mercoledì 15 luglio 2015
Tetta pura senza paura
venerdì 10 luglio 2015
Tutto il mare in bocca
giovedì 29 agosto 2013
La natura, nonostante tutto…
Il confronto con l’irrinunciabilità di fondo dell’elemento naturale, con l’imprescindibile ricorrenza del dato di realtà ambientale, mi procura talvolta una sottile consolazione sotterranea.
Meditare attimi di libertà, mentre un refolo di vento freddo mi scuote irrispettosamente la pelle; intuire che la pioggia, nonostante tutte le raffinate sottigliezze dei meteorologi, alla fine farà come diavolo le pare; sentire la cappa buia della sera che cala inesorabile, nonostante tutte le luminarie del mondo. Addirittura pensare alle galassie, all’indomabilità delle stelle e di tutto l’inimmaginabile e sconfinato spazio siderale…
Tutte queste cose mi fanno stare bene.
Non deve fare meraviglia poi che i medesimi identici pensieri, in altri frangenti, mentre altri stati d’animo attraversano il fluire dei tempi, siano fonte di angoscia pura e di smarrimenti fra i più disparati. Allora lo stesso vento, la medesima pioggia, li detesti di cuore, mentre ti avvoltolano il lembo dell’ombrello infradiciandoti i piedi con secchiate d’acqua miste a maledizioni. Oppure, ti percuote sin nel profondo il senso di impotenza, quando constati che una miriade di aspetti della realtà sono fuori della misera portata di mano di noi poveri umani.
Ma quando la sensazione giusta si sintonizza sulla frequenza d’animo appropriata, pensare che nonostante tutto, l’uomo non può farci proprio niente, che quello sfondo reale andrà avanti da solo, lo si voglia o no, tutto ciò procura una bizzarra soddisfazione. Forse sarà giusto la soddisfazione del fesso che taglia il ramo su cui sta bellamente seduto. Sono infatti pensieri che non si addicono ad ogni occasione, vanno riservati a rari bagliori di lucida idiozia e immagazzinati con cura nel “reparto reperti inutili” del nostro animo.
Non mi sembra tuttavia che sia tanto meno da fessi, pensare se stessi come i veri padroni della Terra, solo per il fatto che la si inquina in lungo e in largo, piegando le sue logiche in maniera distorta e pretendendo poi di averla dominata. La pretesa illusoria che tutto, ma proprio ogni aspetto del reale, sia ormai sotto il controllo della volontà umana, è forse molto più asfissiante ed “imbecillizzante” del fatto di assaporare il gusto della leggera e consolante disperazione dettata dall’impossibilità di avere in qualche modo voce in capitolo.
Molto meglio dunque riscaldarsi all’idea che la pioggia, il vento e il sole, capitano, scaldano, soffiano o muggiscono, quando minchia pare a loro.
venerdì 23 agosto 2013
Augusting cosy and warm
Rovistando in un armadio alla ricerca di una cosa che regolarmente non ho trovato, mi sono imbattuto invece in alcuni vecchi disegni realizzati al tempo delle scuole medie. Di solito cerco di rifuggire queste “operazioni nostalgia”, del tipo passare in rassegna vecchie foto in bianco e nero, oppure rimirare oggetti e giochi dell’infanzia. Mi portano troppo lontano, a volte non reggo l’impatto ricordante, che mi sdrucisce l’anima, così se proprio proprio decido di mettere in moto un revival del genere, devo sentirmi dell’umore adatto.
Il disegnetto in questione però mi è quasi capitato fra i piedi, causandomi peraltro un moto di tenerezza discreto, e parecchi sorrisi. Non sono mai stato tanto portato per il disegno, ma mi è sempre piaciuto un sacco provarci. Qualcosa combinavo, ma da lì a poter dire che avessi un qualche talento vero con matita e pennarelli in mano, ce ne passava parecchio. Al di là dei miei limiti grafico-compositivi tuttavia, la molla principale che mi ha sempre spinto ad avventurarmi nel fatato mondo della creazione manuale d’immagini, credo sia stato sempre quel senso di “investimento fantasioso” concesso da questa operazione. Le figure che riuscivo a tirare fuori erano per me dei potenti mezzi di “fantasticheria applicata”. In quei quattro scarabocchi potevo vederci dentro tutti i miei mondi preferiti, lì si realizzavano le cose più “armonicamente compiute” che riuscissi ad immaginare.
Non sto parlando di fantasticherie irrealistiche, tipo omini verdi con le antenne sulla capoccetta ad uovo, oppure chimere dal pelo fucsia duellanti con draghi convenzionati alla mutua di Roncisvalle. No, le mie fantasie si addentravano più che altro in ambiti “iperrealistici”. Nel senso: il disegno per me era uno strumento per vedere un’altra realtà ulteriore, una realtà più reale di quella che avevo sotto gli occhi ogni giorno, possibilmente meno imperfetta. Che poi le mie immagini risultassero ampiamente imperfette e sgangherate, questo è un altro discorso. Il punto era la quota di immaginazione che potevo concedermi mentalmente di infondere in quei pochi tratteggi malsicuri: quella era illimitata, senza confini.
giovedì 8 agosto 2013
La strisciante combutta della lobby segreta delle sotterranee congreghe delle leggende metropolitane
«…S’lé véra, l’è ‘na gran bàla!…».
(N.d.t.: «…Se è vero, è una gran balla!…»).
Antica e paradossale constatazione gillipixilandese
lunedì 8 luglio 2013
Per me la Champions League…
Per me la Champions League
si chiamerà sempre Coppa dei Campioni.
I giocatori titolari avranno sempre
sulla maglia
solo numeri da 1 a 11.
1 sarà sempre il portiere
2, sempre il terzino destro
3, sempre il terzino sinistro
4, sempre il mediano
5, sempre lo stopper
6, sempre il libero
7, sempre l’ala destra
8, sempre la mezz’ala sinistra
9, sempre il centroavanti
10, sempre la mezz’ala destra
11, sempre l’ala sinistra.
Dal 12 in su, saranno sempre panchinari.
Il 12 sarà sempre il portiere di riserva.
Metti che uno volesse giocare col 99 sulla maglia:
avrebbe sempre 87 possibilità in meno di entrare
in campo, rispetto al numero 12.
Se una squadra vorrà schierare più di 2 giocatori stranieri,
si dovrà sempre iscrivere al campionato estero della
stessa nazione degli stranieri più numerosi presenti nella formazione.
I difensori potranno sempre passare indietro
la palla al portiere, che potrà raccoglierla con le mani.
Le partite di campionato si giocheranno sempre,
tutte, alla domenica pomeriggio, in contemporanea,
con orario d’inizio che potrà variare fra le 14 e 30,
d’inverno, e le 16, in primavera.
Se qualcuno proporrà di giocare alle 12 e 30,
i giocatori avranno sempre il diritto di andargli
a tirare dei calci di punizione sul culo,
e poi tornare negli spogliatoi
ad aspettare che vengano le 14 e 30.
Le partite di coppa si giocheranno sempre
il mercoledì sera, con orario d’inizio fra le 20 e 30
e le 21, fatte salve piccole differenze di fuso.
Il campionato inizierà sempre
fra fine settembre e inizio ottobre
e finirà al massimo ai primi di giugno,
ma di regola più verso fine maggio.
La tv parlerà sempre di calcio
solo fra sabato sera e domenica sera.
Ne parlerà anche al mercoledì, con le coppe,
ma il resto della settimana ne parleranno solo gli amici al bar.
La passione per il calcio sarà sempre
una grande passione e verrà intesa
come tale: una passione, appunto.
Chi parlerà di “fede calcistica”
avrà sempre diritto al
trattamento sanitario obbligatorio
periodico, passato gratuitamente dalla mutua.
Nelle scuole, ai bambini, fin dalla prima elementare,
verrà sempre ricordato che una volta un calciatore,
durante un’intervista, ad una domanda
sul titolo di studio conseguito, rispose:
«…Mi mancano 5 anni al diploma di ragioneria…».
martedì 12 giugno 2012
Dino, un nocino!
Per esprimere al meglio le proprie potenzialità, la chiacchiera da bar, al pari del plurinominato (e qui non nominabile…) accessorio anatomico virile protagonista di un celebre proverbio partenopeo, necessita di una imprescindibile condizione al contorno: non vuole pensieri. Si nutre di sottovuoto mentale spinto, prolifera nell’ambiente anaerobico tipico dei crani scarsamente irrorati d’ossigeno. La chiacchiera da bar ingolla aperitivi, salatini ed ipersemplificazione dei problemi, tutto in un sorso e una boccata soli.
E’ come una droga, la chiacchiera da bar: provoca dipendenza, assuefazione, degradazione intellettiva e intellettuale. Chi la padroneggia consapevolmente come strumento di sofisticazione esistenziale, spaccia la chiacchiera da bar agli ignari assuntori, che se la sparano in vena, la fumano, la sniffano, non importa se pura o tagliata con argomenti di ragionevolezza apparente. Lo spacciatore in grande stile di chiacchiere da bar, a differenza di quello di droga, non dissimula le proprie responsabilità con l’agire clandestino, ma si fa forte di smentite del giorno dopo ed appelli a presunti fraintendimenti riguardanti le stesse proprie parole.
Sempre a differenza della droga (intorno alla quale il dibattito sull’opportunità di una liberalizzazione controllata rimane ancora aperto alle più varie tesi ed interpretazioni), nel caso della chiacchiera da bar, sembra di poter dire che un eventuale atteggiamento antiproibizionistico gioverebbe quasi certamente a mitigarne le derive di maggior flagello sociale. L’overdose di chiacchiera da bar presenta infatti segno del tutto opposto rispetto all’eccessiva assunzione fatale di droghe: una volta superata la soglia tollerabile di chiacchiera da bar, l’organismo richiede naturalmente una purificazione raggiungibile solamente col narcan dei pensieri elevati, il metadone di ragionamenti profondi, con le comunità di recupero della lettura e dell’approfondimento veri.
Legalizzando la chiacchiera da bar, elevandola al rango di materia di studio e al contempo di libero sfogo controllato concesso alle persone comuni, favorendone la diffusione in maniera e in misura capillare, si potrebbe forse cagionare l’auspicata overdose epocale in grado di far deflagrare il bubbone liberatorio.
I bar come nuove sedi universitarie di sociologia applicata, cenacoli del luogo comune più frusto e ritrito nella propria pretenziosità: «...pena di morte…se ne stiano tutti a casa loro…la galera, ci vorrebbe…se fossi ministro io…chi non lavora non fa l’amore…», sino a che l’implosione ignorantizia letale non si manifesterebbe in tutto il suo deflagrante fulgore, ed i primi superstiti dalla grande ubriacatura di banalità inizierebbero ad invocare con flebile e provata voce: «...presto, soffoco: a me il primo volume di “Guerra e pace”!…», o ancora: «...aiuto, mi sento mancare, ho avuto un’allucinazione tremenda: Balotelli ministro della cultura!!!...Leggetemi subito qualche passo da “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith!…».
A pensarci bene però, non so nemmeno come mai mi sia venuto di scrivere queste cose, oggi…bah…vado a fare un giretto al bar, via…
martedì 16 agosto 2011
Buon scampato Ferragosto
Non a caso, gira ormai voce che non si tratti di una singola persona scrivente, bensì, come già in certe leggende sorte attorno alle figure di Omero o di Shakespeare, di un’equipe di scribacchini, in questa circostanza decisamente male assortiti. Lo stupore, nella fattispecie, non va a posarsi infatti sulla presunta maestria letteraria del soggetto, ma scaturisce piuttosto dall’inverosimiglianza della mole di str…ate (per chi vuole, la “onz” si può trovare come sorpresa nelle patatine…), che il medesimo è in grado di sfornare. Tanta demenza “nullificante” condensata in una sola persona ed ostentata con tale fierezza, non si era mai vista.
Gillipixel sarà dunque uomo oppure donna? Sarà più uomini o più donne, oppure ancora un gruppo promiscuo di uomini, donne e gatti?
Sono domande che mi ripeto spesso pure io, cari amici viandanti per pensieri. Soprattutto in questi giorni di metà estate. Sì, perché, aprile sarà pure il più crudele dei mesi, caro T.S. Eliott, e chi ti dà torto. Ma lasciamelo dire, anche agosto in fatto di bastardaggine si difende mica male.
Ferragosto s’impone al mio palato sempre con un retrogusto di mestizia, così come succede col Capodanno. Nel tempo, ci ho fatto un po’ il callo e mando giù con meno fatica, ma un senso di spiacevolezza permane in ogni modo.
La fregatura però è che viene anche da pensare: per fortuna che ad un certo punto dell’anno, arriva Ferragosto. Sono “feste cipolla”: ad ogni loro passaggio, ti levi uno strato, molli giù qualche fogliolina usurata. Non è mai propriamente indolore, però ti carichi delle speranze di cui è cosparso il nuovo lucido mantello che quasi senza renderti conto, ti sei ritrovato cucito addosso.
Questo tipo di feste superiori, di passaggio, sono come un amore mai colto, oppure come un amore colto così tanto e in misura talmente sconvolgente, da averci lasciato sempre dentro il rammarico di non averlo vissuto nella sua interezza, proprio perché essa era eccessivamente smisurata per le limitate capacità passionali e sensuali di cui si disponeva. Ferragosto (e anche Capodanno) condensa nel culmine dalla contraddizione esistenziale, suscita sbalordimento agrodolce, deposita nel cuore e nei polmoni il medesimo meravigliato timore notturno scaturito da un onirico incidente adolescenziale.
Anche per questa serie di motivi (oltre che per una ben più prosaica penuria di tempo, in cui sono incappato ieri…), quest’anno invece di buon Ferragosto, vi auguro un “buon scampato Ferragosto”, cari amici viandanti per pensieri. Anche per quest’anno l’abbiamo sdoganato. Al prossimo, ci penseremo. Grazie di cuore ancora a tutti, a chi mi legge, a chi commenta, a chi non commenta, a chiunque passi di qui lasciando giù un sorriso.
Questo Ferragosto, fra l’altro, lascia in coda una piccola sorpresa. "Per un pelo", uno dei componenti della scribacchiante banda Gillipixel non veniva colto nel bel mezzo di un fotogramma. Ma non fidatevi mai, si tratta pur sempre di una bestiaccia subdola e sospettosa. Appena sentito l’eco del clic, con gesto fulmineo ha dribblato lo scatto, lasciando catturata dentro la fugace inquadratura soltanto una propaggine di sé.
Ed alla fine, come potete ben constatare dalla risicata immagine, non si trattava tanto di questione di “un pelo”. I peli in ballo erano ben più folti.
Il mistero s’infittisce…
domenica 14 agosto 2011
E’ iscritto a parlare l’onorevole Willer: ne ha la facoltà
“A room of one’ own”
Virginia Woolf - 1929
«…Dalle mie labbra sgorgheranno bugie, ma è possibile che frammista a esse vi sia una porzione di verità: sta a voi cercare questa verità e decidere se ce n’è una parte che merita di essere conservata. In caso contrario, naturalmente, getterete il tutto nel cestino e ve ne dimenticherete...»
“Una stanza tutta per sè”
Virginia Woolf - 1929
E’ veramente molto difficile di questi tempi riuscire a strappare un sorriso a se stessi e agli altri.
Motivi di preoccupazione se ne possono trovare a bizzeffe tutt’intorno a noi, non c’è nemmeno bisogno di sforzarsi tanto nella ricerca. Anzi, molto spesso la posta in gioco risulta ancor meno misera di un sorriso. Un barlume di serenità, uno sprazzo flebile di speranza, uno sprizzo minimale di fiducia, questo è il massimo che ci aspettiamo di portare a casa, visto il clima dalla sagoma vagamente “depressoidale” in cui ci ritroviamo calati.
Torno un attimo su una precisazione che mi preme tenere sempre viva, fra i dispositivi narrativi indispensabili alla prosecuzione della mia avventura bloghesca.
Ogni tanto ci tengo ad inframmezzare l’atmosfera ostinatamente surrealistica che regna in questo mio blog, con piccoli segnali di preservata sanità mentale. Se preferisco ancora parlare di argomenti minimali ed iper-secondari, se continuo ad ancorarmi allo scoglio dell’inutilità, della leggerezza e dell’ironia diffusa, non è per via del fatto che sono ormai definitivamente partito di zucca. Se così mi piace fare, non lo faccio nello spirito del crocerista che continua imperterrito ad abbracciare la sua dama, producendosi in eleganti passi di tango e volteggi di valzer, mentre con un vacuo sorriso occhieggia alla grande scritta dominante l’ampio salone delle feste del mastodontico naviglio sul quale è imbarcato: TITANIC!
Fermi restando il rispetto sommo e la preoccupata considerazione per le grandi problematiche esistenziali, mi piace fare così per provare a vedere se, anche concentrandosi sui dettagli minimali, e a volte anche buffi, del vivere, ci sia modo di scovare fuori qualche piccola pagliuzza di instabile e provvisoria verità. Non si tratta tanto di un rimirarsi l’ombelico, attrezzandosi per bene di confortevoli paraocchi “prosciuttati”. Piuttosto è un tentativo di verificare se anche l’ombelico possa dimostrarsi una rampa di decollo degna per prendere il volo verso modi di affrontare la vita ricchi di grazia, bellezza e consapevolezza dell’intero suo peso effettivo.
Non a caso, è stato dopo aver rassicurato me stesso riguardo a questi capisaldi, che mi è venuto da pensare a Tex Willer come ideale presidente del consiglio. Vedete? Mi ci vuole un niente a tornare subito nella mia…
Tex sarebbe l’unico indicato a rivestire il ruolo di premier, ormai. Ho passato mentalmente in rassegna tutti i possibili personaggi più prestigiosi del mondo della politica in primis, della cultura, dell’imprenditoria, ma non mi è sembrato di trovare nessuno più autorevole di Tex.
Tex è abituato da sempre a fare il contropelo ai birbaccioni di ogni risma, per cui, una volta insediato, inizierebbe innanzitutto a fare la cosa che meglio gli riesce, ossia prendere in mano il timone della giustizia e dare una bella ripulita. Corrotti, tangentari, disonesti, mafiosi, ladri di ogni genere e specie, per ognuno avrebbe la ricetta giusta.
Quattro cartoni nei denti, quando ci vogliono, ai politicastri rubagalline che si fanno gli affaracci loro approfittando delle mani in pasta nella cosa pubblica; rapinatori disarmati sparandogli con precisione nella presa sull’arma (“…zing!!!...”, e peraltro senza minimamente scalfirgli la mano); consigli d’amministrazione truffaldini sbaragliati entrando direttamente a cavallo nel bel mezzo delle riunioni, sfasciando sedie e tavoli, e assicurando i manigoldi affaristici alle mani della giustizia: questi sarebbero per grandi linee i punti salienti della manovra di fine estate stilata dalla squadra di governo di Tex.
Il glorioso ranger del Texas avrebbe poi a disposizione un’equipe di ministri di primissimo livello. S’inizierebbe con Kit Carson all’economia, con delega alla previdenza sociale. Il buon vecchio “Capelli d’argento”, arcinoto taccagno che ha sempre lasciato pagare il conto a Tex, nei ristoranti, bettole e posadas di mezzo far west, saprebbe prendere in mano i conti dello Stato e farli quadrare alla perfezione. «…Una bistecca alta quattro dita, sommersa da una montagna di patatine e una pinta di birra ghiacciata…» è il suo immancabile refrain, rinnovato all’ingresso di ogni nuovo locale incontrato sulle polverose strade delle loro avventure, sempre pensando però fra sé e sé: «…tanto paga Tex…».
Carson ha anche, e da sempre, una certa età e conosce molto bene la condizione degli anziani, le loro esigenze, il loro modo di vedere la vita. Forse nessun’altra persona al mondo è stata anziana così a lungo quanto lo è stato Kit Carson. Era anziano negli anni ’50 e lo è ancora nel secondo decennio del ventunesimo secolo. Sono sessant’anni che se ne sta lì, sul limitare della pensione: saprà bene lui quali sono i problemi principali di quella fascia d’età! Con tutte le notti all’addiaccio che si è dovuto sorbire, inseguendo criminali di ogni genere e grado, con tutte le zucche vuote sulle quali hanno rimbombato i suoi possenti cazzotti, con tutte le facce da delinquente che ha dovuto sbugiardare nel corso della sua esemplare carriera, Carson ha messo giù una marea di contributi al fine di ottenere la pensione massima da giustiziere. Chi meglio di lui può essere indicato per predisporre una riforma pensionistica coi contro-fiocchi?
Per il capitolo del rinnovamento e dell’incentivo alle “forze giovani” della nazione, ogni ministero competente sarebbe affidato al figlio di Tex, Kit Willer. Lui, col suo entusiasmo, con la sua voglia di mollare un destro sul naso al fetentone di turno che infastidisce la bella del saloon, con il suo desiderio sempre vivo di vedere le cose andare bene, con la sua meticolosità nel seguire i piani per sgominare bande di malfattori, saprebbe far filare a meraviglia il dicastero dello sviluppo economico, nonché quello della scuola, trasmettendo fra l’altro ai giovani un buonissimo esempio.
Tex saprebbe inoltre mettere a disposizione anche un eccellente ministro dell’ambiente e della cultura. Mi riferisco al suo fidatissimo socio indiano Navajo, Tiger Jack. Tiger è cresciuto in un villaggio pellirosse, ma ha avuto modo di conoscere benissimo anche l’ambiente dei bianchi, assorbendo anche da questo abitudini, tradizioni e modi di essere. Nessuno meglio di lui sa cosa vuol dire la comprensione verso la diversità, che di fondo rappresenta il significato più profondo e genuino della parola “cultura”. Anche per quanto riguarda l’ambiente, con Tiger andremmo perfettamente a nozze: nella tradizione pellirosse, la simbiosi fra uomo e natura è non solo acquisita come dato di fatto certo, ma addirittura reputata sacra.
Altro elemento a favore di Tex, come ipotetico governante ideale: da sempre lui è incrollabilmente fedele alla memoria della sua amata Lilith, la giovane indiana che gli diede il figlio Kit, morendo purtroppo prematuramente. Anche dal punto di vista di eventuali scandali a sfondo sessuale, saremmo dunque più che immunizzati: l’integrità di Tex non li potrebbe non solo tollerare, ma nemmeno minimamente concepire.
Tra l’altro, nel sottobosco delle leggende sbocciate in parallelo alla figura dell’indomito ranger, da anni girano voci di intercorsi interludi fra Tex e Carson sulla falsariga delle misteriose vicende di Brokeback Mountain. La fondatezza di queste dicerie è tutta da verificare, Tex non si è mai pronunciato in proposito, ma anche se fosse, sarebbe soltanto un’ulteriore garanzia di apertura e tolleranza verso tutte le possibili sfumature dell’umano sentire.
Insomma, cari amici viandanti per pensieri, nel caso che alle prossime politiche Tex si candidasse, non so voi…ma io un pensierino, quasi quasi ce lo farei.
martedì 9 agosto 2011
Le vaccazioni Gillipixberg
molti frutti, dolci, su un’erba che so,
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio
d’aria
e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo...»
“Estate” -
da “Lavorare stanca” - Cesare Pavese 1940
Quando mi ci metto d’impegno, fare lo stupido mi riesce anche abbastanza bene.
E non lo dico per vantarmi.
Addirittura mi distinguo in performance degne di nota anche quando sono da solo. Di solito, l’idiozia in solitaria mi scatta mettendomi a canticchiare svogliatamente, abitudine che coltivo fra l’altro piuttosto spesso. Io, un motivetto in bocca c’è l’ho praticamente sempre. Ho sempre fatto così, da che mi ricordo. O fischietto, o canto, o mugolo melodicamente, o improvviso un coretto a bocca chiusa, fatto sta che in un modo o nell’altro la musica è sempre presente fra le mie labbra.
Con questo non è che mi voglia presuntuosamente spacciare per un ottimista a tutto spiano. Non sono certo il tizio più adatto a gorgheggiare «…voglio vivere così col sole in fronte…». Io canticchio sia che il buon umore mi stia cogliendo, sia durante i momenti di mestizia, sia quando sono sull’incazzato andante, oppure ancora se sono sereno, e così via. Più che altro il “musicheggiare in proprio” è una sorta di mio habitat naturale, ci passo attraverso come un pesce sguazza nell’acqua.
E’ stato così che non molto tempo fa, guidando verso casa («…Take the long way home…») al volante della mia inutilitaria 313GT (Gattopoli), mi è scappato di fare lo stupido da solo in maniera esagerata. Naturalmente stavo canticchiando, quando mi sono ricordato di un discorso fatto alcuni giorni prima coi miei amici. Tema delle nostre chiacchiere era Lucio Battisti («…Ancora tu? Ma non dovevamo rivederci più?...»). O meglio, si parlava degli artisti italiani che hanno avuto o stanno avendo successo all’estero, vedi Ramazzotti («…Siamo ragazzi di oggi…vàca dü dé, vàca dü dà…») o la Pausini («…Marco se n'è andato e non ritorna più / Il treno delle 7:30 senza lui / È un cuore…di panna per noi…»), per fare due nomi a caso.
Ci si domandava come mai Battisti, così capace di impregnare i modi di sentire italico-moderni, non era invece riuscito a far filtrare altrettanto efficacemente la propria poetica musicale oltre confine. Coi miei amici abbiamo convenuto che il suo era un modello melodico troppo connaturato al nostro panorama culturale nazionale. Quella di Battisti è una complessità musicale che può essere apprezzata al meglio solamente se continua a nutrirsi dell’humus di sensibilità in cui è germogliata. E pensare che diversi tentativi di tradurre i testi battistiani in inglese, furono fatti, ma con risultati modesti.
Una canzone di Battisti è quasi impensabile, una volta zompata fuori dal recinto espressivo mogoliano, si diceva ancora fra di noi. Come faceva quella? «…Sì, viaggiare...». Come suonerebbe in inglese, ci chiedevamo ancora: «…Yes, to travel...», e lì giù a ridacchiare da gran cultori della vaccata collettiva. Il discorso era ormai deragliato irrimediabilmente su binari surreali, per cui della serietà del discorso di partenza non rimanevano che brandelli d’idiozia sparsi ovunque, ma tutta la cosa, come per l’appunto vi dicevo, mi è tornata in mente («…bella più che mai, forse ancor di più...») guidacchiando placido verso Gillipixiland («…Guido piano / e ho qualcosa dentro al cuore / che mistero...»).
Quasi senza pensarci, ma riproducendo fedelmente la melodia originaria, mi sono messo allora a canticchiare: «…Yes, to travel - dudindida – didundida - nana - nana» e non ho fatto in tempo a ripetermi più di due volte questo mantra dell’assoluta idiozia, che mi sono messo a ghignare fra me e me come un deficiente assoluto. La cosa notevole era che guidavo e ridevo, me la suonavo e me la cantavo tutta da me, suscitando chissà quali nobili impressioni agli occhi degli altri automobilisti che incrociavo.
Non capivo nemmeno bene perché quella cosa mi facesse così ridere. Forse era la forza del maccaronico anglismo contrabbandato attraverso quello sgangherato trasferimento testuale, a far scattare la molla della scemenza. Fatto sta che la sensazione più pregnante del momento consisteva in uno debordante orgoglio nel constatarmi così stupendamente stupido.
Va detto inoltre che l’idiozia solinga e canzoniera non abbisogna sempre di un retroterra discorsivo di siffatta elaborazione. Può capitare anche così, come un fulmine di imbecillità a mente serena. Non a caso, un altro dei miei capolavori storici in questo senso, ossia la “cagno-trasposizione” di alcuni versi della celeberrima canzone di Percy Sledge «When a man loves a woman», lo concepii un bel giorno proprio grazie ad un colpo d’ispirazione folgorante. La strofa incriminata è la seguente «…when a man loves a woman / I know exactly how he feels / 'Cause baby, baby, baby, you're my world...».
Uno dei miei principali problemi di canticchiatore è che, sarei anche abbastanza intonato, ma ho una memoria da schifo. Figuriamoci con i testi inglesi, che capisco al 33,333333 %, e anche per quel terzo, li capisco sbagliati. Però canticchiare senza parole ha poco senso. Così, nello spazio melodico a disposizione, spesso ci infogno dentro di tutto, pur che quadri bene o male come metrica e come tempo.
Ed ecco come andò quella volta con Percy Sledge.
Per iniziare, tutto facile, almeno il titolo me lo ricordavo. Ecco allora che mi avventuro nel primo verso: «…when a man loves a woman /…», ma già col secondo, arrivano le note dolenti. Decido dunque istintivamente di cavarmela con un truffaldino escamotage da due soldi, così proseguendo: «…when a man loves a woman / a woman loves a man…». Oh, il discorso non faceva una grinza: dove c’è un “man” che “loves a woman”, come minimo ci si aspetta dall’altra parte una “woman” che “loves” il medesimo “man”. Non è detto che vada sempre così, ma perlomeno ci se lo augura.
Fu tuttavia sul verso conclusivo, che mi abbandonai alla più pura idiotizzazione vernacolare, concludendo la mai interpretazione, letta nella sua totalità, nel seguente deplorevole modo: «…when a man loves a woman / a woman loves a man / baby, baby, baby, va a’ dà via ‘l cü-ül...»
Va bene, cari amici viandanti per pensieri, per oggi vi saluto. Perdonate se ultimamente scrivo poco e per lo più mi attengo a tematiche caratterizzate da un peso culturale d’importanza pari alla puzza d’ascella di una farfalla. E’ un periodo che mi va un po’ così: le idee sono poche e per lo più balorde. Speriamo in meglio per il futuro. Siamo pur sempre in periodo ferragostano. Se non si sparano due spropositi adesso, ditemi voi quando lo dovremmo fare.
L’ultima cosa che voglio è svegliarmi un bel giorno e ritrovarmi costretto a canticchiare: «…Penso che un sogno così non ritorni mai più / ti dipingevo le mani ed il culo di blu / …Vaccare, oh-ho / vaccare, oho-oho…».
domenica 31 luglio 2011
Sotto un cielo di stalle
Non è niente di complicato, credetemi. Tutto quel che serve è un gruppo di amici e una serata con del tempo da perdere. Con gli amici ci deve essere un’intesa piuttosto buona. La dimestichezza a chiacchierare con loro deve godere di un lungo periodo di sedimentazione costruito negli anni. La «deriva cazzatoria» riesce molto meglio se l’abitudine a discutere insieme di tutto e di nulla, senza una meta argomentativi precisa, sia stata esercitata in decine e decine di incontri privi di scopo pratico alcuno. L’effetto viene amplificato se parallelamente si è sedimentato un ampio e comune “vocabolario di stupidate” accumulate in quella lunga pratica del chiacchiericcio gratuito e surrealistico. Quando sussiste questa sintonia nel patrimonio “semantico idiotistico collettivo”, gli spunti per ridere e stare bene insieme si amplificano, perché si possono posare i piedi del ragionamento su un retroterra condiviso di significati faceti, frizzi e lazzi consolidati.
Altro fattore fondamentale: la «deriva cazzatoria» non è assolutamente programmabile. Non si sa mai il momento in cui può capitare, s’insinua fra le pieghe dei discorsi quando meno te l’aspetti, s’innesca impalpabile con passi leggeri, proprio mentre qualcuno se ne viene fuori con l’affermazione più improbabile ed inconsistente. Tanto che, nell’attimo in cui ti rendi conto di essere stato preso dentro i flutti turbinosi più cazzateschi e “non-sensuali”, è ormai già troppo tardi. L’unica cosa da fare a quel punto è godersi la corrente demenziale, prestare ad essa il fianco e rinfocolare il falò delle boiate con generosi ceppi di lignea scemenza.
Come l’altra sera.
Dovevo incontrarmi con due miei amici storici, in piazza a Gillipixiland. Dovete sapere che l’aere gillipixilandese, data la vicinanza di numerosi allevamenti, s’intride soventemente di afrori bovini, talvolta in misura blanda, tal’altra assumendo sfumature decisamente totalizzanti. Tanto che, fra le frasi di circostanza più in voga, «…Non ci sono più le mezze stagioni…» se la gioca ormai ad armi pari con «…Però, bella puzza di “me…da” stasera!…» (chiedo scusa, ma la “erre” se l’è mangiata la censura…).
E’ stato proprio con quella frase di rito, che me ne sono venuto fuori io dopo un po’, dando sfoggio della mia eccelsa sottigliezza di uomo che sa stare in società. Rincarando la dose poi subito appresso: «…Ci credo che è così potente…dev’essere quella stalla di circa 600 vacche…». Al che uno dei miei amici ha ribattuto: «…Eh sì, 600 Wacc sono tanti…».
Avevamo definito, senza quasi rendercene conto, la nuova unità di misura internazionale per la puzza di stalla. Da lì ad andare a valanga con le boiate, è stato un attimo. Chi “dementizzava”: «…Pensa se fossero mille Wacc…allora sì che ci sarebbe da stare barricati in casa, con un KiloWacc di potenza disperso per le strade…», e chi rinforzava d’idiozia molesta: «…Sì, è poi l’azienda dovrebbe dotarsi di un operaio super specializzato, il KiloWaccaro…».
La «deriva cazzatoria» era innescata e ormai nulla la poteva contenere. Una cosa che però mi sono dimenticato di aggiungere è che, forse, per difendersi dagli effetti molesti della puzza di stalla vagante per le strade al tuo fianco come un ingombrante compagno di viaggio, l’unica via di scampo sta nell’utilizzo di qualche prodotto repellente apposito.
La marca? Ma Johnson Wacc, ovviamente.
giovedì 2 settembre 2010
Do not consider me gone!
Cari amici viandanti per pensieri, non sono sparito...magari!!!...
Non sono avvezzo alla fatica fisica vera e propria, e quando mi è capitata fra i piedi, mi è sempre successo di provare delle specie di estasi da stanchezza. Quando sorpasso la barriera del suono della schiena piegata, il mio raziocinio emette il relativo "boom", e vedo l'inaudito, e sento l'inveduto.
Questa volta ho visto che mi sarebbe piaciuto essere eroe per una sera.
Invece di carta vetrata e pennello, un lazo ed un fiero appaloosa delle praterie sarebbero stati i miei strumenti di lavoro. Dopo una giornata di fatiche a domare mustang e marchiare vitelli al mio ranch, mi sarei concesso una serata in quel bar lungo la statale 69.
Sarei andato al bancone ad ordinare il mio whisky doppio (...che non ho mai capito di che minchia è il doppio) e subito avrei visto un gruppo di sbruffoncelli importunare una ragazza ad uno dei tavolini. Con un intervento a base di cazzotti e calci in culo, avrei fatto fare le scintille alle suole degli ingrati importunisti, una volta polverizzati i quali, sarei stato invitato dalla gentile signorina a sedere vicino a lei.
Avrebbe avuto due tette siderali (...e se no, cosa mi sarei scomodato a fare), e sarebbe stata la ragazza più dolce del vecchio west, capelli neri e occhi profondi come un orizzonte.
Dopo un piacevole tempo passato in armoniosa conversazione, mi avrebbe invitato a casa, se per caso mi fosse andato di assaggiare la sua torta di mele.
Io mi sarei alzato di scatto, e mentre l'avrei presa dolcemente per mano, per accompagnarla verso il mio furgoncino Dodge modello "Old Vaccar", dal juke box sarebbe partita questa canzone:
Minchia!!!...ma cosa c'era dentro in quella vernice con cui ho fatto l'aerosol tutto il giorno?
sabato 28 agosto 2010
Impressioni d'agosto
Quindi siamo belli e che da capo: avrei fatto prima a non mettermi nemmeno alla tastiera, quest'oggi.
Ma ci voglio provare ugualmente, a dirvi di queste sensazioni. Anche se, per mia insufficienza espressiva, non ci capirete nulla.
Come già ho avuto modo di dire, agosto non l'ho mai sopportato un granchè, ma mi frega spesso verso sera.
Quando la calura della giornata è stata così insistente da divenire ormai dopo tante ore una sorta di parodia di se stessa, capita a volte che, quattro passi prima del tramonto, una sciabolata di luce interiore mi attraversi.
Mi sento come percorso da fiotti di ricordi condensati e ripescati nell'archivio della memoria, in chissà quale cassetto che non sospettavo più nemmeno di avere.
Non sono memorie di episodi specifici, ma sono lampi delle "essenze" di come mi sentivo in determinati periodi della mia vita, anche di un bel po' di tempo fa: l'essenza di me bambino; l'essenza di una certa estate lontana; l'essenza di come era condividere una certa compagnia; l'essenza della pubertà, e così via.
Avete presente la scena finale di "2001: odissea nello spazio"?
Quando l'astronauta lanciato nella sua folle corsa ai confini delle galassie, si ritrova a fare capriole spazio-temporali incredibili?
Beh, è una roba del genere, la mia impressione d'agosto, però meno drammatica, più familiare e casalinga. Per fare le debite proporzioni: immaginate un "2001: odissea nello spazio" con Renato Pozzetto nel ruolo dell'astronauta, e vi avvicinerete un po' di più al senso delle mie "impressioni d'agosto".
Ve lo dicevo che non sarei riuscito a spiegarmi...così faccio ammenda con un paio foto, che c'entrano fin là con quanto detto sopra, ma queste almeno sono chiare.
Non riuscendo dunque a cogliere pensieri degni di questo nome, mi son limitato ad acchiappare farfalle.
Sono piccole farfalle cerulee e strane, perchè in quanto tali si confondono con certi fiorellini celesti che sembrano prediligere. Il bello è che se metti il piede fra l'erba in cui si posano, credendo di fare due passi fra i fiori, ne vedi alzarsi in volo piccoli nugoli, senza capire lì per lì, per una frazione di secondo, se il decollo sia da addebitarsi a quei fiorellini improvvisamente impazziti.
Anche queste farfalline ci stanno bene allora fra le impressioni di agosto.
Perchè sono un po' ingannevoli anch'esse, sono come quei ricordi di vita creduti fiori ormai depositati innocui e innocenti nelle praterie della memoria, ma che inopinatamente sanno ancora levarsi in volo, disorientandoti, certe sere d'agosto.
(...ah...in questa seconda foto, potete apprezzare anche una piccola ape prodursi in un delicato e sfocato cameo, come un Alfred Hitchcok del mondo degli insetti...).
E adesso, beccatevi questo bel settantume:
mercoledì 11 agosto 2010
Walt Gilliarmpitman
vi rinvenni solo soletto un piccolo cucciolo di pigna...».
“Aprile è il più crudele dei mesi”, ci metteva in guardia T.S. Elliot.
Ed anche se poi non ce l'ha mai detto altrettanto chiaramente, son certo che anche lui s'era accorto che agosto è invece il più ingannevole. Se giugno e luglio sono un po' come “i mesi del villaggio”, per atmosfere ed aspettative goderecce di cui sono carichi, agosto è la domenica dei mesi.
Agosto ha un sapore post-orgasmico ed è un frutto troppo maturo. Ha ancora la buccia bella tesa e in questo modo salva le apparenze, ma sotto, la polpa è già un po' fradicia e foriera del rivivificante marcimonio tardo estivo, che aprirà le porte ai letarghi autunnali e alle loro germinazioni sotterranee.
Per la tribù Lakota (“Popolo degli Uomini” - Pellerossa nativi americani) Agosto era “la luna in cui le ciliege diventano nere”, e detto questo potrei anche smettere di scrivere qui, perché quando la bellezza del dire è perfetta, nessuno dovrebbe osare più turbarla con altre parole.
«...Divine am I inside and out, and I make holy whatever
I touch or am touch'd from.
The scent of these arm-pits aroma finer than prayer,
This head more than churches, bibles, and all the creeds..».
«...Sono divino all'interno e all'esterno, e santifico ogni
cosa che tocco o da cui sono toccato.
L'odore di queste ascelle è un aroma più soave delle preghiere,
E questa testa vale più delle chiese, e delle bibbie, più di tutte le fedi...».
“Song of Myself – Leaves of grass”
Walt Withman – 1855
Agosto è anche il mese che fa la muta degli odori.
Me ne sono ricordato stamattina, sempre con la mia zappa in mano, sul sentierino ghiaiato, constatando come “the scent of these arm-pits” non risultasse poi così tanto “aroma finer” di un bel niente.
Agosto ha un odore dolciastro e camuffato, ricorda quelle dame o quei cicisbei seicento-settecenteschi che si sommergevano di ciprie, unguenti e belletti aulenti, ricacciando le proprie puzze sotto la coltre di vesti e palandrane, come la polvere sotto al tappeto (ah...per la cronaca, io, finito di zappettare, mi sono lavato, eh...).
Ma prima di lavarmi, fra la siepe e il sentierino, ho fatto in tempo a veder sbucare una pigna bambina.
Chissà, pure lei un tempo avrà sperato, ancora aggrappata a “mamma Pina”, di diventare un giorno capostipite di una progenie di maestosi pini, ma ha poi incontrato l'agosto della sua vita, e si è dovuta limitare a lasciar sfiorire la sua bellezza, giungendo a smuovere solo l'immaginazione d'uno sfaccendato zappatore per sentieri.
Così ho pensato di donare alla pignetta un piccolo risarcimento estetico: l'ho posata in mezzo al fulgore cromatico floreale, tanto che nella composizione risultante si faticava a capire chi riceveva grazia e chi la donava.
E fra un fotogramma e l'altro, un pensiero mi ha folgorato, palese palese: «...Ah Gillipì ma che sta' a fa'? Ah Gillipì ma che sta' a dì?...'Na pigna è 'na pigna...e agosto è solo un mese!...».
martedì 13 luglio 2010
Breakfast in Gillipixisoul
Portate pazienza, cari amici viandanti per pensieri, il caldo batte duro anche da queste parti, diritto e ben mirato fra atlante ed epistrofeo, e in queste condizioni non ci si può aspettare che poi uno sforni sempre metafore lucide e fresche come le rose.
La vita è una colazione, sì.
E della colazione ha gli aspetti belli e quelli tristi.
Quante tavole ben imbandite di promesse freschissime ci si parano innanzi durante tutte le fasi della vita. Quanti commensali interessanti, lungo il cammino, siedono di volta in volta al nostro fianco, forieri di approfondimento umano, di fusione amicale, di immedesimazione amorosa, di identificazione affettiva.
Ma poi non c'è mai tempo sufficiente. Hai addentato poco più di un paio di bocconi di brioche, che è già il momento di avviarsi: il lavoro chiama, l'asilo assilla, la scuola, il treno parte, la gita, l'ufficio delle imposte dirette esistenziali che reclama la nostra presenza, sempre altrove, sempre di là.
Vorresti rimanere lì seduto senza limiti all'orizzonte, col caro amico, con la dolce presenza femminea, davanti a spremute di ragionamenti freschi, bricchi di caffelatte dialogato, panini imburrati di scherzose schermaglie e marmellate di ascolto vicendevole, di bonario desiderio di comprendersi, intingendosi nel tè dei pensieri regalati l'un l'altro.
Però l'attimo di raccogliere le briciole e rassettare la tovaglia arriva sempre troppo alla svelta. Ci si saluta, ci si dà appuntamento alla prossima colazione, pur sapendo che anch'essa non sarà mai sufficiente, ed andrà a mettersi in fila, dietro a tutte le colazioni passate e a precedere quelle future: tutte le colazioni che ci illudiamo di poter gustare con calma con i commensali ai quali vogliamo bene, tutti assisi a questa grande tavola imbandita di fretta che chiamiamo vita.
lunedì 14 luglio 2008
Zum, zum, zum, zum, zum…o dello strozzino cortese
Capita che, ritrovandolo sotto il tergicristallo, spesso me ne accorga quando mi sono già seduto al volante e magari ho pure agganciato la cintura, e a quel punto la mia inveterata pigrizia mi frena dal ridiscendere per liberarmene. In quei casi, confido nell’aiuto della velocità e nella forza spazzolatoria per disperdere nel vento l’indebita intrusione finanziaria. Ma sbaglio regolarmente i miei calcoli, perché piuttosto che schiodarsi dalla postazione conquistata, la malefica presenza cartacea si ostina ad oscillare al ritmo dello spazzolino, con esiti talvolta anche pericolosi, tipo quando piove davvero, e sul parabrezza si forma allora una sorta di arco malpulito ad ostruire la visuale, con seguito di cancheri tirati, che piovono più fitti del nubifragio in corso.
Altre volte invece, il foglietto è diligentemente ripiegato e discretamente riposto nella fessura che rimane tra la portiera e il montante della cappotta. In questo modo, ti viene concessa una possibilità di scelta molto più rispettosa e scevra da invadenze. Se proprio sei interessato, puoi prenderti subito il biglietto e vedere di cosa si tratta. Se invece non te ne frega punto, puoi liberarti seduta stante della proposta di prestito: basta che apri la portiera ed essa svanisce dignitosamente sull’asfalto (la mia coscienza ecologista mi impedirebbe normalmente il gesto, ma in questi casi mi sento sollevato dalla responsabilità inquinatoria, che senza esitazione addebito tutta alla primigenia fonte strozzinante).
Cosa concludere dunque…non so se la scelta di posizionare i foglietti sia dovuta al caso, o se dipenda dalla discrezione di chi li distribuisce, che molto probabilmente non c’entra nulla con i “mandanti”. Se dovessi tuttavia dare un consiglio, direi: per carità, stategli pur sempre ben lontani, ma nel vostro immaginario, preferite lo strozzino cortese.