Visualizzazione post con etichetta vecchie abitudini. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta vecchie abitudini. Mostra tutti i post

giovedì 27 novembre 2008

Audio ergo sum

(Foto di Gillipixel)

Ascoltare mi è sempre piaciuto molto.
Non che voglia vantare una sensibilità fuori dal comune, oppure una particolare capacità di nutrire empatia in speciale misura verso gli altri. Chissà, fra le cause ci sarà sicuramente il mix esplosivo di timidezza e pigrizia che mi correda l’animo sin dalla tenera età. Fatto sta che ho sempre trovato molto più affascinante l’ascolto rispetto al pronunciarmi, rispetto ai momenti in cui si è chiamati a parlare.
Una radice storica di questa cosa credo di poterla individuare. Dev’esser stato per via del crocchio.
Nell’aia della Casa Vecchia, quando ero bambino, era un appuntamento fisso di quasi ogni serata dal clima gradevole, dalla tarda primavera fino alle soglie dell’autunno. Diverse donne, e anche qualche uomo più incline alla loquela, si sedevano in circolo e stavano lì a chiacchierare senza meta. Sembrava quasi un rito celebrato nel nome dell’enigmatica piacevolezza dell’Inutile, anticamera e preludio dell’altrettanto grande mistero del sonno.
Noi bimbi potevamo intrufolarci solo ai margini. Sia fisici che discorsivi. In un’atmosfera quasi “alberodeglizoccoliana”, non era previsto che i piccoli intervenissero più di tanto. Poi, i pochi miei coetanei presenti si rompevano presto le scatole e toglievano il disturbo, soprattutto il proprio, preferendo magari un giretto in bici. Io invece mi sentivo affascinato da quel microcosmo linguistico ancestrale, anche se all’epoca ovviamente non avevo la più pallida idea che si potesse chiamare così, e rimanevo tutto il tempo, fino all’ora di andare a letto.
La Casa Vecchia era un piccolo quartiere in miniatura. Quattro fette di casa affiancate per ospitare modi di vita piombati sostanzialmente simili dal Medioevo sino ai tempi della mia infanzia. Il “bagno” fuori, il “fuoco a letto” d’inverno, la luce coi fili a vista, come venature cresciute sopra la pelle dei muri, il pollaio “coccodiante”, le gabbie dei conigli, fonte di tenerezza in pelliccia.
Era il tempo che le lucciole cominciavano già ad “impasolinirsi”, ma se ne potevano vedere ancora in discreti sciami, grattarsi le pance radenti sopra i baffetti delle spighe di grano. Di grilli invece ce ne son sempre stati a volontà: le chiacchiere delle donne si impastavano lente con il loro cri-cri di sottofondo senza sosta.
Le donne parlavano rigorosamente in dialetto. L’italiano era una sorta di idioma inferiore per damerini pallidi, incapace di rendere con efficacia la coloritura di certi fatti meritevoli di essere condivisi col racconto. Ancora oggi, le volte che mi scappa un’espressione dettata dalla spontaneità, di primo acchito mi viene da spiattellarla in dialetto.
Anche se in seguito ho imparato ad apprezzare la lingua di Dante e Manzoni nel pieno fulgore della sua bellezza, e ogni giorno questa fascinazione si rinnova e si arricchisce, non di meno il mio dialetto, conosciuto e praticato nella sua forma genuina da non più di qualche centinaia di parlanti, rimarrà per sempre come una placenta gergale entro la quale la mia immaginazione espressiva è stata cullata nei momenti cruciali della sua formazione.
Erano chiacchiere leggere, quelle delle donne nell’aia, di una leggerezza dignitosa e radicata. Ricordi di quando le più anziane erano state mondine. Qualche commento, sgangherato ma denso di saggezza popolare, ai fatti sentiti in tv. Un cenno alla sorella del tale, che ha sposato quel tipo, il figlio di “coso”, che era andato a stare a Milano per aprire una farmacia in società col genero del fratello di “bagaglio”…mentre la scia della ricostruzione parentale si avvoltolava lenta nell’aria insieme alle volute di fumo dello zampirone, messo in mezzo al cerchio delle chiacchiere per attutire la ferocia proverbiale delle “nostre” zanzare…

Alla fine, non lo so se sono una persona capace di ascoltare. So solo che mi è sempre piaciuto molto.

giovedì 14 agosto 2008

Quando il giornale si piegava per il lungo

Tipico dell’uomo, che è un «animale immaginante» (oltre che un «animale politico», «zòon politikòn», e a volte solo un animale), è associare certi dettagli a corrispettivi periodi della vita. Anche se quasi sempre non c’è nessun nesso apparente fra le due cose messe insieme, non di meno questi abbinamenti pian piano assumono un senso comune nel nostro ordine di idee, e alla fine ci si crede davvero.

Così stamattina, mentre camminavo per strada col giornale in mano e cercavo di ripiegarlo nel modo migliore perché mi desse meno impaccio, mi son venuti in mente i tempi in cui il quotidiano si poteva piegare per il suo lato lungo. Da quando quasi tutti i giornali hanno infatti adottato il formato ridotto, tabloid mi pare che si dica, si possono al più avvoltolare nel senso del titolo. La buona e vecchia ripiegatura in quattro non c’è più modo di farla, se non a costo di maltrattare in modo indegno il malloppo di fogli. Una volta fatta la piega a metà, parallela al titolo, qui si forma infatti una sorta di costola più coriacea di quelle di Moby Dick, e non c’è modo di aver ragione della sua rigidità, perlomeno se si vogliono ottenere esiti ordinati.

Quando viaggiavo in treno con una certa frequenza, avevo imparato che se non hai a disposizione un tavolo per appoggiare il giornale, ci vuole una certa arte nella sfogliatura, altrimenti ti ritrovi in mano un coacervo di pagine che ti fa passare anche la voglia di leggere gli articoli. Ripiegare bene la prima pagina su se stessa, dando alla “costina” così creata un certo filo ficcante, è fondamentale. Se fai bene questa prima piega, poi tutte le altre voltate di pagina le vanno dietro abbastanza fedelmente. Questa perizia acquisita è poi molto utile, anzi direi fondamentale, se si legge il giornale in poltrona oppure, per i pigri più raffinati ed esigenti, se si “panciolla” in lettura placidamente coricati sul divano o addirittura a letto.

In generale, mi sembra che invece questi giornaletti “tabloidati” di oggi siano comunque refrattari alla piega verticale e quindi più scomodi. La riduzione delle dimensioni, una scelta a favore del minore ingombro e quindi apparentemente di una maneggevolezza maggiore, ha in realtà creato un oggetto più scomodo.

Questa cosa, per riprendere l’assunto iniziale riguardante l’immaginifico ed illogico potere associativo umano, un po’ mi infastidisce. Il buon giornalone ripiegabile in quattro mi sembrava infatti più mansueto, sintomo di un periodo in cui la frenesia efficentistica diffusa nella nostra società, pur avendo certamente già raggiunto livelli notevoli, tuttavia conservava ancora spiragli di cedevolezza nei quali si potevano insinuare i ritmi umani familiarmente più pacati e distesi. Invece questo “tabloidetto” spocchioso di adesso, mentre si ribella alla sua piegatura più fisiologica, sembra quasi gracchiare petulante fra i “cric e crac” delle sue male grinze: «No, no, no…non mi puoi leggere a letto!».

Con ogni probabilità, la riduzione delle dimensioni dev’esser in effetti stata dettata in prima battuta da ragioni economiche, per risparmiare carta, per rendere meno costosa la distribuzione, più agevole la fase di stampa, e per chissà quali altri motivi che non so. Solo dopo si accampa la motivazione della maneggevolezza, ma l’obiettivo raggiunto in questo senso, sempre che la mia analisi sia corretta, sembra proprio l’opposto.

Tra il placido “giornalone” di qualche tempo fa ed il nervosetto “tabloid” di oggi c’è insomma la stessa differenza che passa tra una florida ragazzona vista per strada, sulle cui curve e morbidezze rotonde il tuo sguardo non ha potuto fare a meno di incollarsi rapito, ed una spigolosa top-model o l’attricetta di turno, che “ti devono” piacere perché “lo ha detto” qualche guru della moda o peggio un mago del marketing.