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martedì 31 gennaio 2012

Red Cross shooting




«...Dicono che un freddo simile non si registrava
da almeno 50 anni. Di certo, da oltre 50 anni
non si vedevano in giro "sprovvedutacci" di un
calibro così esagerato come certi giornalisti d'oggi...».

*******

Amici, portate pazienza, ma oggi mi piacerebbe produrmi in una estemporanea attività di “sparo sulla Croce Rossa”. So che trattasi di disciplina sportiva assolutamente poco nobile, anzi, alquanto disdicevole, se proprio la si vuol dire tutta. Da fonti certe, ho poi appreso che anche il Comitato Olimpico si è categoricamente rifiutato di ammetterla nel novero delle specialità agonistiche da esso contemplate. Lo “sparo sulla Croce Rossa” rappresenta quasi l’emblema dall’antisportività e della scorrettezza. Come potrebbe dunque pretendere di vedersi concesso il diritto di stazionare in ottima compagnia sotto l’ecumenica ombra dei fatidici Cinque Cerchi?

Però è altrettanto vero che questo gioco viene diffusamente praticato a livello amatoriale nelle più subdole e cavillose sedi. Il motivo di tanto seguito di praticanti è presto detto: nel farlo, ci si diverte.

La mia “Croce Rossa” odierna saranno i giornalisti. Criticarli è divenuto uno sport ormai talmente scontato, quasi superfluo e diffuso fin anche fra le più piccole società amatoriali iscritte ai campionati minori di «”Discutitori” da bar», che non ne deriva più nemmeno uno straccio, non dico di gloria, ma neanche di merito nel continuare ad insistere. Se un residuo di “motivazione-giutificazione” rimane allora, esso va ricercato in quel briciolo d’amor proprio per il senso critico che ciascuno dovrebbe pur sempre continuare a nutrire.

Ma tosto veniamo alla sparatoria del caso. Chi per sentito dire e chi per sentito vibrare (come nel mio caso), tutti avrete saputo delle scosse di terremoto che hanno colpito nei giorni scorsi l’orlo settentrionale (proprio dalle parti alte della coscia) di quella vecchia, ma a noi carissima ciofèca dello stivalone italico. Passano solo alcune manciate di attimi ed è già pronta con un collegamento in diretta sul posto la brava inviata di un telegiornale (non vi dirò qual era, ma a definirlo tale bisogna fare veramente uno sforzo di fantasia e mentire spudoratamente a se stessi...).

Quale posto? Con estremo fiuto per l' indagine e sagacia per lo “spirito informativo” supremo, viene scelto un luogo altamente consono a fornire un riflesso scientifico ed oggettivo degli strascichi emotivi succeduti all'accadimento tellurico appena verificatosi: la strada di fronte ad una scuola. La scena che si presenta denota fin da subito il clima di fedele rappresentatività dello spaccato sociale in cui è quasi d'obbligo veder inserito il protagonista dello scampato pericolo.

Da una parte, ragazzini brufolosi allo stato brado lungo la via e straboccanti testosterone da ogni poro, che si spintonano, fanno le corna a quello davanti, giocano a “paghi la mossa”, fingendo di assestare una botta al basso ventre del migliore amico, fermando tuttavia l'affondo ad un solo cm. dalla zip dei jeans altrui. Sull'altro fronte, uno stuolo di “bimbe-minkia” tutte “intamarrate” di zainetti alla moda, sobrie truccature discretamente dosate sul viso con paletta e secchiello, piercing a volontà come fossero tutte le nipotine del fabbro ferraio del circondario.

La brava inviata, interpella una ragazzina. La prima dichiarazione della simpatica brufolosotta si perde in un profluvio disarticolato di “...cioè...”, “...è scoppiato il panico...”, “...no...cioè”, “...la prof ci diceva di fare così...”, “...il bidello gridava di fare cosà...”. Ma è stato a quel punto che il colpo di genio dell'inviata si è innalzato altissimo per andare ad occupare un gradino di privilegio nell'empireo del giornalismo mondiale di tutti i tempi, suggellando “in singolar quesito” una delle più acute e profonde interviste mai soppesate in precedenza da orecchio umano. Una domanda che di colpo ha fatto apparire anche quella ragazzina, al confronto con l'intervistatrice, come una vetta eccelsa del sapere, una rappresentante indiscussa dei più alti consessi culturali.

Non potevo credere alle mie orecchie infatti, quando ho sentito, ve lo giuro, uscire dalla bocca di quella sedicente giornalista, la seguente, sesquipedale genialata: «...Che emozione hai provato?...».

Nooo...nooo!!! “...Che emozione hai provato...” nooo!!! Chiedile tutto, ma non quella cosa lì!!! Ormai è umanamente inaccettabile. Pensavo fosse ormai stato definitivamente fissato il criterio minimo di civiltà in virtù del quale, se un giornalista si azzarda ancora a chiedere ad un intervistato la moralmente “desertifica” domanda “...che emozione hai provato...”, dovrebbe essere radiato dall'albo con disonore sommo, stracciamento del notes di fronte a tutta la redazione e spezzatura della penna da parte del direttore.

Invece no. Ancora oggi, dopo tanti anni ormai, ci tocca continuare sconsolatamente a mandar giù e fare buon orecchio a cattivo prosatore, rassegnandoci a sentir dire, chissà fino a quale remoto futuro, che la gente “...in preda al panico si è riversata in strada...”, “...i feriti sono stati estratti dalle lamiere contorte...”, “...le cause del sinistro sono ancora al vaglio delle autorità competenti, che hanno anche effettuato i rilievo del caso...”.

Ah...e ovviamente “...che è stata aperta un'inchiesta per far luce sull'accaduto...”.


martedì 3 giugno 2008

Purezza dell’arte e superficialità giornalistica

Mi ha piuttosto impressionato una frase sentita in questi giorni al tg, mescolata fra i commenti alla recente scomparsa del grande artista della moda Ives Saint Laurent. Si tratta di una dichiarazione dello stilista stesso che esprimendo uno dei più grandi rammarichi della sua eccezionale esistenza, non molto tempo fa riferì di “non essere mai stato capace di amare le donne” (riporto le parole dello speaker se non nella loro completezza letterale, rispettandone comunque il significato nella sua essenzialità).
Questa affermazione mi ha offerto lo spunto per alcune riflessioni sul senso della bellezza nella ricerca artistica, sul mondo della moda e sulla semplificazione giornalistica.
Parto da questo ultimo ambito, che è anche il più immediato. Se si prende per buona l’esternazione di Saint Laurent per come è stata riportata sic et sempliciter nella sua immediatezza lapidaria, niente di più facile che la reazione moralistica in agguato dietro il primo angolino utile della distratta mente dello spettatore medio, possa balzare fuori nel suo fulgore più pieno. Questo stesso mio scritto, in un primo momento, ha pericolosamente gravitato nell’orbita della tentazione di appellarsi allo sdegno di fronte al cinismo della moda e alla freddezza d’intenti che in realtà si celerebbe dietro la sua apparente verve creativa.
Fortunatamente in me ha prevalso lo scrupolo della verifica e grazie ad un rapido excursus sul web ho potuto rintracciare una versione della frase ben più completa e fedele al pensiero di Saint Laurent:
"La bellezza mi trascina verso la purezza: credo che un creatore debba rispettare il corpo che veste perché tutte le donne, anche le meno belle, in qualche modo lo diventino: la bellezza è l'eleganza, il gesto, la voce, il modo di camminare. C'è sempre in me questo amore per le donne e questa impossibilità di amarle".
Converrete che tra un “relata” e l’altro (se mi è concesso il “latinismo canino”) di differenza ce ne passa. Questa seconda trasposizione parla di complessità, di dissidio creativo, persino di conflittualità affettiva ed esistenziale, se proprio ci si vuole spingere ad un’analisi più profonda delle parole. Niente o quasi di tutto questo invece nella prima mutila versione, limitata ad estrapolare un lacerto banalizzante, indirizzato più al sensazionalismo che non ad un meritevole approfondimento della figura di Ives Saint Laurent.
Va aggiunto che anche senza ricorrere alla legittima difesa dell’indagine presso altre fonti, l’ascoltatore più dotato di senso critico avrebbe potuto in ogni caso svicolare dall’inganno del facile giudizio di misoginia, proprio considerando una possibile dimensione superiore della moda. Nella impossibilità affettiva verso le donne dichiarata da Saint Laurent, si sarebbe allora potuto leggere fin da subito anche un tratto della sua adesione ad un senso ben più profondamente artistico della moda.
L’arte intesa nei suoi termini più elevati è ricerca pura di significati esistenziali indagati attraverso lo strumento della bellezza. In questa ottica (fatta salva la padronanza tecnica dalla quale non è possibile prescindere), diventa quasi accessorio il medium attraverso il quale l’obiettivo può venir perseguito, sia esso rappresentato da colori e pennello, bronzo o marmo, fotogrammi e luce, stoffa o corpo femminile. Con buona pace, verrebbe così da concludere, dell’aspetto di milioni di sederi di donna, rovinati in mezzo mondo dall’imperante diktat del pantalone a vita bassa (una delle espressioni più evidenti del distacco che si può creare fra gli intenti estetici della moda e le concretezze della vita reale).