Cari amici viandanti per pensieri, non sono passati che pochi giorni da quando, rifacendomi a Vilfredo Pareto, alludevo alla “non logicità” di fondo delle umane scelte di vita, pur ammantate dalla rigorosa logica apparente messa in scena dalle nostre prerogative linguistiche, le cui radici a loro volta perfettamente affondano nel magmatico materiale emotivo primigenio costitutivo dei meccanismi più intimi del pensare, laddove questi si pongono a metà strada fra semantica e significazione, che in qual novello prodigio non mi vado ad imbattere?
Niente meno che in una concatenazione di “epifanie del lettore” trasversali, infiorettate con una sequela di stupefacenti puntualità.
Vi avevo già aizzato contro gravi minacce letterarie, annunciando la mia intrapresa della lettura della «Recherche», con tanto di brevi “appunti epifanici” riportati su di un “buffardo” quadernetto, quando ecco affacciarsi puntuale un passaggio di Proust che, agganciandosi per l’appunto alle mie distorte suggestioni “Vilfred-paretiane”, reca concretezza ai vostri più intensi timori di scassamento letterale di minchia, attingibile su queste frequenze blogghesche.
Cosa non architetta, cosa non dissimula, cosa non lambicca il nostro dissertare più sotterraneo, per far sì che ad un livello consapevole non ci ritroviamo costretti ad accondiscendere a quegli aspetti della realtà che meno ci vanno a genio?
E tutto questo, come lo costruisce se non con la furtiva complicità del linguaggio, nostro immancabile sodale nel continuo sforzo interiore col quale siamo sempre intenti all’autogiustificazione, alla chiarificazione di sé con noi stessi, alla quadratura del cerchio esistenziale che invece sempre si ostina a digrignarci in faccia nuovi spigoli sbucati fuori a tradimento da ogni imprevedibile “chissà dove”?
«…Ogni volta che [la prozia] vedeva negli altri un bene, per piccolo che fosse, che lei non aveva, persuadeva se stessa che non era un bene, ma un male, e li compiangeva per non averli a invidiare…».
[Da “La strada di Swann” (“Combray”) – Marcel Proust, 1913 - (Trad. di Natalia Ginzburg)]
Ma vale poi la pena darsi tanta pena circa questo tratto che è costitutivo dell’umana essenza? Non c’è logica sostanziale dentro di noi perché alla fine è il mondo stesso a non possederne. Nonostante questo, rimane importantissimo che ciascuno si sforzi di affidarsi alla razionalità più lucida possibile, pena lo smarrimento nel caos, ma al contempo non dobbiamo rimanere spiazzati quando l’illogicità sostanziale nella quale siamo immersi come nostro connaturato liquido amniotico perpetuo, torna a riaffermarsi in tutto il suo fulgore disorientante:
«…le strade migliori non collegano mai niente con nient’altro e c’è sempre un’altra strada che ti ci porta più in fretta…».
[Da “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” – Robert M. Pirsig, 1974]
E alla fine è infatti spesso un elemento del tutto illogico del vivere che ridona ad esso un qualche senso, un fattore vitalistico legato più alla fisicità che non ad aspetti dettati da un ragionare ponderato e giustificato:
«…non grazie alle mie particolari capacità mentali, ma grazie ad una sorta di ristrutturazione fisica, la vita sembrava di nuovo senza limiti. Certo, questa è una cosa sbagliata da fare, una cosa da pazzi, ma se è così, pensavo, qual è la cosa giusta, la cosa ragionevole, e io chi sono per poter dire di aver sempre saputo cosa fare? Ho fatto ciò che ho fatto: ecco tutto quello che uno sa quando si volta indietro. Ho affrontato la prova che mi toccava obbedendo all’ispirazione e all’inettitudine che erano mie – l’ispirazione era l’inettitudine…».
[Da “Il fantasma esce di scena” – Philip Roth, 2007]
Niente meno che in una concatenazione di “epifanie del lettore” trasversali, infiorettate con una sequela di stupefacenti puntualità.
Vi avevo già aizzato contro gravi minacce letterarie, annunciando la mia intrapresa della lettura della «Recherche», con tanto di brevi “appunti epifanici” riportati su di un “buffardo” quadernetto, quando ecco affacciarsi puntuale un passaggio di Proust che, agganciandosi per l’appunto alle mie distorte suggestioni “Vilfred-paretiane”, reca concretezza ai vostri più intensi timori di scassamento letterale di minchia, attingibile su queste frequenze blogghesche.
Cosa non architetta, cosa non dissimula, cosa non lambicca il nostro dissertare più sotterraneo, per far sì che ad un livello consapevole non ci ritroviamo costretti ad accondiscendere a quegli aspetti della realtà che meno ci vanno a genio?
E tutto questo, come lo costruisce se non con la furtiva complicità del linguaggio, nostro immancabile sodale nel continuo sforzo interiore col quale siamo sempre intenti all’autogiustificazione, alla chiarificazione di sé con noi stessi, alla quadratura del cerchio esistenziale che invece sempre si ostina a digrignarci in faccia nuovi spigoli sbucati fuori a tradimento da ogni imprevedibile “chissà dove”?
«…Ogni volta che [la prozia] vedeva negli altri un bene, per piccolo che fosse, che lei non aveva, persuadeva se stessa che non era un bene, ma un male, e li compiangeva per non averli a invidiare…».
[Da “La strada di Swann” (“Combray”) – Marcel Proust, 1913 - (Trad. di Natalia Ginzburg)]
Ma vale poi la pena darsi tanta pena circa questo tratto che è costitutivo dell’umana essenza? Non c’è logica sostanziale dentro di noi perché alla fine è il mondo stesso a non possederne. Nonostante questo, rimane importantissimo che ciascuno si sforzi di affidarsi alla razionalità più lucida possibile, pena lo smarrimento nel caos, ma al contempo non dobbiamo rimanere spiazzati quando l’illogicità sostanziale nella quale siamo immersi come nostro connaturato liquido amniotico perpetuo, torna a riaffermarsi in tutto il suo fulgore disorientante:
«…le strade migliori non collegano mai niente con nient’altro e c’è sempre un’altra strada che ti ci porta più in fretta…».
[Da “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” – Robert M. Pirsig, 1974]
E alla fine è infatti spesso un elemento del tutto illogico del vivere che ridona ad esso un qualche senso, un fattore vitalistico legato più alla fisicità che non ad aspetti dettati da un ragionare ponderato e giustificato:
«…non grazie alle mie particolari capacità mentali, ma grazie ad una sorta di ristrutturazione fisica, la vita sembrava di nuovo senza limiti. Certo, questa è una cosa sbagliata da fare, una cosa da pazzi, ma se è così, pensavo, qual è la cosa giusta, la cosa ragionevole, e io chi sono per poter dire di aver sempre saputo cosa fare? Ho fatto ciò che ho fatto: ecco tutto quello che uno sa quando si volta indietro. Ho affrontato la prova che mi toccava obbedendo all’ispirazione e all’inettitudine che erano mie – l’ispirazione era l’inettitudine…».
[Da “Il fantasma esce di scena” – Philip Roth, 2007]