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martedì 29 dicembre 2009

Addestramento*



Il telefono squilla, è un apparecchio grigio a tastiera, sta lì accucciato sul ripiano basso della libreria bianca in camera della madre. Squilla e vibra, la madre non risponde. Lo guarda alzando appena gli occhi dal libro, lo osserva da sopra gli occhiali che ha lasciato scivolare verso la punta del naso. Il telefono smette di suonare, parte la segreteria telefonica, una voce d'uomo, ossequiosa, quasi untuosa "Signora, cara sono XXX la cerco da un po'... sa avrei davvero bisogno di parlarle, quando può con comodo mi richiami... care cose" . La madre riprende a leggere scuotendo la testa e le spalle come a liberarsi di qualcosa, solo dopo alcuni secondi si accorge della figlia adolescente che la guarda dal vano della porta. La sua sgraziata creatura, sovrappeso e tanto, troppo intelligente "Be' non ci volevo parlare" le dice e sul viso aristocratico le spunta un'espressione da monella, quell'espressione che la figlia conosce bene, quella "faccia da impunita" che lei non sa riprodurre e che trova assolutamente affascinante. "Sì mamma, ma quello chiama 15 volte al giorno e io ho finito il repertorio cazzate da raccontargli... magari potresti dirglielo che lo scarichi... no?" la madre riporta gli occhi al libro "uhm, no, poverino ci resterebbe male... tanto tu mi fai da filtro vero?" e la guarda di traverso con il suo sorriso bambinesco, la figlia sbuffa "mamma io non ne posso più di raccontare balle ai gatti bagnati che raccatti e poi scarichi!" si gira di scatto e va via.
"Non ne posso più di inventare fesserie per arginare gli impiastri che mamma scarica!" due ragazzine sedute sui gradini dell'ingresso. Una magrissima e scura, l'altra giunonica e con la pelle chiarissima. "la vedi come fa? prima accoglie casi umani assortiti, non si lascia nessuno in mezzo a una strada, dice lei" la ragazzona si scosta un ciuffo dei capelli disordinati dal viso, gli occhi rivolti al suolo "li rimette a posto e quando stanno in piedi da soli, li scarica... senza dirglielo però ... e io lì a raccontare cazzate spremendomi la testa e lavorando di fantasia!" la ragazzina magra ride "ma dai che ti sta addestrando a diventare una romanziera!" l'altra sorride e alza gli occhi da terra "ma ché! mi sta solo addestrando a diventare una vera bugiarda!" ridono insieme, cercano di dimenticare il loro stato di abbandono, di ragazzine che nessuno vede, passano ad altro, al ragazzo appena conosciuto, al motorino che sognano, parlano di libri, di amori immaginari, si immergono nei loro discorsi da adolescenti brutte e sole.

Sono passati anni da quei giorni sui gradini. La ragazzona è diventata una donna atletica, ha sempre la pelle chiarissima anche se è estate, non ha quel vestire aristocratico della madre, niente abiti firmati, solo coloratissime sete da bancarella. Oggi siede nello studio del suo professore, lavora ad una tesi di dottorato che sta prendendo una gran bella forma, piena di risultati originali e di idee nuove. Sia lei che il professore sono molto soddisfatti. Lei poi è al settimo cielo, ha da anni una cotta per quell'uomo di mezza età, gentile, sempre impeccabile, estremamente intelligente e sotto sotto, un po' stravagante. Per lui si getterebbe nel fuoco ed ogni sua parola di elogio la rende felice per giorni. E' anche questo, come quello per la madre, un suo amore senza speranza, ma non le importa, oggi è qui nel suo studio e può godersi almeno un'ora della compagnia del suo idolo. Certo non è facile, il telefono squilla spesso, la gente bussa ancor più spesso, tutti lo cercano il suo idolo, chi per un consiglio, chi per un semplice caffè, chi per rimproverargli questo o quello. E' un catalizzatore di guai e "gatti bagnati", di disgraziati e brillanti scienziati con turbe della personalità. Un accademico sui generis, uno che quando ci sarebbe da tirare il colpo di grazia si ferma, sospende, "poveraccio" o "poverina" dice "lasciamo perdere che sta già abbastanza male" e non affonda il coltello. Ha carisma il suo prof. e non sa dire di no. Lo cercano, lo cercano e lui da udienza a tutti o quasi. "Prof... così non la finiremo mai 'sta lettura della tesi... prof... c'è una scadenza molto molto vicina" mormora e lo guarda implorante. Lui le rivolge uno sguardo sperso... "lo so mannaggia! senti adesso stacco il telefono anzi i telefoni, spengo anche il cellulare, vedi? ..." dice chiudendo l'apparecchio e staccando il ricevitore del telefono fisso "e sono tutto per te" sorride un po' sornione e lei ha il solito tuffo al cuore "ma se bussano e entrano non so che fare, mica mi posso nascondere sotto la scrivania!" aggiunge il prof allargando le braccia "eh, mica sarebbe una cattiva idea... " sorride lei.
Lavorano, leggono, cambiano frasi aggiustando l'inglese, sistemano equazioni, immersi in quella bolla di complicità e piacere intellettuale. Bussano, colpi imperiosi, lo sanno entrambi di chi sono, si guardano per un istante e lui è già sparito. La porta si spalanca, il collega anziano entra con passo deciso. L'anziano professore è sempre imperioso, incede non cammina, grandi falcate sicure spostano il suo corpo massiccio, lui non entra in una stanza, no, lui fa un ingresso in palcoscenico, sempre. "Dov'è quel disgraziato del tuo tutor?" esclama stentoreo "lo so che era qui fino a poco fa!!" esplodono le sillabe a riempire l'aria. Lei alza gli occhi pieni di innocenza e fissa direttamente il decano, un effluvio di perfetto candore emana da tutta la sua persona "Mi spiace professore, ma il prof. non c'è, mi ha mollato qui ed è andato via di fretta... non so ha ricevuto una telefonata, credo fosse qualcuno di importante, sa, gli dava del lei... ecco mi ha detto di aspettarlo qui..." la voce le trema, gli occhi le sono diventanti due abissi, trasudano sconforto, anche la postura parla dell'abbandono subito, le spalle lasciate un po' cadenti, il collo leggermente piegato da un lato, la fronte corrugata. Il decano si ferma un po' sconcertato "Be' ... ehm digli che sono passato... ho urgenza di parlargli... e... insomma, digli che è un disgraziato!" bofonchia, si gira e se ne va.
Lentamente da sotto la scrivania il prof. riemerge, ha i capelli un po' scomposti, un'espressione tra il perplesso e il divertito "Certo che sei proprio brava a dir cazzate!" esclama piano, sia mai che il decano senta la sua voce ed irrompa di nuovo. "uhm prof.: sono stata molto ben addestrata." sorride lei guardando il suo idolo.

ogni riferimento a persone o fatti reali è puramente strumentale alla costruzione del racconto di fantasia

*dedicato a chi ci si riconosce, caso mai dovesse passare di qui

sabato 26 dicembre 2009

Passioni


da ascoltare mentre si legge

"Io sono una persona passionale" dice il padre alla figlia "ed è, alla fine, per questo che con te litigo così... violentemente" fa una pausa passandosi la mano sul viso. Sono in salotto nella casa in cui lei si è nascosta, hanno litigato ferocemente, anzi, lui ha litigato con lei ferocemente. Il padre è rosso in viso, la figlia non mostra nulla, lo guarda in silenzio "certe volte stai lì, fai delle cose terribili senza che traspaia un'emozione... le fai a te non agli altri... questo tuo modo mi fa uscire di testa". E' stanco quell'uomo e la figlia tace. Nel tacere delle loro voci si sente il mare e il frusciare dei rami, "Babbo….." mormora e le parole non escono, non è una bambina da un pezzo e il padre è un anziano signore - lui dice di non essere più un ragazzino. In fondo, vorrebbe solo deporre le armi e stare tranquilla. Guarda quell'uomo straordinario che, a più di settant'anni, ha ancora la vitalità per infuriarsi con tutta l'anima, per gridare al mondo rabbia e amore. Lo guarda e vede, con tristezza, tutto quello che lei ha cercato di fuggire, quel vortice di emozioni, un gorgo potente che si scatena e travolge ogni cosa senza riguardo per grandi o piccoli, per forti o deboli. E' in quel gorgo che è cresciuta senza sapere come gestirlo, in quel mare, troppo spesso in tempesta, che l'ha quasi affogata. Il padre, rassegnato a quei silenzi, si siede sul bracciolo del divano "oggi non parlo delle mie passioni, di quelle di tua madre o di chissà chi, parlo delle tue... " alza gli occhi quel vecchio egoista e fin troppo intelligente, la fissa. Poi distoglie lo sguardo e lo lascia vagare sul mare, "non puoi restare qui, non puoi fuggire dalla tua vita e sprecare anni di lavoro solo perché non hai mai imparato a gestire i tuoi demoni" dice senza guardarla, "non è giusto un simile spreco" mormora quasi a sé stesso "Non conosco i dettagli degli ultimi mesi della tua vita, sei ben più che adulta e se non ne parli è affar tuo, non so cosa tu abbia combinato e perché, ma so che non sei mai cambiata da quando eri piccola… tu o sali sulla barricata con il fucile o te ne vai… ora però te ne sei andata per troppo tempo… lo so che ci hai provato, lo so, sei un capo laboratorio, sei una scienziata di alto livello, non … merda … non puoi mollare tutto e andar via!! non puoi nasconderti quasi tre mesi in questa cazzo di tana a far nulla!! che cazzo fai tutto il giorno qui? guardi il mare? conti gli aghi di pino?" si sta infuriando di nuovo, ma la guarda e smette.
La figlia continua a tacere, assorbe le parole del padre, ne assorbe la verità, sente i suoi demoni gorgogliarle nella pancia, ascolta il gorgo che è anche suo e che lei vuole cancellare, ignorare, fuggire. Per questo si è nascosta, per questo ha gettato la spugna ed è scesa dalla barricata, per dirla con le parole del vecchio. Lui che ha guidato per ore per trovarla e parlare di persona, lui che non c'è mai se lo cerchi, ma solo quando vuol farsi trovare. Lui è venuto fin là per dirle quello che pensa. "che gran gesto d'amore … e di prevaricazione" pensa lei e sorride. "Babbo perché non la smettiamo?" raddrizza la schiena e si sposta dalla madia a cui si è appoggiata, come a difendere la schiena, a cercare sostegno, "ho una buona bottiglia, dei pomodorini eccezionali e faccio una pasta. Magari un po' piccantina che ho dei peperoncini fetenti che sono una meraviglia" sorride. "Qui non si fa proprio nulla finché non spieghi o mi garantisci che torni" il vecchio non molla; stavolta è come quando da bambina e da adolescente raccontava bugie che lui scopriva, finché non saltava fuori la verità lui non la mollava, oggi non c'è strategia diversiva che tenga. Lei si appoggia di nuovo alla madia "non c'è nulla da spiegare, non ne posso più e basta. Te l'ho già detto. Non ce la faccio più a star lì a combattere contro i mulini a vento, con la mancanza di soldi per lavorare, con le mezze-calzette che mi passano sulla testa, con gli uomini sbagliati che mi scelgo… babbo se tu non sei più un ragazzino, io sono una signora di mezza età, con un pugno di mosche in mano, senza una vita affettiva, senza figli… non che non ci abbia provato, lo sai, ma sono un'incapace su questo lato… là dove sono capace il mondo mi crolla addosso e mi sento vecchia per puntellarlo… o per ricominciare da capo un'altra volta" parla senza guardarlo, le scende una lacrima sul viso rivolto alla finestra, gli occhi persi sul mare. "le passioni bruciano, consumano e poi finiscono… forse la mia per la scienza è finita…" il vecchio si alza di scatto "Cazzate! Stai facendo la lagna come una ragazzina! Tu sei una guerriera, la mia guerriera.... lo hai dimostrato a me, a te stessa e a tutti mille volte… che è adesso 'sta lagna? che vuol dire non ce la faccio più?" si ferma di colpo nel suo gridare, guarda quella donna che è sua figlia, vede di nuovo la sua bambina di 6 anni che si è rotta una spalla e sta zitta, una bambina che non piangeva mai, che però, quel giorno, non ce la faceva neppure a muoversi. A quarant'anni di distanza è la stessa cosa, si è rotto qualcosa in quella figlia sua, sta ferma e respira piano, con attenzione, perché ogni respiro fa male. Si ferma il vecchio, come allora si ammorbidisce, mette da parte la sua ira, la sua ansia. Lui non sa cosa sia successo, se c'è stato un fatto specifico, se c'è stato un ennesimo uomo "sbagliato" che sua figlia ha scelto o se un qualche collega ha affondato il coltello un po' più a fondo, una volta di troppo; a questo punto non importa, cè solo quella figlia rotta da riparare ancora una volta. "Va bene,…" allunga una mano a farle una carezza "che vino hai? magari un bicchiere … ecco sì una pasta ci sta bene…" la guarda negli occhi ora; occhi cangianti, ora scuri, ora chiari, come i suoi, schermi in cui, per un attimo, scorrono i dolori di una vita intera provocandogli un brivido gelato lungo la schiena. Si soffia il naso, lei, raddrizza la schiena, si gira, prende la bottiglia e la passa a lui per aprirla "Ora preparo e poi starò qui tranquilla" alza la testa a guardarlo negli occhi, "puoi strillare quanto vuoi, finché non sarà il momento io starò qui… a contare aghi di pino…" Sorridono entrambi, lo sanno che lei tornerà, lo sanno che farà come dice lui, ancora una volta, perché lei è come lui, come la madre che non c'è più: condannata ad essere un combattente, senza speranza di fuga. Si accende una sigaretta e mette l'acqua sul fuoco "E piantala di fumare che così t'ammazzi" "Babbo, non rompere i coglioni". Mentre l'olio comincia a sfrigolare nella padella e l'acqua a scaldarsi, un falco pellegrino volteggia davanti alla finestra, plana, risale e poi va.



da ascoltare alla fine.
e come dice galatea: è un racconto di fantasia, che non fa riferimento a persone, luoghi o avvenimenti reali....

domenica 13 settembre 2009

Per amore e per ....




Premessa:
Ultimamente mi accade che dalla lettura di London Alcatraz e dai commenti ai post mi giungano ispirazioni ispirate. Anche questo post ivi colse ispirazione. Sentitamente ringrazio.

Racconto: Ad un certo punto della mia vita ho molto amato (e per lungo tempo) un musicista. Non uno "normale", chesso un chitarrista sanguigno e rocckettaro, un debosciato bassista con il mito di Sid Vicious o un batterista con l'aspetto di John Belushi e la sensibilità di un traghetto della Tirrenia. No, io ho molto amato un compositore di musica elettronica. Attenzione non quella alla Depeche Mode, no sia mai! quella rischia di vendere! Egli, nel più meraviglioso stile del vero artista d'avanguarde scriveva musica elettronica sperimentale, musica seria, ma seria seria. Quando lo conobbi io sapevo di numeri, di lingue estere, di letteratura varia e di innumerevoli altre cose, ma non sapevo (e non capivo) una beneamata mazza di musica elettronica contemporanea. Certo è roba di nicchia, mi diceva lui, cose a cui bisogna educare l'orecchio, mi spiegava. Ed a questa mia educazione si dedicò con grande impegno. Ora voi dovete sapere che la Farlocca, quando innamorata, raggiunge l'apice assoluto della sua farloccaggine. Ella, mediamente considerata donna razionale e abbastanza intelligente, riesce a fare, dire e pensare qualunque cazzata in nome dell'amato bene. E il musicista, l'ho detto, molto lo amai. Quindi di buon grado, anzi con entusiasmo, accettai di essere educata.
La mia educazione prevedeva spiegazioni, ascolto guidato in privato (f a v o l o s o dal mio punto di vista per come andavano poi le cose finita la musica...), andare ad ascoltare concerti, vedere piece teatrali sonorizzate dai grandi del momento. Prevedeva però alcuni salti mortali con carpiato e avvitamento da parte mia. Innanzitutto i concerti "migliori" li facevano in posti come il Goethe Institut di Roma dopo le 21 nei giorni feriali. Immaginate la Farlocca che dopo otto-10 anche 12 ore di lavoro, si catapulta in moto, prima a prelevare il musicista che sta a un milione di chilometri (dato il traffico di Roma), lo carica e, trasformata in Medusa dal casco, catapulta se e l'amato all'altro capo della città, entra in una bella sala, con delle sedie scomodissime, dure e con la seduta in plastica, in larga parte occupate da esangui signorine in nero, esangui signorini in nero, alcuni palesemente tedeschi, altri palesemente romani, ma sempre esangui e in nero. Normalmente la Farlocca non è per nulla esangue e non veste totalmente in nero, neanche ai funerali è così in nero. La sensazioni principe è dunque l'Imbarazzo (con maiuscola); è fuori luogo la discente, è evidentissimo, anche la dimensione delle tette non si addice al luogo.
Puntualmente ella si accascia sulla sediolina scomoda e si dispone all'ascolto. Ripassa mentalmente le lezioni dei giorni precedenti, dove ha imparato di tutto sulla musica non-armonica, sull'elettronica usata per produrla (e lì almeno si è veramente divertita un sacco appagando la sua anima nerd), ora però, nonostante l'amore e la buona volontà, hanno abbassato le luci e dagli altoparlanti escono dei sussurri, su di un video gigante si muove un film muto risonorizzato e ... Farlocca si addormenta. In quegli anni ho sviluppato tutte le infinite abilità del dormitore angolare di fantozziana memoria. Ammetto che il sonno mi travolgeva sopratutto sui film muti risonorizzati e in corrispondenza dei compositori tedeschi. I latini li apprezzavo molto di più, francesi, italiani e spagnoli, di solito, proponevano cose dalle quali uscivo senza sentire la voce di Aldo Fabrizi con il basco nero nella parodia del regista d'avanguardia che mi ripeteva "boh ma c'ho visto?".
Altra situazione di difficile digestione erano le retrospettive-omaggi ai grandi compositori del passato (cioè morti l'altro ieri), i pionieri di ciò che si fa adesso. Devo ammettere che il mio orecchio si adeguava bene alla musica contemporanea, esultava con il resto di me in incontri di Scienza e Musica, si estasiava ad ascoltare Michelangelo Lupone che raccontava delle ricerche che conduceva con i fisici dell'Università dell'Aquila sulla trasmissione del suono nei materiali creando sculture di metalli vari e suoni. Ma proprio non ce la facevo con le ricerche sulla dissonanza degli anni '60-'70 del secolo scorso e la musica microtonale (cfr G. Scelsi). Immaginate un quartetto d'archi, bello, sistemato sul palco, silenzio assoluto assoluto intorno, i musicisti accostano le mani agli splendidi strumenti e strappano simultaneamente le corde mentre qualcosa produce il suono di un gesso che stride sulla lavagna. E' un dolore fisico, un tormento che nemmeno l'innamorata più imbecille riesce a sopportare. "Cazzo ma mi potevi avvertire che era così stasera?" gemevo con le mani sulle orecchie "Così come?" mi rispondeva l'amato con aria un po' sorpresa. Roba che Penderecki al confronto sembrava Patty Pravo.
Ho però visto e ascoltato anche meraviglie. Magari non nel massimo confort, chesso, spettacolo di musica e teatro in chiesa sconsacrata (e piena di buchi) a Roma a gennaio (-2 gradi Celsius). Due giorni di reclusione in un casale umbro per ascoltare canto armonico, non si poteva fumare da nessuna parte, facevo delle belle passeggiate nel gelo novembrino per i campi per mettere a pari il tasso di nicotina. E via così. Sì perché bisogna capire una cosa importante: il compositore di musica colta moderna è nato per soffrire, se è di buon umore, se ride, se mangia e fa sesso con allegria, poi come lo dice nel suo linguaggio d'arte?

sabato 8 agosto 2009

Del potere allucinogeno dei fondamentalisti


presa da qui
Premessa: questo racconto-ricordo me lo ha evocato questo post (e successivi commenti) di London Alcatraz.

Siamo ai tempi del mio dottorato. Sono in Italia e sto portando avanti un lavoro con due tutor, uno nelle terre patrie e uno negli USA. Quest'ultimo mi convoca oltre oceano nonostante io faccia resistenza, durante l'anno ho fatto avanti e indietro così tante volte che la sola idea di un altro viaggio aereo mi fa vomitare. "Farlocca è necessario che tu venga, c'è il mega-convegno-internazionale qui, è una grande occasione e tu devi presentare il nostro lavoro. Serve anche a convincere i colleghi che vale la pena averti qui da noi per un po'... e poi il tuo fidanzato è a New York, così lo vedi e il biglietto lo pago io..." peccato che di vedere il fidanzato non mi va, peccato che il luogo del mega-convegno-internazionale è praticamente il buco del culo del mondo spostato sui monti Appalachi. Chino la testa e salgo in aereo. In fondo sono l'unica scontenta, il fidanzato è tutto allegro, il tutor italiano anche (e vai mi si leva di torno per un po', lo visualizzo mentre danza dato che non gli sono mai stata simpatica) e il tutor americano è il più contento di tutti (siamo ancora grandi amici) visto che dei tre è forse l'unico che mi apprezza e mi vuol bene davvero. Arrivo a New York, sto un paio di giorni, affitto una macchina e parto. Siamo a maggio, a Roma fa caldo, a New York è tutto fiorito, ma sui monti Appalachi siamo all'inizio del disgelo. Guido tra chiazze di neve sporca, alberi spogli e una natura che comincia appena a stiracchiarsi uscendo dal letargo invernale. Dopo 5 ore di guida a velocità legali (50 miglia orarie all'epoca) arrivo nel già citato buco-del-culo-del-mondo. Mi reco alla sede del convegno, mi registro, sorrido a tizio e caio, abbraccio con calore e gioia il mio tutor americano e vado a posare i bagagli in un orrido motel poco lontano. Sì orrido, uno di quei posti da 15 dollari a notte che erano pochi pure per l'epoca. Un coso a moduli prefabbricati, con copriletto in ciniglia (lisa) arancione, moquette a fiori macchiata al punto che del colore originale si è persa notizia, specchio sbreccato, mega-letto al centro della stanza con televisore (decrepito) che domina ogni cosa (ci vuol poco dato che la stanza è sostanzialmente un loculo). Ho poco da mugugnare, sono un'infima studentessa di Phd non posso sperare in nulla di meglio. Mi reco alla conference hall e mi immergo nella scienza. Fa un freddo cane fuori e dentro un caldo infernale, come sempre negli Stati Uniti. Al secondo giorno comincio a starnutire, devo presentare il lavoro il terzo giorno, incrocio le dita e prego gli dei tutti di limitarsi ad un raffreddore nel punire i miei molti peccati. Non mi ascoltano. Il terzo giorno ho la gola in fiamme, gli occhi che lacrimano e mi gira la testa. Rantolo fino alla sala seminari dove devo presentare. Il mio tutor mi vede e si preoccupa, tossisco una rassicurazione e procedo. Riesco a presentare senza fare troppo schifo, rispondo alle domande tossendo e starnutendo. La tortura finisce e mi accascio su di una sedia. Il tutor, padre di famiglia, arriva mi sente la fronte e scuote la testa "no, not good at all... you need a doctor..." scuoto la testa, non se ne parla proprio, voglio solo dormire dico, vedrai che passa tutto. Il problema vero è che nel giro di due giorni devo risalire in macchina e tornare a New York. Là dovrei anche vedere della gente della Columbia University con la quale abbiamo da finire delle cose.
Rotolo alla macchina, sto uno schifo, parto e mi fermo ad un drugstore. Acquisto 2 cartoni da 2 litri di succo di arancia, qualcosa da mangiare, aspirine, vitamine e un termometro. Torno all'orrido motel. Mi stendo sul letto bevendo succo d'arancia, mi sento davvero male, il termometro segna 102... dopo un iniziale infarto mi rendo conto che è in farenheit e non in gradi celsius, bene significa che ho quasi 39 di febbre. Manciata di aspirine, accendo il televisore e comincio a fare zapping. Mi addormento immediatamente. Il sonno è agitato, mi muovo nel letto, rotolo, sudo, tossisco. Ad un certo punto una voce mi esplode nelle orecchie: "Hell is waiting for you!!! Sinners, confess to Jesus.... " (l'inferno vi aspetta!!! peccatori confessate a Gesù..) dallo schermo un tizio in giacchetta azzurro intenso, capello phonato biondo e cerone a tonnellate, urla verso di me. Ora punta anche un dito che sembra riempire tutto lo schermo "You, I'm talking to you!!!" (tu, sto parlando con te!!) e grida contro la mia blasfemia, il mio ateismo-giudaismo-comunismo-sarcazzochealtro.... Nel fumo cerebrale della febbre non mi rendo conto immediatamente di cosa sia successo, resto un po' lì con gli occhi sgranati, il copriletto di ciniglia tirato su fin sotto al mento e scuoto la testa come a negare ogni addebito. Visioni dantesche riempiono la mia testa febbricitante, lingue di fuoco lambiscono la moquette zozza e certamente tra un attimo mi avvolgeranno riducendomi in cenere. Poi un pensiero penetra tra le circonvoluzioni neuronali un po' abbrustolite, è come una brezzolina fresca: "Ma che cazzo vuole da me questo? chi lo conosce? perché fa così caldo qua dentro?". Lentamente un barlume di coscienza si fa strada. Mi rendo conto che, nel mio rotolare febbricitante, sono finita sul telecomando e ho cambiato canale, ora sto vedendo uno di quei programmi di predica che una stazione televisiva cristiano-fondamentalista trasmette a ciclo continuo. Ridacchio sollevata mentre il tipo phonato continua ad esortarmi ad abbracciare Gesù. Questo però ancora non spiega la temperatura tropicale della stanza. Sono debole e prima di esplorare l'impianto di riscaldamento (chiaramente prodotto nel Giurassico) misuro la mia di temperatura: 100 ovvero circa 38 celsius. Bene sto migliorando. Mi alzo, zittisco il predicatore, comincio a smanettare l'impianto di riscaldamento che emana onde al calor bianco. L'aggeggio emette un singulto, un semi-rutto, tremola e succede qualcosa: smette di funzionare. Guardo l'orologio sono le 8 di sera, ho dormito quasi tutto il giorno. Le gambe non mi reggono e la testa mi rintrona come un tamburo. Chiamo la reception e una voce mi comunica che "we are very sorry, but we have no way to fix it before tomorrow morning, the janitor just went home" (sono molto spiacenti ma non hanno modo di aggiustarlo prima di domani mattina, l'addetto alla manutenzione è appena andato a casa). Chiedo coperte extra, arrivano, il motel è pure pieno. Mi incarto come Tutankamon e scivolo nell'incoscienza con lo stomaco pieno di aspirine e un po' di cibo. Domani è un altro giorno e si vedrà.

In conclusione a New York ci tornai grazie ad un sintomatico potentissimo, che mi permise anche di tornare in Italia ed avere una conversazione semi-lucida con quelli della Columbia. Arrivata a Roma però il malefico virus che si era impadronito di me, ritornò alla carica e mi costrinse a letto per dieci giorni con frequenti incubi da predicatore-phonato.


giovedì 6 agosto 2009

La strada II


Continua da qui
Sono le 6 del mattino, fuori la luce ha appena cominciato a cambiare, ho dormito parecchio. I bagagli sono pronti in un attimo, scendo alla reception, pago e vado a cercarmi un posto per fare colazione. La colazione è per me il pasto principale della giornata e negli Stati Uniti trovo davvero "pane per i miei denti". La mia fame lupigna del mattino si appaga con pancakes, caffè lungo (fragrante, buonissimo) e succo di frutta fresco per completare l'opera. Satolla e gongolante riprendo la 290 in direzione Fredericksburg. Anche oggi è nuvolo, intorno i prati coperti di blue bells incantano gli occhi e guidare la Jeep rossa è un vero piacere. Canticchio seguendo la radio, qua e là mi lancio in una sorta di karaoke stonato sorridendo a chi mi incrocia e mi guarda perplesso. In realtà di domenica mattina non c'è molta gente per strada. Attraverso la cittadina di Frederiscksburg, molto tipica, molto texana, molto noiosa. Mi fermo solo un momento per chiedere indicazioni che mi vengono date con la cantilena tipica, un po' masticata, dell'inglese che si parla qui. Gli uomini portano il cappello a falde larghe, le camicie a scacchi e i jeans, molte donne sono vestite allo stesso modo, ma essendo domenica si notano abbigliamenti più ricercati per andare alla messa. Uomini con cappello a falde larghe, camicia bianca, stivali lavorati e cravattino di cuoio con ferma cravatta in turchese, signore in gonna al ginocchio (di ogni foggia e tipo), camicette bianche abbottonate fino alle orecchie e borsette varie, rigorosamente intonate alle scarpe. La gente si saluta e si dirige alle varie chiese. Negli Stati Uniti l'appartenere ad una chiesa è praticamente obbligatorio. Tranne che nelle grandi città come New York e Houston, là puoi far finta di nulla. Nel mio primo soggiorno extra-urbano negli Stati Uniti finii in un paesino della Pensylvania, c'era solo l'università o quasi ed io ero lì per svolgere parte del mio dottorato. All'arrivo mi diedero molte indicazioni: dove era il centro commerciale, dove trovare assistenza medica, il posto di polizia e una mappa con tutte le chiese/comunità religiose del paesotto in cui ero. C'era di tutto, anche una piccola moschea e un minuscolo tempio indù. Io non capivo cosa ci dovessi fare ed ebbi l'ingenuità di dirlo. La faccia della signora dell'ufficio stranieri mi fece capire che avevo detto la cosa sbagliata. Tossii e andai via quasi di corsa. In seguito, la mia mancanza di attività religiosa fu notata e mi creò alcune difficoltà, ma questa è un'altra storia.
La strada per il parco prosegue verso nord. Voglio trascorrerci la giornata, arrampicarmi sulla Enchanted Rock e, se ho fortuna, veder volare le aquile da là sopra. Arrivo all'ingresso del parco verso le 9:30, parcheggio, mi procuro una bottiglia d'acqua e una mappa. Sono pronta e mi avvio per i sentieri. C'è parecchia gente, il parco è bello e non fa caldo, l'ideale per camminare. La Roccia incantata è una collina di granito rosa isolata (si eleva per circa 140 metri) al centro di un'area piuttosto piatta. Gli indiani Tonkawa dicevano che era un posto stregato, in realtà la roccia si scalda molto durante il giorno e di notte, raffreddandosi, emette suoni e qualche fuoco fatuo, roba che se non sai cosa è può, oggettivamente, spaventare. Insomma lo consideravano un posto magico tra il temibile e il meraviglioso. Cammino per un'oretta, facendo un giro largo fino ai piedi della collina e poi salgo. Mi inerpico sulla roccia quasi liscia, tra pozze d'acqua piovana, arbustelli e piccoli cactus fioriti. Il cielo è nuvoloso, a tratti piove, ma solo un po'. Lo spettacolo naturale è mozza fiato.

Arrivata in cima mi siedo e ascolto il vento. Non ci sono altri rumori. La gente è rimasta giù, nessuno ancora sale, solo qualche ragazzino stava cercando di trascinare i genitori per la salita ma al momento senza successo. Resto lì come stregata, respiro e basta. Poi sento un rumore, uno sbattere di ali, un grido, sono fortunata, c'è un'aquila che volteggia sopra di me.

Non ho idea di quanto tempo siamo rimaste io e l'aquila a scrutarci dalle rispettive posizioni. Lei (o lui) volteggia in alto, poi scende quasi a toccare la roccia, poi risale. Io mi riempio gli occhi di questo movimento desiderando di poter fare altrettanto nella mia vita. Diventare capace di volare alto e poi saper scendere, sfiorare la terra e di nuovo risalire. Prendo la cosa come un buon auspicio.
Rumori umani, arriva gente e l'aquila si allontana. Mi alzo e scendo. Mi rendo conto che è ormai quasi l'una, riprendo a camminare, questa volta prendo la via breve e alle 2 sono di nuovo alla macchina. Prossima meta San Antonio.
Torno a Fredericskburg e vado verso la I10, l'autostrada, sta piovendo e piove sempre di più. Strada facendo mi fermo in un vivaio e compro semi di blue bells e qualche piantina fiorita per casa. Dopo quella colazione, ovviamente non ho fame. Arrivata a San Antonio verso le 5 del pomeriggio ho un muro d'acqua davanti agli occhi. Giro un po' per le strade della città, ma non smette di piovere. Sono stanca e con questo tempo l'idea di fermarmi, trovare un albergo e magari poi passare la serata e la mattina seguente chiusa nel medesimo causa meteo avverso, mi sembra idiota. Così decido di non fermarmi e di proseguire per Houston. La cosa in fondo è semplice, devo solo continuare sulla highway 10. Certo sono quasi 200 miglia (circa 300km) ma tutte di autostrada. Proseguo e mentre vado mi rendo conto di essere veramente stanca, gli occhi cercano di chiudersi e la monotonia della strada non aiuta. In questi casi, normalmente, mi fermo e dormo un po', oggi però sono su questo specifico tratto di autostrada. Gli amici del luogo mi hanno fatto una testa a cembalo dicendomi che è un tratto di strada pericolosissimo, che non mi devo fermare a dormire per nessun motivo, che rischio la pelle etc etc. raccontandomi ogni sorta di raccapricciante delitto, possibilmente ai danni di povera-donna-sola, verificatosi lungo la I10 tra Houston e San Antonio. Mi fermo e bevo un bel bibitone di caffè (abbastanza schifoso). Dopo un'altra mezz'ora di guida ho gli occhi che mi si chiudono di nuovo. Mi fermo e bevo una coca cola. Continuo a guidare e di nuovo le palpebre calano. Mi fermo e mi ricordo di una bibita, la Mountain Dew, che pare sia una bomba di caffeina. La trovo e la bevo. Riparto e finalmente sono sveglia come un grillo, pure troppo, penso. Arrivo saltellante e in gran forma a Houston verso le dieci di sera, sotto l'acqua battente ci ho messo quasi 4 ore. Parcheggio, entro a casa e non ho nemmeno un'ombra di sonno. Per fortuna il lunedì è festa, anche se non dormo non mi preoccupo.
Il risultato dell'overdose di caffeina è stato che, dopo una giornata di lunedì frenetica (sembravo fatta di coca) ho preso sonno la sera verso le 8. Be' più che preso sonno ho, farlocchescamente, collassato per le successive 12 ore.

lunedì 3 agosto 2009

La strada



E' l'alba di un giorno americano del 1999. Il sole comincia a sbucare da dietro le cime degli alberi che circondano il comprensorio in cui vivo a Houston. C'è silenzio intorno, qualche uccello canta, qualcuno esce per andare a correre sull'argine di quella specie di marana che delimita un lato della proprietà. Anche io sto per uscire. E' un fine settimana, sabato, ci sarebbe l'allenamento da fare, ma oggi non ne voglio sapere. Oggi ho affittato una macchina, l'ho presa ieri sera e, per mia grande fortuna, dato che non avevano il modello base che avevo prenotato, mi hanno dato un modello superiore allo stesso prezzo. Una Jeep Cherokee rossa fiammante, con stereo futuristico e tanti di quei comandi sul cruscotto che mi servirebbe un dottorato in ingegneria elettronica per capire a che servono. Stamattina parto. Non ho una meta precisa, so che ci sono dei posti belli verso Austin, la città stessa vale la pena di una visita. Poi c'è San Antonio e ci sarebbe anche Dallas, ma l'ho già visitata e mi ha, sinceramene, fatto schifo. Forse perché là sono andata anche per lavorare ed ho avuto modo di entrare in contatto con l'élite del luogo, bigotta, meschina e priva di cultura. Mai stata così a disagio negli Stati Uniti come in quel caso. Il momento peggiore è stato una cena tra maggiorenti locali ed accademici-intellettuali della Southern Methodist University e della Dallas Baptist University. Fu una serata in cui l'unico modo per non creare una rissa, fu stare zitta e rispondere a monosillabi solo se direttamente interrogata. Allontano dalla mente il ricordo, non vale la pena rievocare quel senso di rabbia e frustrazione; mi aspettano le strade del Texas, la natura splendida e la libertà assoluta di un viaggio da sola.
Salgo in macchina, studio un po' le istruzioni, capisco cosa è meglio non toccare e cosa mi può essere utile, sono pronta parto, direzione Austin. La strada è a 4 corsie, enormi SUV, qualche grossa moto con pittoresca fauna locale a bordo e molti grandi camion mi accompagnano. Accendo la radio e gioco tra una stazione country e una di jazz, passando per un po' di rock assortito. Imbocco la 290. Non è l'itinerario più veloce, è una strada statale più stretta, dell'autostrada ma passa attraverso splendidi paesaggi. Macino chilometri, il senso del viaggio è questo negli Stati Uniti, almeno per me. E' davvero il paese in cui ha più senso il percorso che l'arrivo. Si annuvola e una pioggia leggera comincia a cadere. E' l'inizio della primavera qui, siamo all'inizio di marzo, non fa caldo e i prati si coprono di piccoli fiori blu. Lungo la strada incontro campi, aree in cui ancora vivono branchi di bisonti. Mi fermo a guardarli mentre, quasi immobili, brucano sotto la pioggia. Dopo un po' sono all'altezza della cittadina di Carmine e lo sguardo mi cade su di un cartello: "Goat cheese - 2 miles". Giro per il viottolo di campagna e lo percorro. Arrivo ad una fattoria e mi fermo. Mi arrivano incontro 4 ragazzini dai 13 ai 5, forse 6 anni, mi salutano e chiamano la madre. Arriva una donna minuta, bionda e sorridente, in jeans e maglione. Iniziamo a parlare, chiedo informazioni sul formaggio di capra e dopo poche parole la signora passa ad un perfetto italiano. Lei e il marito hanno vissuto quasi dieci anni a Genova, poi si sono stancati della vita che facevano, era anche nato il terzo figlio. Così hanno venduto casa, mollato i rispettivi lavori e si sono comprati questo pezzo di terra, dove coltivano varie cose e fanno formaggi. Arriva anche il marito, con la sua aria da americano in salute, ha un bel sorriso, i capelli scuri e due occhi sottili e chiari alla Clint Eastwood. Trascorro un paio d'ore con la famiglia, assaggiando formaggi e pontificando sulla vita in generale, saltellando tra italiano e inglese come se fossero una sola lingua. Saluto tutti e riparto con formaggi di capra al seguito. Dopo ancora qualche ora arrivo ad Austin. Trovo un hotel da pochi soldi e mi fermo. Austin si può girare a piedi, cosa rara per le città americane, qui si trova una delle più grandi università statali degli USA, a camminare per le sue strade si ha l'impressione che l'età media sia vent'anni. Mi sento vecchia mentre continuo a girare per tutto il giorno. Chiacchiero con camerieri di ristoranti e baristi, mi faccio indicare un qualche locale dove ci sia musica dal vivo per la sera. Trascorro la giornata a vagare per le strade, a percorrere il lungo fiume e a ficcanasare per la zona universitaria. Arriva la sera e noto che, come spesso accade nei paesi di cultura anglosassone, essendo sabato, il tasso alcolico per le strade è piuttosto alto. Mi dirigo verso una sorta di pub dove servono cucina texana, suonano blues e brani di Steve Ray Vaughan a cui è anche dedicata una statua in città. La musica è buona, il suono caldo e la voce della cantante morbida e struggente. Ascolto godendomi ogni sensazione: i suoni, il cibo che è ottimo, i rumori di fondo. Mi sento in paradiso in mia compagnia. Non ho fatto però i conti con l'ubriachezza molesta locale e con il fatto che sono una donna sola ad un tavolo di sabato sera in una città americana (che non è New York). Nel giro di mezz'ora ho dovuto scacciare almeno tre ubriachi molesti, il quarto me lo leva di torno quasi di peso il cameriere. Non è che io sia una fata, è che donna-sola-sabato-sera-in-locale-pubblico=vuole-rimorchiare, almeno nel linguaggio non scritto del luogo. Quando il cameriere mi consiglia di andarmi a sedere ad un tavolo con altre ragazze (peraltro palesemente sbronze pure loro) al fine di evitare altri incidenti, mi alzo e vado in albergo. Sdraiata sul letto alle 10:30 di un sabato sera mi assale quel senso di rabbia e frustrazione che ho spesso provato nei miei viaggi solitari. Ripenso ad Atene dove, alle 9 di sera, mi sono dovuta barricare in camera a causa di un altro ospite dell'ostello, giovanotto tedesco, per altro sobrio, che dopo un po' di chiacchiere (neanche tanto amichevoli dato che non mi era simpatico) s'era rapito d'amore (non corrisposto) per me. Ripensavo al meccanico di quella sperduta cittadina sui monti Appalachi che, pochi anni prima, si sentì autorizzato a farmi complimenti molto pesanti, solo perché viaggiavo sola (lo precisò lui nemmeno fosse un siculo dell'entroterra di Caltanisetta negli anni '50) o al tipo, conosciuto per caso a casa di amici a Parigi, che al primo appuntamento mi diventò aggressivo perché gli ricordavo la ex-moglie (mi diede una spinta e io lo mollai in mezzo a Boulevard Saint Michel saltando su di un taxi).
Per quanto una sappia cavarsela, per quanto una possa sapersi difendere, ad un certo punto deve sempre soccombere a questa logica perversa: per evitare guai deve ritirarsi. E' una regola generale, in qualunque contesto, una donna da sola è meglio se evita l'aggressività maschile, è meglio se non si espone a rischi inutili, anche se saprebbe menare ad un tizio alto il doppio di lei, comunque il risultato non è garantito.
Cerco di scacciare il disagio, in fondo domattina all'alba io sarò sulla strada per Fredericksburg, diretta all'Enchanted Rock State Natural Area. Ecco invece quei quattro stronzi ubriachi del locale avranno solo mal di testa. Mi giro e dormo in pace.


Continua....