sempre soccombere a questa logica perversa: per evitare guai deve ritirarsi. E' una regola generale, in qualunque contesto, una donna da sola è meglio se evita l'aggressività maschile, è meglio se non si espone a rischi inutili, anche se saprebbe menare ad un tizio alto il doppio di lei, comunque il risultato non è garantito.
Cerco di scacciare il disagio, in fondo domattina all'alba io sarò sulla strada per Fredericksburg, diretta all'Enchanted Rock State Natural Area. Ecco invece quei quattro stronzi ubriachi del locale avranno solo mal di testa. Mi giro e dormo in pace.
Continua....
Salgo in macchina, studio un po' le istruzioni, capisco cosa è meglio non toccare e cosa mi può essere utile, sono pronta parto, direzione Austin. La strada è a 4 corsie, enormi SUV, qualche grossa moto con pittoresca fauna locale a bordo e molti grandi camion mi accompagnano. Accendo la radio e gioco tra una stazione country e una di jazz, passando per un po' di rock assortito. Imbocco la 290. Non è l'itinerario più veloce, è una strada statale più stretta, dell'autostrada ma passa attraverso splendidi paesaggi. Macino chilometri, il senso del viaggio è questo negli Stati Uniti, almeno per me. E' davvero il paese in cui ha più senso il percorso che l'arrivo. Si annuvola e una pioggia leggera comincia a cadere. E' l'inizio della primavera qui, siamo all'inizio di marzo, non fa caldo e i prati si coprono di piccoli fiori blu. Lungo la strada incontro campi, aree in cui ancora vivono branchi di bisonti. Mi fermo a guardarli mentre, quasi immobili, brucano sotto la pioggia. Dopo un po' sono all'altezza della cittadina di Carmine e lo sguardo mi cade su di un cartello: "Goat cheese - 2 miles". Giro per il viottolo di campagna e lo percorro. Arrivo ad una fattoria e mi fermo. Mi arrivano incontro 4 ragazzini dai 13 ai 5, forse 6 anni, mi salutano e chiamano la madre. Arriva una donna minuta, bionda e sorridente, in jeans e maglione. Iniziamo a parlare, chiedo informazioni sul formaggio di capra e dopo poche parole la signora passa ad un perfetto italiano. Lei e il marito hanno vissuto quasi dieci anni a Genova, poi si sono stancati della vita che facevano, era anche nato il terzo figlio. Così hanno venduto casa, mollato i rispettivi lavori e si sono comprati questo pezzo di terra, dove coltivano varie cose e fanno formaggi. Arriva anche il marito, con la sua aria da americano in salute, ha un bel sorriso, i capelli scuri e due occhi sottili e chiari alla Clint Eastwood. Trascorro un paio d'ore con la famiglia, assaggiando formaggi e pontificando sulla vita in generale, saltellando tra italiano e inglese come se fossero una sola lingua. Saluto tutti e riparto con formaggi di capra al seguito. Dopo ancora qualche ora arrivo ad Austin. Trovo un hotel da pochi soldi e mi fermo. Austin si può girare a piedi, cosa rara per le città americane, qui si trova una delle più grandi università statali degli USA, a camminare per le sue strade si ha l'impressione che l'età media sia vent'anni. Mi sento vecchia mentre continuo a girare per tutto il giorno. Chiacchiero con camerieri di ristoranti e baristi, mi faccio indicare un qualche locale dove ci sia musica dal vivo per la sera. Trascorro la giornata a vagare per le strade, a percorrere il lungo fiume e a ficcanasare per la zona universitaria. Arriva la sera e noto che, come spesso accade nei paesi di cultura anglosassone, essendo sabato, il tasso alcolico per le strade è piuttosto alto. Mi dirigo verso una sorta di pub dove servono cucina texana, suonano blues e brani di Steve Ray Vaughan a cui è anche dedicata una statua in città. La musica è buona, il suono caldo e la voce della cantante morbida e struggente. Ascolto godendomi ogni sensazione: i suoni, il cibo che è ottimo, i rumori di fondo. Mi sento in paradiso in mia compagnia. Non ho fatto però i conti con l'ubriachezza molesta locale e con il fatto che sono una donna sola ad un tavolo di sabato sera in una città americana (che non è New York). Nel giro di mezz'ora ho dovuto scacciare almeno tre ubriachi molesti, il quarto me lo leva di torno quasi di peso il cameriere. Non è che io sia una fata, è che donna-sola-sabato-sera-in-locale-pubblico=vuole-rimorchiare, almeno nel linguaggio non scritto del luogo. Quando il cameriere mi consiglia di andarmi a sedere ad un tavolo con altre ragazze (peraltro palesemente sbronze pure loro) al fine di evitare altri incidenti, mi alzo e vado in albergo. Sdraiata sul letto alle 10:30 di un sabato sera mi assale quel senso di rabbia e frustrazione che ho spesso provato nei miei viaggi solitari. Ripenso ad Atene dove, alle 9 di sera, mi sono dovuta barricare in camera a causa di un altro ospite dell'ostello, giovanotto tedesco, per altro sobrio, che dopo un po' di chiacchiere (neanche tanto amichevoli dato che non mi era simpatico) s'era rapito d'amore (non corrisposto) per me. Ripensavo al meccanico di quella sperduta cittadina sui monti Appalachi che, pochi anni prima, si sentì autorizzato a farmi complimenti molto pesanti, solo perché viaggiavo sola (lo precisò lui nemmeno fosse un siculo dell'entroterra di Caltanisetta negli anni '50) o al tipo, conosciuto per caso a casa di amici a Parigi, che al primo appuntamento mi diventò aggressivo perché gli ricordavo la ex-moglie (mi diede una spinta e io lo mollai in mezzo a Boulevard Saint Michel saltando su di un taxi).
Per quanto una sappia cavarsela, per quanto una possa sapersi difendere, ad un certo punto deve sempre soccombere a questa logica perversa: per evitare guai deve ritirarsi. E' una regola generale, in qualunque contesto, una donna da sola è meglio se evita l'aggressività maschile, è meglio se non si espone a rischi inutili, anche se saprebbe menare ad un tizio alto il doppio di lei, comunque il risultato non è garantito.
Cerco di scacciare il disagio, in fondo domattina all'alba io sarò sulla strada per Fredericksburg, diretta all'Enchanted Rock State Natural Area. Ecco invece quei quattro stronzi ubriachi del locale avranno solo mal di testa. Mi giro e dormo in pace.
Continua....
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giovedì 4 giugno 2009
Ricordo di te
E' l'alba di un giorno di maggio e sto correndo in aeroporto. C'è il sole, siamo in due, corriamo contro il tempo sperando di poter mantenere la promessa fatta. Arriveremo in tempo? Lei è in fin di vita e ci eravamo promessi di ritrovarci ancora una volta prima della fine, la promessa ce l'eravamo scambiata appena 15 giorni prima. Il viaggio, per altro breve, sembra non finire mai. Il treno dall'aeroporto alla città, in perfetto orario, mi sembra vada a passo di lumaca e invece sfreccia. Scendiamo alla stazione, saltiamo sulla metro e ci catapultiamo all'ospedale. Lei è lì, piena di morfina, incosciente. Quando mi avvicino cambia un po' il ritmo del suo respiro, mi vengono le lacrime agli occhi davanti a tanta sofferenza. Penso "molla, vai, siamo qui abbiamo mantenuto la promessa, ora basta dolore." C'è sua madre, ci guardiamo, ci stringiamo una mano. E lei mi dice "Ora basta no?" annuisco. Usciamo dalla stanza è arrivata l'infermiera. Decidiamo di andare un momento a posare la valigia, l'infermiera dice che lei è stabile e che potrebbe restare così a lungo. Andiamo in albergo. Poggiamo le valige. Suona il telefono "Vi ha aspettato... ora è andata via...". Mi alzo, ci alziamo, ritorniamo in ospedale. Nella stanza entro io con la madre e la sorella. Facciamo ciò che le donne fanno spesso in questi casi: la prepariamo. La guardo, ora con il volto disteso, senza più ombra di sofferenza, è di nuovo bellissima , così come me la ricordavo. Non parliamo, non vogliamo pensare a nulla di ciò che seguirà, al vuoto, alle conseguenze, ai figli di lei adolescenti e fragili, a noi che restiamo.
Esco. Siamo all'ultimo piano di un palazzo molto alto, la luce del primo pomeriggio entra calda dalle finestre e dai lucernai. E' quasi una nebbia dorata che avvolge ogni cosa. Non ci sono lacrime, non c'è altro che un senso di ineluttabilità, di qualcosa di compiuto, un sottile sollievo per la fine di una sofferenza. Improvvisamente sento un canto, una voce di donna che intona parole in una lingua sconosciuta. Sua madre è accanto a me. Una seconda voce si unisce alla prima, poi un'altra e un'altra ancora. Il canto ha un suono che evoca qualcosa di antico. "cosa è? è così bello..." mi dice, scuoto la testa e comincio a seguire il suono. Cammino nel corridoio, ne imbocco un altro, arrivo davanti ad una stanza, da lì emerge il canto. In un letto è steso un uomo anziano, un africano. Attorno a lui quattro donne in costume tradizionale, cantano. La luce entra trasversale, sfiora le donne, avvolge i piedi del letto, il vecchio sorride, le donne si voltano e mi sorridono. Il canto è finito. Sorrido e mi giro tornando indietro. Un senso di calore mi avvolge, penso a quanto speciale sia questo momento, non trovo un senso specifico, una ragione. Sento solo, con ogni fibra del mio corpo, il momento presente.
Sono passati 5 anni da allora, forse, ora, riesco davvero a dirti, a dirmi che mi manchi enormemente. Buon viaggio amica mia.
Esco. Siamo all'ultimo piano di un palazzo molto alto, la luce del primo pomeriggio entra calda dalle finestre e dai lucernai. E' quasi una nebbia dorata che avvolge ogni cosa. Non ci sono lacrime, non c'è altro che un senso di ineluttabilità, di qualcosa di compiuto, un sottile sollievo per la fine di una sofferenza. Improvvisamente sento un canto, una voce di donna che intona parole in una lingua sconosciuta. Sua madre è accanto a me. Una seconda voce si unisce alla prima, poi un'altra e un'altra ancora. Il canto ha un suono che evoca qualcosa di antico. "cosa è? è così bello..." mi dice, scuoto la testa e comincio a seguire il suono. Cammino nel corridoio, ne imbocco un altro, arrivo davanti ad una stanza, da lì emerge il canto. In un letto è steso un uomo anziano, un africano. Attorno a lui quattro donne in costume tradizionale, cantano. La luce entra trasversale, sfiora le donne, avvolge i piedi del letto, il vecchio sorride, le donne si voltano e mi sorridono. Il canto è finito. Sorrido e mi giro tornando indietro. Un senso di calore mi avvolge, penso a quanto speciale sia questo momento, non trovo un senso specifico, una ragione. Sento solo, con ogni fibra del mio corpo, il momento presente.
Sono passati 5 anni da allora, forse, ora, riesco davvero a dirti, a dirmi che mi manchi enormemente. Buon viaggio amica mia.
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venerdì 27 febbraio 2009
Altri luoghi, altri ricordi
Era qualche anno fa. Ero a Delhi, mi rendeva felice quel viaggio. All'arrivo si erano persi il bagaglio, faticai a trovare un taxi, c'era un gran casino, un traffico che anche per un romano era troppo. Stordita, arrivai in albergo al centro di New Delhi e per qualche giorno, per poche ore in fondo, vagai tra le strade di Delhi, con la nebbia invernale, una bruma soffice che rende ancor più straniante l'effetto del fuso orario e del luogo così diverso. Felice possessore del solo spazzolino da denti, mi concessi una breve pausa prima dell'arrivo della valigia e l'inizio del lavoro. In India ci sono sempre andata a lavorare, solo come effetto secondario mi sono potuta permettere di perdermi nelle sue strade, nei luoghi antichi, tra la gente, guardarmi intorno, immergendomi nell'effetto caleidoscopio che la caratterizza (è il mio caleidoscopio gigante preferito). Ogni volta mi sono, felicemente, lasciata inghiottire, modificare e arricchire cercando di non porre barriere mentali tra me e le impressioni che ricevevo.
Esistono luoghi così, talmente diversi da noi in apparenza, da pensarli estranei, mentre poi, scopri che li avevi già dentro. E' una scoperta di una parte di te che risuona con ed in quel luogo. Per ogni viaggiatore una parte diversa. In me l'India dei santoni, della magia, delle migliaia di dei che convivono, non risuona, quella che mi ha parlato ogni volta è l'India dell'infinita vitalità. Una sensazione di immensa capacità vitale che, oltretutto, riproduce se stessa da migliaia di anni; un qualcosa che mi ha nutrito e incantato in ogni occasione. In quel viaggio, in particolare, penso mi abbia tenuto in vita (potete pure chiedervi cosa avessi fumato-mangiato, io nego ogni uso di sostanze stupefacenti, almeno in quell'occasione). Non sapevo di essere fisicamente in pericolo, avevo un problema che stava diventando mortale, non lo sapevo, sentivo di essere a rischio, ma non capivo né come, né perché. Eppure sono ancora qui, ho girato per quella terra, ho lavorato e sono riuscita a goderne nonostante tutto. Cominciavo a star male sul serio, ma fu come una tregua, una sosta, fu come se avessi il permesso di fare quel viaggio...
Ripenso a quei giorni, a quando sono tornata, al medico che mi ha "ripreso per i capelli" e al quale sarò sempre grata. Ripenso al febbraio di quell'anno, quando, uscendo dall'ospedale, non potevo ancora credere di essere lì a respirare. Penso a quei giorni forse perchè ricorrono ora e con prepotenza, torna a tratti, dalla memoria, la sensazione fisica di gioia, di sorpresa, che provai nel rendermi conto di essere ancora viva. Con quel ricordo vitale riaffiora anche il dolore e con lui la paura, ed anche il rimpianto per alcune cose che non potranno mai essere, tutte sensazioni che solo ora comincio a digerire. Penso, sopratutto, a tutte le volte in cui si ha una seconda possibilità.
Esistono luoghi così, talmente diversi da noi in apparenza, da pensarli estranei, mentre poi, scopri che li avevi già dentro. E' una scoperta di una parte di te che risuona con ed in quel luogo. Per ogni viaggiatore una parte diversa. In me l'India dei santoni, della magia, delle migliaia di dei che convivono, non risuona, quella che mi ha parlato ogni volta è l'India dell'infinita vitalità. Una sensazione di immensa capacità vitale che, oltretutto, riproduce se stessa da migliaia di anni; un qualcosa che mi ha nutrito e incantato in ogni occasione. In quel viaggio, in particolare, penso mi abbia tenuto in vita (potete pure chiedervi cosa avessi fumato-mangiato, io nego ogni uso di sostanze stupefacenti, almeno in quell'occasione). Non sapevo di essere fisicamente in pericolo, avevo un problema che stava diventando mortale, non lo sapevo, sentivo di essere a rischio, ma non capivo né come, né perché. Eppure sono ancora qui, ho girato per quella terra, ho lavorato e sono riuscita a goderne nonostante tutto. Cominciavo a star male sul serio, ma fu come una tregua, una sosta, fu come se avessi il permesso di fare quel viaggio...
Ripenso a quei giorni, a quando sono tornata, al medico che mi ha "ripreso per i capelli" e al quale sarò sempre grata. Ripenso al febbraio di quell'anno, quando, uscendo dall'ospedale, non potevo ancora credere di essere lì a respirare. Penso a quei giorni forse perchè ricorrono ora e con prepotenza, torna a tratti, dalla memoria, la sensazione fisica di gioia, di sorpresa, che provai nel rendermi conto di essere ancora viva. Con quel ricordo vitale riaffiora anche il dolore e con lui la paura, ed anche il rimpianto per alcune cose che non potranno mai essere, tutte sensazioni che solo ora comincio a digerire. Penso, sopratutto, a tutte le volte in cui si ha una seconda possibilità.
«La lezione più importante che l'uomo possa imparare in vita sua non è che nel mondo esiste il dolore, ma che dipende da noi trarne profitto, che ci è consentito trasformarlo in gioia.»
Tagore
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giovedì 5 febbraio 2009
Si fa quel che si può ....
Sono mesi che ho scattato questa foto, me la riguardo ogni tanto. Le mura diroccate da cui emerge la porta nuova, il contrasto tra il nuovo e il vecchio, tra l'aperto delle rovine e il chiuso della porta. E' l'allegoria di certi momenti complicati della vita: è successo qualcosa che ha provocato rovine dentro di noi. Un evento che lascia macerie dietro di sé, che richiede un'opera di ricostruzione interiore. Quasi tutti cominciamo a ricostruire dalla porta. Prima ancora di spazzar via i calcinacci, diamo una sistemata al muro esterno e montiamo una bella porta nuova, magari blindata, la chiudiamo e ci mettiamo al lavoro dietro di essa. Ci diciamo che è una scelta necessaria, per ricostruire devo recuperare le forze, non posso permettere a chiunque di entrare e venirmi a disturbare mentre faccio pulizia, lavoro di cazzuola e cemento, cerco di risistemare gli impianti. Magari qualche ben intenzionato vuol dare una mano e poi mi incasina l'impianto elettrico... Per carità! Fuori tutti!! Per un po' sto qui con la porta chiusa, per un po' dico. Certo così facendo rischio di tener fuori anche chi davvero può essermi d'aiuto, un bravo idraulico, un elettricista capace, il piastrellista, che io poi le piastrelle non le so nemmeno montare. Ma ormai ho montato la porta e l'ho chiusa, faccio da me. Per un po' ribadisco, ma il momento di aprire sembra non venire mai.
In effetti guardo questa foto e mi rivedo, tanti anni fa, nascosta tra le mie macerie, a contemplare lividi (metaforici e reali), a sistemare oggetti, a cercare di capire come evitare altri sfaceli di quella portata. La porta chiusa per mesi, nascosta là dietro a guardare ogni tanto dallo spioncino, così per vedere se passava qualcuno. Non aprivo, se bussavano non lasciavo entrare, si poteva anche parlare un attimo sulla soglia, poi via a richiudere di corsa. Dalla soglia della mia casa diroccata accettavo poche cose, qualche idea, qualche piccolo scambio, in fondo ero lì occupata a rivivere ogni giorno lo sfacelo. Una bella cretinata in effetti. Già ero stata male e ora in quell'isolamento totale, non facevo che rivivere il dolore spaccando il capello in quattro su tutti i passaggi del già-vissuto. Fuori da quella porta avevo chiuso tutti, ma sopratutto avevo chiuso una parte importante di me, una parte orgogliosa sì, che non voleva accettare i risultati miserabili ottenuti, che parlava appunto di risultati rifiutando il termine fallimento, che si infuriava per le macerie, negandole e chiamandole invece "rinnovamento" e ripeteva "te l'avevo detto io!", una parte enormemente vitale che tra una sfuriata e l'altra cercava soluzioni, nuove idee e grandi aperture, la parte coraggiosa. Poi, come per caso, un giorno ho socchiuso la porta, l'ho vista lì, che girava, sempre davanti alla porta, con aria vaga, facendo finta di niente. La guardavo perplessa, finché si è girata verso di me e ha detto:
In effetti guardo questa foto e mi rivedo, tanti anni fa, nascosta tra le mie macerie, a contemplare lividi (metaforici e reali), a sistemare oggetti, a cercare di capire come evitare altri sfaceli di quella portata. La porta chiusa per mesi, nascosta là dietro a guardare ogni tanto dallo spioncino, così per vedere se passava qualcuno. Non aprivo, se bussavano non lasciavo entrare, si poteva anche parlare un attimo sulla soglia, poi via a richiudere di corsa. Dalla soglia della mia casa diroccata accettavo poche cose, qualche idea, qualche piccolo scambio, in fondo ero lì occupata a rivivere ogni giorno lo sfacelo. Una bella cretinata in effetti. Già ero stata male e ora in quell'isolamento totale, non facevo che rivivere il dolore spaccando il capello in quattro su tutti i passaggi del già-vissuto. Fuori da quella porta avevo chiuso tutti, ma sopratutto avevo chiuso una parte importante di me, una parte orgogliosa sì, che non voleva accettare i risultati miserabili ottenuti, che parlava appunto di risultati rifiutando il termine fallimento, che si infuriava per le macerie, negandole e chiamandole invece "rinnovamento" e ripeteva "te l'avevo detto io!", una parte enormemente vitale che tra una sfuriata e l'altra cercava soluzioni, nuove idee e grandi aperture, la parte coraggiosa. Poi, come per caso, un giorno ho socchiuso la porta, l'ho vista lì, che girava, sempre davanti alla porta, con aria vaga, facendo finta di niente. La guardavo perplessa, finché si è girata verso di me e ha detto:
Se qualcuno un giorno bussa alla tua porta,
dicendo che è un mio emissario,
non credergli, anche se sono io;
ché il mio orgoglio vanitoso non ammette
neanche che si bussi
alla porta irreale del cielo.
Ma se, ovviamente, senza che tu senta
bussare, vai ad aprire la porta
e trovi qualcuno come in attesa
di bussare, medita un poco. Quello è
il mio emissario e me e ciò che
di disperato il mio orgoglio ammette.
Apri a chi non bussa alla tua porta.
(Fernando Pessoa, Se qualcuno...)
dicendo che è un mio emissario,
non credergli, anche se sono io;
ché il mio orgoglio vanitoso non ammette
neanche che si bussi
alla porta irreale del cielo.
Ma se, ovviamente, senza che tu senta
bussare, vai ad aprire la porta
e trovi qualcuno come in attesa
di bussare, medita un poco. Quello è
il mio emissario e me e ciò che
di disperato il mio orgoglio ammette.
Apri a chi non bussa alla tua porta.
(Fernando Pessoa, Se qualcuno...)
E così ho aperto.
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giovedì 9 ottobre 2008
Mare
Camminare sul bagnasciuga, sentire la sabbia sotto le scarpe, fa freddo e c'è vento. La tempesta aleggia ancora, forse ricomincia a piovere. Cammino su questa spiaggia pensando e ricordando.
Qui ho camminato con mia madre, ho passato in estate e in inverno lunghe ore con lei a non far nulla, spesso in silenzio, molto spesso a ridere e a parlare della vita e di ciò che la rende vivibile.
Mia madre diceva di essere nata in una commedia e una volta, mentre io adolescente piangevo su non so più quale tragedia adolescenziale, mi disse evidenziando l'assurdo nella mia situazione, "Vedi io sono nata in una commedia e tu sei figlia mia". Questa frase è stata l'eredità più importante che mi abbia lasciato. Era vero che lei era nata in una commedia, era vero perchè sempre e comunque ad un certo punto si distaccava da quanto stava accadendo e ne vedeva il ridicolo, l'aspetto umoristico, il paradosso. E così, magari soffiandosi il naso sul dispiacere corrente, le veniva da ridire.
Come ogni essere umano, poi, aveva la sua bella vagonata di difetti, non la farei santa manco tra due secoli. Però era una delle persone più divertenti, generose e accoglienti che abbia mai conosciuto. Accoglieva tutti, dal gattino bagnato, al disgraziato nei guai di turno, li curava, li rimetteva in piedi e poi li collocava altrove, perchè alla fin fine a lei piaceva molto stare per i fatti suoi. Per le donne della sua generazione non era cosa ovvia l'indipendenza. Anche se te la potevi permettere da un punto di vista economico vivevi continuamente un contrasto tra l'immagine femminile fornita dalla cultura dominante e il tuo sentire. Mia madre non era una donna razionale, era puro istinto, quindi ha sempre vissuto seguendo il suo sentire e pagandone il prezzo: la solitudine. O meglio nessuna amicizia se non con persone molto più giovani di lei e per forza di cose molto distanti da lei. Una solitudine dell'anima più che materiale. Mi ci è voluto molto a capire questo suo tratto, per noi, per la mia generazione e le successive, essere indipendenti, autosufficienti e quindi libere, è un valore. Quindi non capivo bene la sua passione per i luoghi isolati, per il mare meglio se d'inverno, mi spaventava saperla sola lontana da tutto e da tutti. Poi ho capito, così oggi cammino sulla sabbia la ricordo, la ripenso in questo luogo dove lei prese una casa isolata da tutto, questo luogo che scelse per celebrare la sua solitudine e la sua pace. Se ne andò sette anni fa, in agosto, all'improvviso, andò via come era vissuta: a modo suo.
Qui ho camminato con mia madre, ho passato in estate e in inverno lunghe ore con lei a non far nulla, spesso in silenzio, molto spesso a ridere e a parlare della vita e di ciò che la rende vivibile.
Mia madre diceva di essere nata in una commedia e una volta, mentre io adolescente piangevo su non so più quale tragedia adolescenziale, mi disse evidenziando l'assurdo nella mia situazione, "Vedi io sono nata in una commedia e tu sei figlia mia". Questa frase è stata l'eredità più importante che mi abbia lasciato. Era vero che lei era nata in una commedia, era vero perchè sempre e comunque ad un certo punto si distaccava da quanto stava accadendo e ne vedeva il ridicolo, l'aspetto umoristico, il paradosso. E così, magari soffiandosi il naso sul dispiacere corrente, le veniva da ridire.
Come ogni essere umano, poi, aveva la sua bella vagonata di difetti, non la farei santa manco tra due secoli. Però era una delle persone più divertenti, generose e accoglienti che abbia mai conosciuto. Accoglieva tutti, dal gattino bagnato, al disgraziato nei guai di turno, li curava, li rimetteva in piedi e poi li collocava altrove, perchè alla fin fine a lei piaceva molto stare per i fatti suoi. Per le donne della sua generazione non era cosa ovvia l'indipendenza. Anche se te la potevi permettere da un punto di vista economico vivevi continuamente un contrasto tra l'immagine femminile fornita dalla cultura dominante e il tuo sentire. Mia madre non era una donna razionale, era puro istinto, quindi ha sempre vissuto seguendo il suo sentire e pagandone il prezzo: la solitudine. O meglio nessuna amicizia se non con persone molto più giovani di lei e per forza di cose molto distanti da lei. Una solitudine dell'anima più che materiale. Mi ci è voluto molto a capire questo suo tratto, per noi, per la mia generazione e le successive, essere indipendenti, autosufficienti e quindi libere, è un valore. Quindi non capivo bene la sua passione per i luoghi isolati, per il mare meglio se d'inverno, mi spaventava saperla sola lontana da tutto e da tutti. Poi ho capito, così oggi cammino sulla sabbia la ricordo, la ripenso in questo luogo dove lei prese una casa isolata da tutto, questo luogo che scelse per celebrare la sua solitudine e la sua pace. Se ne andò sette anni fa, in agosto, all'improvviso, andò via come era vissuta: a modo suo.
Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare
mi porto un po’ della tua ghiaia
un po’ della tua luce
e della tua infelicità.
Ci hai saputo dir molte cose
sul tuo destino di mare
eccoci con un po’ più di speranza
eccoci con un po’ più di saggezza
e ce ne andiamo come siamo venuti,
arrivederci fratello mare.
(Fratello mare di Nazim Hikmet)
arrivederci fratello mare
mi porto un po’ della tua ghiaia
un po’ della tua luce
e della tua infelicità.
Ci hai saputo dir molte cose
sul tuo destino di mare
eccoci con un po’ più di speranza
eccoci con un po’ più di saggezza
e ce ne andiamo come siamo venuti,
arrivederci fratello mare.
(Fratello mare di Nazim Hikmet)
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