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mercoledì 15 luglio 2015

Tetta pura senza paura


Ho avuto un segno. L’inequivocabile messaggio formale mi si è appalesato senza tema di smentita. Il Gran Regno della Tettatura Sissocratica è vicino. L’incontrastata Senografia Globale si sta disegnando. Verrà l’Assoluto Regal Globulo Rosa, portando morbidezza fra le genti, rotondità di rapporti e acutezza puntuale, a ciascuno per la propria areola di esistenza.

Ancor non mi ero sciolto dall’ultimo abbraccio di Morfeo e mi apprestavo, per prudenza, ad aprire con cautela una singola palpebra; quand’ecco che la coda dell’occhio mi viene carezzata dalla simbolica visione. Il lembo angolare del cuscino, con plastica sapienza “mammellomorfica”, mi si era “minnaturizzato” sotto il momentaneo ciclopico sguardo.
E subito ho pensato come sarebbe bello se le sorti del mondo fossero rette da una Tetta. O meglio: dalla filosofia della Tetta.

Come primo risultato, cesserebbe ogni guerra. Avete mai visto voi una Tetta agguerrita? Io no. Il massimo che le si potrà mai veder sparare, sono candidi fiotti di generosità. Preciso stesso motivo per il quale, sotto il Regno della Gande Mammella, non ci saranno più problemi di nutrimento per nessuno. L’espressione “lacrime e sangue” cadrà placidamente nel dimenticatoio, sostituita per sempre da “latte e miele”.

E rimanessero poi ancora dei dubbi riguardo all’assoluto pacifismo della Tetta, basti pensare che l’unica arma di cui dispone si limita a “zzolo” un “cape”. E nelle occasioni in cui lo punta contro, lo sa sempre, e “zzolo”, per ricevere o offrire piacere al fortunato preso di mira. 

Avremo così un “zzolo cape” del governo, con sede a Palazzo Chiodi. Lo zizzamento riunito a Montessissorio promulgherà provvedimenti di legge dalla prima alla sesta misura, e oltre, nei casi di maggior fabbisogno di felicità. 

In base all’assunto universale del supremo principio dell’OnniTettonismo (il quale recita: “…Non esiste una Tetta brutta, esistono solo occhi che non la sanno guardare…”), sparirà di conseguenza dal mondo ogni forma di razzismo e discriminazione. “…Ogni Tetta è bella, purché sia saggia la man che le carezze modella…”: così sarà scritto su tutte le monete e banconote del Regno di Tettolandia. E ognuno vivrà “senifico” e poppante.

venerdì 10 luglio 2015

Tutto il mare in bocca



Mi sono messo lì. 

Che subito viene da dire: lì dove? Era un “lì” il più possibile adimensionale: a-spaziale, a-temporale. Ho provato a fermare i pensieri. Come succede alla materia, quando viene raffreddata. Le particelle di cui è composta, piano piano rallentano. 

Acciuffare una sorta di fermo-immagine dei pensieri. Poterli contemplare così, in statica distesa. Accorgersi della via sbagliata che una sensazione sta imboccando. Fare caso al passo falso che un’intuizione sta azzardando. Avere tutto il tempo di cogliere, nel panorama spalancato in sinottica estensione, potenzialità e falle di tutta la costruzione concettuale-emotiva.

Mi sentivo come in quella fiaba del ragazzo capace di inghiottire tutta l’acqua del mare. Un amico, avido e superficiale, gli chiese di farlo per lui, in modo d’avere agio di raccogliere sommersi tesori preziosi e meraviglie dei fondali. Va bene, gli disse il ragazzo, a patto che tu torni a riva subito, non appena ti farò cenno. L’altro lo rassicura che ubbidirà con prontezza.

Il ragazzo inghiotte il mare e l’amico s’inoltra estasiato fra pesci di colori mai visti e ogni altra sorta di preziosità marina. Perde tempo ad ammirare sciocchezze, si riempie le tasche di cianfrusaglie, trascurando i veri oggetti di valore.

Lo stesso succedeva a me, scorrazzando nella distesa dei miei pensieri fermi. Mi soffermavo troppo sullo sfavillio di un concetto da nulla. Rimpinzavo il retino di emozioni effimere, per portarne a casa il più possibile. 

Intanto però il ragazzo, sulla riva, iniziava a non poterne più. Il mare in bocca gli pesava tremendamente. Si sbraccia in direzione dell’amico: che rientri al più presto, ciò ch’è raccolto è raccolto. Ma quello non ne vuole sapere. Intontito dalla meraviglia in cui incappa ad ogni passo, ha completamente perso il senno. Addirittura risponde con boccacce e sberleffi ai richiami ormai disperati.

Il ragazzo non regge oltre la pesantezza del mare e la rigurgita per intero nel suo letto naturale, travolgendo l’amico incauto e tutti i tesori dei quali non potrà godere. 

Così si sono riattivati in un istante tutti i miei pensieri, che solo per poco tempo si erano fermati. Il loro calore si è auto-rigurgitato fuori. Non c’è stato tempo di portare a casa nulla, gli aggiustamenti d’idee e le rappezzature concettuali si sono rivelate minime.
Soltanto dopo, mettendo una mano in tasca, mi sono ritrovato fra le dita una conchiglia. Era bellissima, dalla forma incredibile. Ma perfettamente inutile. E intanto fuori, le cicale avevano ripreso a frinire. 


giovedì 29 agosto 2013

La natura, nonostante tutto…




Il confronto con l’irrinunciabilità di fondo dell’elemento naturale, con l’imprescindibile ricorrenza del dato di realtà ambientale, mi procura talvolta una sottile consolazione sotterranea.

Meditare attimi di libertà, mentre un refolo di vento freddo mi scuote irrispettosamente la pelle; intuire che la pioggia, nonostante tutte le raffinate sottigliezze dei meteorologi, alla fine farà come diavolo le pare; sentire la cappa buia della sera che cala inesorabile, nonostante tutte le luminarie del mondo. Addirittura pensare alle galassie, all’indomabilità delle stelle e di tutto l’inimmaginabile e sconfinato spazio siderale…

Tutte queste cose mi fanno stare bene.

Non deve fare meraviglia poi che i medesimi identici pensieri, in altri frangenti, mentre altri stati d’animo attraversano il fluire dei tempi, siano fonte di angoscia pura e di smarrimenti fra i più disparati. Allora lo stesso vento, la medesima pioggia, li detesti di cuore, mentre ti avvoltolano il lembo dell’ombrello infradiciandoti i piedi con secchiate d’acqua miste a maledizioni. Oppure, ti percuote sin nel profondo il senso di impotenza, quando constati che una miriade di aspetti della realtà sono fuori della misera portata di mano di noi poveri umani.

Ma quando la sensazione giusta si sintonizza sulla frequenza d’animo appropriata, pensare che nonostante tutto, l’uomo non può farci proprio niente, che quello sfondo reale andrà avanti da solo, lo si voglia o no, tutto ciò procura una bizzarra soddisfazione. Forse sarà giusto la soddisfazione del fesso che taglia il ramo su cui sta bellamente seduto. Sono infatti pensieri che non si addicono ad ogni occasione, vanno riservati a rari bagliori di lucida idiozia e immagazzinati con cura nel “reparto reperti inutili” del nostro animo.

Non mi sembra tuttavia che sia tanto meno da fessi, pensare se stessi come i veri padroni della Terra, solo per il fatto che la si inquina in lungo e in largo, piegando le sue logiche in maniera distorta e pretendendo poi di averla dominata. La pretesa illusoria che tutto, ma proprio ogni aspetto del reale, sia ormai sotto il controllo della volontà umana, è forse molto più asfissiante ed “imbecillizzante” del fatto di assaporare il gusto della leggera e consolante disperazione dettata dall’impossibilità di avere in qualche modo voce in capitolo.

Molto meglio dunque riscaldarsi all’idea che la pioggia, il vento e il sole, capitano, scaldano, soffiano o muggiscono, quando minchia pare a loro.
 


venerdì 23 agosto 2013

Augusting cosy and warm


 
I giorni trascorrono agosteggiando attoniti ad ascella semi-tonica, mentre io continuo a non aver nulla da scrivere. 

Rovistando in un armadio alla ricerca di una cosa che regolarmente non ho trovato, mi sono imbattuto invece in alcuni vecchi disegni realizzati al tempo delle scuole medie. Di solito cerco di rifuggire queste “operazioni nostalgia”, del tipo passare in rassegna vecchie foto in bianco e nero, oppure rimirare oggetti e giochi dell’infanzia. Mi portano troppo lontano, a volte non reggo l’impatto ricordante, che mi sdrucisce l’anima, così se proprio proprio decido di mettere in moto un revival del genere, devo sentirmi dell’umore adatto.

Il disegnetto in questione però mi è quasi capitato fra i piedi, causandomi peraltro un moto di tenerezza discreto, e parecchi sorrisi. Non sono mai stato tanto portato per il disegno, ma mi è sempre piaciuto un sacco provarci. Qualcosa combinavo, ma da lì a poter dire che avessi un qualche talento vero con matita e pennarelli in mano, ce ne passava parecchio. Al di là dei miei limiti grafico-compositivi tuttavia, la molla principale che mi ha sempre spinto ad avventurarmi nel fatato mondo della creazione manuale d’immagini, credo sia stato sempre quel senso di “investimento fantasioso” concesso da questa operazione. Le figure che riuscivo a tirare fuori erano per me dei potenti mezzi di “fantasticheria applicata”. In quei quattro scarabocchi potevo vederci dentro tutti i miei mondi preferiti, lì si realizzavano le cose più “armonicamente compiute” che riuscissi ad immaginare.

Non sto parlando di fantasticherie irrealistiche, tipo omini verdi con le antenne sulla capoccetta ad uovo, oppure chimere dal pelo fucsia duellanti con draghi convenzionati alla mutua di Roncisvalle. No, le mie fantasie si addentravano più che altro in ambiti “iperrealistici”. Nel senso: il disegno per me era uno strumento per vedere un’altra realtà ulteriore, una realtà più reale di quella che avevo sotto gli occhi ogni giorno, possibilmente meno imperfetta. Che poi le mie immagini risultassero ampiamente imperfette e sgangherate, questo è un altro discorso. Il punto era la quota di immaginazione che potevo concedermi mentalmente di infondere in quei pochi tratteggi malsicuri: quella era illimitata, senza confini.
 

Osservando il disegno ritrovato, mi sono accorto che presenta tantissime della caratteristiche tipiche del mio “codice immaginifico” di allora. Proprio nel periodo delle medie, mi specializzai in ometti nerboruti. Sempre “in virtù” dei miei limiti grafici, ogni volta che mi accingevo a tratteggiare una figura umana, e anche se magari le mie intenzioni erano tutt’altre, non c’era verso: mi veniva sempre fuori un bulletto muscolare, mezzo para-culturista della domenica.

Mai che mi riuscisse di fare una figura esile, gentile, dai tratti aggraziati. Sempre e soltanto bicipiti ipertrofici, pettorali da peso massimo, cosce da tiratori di fune provetti. Ormai avevo raffinato il mio tratto su quella modalità grafica: l’omino muscolettato mi usciva dalla matita quasi in automatico, come fosse un cliché utilizzato dalla zecca per battere moneta.

Credo ci fossero vari motivi per spiegare questa mia iper-specializzazione iconografica. Da una parte, il mio imaginario figurativo era molto influenzato dai fumetti. Fantastici 4, Dare Devil, Uomo Ragno, Zagor, Thor: tutta gentaglia dal muscolo vivace, che ho mangiato insieme al pane fin dalla più tenera età. Per di più, va aggiunto che il mio ideale grafico derivava anch’esso da uno dei personaggi “dialoganti a sbuffo” a miei più cari: Alan Ford, ovviamente nella versione disegnata dal grande Magnus. Il tratto di Magnus mi affascinava nel profondo, con quelle sferzate di china nerissime ed inequivocabilmente marcate, a segnare zigomi, menti, mascelle e curve muscolari.

La mia realtà immaginata era dunque costellata di forzuti dai muscoli levigati e formalmente impeccabili? Beh, sì, in un certo senso sì. Anche perché, per altri versi, questa mia ipotetica energia grafica trasfigurante, andava ad ovviare e compensare alcuni miei lievi crucci fisici, da sempre segretamente rimuginati. Anche se poi negli anni qualche chiletto assestato nei punti giusto son riuscito a metterlo su, da piccolo sono sempre stato magrolino e spilungone, con muscoletti agili e scattanti sì, ma alquanto parchi dal punto di vista volumetrico. Ecco allora che nella mia realtà disegnata, i muscoli si sprecavano, ed in quel mondo parallelo, i protagonisti erano tutti dei mezzi cinghialotti pronti a fracassarti sei falangi con una virilissima e fraterna stretta di mano.

Però, nonostante tutta la buona volontà che ci mettevo, le mie magagne di disegnatore erano pur sempre in agguato, pronte a riaffacciarsi ad ogni tentativo. Ecco dunque perché, quando mi capita di andare a rivedere con lo sguardo di adesso quei miei lontani abbozzi grafici, mi si disegnano in volto ampi sorrisi di tenerezza. M’intenerisce soprattutto l’ingenuità di quelle composizioni, mi ritorna alla mente la “purezza” dell’epoca, la freschezza mentale incontaminata di tutte quelle mie incursioni nel mondo della fantasia.

In questo disegnetto ritrovato, rendevo omaggio al mio periodo di infatuazione per il pattinaggio. Ovviamente, nella realtà concreta, i miei erano pattini a rotelle, di quelli da allacciare alle scarpe da ginnastica, e mai in vita mia avevo visto una vera pista, tanto meno di ghiaccio. Le mie evoluzioni le potevo fare al massimo nel corridoio di casa, oppure su qualche spiazzo di asfalto rugoso.

Nel mio disegno invece, ovviamente, si pattina su una comoda e spaziosa pista di ghiaccio. Il protagonista è senz’altro iper-muscolato, nel modo strano che le mie possibilità tecniche mi consentivano di realizzare. E’ rigido in modo quasi semi-comico, gli arti non sono inseriti con un vero e proprio quadro armonico nella figura intera del corpo, ma sembrano quasi fare ciascuno parte a sé, appiccicati l’un l’altro, quasi fossero stati scagliati con la fionda. La gamba sinistra, il tronco e la testa sembrano formare un unico monolite compatto, dritto come un fuso; le braccia sono innaturalmente tese, come quelle di un soldatino assai impettito; mentre la gamba destra sembra stata piantata nel resto della figura con un mazzuolo.

Sullo sfondo, con due semplici righe, una perfettamente orizzontale e quella sotto obliqua, avevo reso un accenno di prospettiva. Ma la cosa più buffa sono i due slogan che avevo piazzato a decoro di quel muretto o palizzata che dir si voglia: «W l’inverno» e «W il pattinaggio». Non vi so spiegare bene il motivo, ma anche considerando tutto quello che ho conosciuto, studiato, imparato, letto, vissuto dopo, il misto d’ingenuità e di indifesa fiducia verso il mondo, scaturente dall’immagine di quel lontano bimbetto capace di scrivere due simili semplicità, mi commuove non poco. Che poi, tenuto conto del livello di idiozia raggiunto nel frattempo dalla pratica pubblicitaria, se proprio vogliamo dirla tutta quei due miei antichi slogan non sfigurerebbero neanche tanto nel demenziale scenario odierno.

Un altro dettaglio mi ha parecchio intenerito, e poi chiudo: le bandierine che sventolano dal bordo della palizzata, le avevo rigorosamente campite con una bipartizione fucsia e arancione, in abbinamento col costume del pattinatore, e mi ero preoccupato di alternare i due colori, mettendo ora l’uno nella parte vicina all’asta, ora in quella lontana, e così via. Diavolo di un mini-Gillipix!!!

Va beh, cari amici viandanti per pensieri: per oggi avevo da dirvi solo queste piccole boiate. Intanto che mi viene davvero in mente qualcosa da scrivere, io continuo ad agosteggiare questi scampoli di mese.


giovedì 8 agosto 2013

La strisciante combutta della lobby segreta delle sotterranee congreghe delle leggende metropolitane



«…S’lé véra, l’è ‘na gran bàla!…».
(N.d.t.: «…Se è vero, è una gran balla!…»).

Antica e paradossale constatazione gillipixilandese

*******

Le leggende metropolitane possono fare uno strano effetto. Non riesci mai a capire bene se ascoltandole, ti colga più intensamente il timore che siano balle, oppure la speranza che siano verità. La cosa più suggestiva è cercare d’indovinare cosa passi per la mente luminosa di quei tizi che le mettono in giro. Quale molla scatta fra le pareti craniche del cazzaro di alta qualità, tanto da indurlo a sfornare simili perle d’inusitata semi-esaltante irrealtà post-deprimente?
 
Ma forse si punta al bersaglio sbagliato, così interrogandosi. Probabilmente le leggende metropolitane non nascono belle fatte e rifinite, già complete, dal parto di una sola mente. Forse sono l’esito cumulativo di uno sforzo di squadra. Certe leggende metropolitane sono così raffinate ed architettate con sapienza, da far pensare a vere e proprie equipe di metropolitanisti leggendari, riuniti per sommare i loro sforzi di fantasia perversa. Magari un gruppo di amici assai affiatati, in una sera di cazzeggio particolarmente felice, riescono a sfornare certi diamanti rarissimi di spropositata inenarrabilità. Oppure la cosa nasce semplice semplice, ma poi s’ingrossa passando di bocca in bocca, e qualche goccia iniziale di banalità finisce per sfociare in voluminosi fiumi straripanti di fandonie.
 
L’atteggiamento rispetto alla leggenda metropolitana dev’essere ad ogni modo velato di paradossalità da ambo i lati. Da parte di chi la mette in circolazione, c’è il dovere d’impegnarsi a spararla molto, ma molto grossa, sapendo che più grossa la si sparerà, più grossa sarà anche la mole dei pesci presi all’amo. Da parte di chi ascolta invece, la disposizione d’animo ideale dovrebbe essere quella di colui che pur credendoci fortemente, sa benissimo che si tratta di una palla micidiale.
 
Non ricordo più nemmeno dove la sentii, questa. Forse dal barbiere, o in qualche altro consesso culturale di simile levatura accademica.
 
Girava voce che qualcuno avesse scoperto l’antidoto definitivo per debellare la carie dentaria. Niente più otturazioni, niente più denti trapanati. Più niente di niente di tutto questo: solo denti intatti e dalla superficie inattaccabile. Si trattava di una sorta di sostanza speciale, una non meglio precisata vernice trasparente, che una volta cosparsa a tempo debito sulle 32 mini-zanne umane, avrebbe formato una pellicola protettiva capace di salvaguardare per sempre l’integrità di molari e compagnia.
 
Ovviamene però, così sarebbe stata troppo breve. Mi sono divertito allora ad immaginare come avrebbe potuto proseguire.
 
La lobby dei dentisti, in combutta con la lobby dei produttori di pasta per le otturazioni, d’intesa con la lobby dei fabbricanti di trapani per otturazioni, col beneplacito della lobby degli industriali delle poltrone da dentista, sentito anche il parere del sindacato delle assistenti alla poltrona, si accordarono tacitamente per tenere nascosta all’umanità la scoperta della imperitura sostanza anti-carie. Da quel momento, i dentisti, i produttori di pasta, i fabbricanti di trapani, gli industriali delle poltrone e le assistenti alla poltrona insieme ai loro sindacalisti, non soltanto non hanno più avuto carie, ma hanno anche fondato dei club esclusivi, la cui principale attività consiste nel riunirsi in serate di gala, durante le quali si sghignazza a pieno ed intatto sorriso di tutti quei fessi che continuano a farsi otturare i denti.
 
Fra gli invitati a queste feste, chissà per quale confusione di bigliettini erroneamente recapitati, capitò una sera un imbucato. Era niente meno che uno dei più influenti esponenti della lobby dei produttori di lamette da barba. Intrufolandosi a tradimento nel ridereccio consesso degli onnipotenti dentari, riuscì a carpirne il capitale segreto riguardante la carie. Dando ampia dimostrazione del meglio del proprio spirito lobbysta, subito si propose per un ricatto in piena regola: chiese una sacco di soldi per non rivelare al mondo la scoperta dei dentisti. Ma quando una lobby sola si mette contro tante lobby, difficilmente la spunta.
 
Ecco allora che le lobby dentistiche riunite, facendosi forte del contributo della lobby degli investigatori privati, i cui favori erano stati acquisiti promettendo a tutti i detective denti sani per sempre, poterono proporsi per un contro-ricatto verso la lobby dei produttori di lamette. Il loro silenzio venne carpito tramite la minaccia di rivelare a loro volta un altro fondamentale segreto, scoperto nel frattempo grazie alla sagacia dei detective. I produttori di lamette avevano inventato la lametta infinita, che non si consuma mai, neanche dopo milioni di rasature. Se avessero continuato ad accampare pretese verso le lobby dentistiche, il mondo avrebbe conosciuto anche questa nuova sorprendente verità pilifera.
 
Si addivenne allora ad un compromesso: nessuno avrebbe rivelato nulla, accontentandosi di godere il frutto delle nuove scoperte. Da allora, i protagonisti del mondo dentario, insieme ai detective, e in compagnia dei produttori di lamette, si riunisco in feste serali ancora più grandi e divertenti, durante le quali, tutti sbarbati al millesimo di millimetro (anche le assistenti alla poltrona, in altri posti rispetto alla faccia, ma pur sempre sbarbate), con dentatura perfette si ride della grossa di tutto il resto dell’umanità che continua a sfoggiare barbette mal rasate per risparmiare sulle lamette, e si concede solo sorrisi di seconda mano, offuscati dal timore di mostrare l’ombra inelegante delle otturazioni.
 
A furia di sghignazzare a denti impeccabili e di crogiolarsi senza sosta nel narcisistico e vicendevole rimirar di rasature perfette, le lobby dentistiche e investigative, unite a quella delle lamette, vennero travolte da incipiente delirio di onnipotenza. Ben sbarbati e sorridenti com’erano, si misero in testa di voler conquistare la Terra. Pensarono così di avvalersi del contributo della lobby degli ipnotisti e degli illusionisti mondiali. Grazie ai loro servigi, contavano di sottomettere al proprio volere tutta l’umanità. Ma male gliene incolse, perché non fecero i conti con la sagacia lobbystica degli ipnotisti ed illusionisti.
 
Questi ultimi dapprima illusero i dentisti, i detective e i lamettari, fingendo di stare al gioco,  ma poi li ipnotizzarono, facendosi rivelare tutti i loro segreti, e causando poi la rimozione assoluta da tutte le loro menti di ogni barlume di ricordo riguardante la scoperta della cura definitiva della carie e l’invenzione della lametta senza fine.
 
Ora gli unici grandi depositari della conoscenza di tutta questa leggenda metropolitana, nonché esclusivi beneficiari dei vantaggi dentali e depilatori connessi, rimangono soltanto i componenti della lobby degli ipnotisti e degli illusionisti mondiali. Se tuttavia vi capitasse di incontrarne uno, guardatevi bene dall’obbiettare di non averlo mai sentito parlare di dentista, oppure di non averlo mai visto acquistare lamette da barba. Vi potreste risvegliare il giorno dopo nel vostro letto, con un lieve intorpidimento alla bocca e quattro nuove otturazioni che non ricordate quando mai vi siano state fatte. Poi alzandovi, inciampereste in uno scatolone posato vicino al comodino, contenente una fornitura per tre anni di rasoi usa e getta, mentre sul vostro blocchetto degli assegni, mancherebbe misteriosamente un talloncino.
 
Ed è sempre per lo stesso arcano motivo che una moltitudine di dentisti, di produttori di pasta per le otturazioni, di fabbricanti di trapani per otturazioni, di industriali di poltrone da dentista, di assistenti alla poltrona coi loro sindacalisti, vagano per le strade di tutto il mondo, incrociando di tanto in tanto un produttore di lamette da barba. Si guardano un attimo negli occhi, non capiscono e passano oltre, pur senza rinunciare a borbottare per un attimo fra sé e sé: «…Sarà…ma io quel tizio l’ho già visto da qualche parte. Bah, vatti a ricordare dove…».


lunedì 8 luglio 2013

Per me la Champions League…



Per me la Champions League
si chiamerà sempre Coppa dei Campioni.

I giocatori titolari avranno sempre
sulla maglia
solo numeri da 1 a 11.

1 sarà sempre il portiere
2, sempre il terzino destro
3, sempre il terzino sinistro
4, sempre il mediano
5, sempre lo stopper
6, sempre il libero
7, sempre l’ala destra
8, sempre la mezz’ala sinistra
9, sempre il centroavanti
10, sempre la mezz’ala destra
11, sempre l’ala sinistra.

Dal 12 in su, saranno sempre panchinari.
Il 12 sarà sempre il portiere di riserva.

Metti che uno volesse giocare col 99 sulla maglia:
avrebbe sempre 87 possibilità in meno di entrare
in campo, rispetto al numero 12.

Se una squadra vorrà schierare più di 2 giocatori stranieri,
si dovrà sempre iscrivere al campionato estero della
stessa nazione degli stranieri più numerosi presenti nella formazione.

I difensori potranno sempre passare indietro
la palla al portiere, che potrà raccoglierla con le mani.

Le partite di campionato si giocheranno sempre,
tutte, alla domenica pomeriggio, in contemporanea,
con orario d’inizio che potrà variare fra le 14 e 30,
d’inverno, e le 16, in primavera.

Se qualcuno proporrà di giocare alle 12 e 30,
i giocatori avranno sempre il diritto di andargli
a tirare dei calci di punizione sul culo, 
e poi tornare negli spogliatoi
ad aspettare che vengano le 14 e 30.

Le partite di coppa si giocheranno sempre
il mercoledì sera, con orario d’inizio fra le 20 e 30
e le 21, fatte salve piccole differenze di fuso.

Il campionato inizierà sempre
fra fine settembre e inizio ottobre
e finirà al massimo ai primi di giugno,
ma di regola più verso fine maggio.

La tv parlerà sempre di calcio
solo fra sabato sera e domenica sera.
Ne parlerà anche al mercoledì, con le coppe,
ma il resto della settimana ne parleranno solo gli amici al bar.

La passione per il calcio sarà sempre
una grande passione e verrà intesa
come tale: una passione, appunto.

Chi parlerà di “fede calcistica”
avrà sempre diritto al
trattamento sanitario obbligatorio
periodico, passato gratuitamente dalla mutua.

Nelle scuole, ai bambini, fin dalla prima elementare,
verrà sempre ricordato che una volta un calciatore,
durante un’intervista, ad una domanda
sul titolo di studio conseguito, rispose:
«…Mi mancano 5 anni al diploma di ragioneria…».



martedì 12 giugno 2012

Dino, un nocino!


 Forse non se ne saranno accorti in tanti, ma la vera calamità sociale degli ultimi anni è stata la chiacchiera da bar. Col suo fare subdolo, la chiacchiera da bar s’insinua fra la gente, si ammanta di autorevolezza presunta, si rigenera, si ricicla, si autoalimenta, sostiene se stessa sulle proprie fragili basi maldestramente contrabbandate come solide, ed un bel mattino te la ritrovi alla guida di una città, di un territorio, della nazione intera, che quasi nessuno si è reso conto di come abbia fatto ad arrivare sino a lì.

Per esprimere al meglio le proprie potenzialità, la chiacchiera da bar, al pari del plurinominato (e qui non nominabile…) accessorio anatomico virile protagonista di un celebre proverbio partenopeo, necessita di una imprescindibile condizione al contorno: non vuole pensieri. Si nutre di sottovuoto mentale spinto, prolifera nell’ambiente anaerobico tipico dei crani scarsamente irrorati d’ossigeno. La chiacchiera da bar ingolla aperitivi, salatini ed ipersemplificazione dei problemi, tutto in un sorso e una boccata soli.

E’ come una droga, la chiacchiera da bar: provoca dipendenza, assuefazione, degradazione  intellettiva e intellettuale. Chi la padroneggia consapevolmente come strumento di sofisticazione esistenziale, spaccia la chiacchiera da bar agli ignari assuntori, che se la sparano in vena, la fumano, la sniffano, non importa se pura o tagliata con argomenti di ragionevolezza apparente. Lo spacciatore in grande stile di chiacchiere da bar, a differenza di quello di droga, non dissimula le proprie responsabilità con l’agire clandestino, ma si fa forte di smentite del giorno dopo ed appelli a presunti fraintendimenti riguardanti le stesse proprie parole.

Sempre a differenza della droga (intorno alla quale il dibattito sull’opportunità di una liberalizzazione controllata rimane ancora aperto alle più varie tesi ed interpretazioni), nel caso della chiacchiera da bar, sembra di poter dire che un eventuale atteggiamento antiproibizionistico gioverebbe quasi certamente a mitigarne le derive di maggior flagello sociale. L’overdose di chiacchiera da bar presenta infatti segno del tutto opposto rispetto all’eccessiva assunzione fatale di droghe: una volta superata la soglia tollerabile di chiacchiera da bar, l’organismo richiede naturalmente una purificazione raggiungibile solamente col narcan dei pensieri elevati, il metadone di ragionamenti profondi, con le comunità di recupero della lettura e dell’approfondimento veri.

Legalizzando la chiacchiera da bar, elevandola al rango di materia di studio e al contempo di libero sfogo controllato concesso alle persone comuni, favorendone la diffusione in maniera e in misura capillare, si potrebbe forse cagionare l’auspicata overdose epocale in grado di far deflagrare il bubbone liberatorio.

I bar come nuove sedi universitarie di sociologia applicata, cenacoli del luogo comune più frusto e ritrito nella propria pretenziosità: «...pena di morte…se ne stiano tutti a casa loro…la galera, ci vorrebbe…se fossi ministro io…chi non lavora non fa l’amore…», sino a che l’implosione ignorantizia letale non si manifesterebbe in tutto il suo deflagrante fulgore, ed i primi superstiti dalla grande ubriacatura di banalità inizierebbero ad invocare con flebile e provata voce: «...presto, soffoco: a me il primo volume di “Guerra e pace”!…», o ancora: «...aiuto, mi sento mancare, ho avuto un’allucinazione tremenda: Balotelli ministro della cultura!!!...Leggetemi subito qualche passo da “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith!…».

A pensarci bene però, non so nemmeno come mai mi sia venuto di scrivere queste cose, oggi…bah…vado a fare un giretto al bar, via…

martedì 16 agosto 2011

Buon scampato Ferragosto


Ma questo Gillipixel, ma chi sarà mai? Chi si nasconde dietro lo strambo nomignolo? Forse un’associazione di produttori manifatturieri di vaccate? Forse un consorzio di confezionatori riuniti di boiate sottovuoto?

Non a caso, gira ormai voce che non si tratti di una singola persona scrivente, bensì, come già in certe leggende sorte attorno alle figure di Omero o di Shakespeare, di un’equipe di scribacchini, in questa circostanza decisamente male assortiti. Lo stupore, nella fattispecie, non va a posarsi infatti sulla presunta maestria letteraria del soggetto, ma scaturisce piuttosto dall’inverosimiglianza della mole di str…ate (per chi vuole, la “onz” si può trovare come sorpresa nelle patatine…), che il medesimo è in grado di sfornare. Tanta demenza “nullificante” condensata in una sola persona ed ostentata con tale fierezza, non si era mai vista.

Gillipixel sarà dunque uomo oppure donna? Sarà più uomini o più donne, oppure ancora un gruppo promiscuo di uomini, donne e gatti?

Sono domande che mi ripeto spesso pure io, cari amici viandanti per pensieri. Soprattutto in questi giorni di metà estate. Sì, perché, aprile sarà pure il più crudele dei mesi, caro T.S. Eliott, e chi ti dà torto. Ma lasciamelo dire, anche agosto in fatto di bastardaggine si difende mica male.

Ferragosto s’impone al mio palato sempre con un retrogusto di mestizia, così come succede col Capodanno. Nel tempo, ci ho fatto un po’ il callo e mando giù con meno fatica, ma un senso di spiacevolezza permane in ogni modo.

La fregatura però è che viene anche da pensare: per fortuna che ad un certo punto dell’anno, arriva Ferragosto. Sono “feste cipolla”: ad ogni loro passaggio, ti levi uno strato, molli giù qualche fogliolina usurata. Non è mai propriamente indolore, però ti carichi delle speranze di cui è cosparso il nuovo lucido mantello che quasi senza renderti conto, ti sei ritrovato cucito addosso.

Questo tipo di feste superiori, di passaggio, sono come un amore mai colto, oppure come un amore colto così tanto e in misura talmente sconvolgente, da averci lasciato sempre dentro il rammarico di non averlo vissuto nella sua interezza, proprio perché essa era eccessivamente smisurata per le limitate capacità passionali e sensuali di cui si disponeva. Ferragosto (e anche Capodanno) condensa nel culmine dalla contraddizione esistenziale, suscita sbalordimento agrodolce, deposita nel cuore e nei polmoni il medesimo meravigliato timore notturno scaturito da un onirico incidente adolescenziale.

Anche per questa serie di motivi (oltre che per una ben più prosaica penuria di tempo, in cui sono incappato ieri…), quest’anno invece di buon Ferragosto, vi auguro un “buon scampato Ferragosto”, cari amici viandanti per pensieri. Anche per quest’anno l’abbiamo sdoganato. Al prossimo, ci penseremo. Grazie di cuore ancora a tutti, a chi mi legge, a chi commenta, a chi non commenta, a chiunque passi di qui lasciando giù un sorriso.

Questo Ferragosto, fra l’altro, lascia in coda una piccola sorpresa. "Per un pelo", uno dei componenti della scribacchiante banda Gillipixel non veniva colto nel bel mezzo di un fotogramma. Ma non fidatevi mai, si tratta pur sempre di una bestiaccia subdola e sospettosa. Appena sentito l’eco del clic, con gesto fulmineo ha dribblato lo scatto, lasciando catturata dentro la fugace inquadratura soltanto una propaggine di sé.
Ed alla fine, come potete ben constatare dalla risicata immagine, non si trattava tanto di questione di “un pelo”. I peli in ballo erano ben più folti.

Il mistero s’infittisce…

domenica 14 agosto 2011

E’ iscritto a parlare l’onorevole Willer: ne ha la facoltà


«…Lies will flow from my lips, but there may perhaps be some truth mixed up with them: it is for you to seek out this truth and to decide whether any part of it is worth keeping. If not, you will of course throw the whole of it into the waste-paper basket and forget all about it...»

A room of one’ own
Virginia Woolf - 1929

«…Dalle mie labbra sgorgheranno bugie, ma è possibile che frammista a esse vi sia una porzione di verità: sta a voi cercare questa verità e decidere se ce n’è una parte che merita di essere conservata. In caso contrario, naturalmente, getterete il tutto nel cestino e ve ne dimenticherete...»

Una stanza tutta per sè
Virginia Woolf - 1929

*******

E’ veramente molto difficile di questi tempi riuscire a strappare un sorriso a se stessi e agli altri.

Motivi di preoccupazione se ne possono trovare a bizzeffe tutt’intorno a noi, non c’è nemmeno bisogno di sforzarsi tanto nella ricerca. Anzi, molto spesso la posta in gioco risulta ancor meno misera di un sorriso. Un barlume di serenità, uno sprazzo flebile di speranza, uno sprizzo minimale di fiducia, questo è il massimo che ci aspettiamo di portare a casa, visto il clima dalla sagoma vagamente “depressoidale” in cui ci ritroviamo calati.

Torno un attimo su una precisazione che mi preme tenere sempre viva, fra i dispositivi narrativi indispensabili alla prosecuzione della mia avventura bloghesca.
Ogni tanto ci tengo ad inframmezzare l’atmosfera ostinatamente surrealistica che regna in questo mio blog, con piccoli segnali di preservata sanità mentale. Se preferisco ancora parlare di argomenti minimali ed iper-secondari, se continuo ad ancorarmi allo scoglio dell’inutilità, della leggerezza e dell’ironia diffusa, non è per via del fatto che sono ormai definitivamente partito di zucca. Se così mi piace fare, non lo faccio nello spirito del crocerista che continua imperterrito ad abbracciare la sua dama, producendosi in eleganti passi di tango e volteggi di valzer, mentre con un vacuo sorriso occhieggia alla grande scritta dominante l’ampio salone delle feste del mastodontico naviglio sul quale è imbarcato: TITANIC!

Fermi restando il rispetto sommo e la preoccupata considerazione per le grandi problematiche esistenziali, mi piace fare così per provare a vedere se, anche concentrandosi sui dettagli minimali, e a volte anche buffi, del vivere, ci sia modo di scovare fuori qualche piccola pagliuzza di instabile e provvisoria verità. Non si tratta tanto di un rimirarsi l’ombelico, attrezzandosi per bene di confortevoli paraocchi “prosciuttati”. Piuttosto è un tentativo di verificare se anche l’ombelico possa dimostrarsi una rampa di decollo degna per prendere il volo verso modi di affrontare la vita ricchi di grazia, bellezza e consapevolezza dell’intero suo peso effettivo.

Non a caso, è stato dopo aver rassicurato me stesso riguardo a questi capisaldi, che mi è venuto da pensare a Tex Willer come ideale presidente del consiglio. Vedete? Mi ci vuole un niente a tornare subito nella mia…

Tex sarebbe l’unico indicato a rivestire il ruolo di premier, ormai. Ho passato mentalmente in rassegna tutti i possibili personaggi più prestigiosi del mondo della politica in primis, della cultura, dell’imprenditoria, ma non mi è sembrato di trovare nessuno più autorevole di Tex.

Tex è abituato da sempre a fare il contropelo ai birbaccioni di ogni risma, per cui, una volta insediato, inizierebbe innanzitutto a fare la cosa che meglio gli riesce, ossia prendere in mano il timone della giustizia e dare una bella ripulita. Corrotti, tangentari, disonesti, mafiosi, ladri di ogni genere e specie, per ognuno avrebbe la ricetta giusta.

Quattro cartoni nei denti, quando ci vogliono, ai politicastri rubagalline che si fanno gli affaracci loro approfittando delle mani in pasta nella cosa pubblica; rapinatori disarmati sparandogli con precisione nella presa sull’arma (“…zing!!!...”, e peraltro senza minimamente scalfirgli la mano); consigli d’amministrazione truffaldini sbaragliati entrando direttamente a cavallo nel bel mezzo delle riunioni, sfasciando sedie e tavoli, e assicurando i manigoldi affaristici alle mani della giustizia: questi sarebbero per grandi linee i punti salienti della manovra di fine estate stilata dalla squadra di governo di Tex.

Il glorioso ranger del Texas avrebbe poi a disposizione un’equipe di ministri di primissimo livello. S’inizierebbe con Kit Carson all’economia, con delega alla previdenza sociale. Il buon vecchio “Capelli d’argento”, arcinoto taccagno che ha sempre lasciato pagare il conto a Tex, nei ristoranti, bettole e posadas di mezzo far west, saprebbe prendere in mano i conti dello Stato e farli quadrare alla perfezione. «…Una bistecca alta quattro dita, sommersa da una montagna di patatine e una pinta di birra ghiacciata…» è il suo immancabile refrain, rinnovato all’ingresso di ogni nuovo locale incontrato sulle polverose strade delle loro avventure, sempre pensando però fra sé e sé: «…tanto paga Tex…».

Carson ha anche, e da sempre, una certa età e conosce molto bene la condizione degli anziani, le loro esigenze, il loro modo di vedere la vita. Forse nessun’altra persona al mondo è stata anziana così a lungo quanto lo è stato Kit Carson. Era anziano negli anni ’50 e lo è ancora nel secondo decennio del ventunesimo secolo. Sono sessant’anni che se ne sta lì, sul limitare della pensione: saprà bene lui quali sono i problemi principali di quella fascia d’età! Con tutte le notti all’addiaccio che si è dovuto sorbire, inseguendo criminali di ogni genere e grado, con tutte le zucche vuote sulle quali hanno rimbombato i suoi possenti cazzotti, con tutte le facce da delinquente che ha dovuto sbugiardare nel corso della sua esemplare carriera, Carson ha messo giù una marea di contributi al fine di ottenere la pensione massima da giustiziere. Chi meglio di lui può essere indicato per predisporre una riforma pensionistica coi contro-fiocchi?

Per il capitolo del rinnovamento e dell’incentivo alle “forze giovani” della nazione, ogni ministero competente sarebbe affidato al figlio di Tex, Kit Willer. Lui, col suo entusiasmo, con la sua voglia di mollare un destro sul naso al fetentone di turno che infastidisce la bella del saloon, con il suo desiderio sempre vivo di vedere le cose andare bene, con la sua meticolosità nel seguire i piani per sgominare bande di malfattori, saprebbe far filare a meraviglia il dicastero dello sviluppo economico, nonché quello della scuola, trasmettendo fra l’altro ai giovani un buonissimo esempio.

Tex saprebbe inoltre mettere a disposizione anche un eccellente ministro dell’ambiente e della cultura. Mi riferisco al suo fidatissimo socio indiano Navajo, Tiger Jack. Tiger è cresciuto in un villaggio pellirosse, ma ha avuto modo di conoscere benissimo anche l’ambiente dei bianchi, assorbendo anche da questo abitudini, tradizioni e modi di essere. Nessuno meglio di lui sa cosa vuol dire la comprensione verso la diversità, che di fondo rappresenta il significato più profondo e genuino della parola “cultura”. Anche per quanto riguarda l’ambiente, con Tiger andremmo perfettamente a nozze: nella tradizione pellirosse, la simbiosi fra uomo e natura è non solo acquisita come dato di fatto certo, ma addirittura reputata sacra.

Altro elemento a favore di Tex, come ipotetico governante ideale: da sempre lui è incrollabilmente fedele alla memoria della sua amata Lilith, la giovane indiana che gli diede il figlio Kit, morendo purtroppo prematuramente. Anche dal punto di vista di eventuali scandali a sfondo sessuale, saremmo dunque più che immunizzati: l’integrità di Tex non li potrebbe non solo tollerare, ma nemmeno minimamente concepire.

Tra l’altro, nel sottobosco delle leggende sbocciate in parallelo alla figura dell’indomito ranger, da anni girano voci di intercorsi interludi fra Tex e Carson sulla falsariga delle misteriose vicende di Brokeback Mountain. La fondatezza di queste dicerie è tutta da verificare, Tex non si è mai pronunciato in proposito, ma anche se fosse, sarebbe soltanto un’ulteriore garanzia di apertura e tolleranza verso tutte le possibili sfumature dell’umano sentire.

Insomma, cari amici viandanti per pensieri, nel caso che alle prossime politiche Tex si candidasse, non so voi…ma io un pensierino, quasi quasi ce lo farei.



martedì 9 agosto 2011

Le vaccazioni Gillipixberg


«...Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un’erba che so,
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio
d’aria
e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo...»

Estate” -
da “Lavorare stanca” - Cesare Pavese 1940

*******

Quando mi ci metto d’impegno, fare lo stupido mi riesce anche abbastanza bene.

E non lo dico per vantarmi.

Addirittura mi distinguo in performance degne di nota anche quando sono da solo. Di solito, l’idiozia in solitaria mi scatta mettendomi a canticchiare svogliatamente, abitudine che coltivo fra l’altro piuttosto spesso. Io, un motivetto in bocca c’è l’ho praticamente sempre. Ho sempre fatto così, da che mi ricordo. O fischietto, o canto, o mugolo melodicamente, o improvviso un coretto a bocca chiusa, fatto sta che in un modo o nell’altro la musica è sempre presente fra le mie labbra.

Con questo non è che mi voglia presuntuosamente spacciare per un ottimista a tutto spiano. Non sono certo il tizio più adatto a gorgheggiare «…voglio vivere così col sole in fronte…». Io canticchio sia che il buon umore mi stia cogliendo, sia durante i momenti di mestizia, sia quando sono sull’incazzato andante, oppure ancora se sono sereno, e così via. Più che altro il “musicheggiare in proprio” è una sorta di mio habitat naturale, ci passo attraverso come un pesce sguazza nell’acqua.

E’ stato così che non molto tempo fa, guidando verso casa («…Take the long way home…») al volante della mia inutilitaria 313GT (Gattopoli), mi è scappato di fare lo stupido da solo in maniera esagerata. Naturalmente stavo canticchiando, quando mi sono ricordato di un discorso fatto alcuni giorni prima coi miei amici. Tema delle nostre chiacchiere era Lucio Battisti («…Ancora tu? Ma non dovevamo rivederci più?...»). O meglio, si parlava degli artisti italiani che hanno avuto o stanno avendo successo all’estero, vedi Ramazzotti («…Siamo ragazzi di oggi…vàca dü dé, vàca dü dà…») o la Pausini («…Marco se n'è andato e non ritorna più / Il treno delle 7:30 senza lui / È un cuore…di panna per noi…»), per fare due nomi a caso.

Ci si domandava come mai Battisti, così capace di impregnare i modi di sentire italico-moderni, non era invece riuscito a far filtrare altrettanto efficacemente la propria poetica musicale oltre confine. Coi miei amici abbiamo convenuto che il suo era un modello melodico troppo connaturato al nostro panorama culturale nazionale. Quella di Battisti è una complessità musicale che può essere apprezzata al meglio solamente se continua a nutrirsi dell’humus di sensibilità in cui è germogliata. E pensare che diversi tentativi di tradurre i testi battistiani in inglese, furono fatti, ma con risultati modesti.

Una canzone di Battisti è quasi impensabile, una volta zompata fuori dal recinto espressivo mogoliano, si diceva ancora fra di noi. Come faceva quella? «…Sì, viaggiare...». Come suonerebbe in inglese, ci chiedevamo ancora: «…Yes, to travel...», e lì giù a ridacchiare da gran cultori della vaccata collettiva. Il discorso era ormai deragliato irrimediabilmente su binari surreali, per cui della serietà del discorso di partenza non rimanevano che brandelli d’idiozia sparsi ovunque, ma tutta la cosa, come per l’appunto vi dicevo, mi è tornata in mente («…bella più che mai, forse ancor di più...») guidacchiando placido verso Gillipixiland («…Guido piano / e ho qualcosa dentro al cuore / che mistero...»).

Quasi senza pensarci, ma riproducendo fedelmente la melodia originaria, mi sono messo allora a canticchiare: «…Yes, to travel - dudindida – didundida - nana - nana» e non ho fatto in tempo a ripetermi più di due volte questo mantra dell’assoluta idiozia, che mi sono messo a ghignare fra me e me come un deficiente assoluto. La cosa notevole era che guidavo e ridevo, me la suonavo e me la cantavo tutta da me, suscitando chissà quali nobili impressioni agli occhi degli altri automobilisti che incrociavo.

Non capivo nemmeno bene perché quella cosa mi facesse così ridere. Forse era la forza del maccaronico anglismo contrabbandato attraverso quello sgangherato trasferimento testuale, a far scattare la molla della scemenza. Fatto sta che la sensazione più pregnante del momento consisteva in uno debordante orgoglio nel constatarmi così stupendamente stupido.

Va detto inoltre che l’idiozia solinga e canzoniera non abbisogna sempre di un retroterra discorsivo di siffatta elaborazione. Può capitare anche così, come un fulmine di imbecillità a mente serena. Non a caso, un altro dei miei capolavori storici in questo senso, ossia la “cagno-trasposizione” di alcuni versi della celeberrima canzone di Percy Sledge «When a man loves a woman», lo concepii un bel giorno proprio grazie ad un colpo d’ispirazione folgorante. La strofa incriminata è la seguente «…when a man loves a woman / I know exactly how he feels / 'Cause baby, baby, baby, you're my world...».

Uno dei miei principali problemi di canticchiatore è che, sarei anche abbastanza intonato, ma ho una memoria da schifo. Figuriamoci con i testi inglesi, che capisco al 33,333333 %, e anche per quel terzo, li capisco sbagliati. Però canticchiare senza parole ha poco senso. Così, nello spazio melodico a disposizione, spesso ci infogno dentro di tutto, pur che quadri bene o male come metrica e come tempo.

Ed ecco come andò quella volta con Percy Sledge.

Per iniziare, tutto facile, almeno il titolo me lo ricordavo. Ecco allora che mi avventuro nel primo verso: «…when a man loves a woman /…», ma già col secondo, arrivano le note dolenti. Decido dunque istintivamente di cavarmela con un truffaldino escamotage da due soldi, così proseguendo: «…when a man loves a woman / a woman loves a man…». Oh, il discorso non faceva una grinza: dove c’è un “man” che “loves a woman”, come minimo ci si aspetta dall’altra parte una “woman” che “loves” il medesimo “man”. Non è detto che vada sempre così, ma perlomeno ci se lo augura.

Fu tuttavia sul verso conclusivo, che mi abbandonai alla più pura idiotizzazione vernacolare, concludendo la mai interpretazione, letta nella sua totalità, nel seguente deplorevole modo: «…when a man loves a woman / a woman loves a man / baby, baby, baby, va a’ dà via ‘l cü-ül...»

Va bene, cari amici viandanti per pensieri, per oggi vi saluto. Perdonate se ultimamente scrivo poco e per lo più mi attengo a tematiche caratterizzate da un peso culturale d’importanza pari alla puzza d’ascella di una farfalla. E’ un periodo che mi va un po’ così: le idee sono poche e per lo più balorde. Speriamo in meglio per il futuro. Siamo pur sempre in periodo ferragostano. Se non si sparano due spropositi adesso, ditemi voi quando lo dovremmo fare.

L’ultima cosa che voglio è svegliarmi un bel giorno e ritrovarmi costretto a canticchiare: «…Penso che un sogno così non ritorni mai più / ti dipingevo le mani ed il culo di blu / …Vaccare, oh-ho / vaccare, oho-oho…».

domenica 31 luglio 2011

Sotto un cielo di stalle


Vi siete mai abbandonati al piacere della «deriva cazzatoria»? Ecco, magari se ci spieghi di cosa diavolo si tratta, c’è il caso che riusciamo anche a rispondere, direte voi.

Non è niente di complicato, credetemi. Tutto quel che serve è un gruppo di amici e una serata con del tempo da perdere. Con gli amici ci deve essere un’intesa piuttosto buona. La dimestichezza a chiacchierare con loro deve godere di un lungo periodo di sedimentazione costruito negli anni. La «deriva cazzatoria» riesce molto meglio se l’abitudine a discutere insieme di tutto e di nulla, senza una meta argomentativi precisa, sia stata esercitata in decine e decine di incontri privi di scopo pratico alcuno. L’effetto viene amplificato se parallelamente si è sedimentato un ampio e comune “vocabolario di stupidate” accumulate in quella lunga pratica del chiacchiericcio gratuito e surrealistico. Quando sussiste questa sintonia nel patrimonio “semantico idiotistico collettivo”, gli spunti per ridere e stare bene insieme si amplificano, perché si possono posare i piedi del ragionamento su un retroterra condiviso di significati faceti, frizzi e lazzi consolidati.

Altro fattore fondamentale: la «deriva cazzatoria» non è assolutamente programmabile. Non si sa mai il momento in cui può capitare, s’insinua fra le pieghe dei discorsi quando meno te l’aspetti, s’innesca impalpabile con passi leggeri, proprio mentre qualcuno se ne viene fuori con l’affermazione più improbabile ed inconsistente. Tanto che, nell’attimo in cui ti rendi conto di essere stato preso dentro i flutti turbinosi più cazzateschi e “non-sensuali”, è ormai già troppo tardi. L’unica cosa da fare a quel punto è godersi la corrente demenziale, prestare ad essa il fianco e rinfocolare il falò delle boiate con generosi ceppi di lignea scemenza.

Come l’altra sera.

Dovevo incontrarmi con due miei amici storici, in piazza a Gillipixiland. Dovete sapere che l’aere gillipixilandese, data la vicinanza di numerosi allevamenti, s’intride soventemente di afrori bovini, talvolta in misura blanda, tal’altra assumendo sfumature decisamente totalizzanti. Tanto che, fra le frasi di circostanza più in voga, «…Non ci sono più le mezze stagioni…» se la gioca ormai ad armi pari con «…Però, bella puzza di “me…da” stasera!…» (chiedo scusa, ma la “erre” se l’è mangiata la censura…).

E’ stato proprio con quella frase di rito, che me ne sono venuto fuori io dopo un po’, dando sfoggio della mia eccelsa sottigliezza di uomo che sa stare in società. Rincarando la dose poi subito appresso: «…Ci credo che è così potente…dev’essere quella stalla di circa 600 vacche…». Al che uno dei miei amici ha ribattuto: «…Eh sì, 600 Wacc sono tanti…».

Avevamo definito, senza quasi rendercene conto, la nuova unità di misura internazionale per la puzza di stalla. Da lì ad andare a valanga con le boiate, è stato un attimo. Chi “dementizzava”: «…Pensa se fossero mille Wacc…allora sì che ci sarebbe da stare barricati in casa, con un KiloWacc di potenza disperso per le strade…», e chi rinforzava d’idiozia molesta: «…Sì, è poi l’azienda dovrebbe dotarsi di un operaio super specializzato, il KiloWaccaro…».

La «deriva cazzatoria» era innescata e ormai nulla la poteva contenere. Una cosa che però mi sono dimenticato di aggiungere è che, forse, per difendersi dagli effetti molesti della puzza di stalla vagante per le strade al tuo fianco come un ingombrante compagno di viaggio, l’unica via di scampo sta nell’utilizzo di qualche prodotto repellente apposito.
La marca? Ma Johnson Wacc, ovviamente.

giovedì 2 settembre 2010

Do not consider me gone!


Cari amici viandanti per pensieri, non sono sparito...magari!!!...
E' solo che alcuni molesti lavoretti domestici forzati di gratta e ridipingi, mi hanno imbrigliato tutte le forze in questi giorni e mi sono rimaste zero energie concettuali.
Non sono avvezzo alla fatica fisica vera e propria, e quando mi è capitata fra i piedi, mi è sempre successo di provare delle specie di estasi da stanchezza. Quando sorpasso la barriera del suono della schiena piegata, il mio raziocinio emette il relativo "boom", e vedo l'inaudito, e sento l'inveduto.

Questa volta ho visto che mi sarebbe piaciuto essere eroe per una sera.
Invece di carta vetrata e pennello, un lazo ed un fiero appaloosa delle praterie sarebbero stati i miei strumenti di lavoro. Dopo una giornata di fatiche a domare mustang e marchiare vitelli al mio ranch, mi sarei concesso una serata in quel bar lungo la statale 69.

Sarei andato al bancone ad ordinare il mio whisky doppio (...che non ho mai capito di che minchia è il doppio) e subito avrei visto un gruppo di sbruffoncelli importunare una ragazza ad uno dei tavolini. Con un intervento a base di cazzotti e calci in culo, avrei fatto fare le scintille alle suole degli ingrati importunisti, una volta polverizzati i quali, sarei stato invitato dalla gentile signorina a sedere vicino a lei.

Avrebbe avuto due tette siderali (...e se no, cosa mi sarei scomodato a fare), e sarebbe stata la ragazza più dolce del vecchio west, capelli neri e occhi profondi come un orizzonte.
Dopo un piacevole tempo passato in armoniosa conversazione, mi avrebbe invitato a casa, se per caso mi fosse andato di assaggiare la sua torta di mele.
Io mi sarei alzato di scatto, e mentre l'avrei presa dolcemente per mano, per accompagnarla verso il mio furgoncino Dodge modello "Old Vaccar", dal juke box sarebbe partita questa canzone:



Minchia!!!...ma cosa c'era dentro in quella vernice con cui ho fatto l'aerosol tutto il giorno?

sabato 28 agosto 2010

Impressioni d'agosto

Ragazzi, ho il cervello sotto vuoto spinto in questi giorni, e pur andando frequentemente per pensieri, torno spesso con la cesta concettuale completamente vuota.
In questo tardo scorcio di agosto, son riuscito allora a raccattare solamente svariate sensazioni e un paio di foto. Purtroppo sono sensazioni che non riesco a raccontare, tanto sono ineffabili e intime.
Quindi siamo belli e che da capo: avrei fatto prima a non mettermi nemmeno alla tastiera, quest'oggi.

Ma ci voglio provare ugualmente, a dirvi di queste sensazioni. Anche se, per mia insufficienza espressiva, non ci capirete nulla.

Come già ho avuto modo di dire, agosto non l'ho mai sopportato un granchè, ma mi frega spesso verso sera.

Quando la calura della giornata è stata così insistente da divenire ormai dopo tante ore una sorta di parodia di se stessa, capita a volte che, quattro passi prima del tramonto, una sciabolata di luce interiore mi attraversi.
Mi sento come percorso da fiotti di ricordi condensati e ripescati nell'archivio della memoria, in chissà quale cassetto che non sospettavo più nemmeno di avere.
Non sono memorie di episodi specifici, ma sono lampi delle "essenze" di come mi sentivo in determinati periodi della mia vita, anche di un bel po' di tempo fa: l'essenza di me bambino; l'essenza di una certa estate lontana; l'essenza di come era condividere una certa compagnia; l'essenza della pubertà, e così via.

Avete presente la scena finale di "2001: odissea nello spazio"?
Quando l'astronauta lanciato nella sua folle corsa ai confini delle galassie, si ritrova a fare capriole spazio-temporali incredibili?
Beh, è una roba del genere, la mia impressione d'agosto, però meno drammatica, più familiare e casalinga. Per fare le debite proporzioni: immaginate un "2001: odissea nello spazio" con Renato Pozzetto nel ruolo dell'astronauta, e vi avvicinerete un po' di più al senso delle mie "impressioni d'agosto".

Ve lo dicevo che non sarei riuscito a spiegarmi...così faccio ammenda con un paio foto, che c'entrano fin là con quanto detto sopra, ma queste almeno sono chiare.

Non riuscendo dunque a cogliere pensieri degni di questo nome, mi son limitato ad acchiappare farfalle.
Sono piccole farfalle cerulee e strane, perchè in quanto tali si confondono con certi fiorellini celesti che sembrano prediligere. Il bello è che se metti il piede fra l'erba in cui si posano, credendo di fare due passi fra i fiori, ne vedi alzarsi in volo piccoli nugoli, senza capire lì per lì, per una frazione di secondo, se il decollo sia da addebitarsi a quei fiorellini improvvisamente impazziti.



Anche queste farfalline ci stanno bene allora fra le impressioni di agosto.
Perchè sono un po' ingannevoli anch'esse, sono come quei ricordi di vita creduti fiori ormai depositati innocui e innocenti nelle praterie della memoria, ma che inopinatamente sanno ancora levarsi in volo, disorientandoti, certe sere d'agosto.


(...ah...in questa seconda foto, potete apprezzare anche una piccola ape prodursi in un delicato e sfocato cameo, come un Alfred Hitchcok del mondo degli insetti...).

E adesso, beccatevi questo bel settantume:



mercoledì 11 agosto 2010

Walt Gilliarmpitman


«...Rovistando fra il perfido ghiaietto e l'erbaccia arcigna,
vi rinvenni solo soletto un piccolo cucciolo di pigna...».

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“Aprile è il più crudele dei mesi”, ci metteva in guardia T.S. Elliot.
Ed anche se poi non ce l'ha mai detto altrettanto chiaramente, son certo che anche lui s'era accorto che agosto è invece il più ingannevole. Se giugno e luglio sono un po' come “i mesi del villaggio”, per atmosfere ed aspettative goderecce di cui sono carichi, agosto è la domenica dei mesi.
Agosto ha un sapore post-orgasmico ed è un frutto troppo maturo. Ha ancora la buccia bella tesa e in questo modo salva le apparenze, ma sotto, la polpa è già un po' fradicia e foriera del rivivificante marcimonio tardo estivo, che aprirà le porte ai letarghi autunnali e alle loro germinazioni sotterranee.

Per la tribù Lakota (“Popolo degli Uomini” - Pellerossa nativi americani) Agosto era “la luna in cui le ciliege diventano nere”, e detto questo potrei anche smettere di scrivere qui, perché quando la bellezza del dire è perfetta, nessuno dovrebbe osare più turbarla con altre parole.

«...Divine am I inside and out, and I make holy whatever
I touch or am touch'd from.
The scent of these arm-pits aroma finer than prayer,
This head more than churches, bibles, and all the creeds..».

«...Sono divino all'interno e all'esterno, e santifico ogni
cosa che tocco o da cui sono toccato.
L'odore di queste ascelle è un aroma più soave delle preghiere,
E questa testa vale più delle chiese, e delle bibbie, più di tutte le fedi...».

Song of Myself – Leaves of grass
Walt Withman – 1855

Agosto è anche il mese che fa la muta degli odori.
Me ne sono ricordato stamattina, sempre con la mia zappa in mano, sul sentierino ghiaiato, constatando come “the scent of these arm-pits” non risultasse poi così tanto “aroma finer” di un bel niente.
Agosto ha un odore dolciastro e camuffato, ricorda quelle dame o quei cicisbei seicento-settecenteschi che si sommergevano di ciprie, unguenti e belletti aulenti, ricacciando le proprie puzze sotto la coltre di vesti e palandrane, come la polvere sotto al tappeto (ah...per la cronaca, io, finito di zappettare, mi sono lavato, eh...).

Ma prima di lavarmi, fra la siepe e il sentierino, ho fatto in tempo a veder sbucare una pigna bambina.
Chissà, pure lei un tempo avrà sperato, ancora aggrappata a “mamma Pina”, di diventare un giorno capostipite di una progenie di maestosi pini, ma ha poi incontrato l'agosto della sua vita, e si è dovuta limitare a lasciar sfiorire la sua bellezza, giungendo a smuovere solo l'immaginazione d'uno sfaccendato zappatore per sentieri.

Così ho pensato di donare alla pignetta un piccolo risarcimento estetico: l'ho posata in mezzo al fulgore cromatico floreale, tanto che nella composizione risultante si faticava a capire chi riceveva grazia e chi la donava.

E fra un fotogramma e l'altro, un pensiero mi ha folgorato, palese palese: «...Ah Gillipì ma che sta' a fa'? Ah Gillipì ma che sta' a dì?...'Na pigna è 'na pigna...e agosto è solo un mese!...».



martedì 13 luglio 2010

Breakfast in Gillipixisoul


Canticchiavo pocanzi una familiare melodia del "Vagabondo Supremo", quando mi son ritrovato a pensare quel che segue: «...la vita è tutta una gran colazione...».
Portate pazienza, cari amici viandanti per pensieri, il caldo batte duro anche da queste parti, diritto e ben mirato fra atlante ed epistrofeo, e in queste condizioni non ci si può aspettare che poi uno sforni sempre metafore lucide e fresche come le rose.

La vita è una colazione, sì.
E della colazione ha gli aspetti belli e quelli tristi.
Quante tavole ben imbandite di promesse freschissime ci si parano innanzi durante tutte le fasi della vita. Quanti commensali interessanti, lungo il cammino, siedono di volta in volta al nostro fianco, forieri di approfondimento umano, di fusione amicale, di immedesimazione amorosa, di identificazione affettiva.
Ma poi non c'è mai tempo sufficiente. Hai addentato poco più di un paio di bocconi di brioche, che è già il momento di avviarsi: il lavoro chiama, l'asilo assilla, la scuola, il treno parte, la gita, l'ufficio delle imposte dirette esistenziali che reclama la nostra presenza, sempre altrove, sempre di là.

Vorresti rimanere lì seduto senza limiti all'orizzonte, col caro amico, con la dolce presenza femminea, davanti a spremute di ragionamenti freschi, bricchi di caffelatte dialogato, panini imburrati di scherzose schermaglie e marmellate di ascolto vicendevole, di bonario desiderio di comprendersi, intingendosi nel tè dei pensieri regalati l'un l'altro.

Però l'attimo di raccogliere le briciole e rassettare la tovaglia arriva sempre troppo alla svelta. Ci si saluta, ci si dà appuntamento alla prossima colazione, pur sapendo che anch'essa non sarà mai sufficiente, ed andrà a mettersi in fila, dietro a tutte le colazioni passate e a precedere quelle future: tutte le colazioni che ci illudiamo di poter gustare con calma con i commensali ai quali vogliamo bene, tutti assisi a questa grande tavola imbandita di fretta che chiamiamo vita.



lunedì 14 luglio 2008

Zum, zum, zum, zum, zum…o dello strozzino cortese

Sarà capitato anche a voi…di avere una musica in testa…ah, no…di parcheggiare da qualche parte la macchina e di ritrovarla al ritorno addobbata con quei fogliettini che propongono mutui, prestiti et similia. E sarò prevenuto io, ma non so, questi tagliandini mi fanno sempre venire in mente vaghe immagini di strozzinaggio, cravattari e prestiti ad interessi sanguisugati. Ma non è di questo che volevo parlare. Mi piaceva invece fare due considerazioni su un fatto curioso che ho notato proprio riguardo a due diversi modi di appiccicare all’automobile il malefico talloncino rompitasche.

Capita che, ritrovandolo sotto il tergicristallo, spesso me ne accorga quando mi sono già seduto al volante e magari ho pure agganciato la cintura, e a quel punto la mia inveterata pigrizia mi frena dal ridiscendere per liberarmene. In quei casi, confido nell’aiuto della velocità e nella forza spazzolatoria per disperdere nel vento l’indebita intrusione finanziaria. Ma sbaglio regolarmente i miei calcoli, perché piuttosto che schiodarsi dalla postazione conquistata, la malefica presenza cartacea si ostina ad oscillare al ritmo dello spazzolino, con esiti talvolta anche pericolosi, tipo quando piove davvero, e sul parabrezza si forma allora una sorta di arco malpulito ad ostruire la visuale, con seguito di cancheri tirati, che piovono più fitti del nubifragio in corso.

Altre volte invece, il foglietto è diligentemente ripiegato e discretamente riposto nella fessura che rimane tra la portiera e il montante della cappotta. In questo modo, ti viene concessa una possibilità di scelta molto più rispettosa e scevra da invadenze. Se proprio sei interessato, puoi prenderti subito il biglietto e vedere di cosa si tratta. Se invece non te ne frega punto, puoi liberarti seduta stante della proposta di prestito: basta che apri la portiera ed essa svanisce dignitosamente sull’asfalto (la mia coscienza ecologista mi impedirebbe normalmente il gesto, ma in questi casi mi sento sollevato dalla responsabilità inquinatoria, che senza esitazione addebito tutta alla primigenia fonte strozzinante).

Cosa concludere dunque…non so se la scelta di posizionare i foglietti sia dovuta al caso, o se dipenda dalla discrezione di chi li distribuisce, che molto probabilmente non c’entra nulla con i “mandanti”. Se dovessi tuttavia dare un consiglio, direi: per carità, stategli pur sempre ben lontani, ma nel vostro immaginario, preferite lo strozzino cortese.