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domenica 11 aprile 2010

Arrivederci, blu cielo


Cari amici viandanti per pensieri, non sono passati che pochi giorni da quando, rifacendomi a Vilfredo Pareto, alludevo alla “non logicità” di fondo delle umane scelte di vita, pur ammantate dalla rigorosa logica apparente messa in scena dalle nostre prerogative linguistiche, le cui radici a loro volta perfettamente affondano nel magmatico materiale emotivo primigenio costitutivo dei meccanismi più intimi del pensare, laddove questi si pongono a metà strada fra semantica e significazione, che in qual novello prodigio non mi vado ad imbattere?

Niente meno che in una concatenazione di “epifanie del lettore” trasversali, infiorettate con una sequela di stupefacenti puntualità.
Vi avevo già aizzato contro gravi minacce letterarie, annunciando la mia intrapresa della lettura della «Recherche», con tanto di brevi “appunti epifanici” riportati su di un “buffardo” quadernetto, quando ecco affacciarsi puntuale un passaggio di Proust che, agganciandosi per l’appunto alle mie distorte suggestioni “Vilfred-paretiane”, reca concretezza ai vostri più intensi timori di scassamento letterale di minchia, attingibile su queste frequenze blogghesche.

Cosa non architetta, cosa non dissimula, cosa non lambicca il nostro dissertare più sotterraneo, per far sì che ad un livello consapevole non ci ritroviamo costretti ad accondiscendere a quegli aspetti della realtà che meno ci vanno a genio?
E tutto questo, come lo costruisce se non con la furtiva complicità del linguaggio, nostro immancabile sodale nel continuo sforzo interiore col quale siamo sempre intenti all’autogiustificazione, alla chiarificazione di sé con noi stessi, alla quadratura del cerchio esistenziale che invece sempre si ostina a digrignarci in faccia nuovi spigoli sbucati fuori a tradimento da ogni imprevedibile “chissà dove”?

«…Ogni volta che [la prozia] vedeva negli altri un bene, per piccolo che fosse, che lei non aveva, persuadeva se stessa che non era un bene, ma un male, e li compiangeva per non averli a invidiare…».

[Da “La strada di Swann” (“Combray”) – Marcel Proust, 1913 - (Trad. di Natalia Ginzburg)]

Ma vale poi la pena darsi tanta pena circa questo tratto che è costitutivo dell’umana essenza? Non c’è logica sostanziale dentro di noi perché alla fine è il mondo stesso a non possederne. Nonostante questo, rimane importantissimo che ciascuno si sforzi di affidarsi alla razionalità più lucida possibile, pena lo smarrimento nel caos, ma al contempo non dobbiamo rimanere spiazzati quando l’illogicità sostanziale nella quale siamo immersi come nostro connaturato liquido amniotico perpetuo, torna a riaffermarsi in tutto il suo fulgore disorientante:

«…le strade migliori non collegano mai niente con nient’altro e c’è sempre un’altra strada che ti ci porta più in fretta…».

[Da “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” – Robert M. Pirsig, 1974]

E alla fine è infatti spesso un elemento del tutto illogico del vivere che ridona ad esso un qualche senso, un fattore vitalistico legato più alla fisicità che non ad aspetti dettati da un ragionare ponderato e giustificato:

«…non grazie alle mie particolari capacità mentali, ma grazie ad una sorta di ristrutturazione fisica, la vita sembrava di nuovo senza limiti. Certo, questa è una cosa sbagliata da fare, una cosa da pazzi, ma se è così, pensavo, qual è la cosa giusta, la cosa ragionevole, e io chi sono per poter dire di aver sempre saputo cosa fare? Ho fatto ciò che ho fatto: ecco tutto quello che uno sa quando si volta indietro. Ho affrontato la prova che mi toccava obbedendo all’ispirazione e all’inettitudine che erano mie – l’ispirazione era l’inettitudine…».

[Da “Il fantasma esce di scena” – Philip Roth, 2007]



sabato 25 luglio 2009

Costruiti di desiderio


Quando mi succede di leggere brani di libri provenienti da fonti molto differenti fra di loro, magari concepiti in epoche lontanissime l'una dall'altra, da autori appartenenti a contesti storici del tutto estranei, e che tuttavia recano in sè una straordinaria affinità concettuale, quasi fossero stati scritti dalla medesima persona, ci rimango di stucco dal godimento estetico ed intellettivo che me ne deriva.

La cosa più formidabile è quando il fenomeno si verifica in seguito ad una piccola indagine personale su libri diversi.
Ma non è male neppure quando questa magica "epifania del lettore trasversale" viene regalata da un bel testo che già ad adocchiarlo sullo scaffale della libreria irradiava bellezza, pur standosene ancora a pagine perfettamente chiuse.

Il libro in questione è stavolta «Passioni d'oriente - Eros ed emozioni in India e Tibet», a cura di Giuliano Boccali e Raffaele Torella (Piccola Biblioteca Einaudi - Scienze religiose e antropologiche - 2007).

Bando subito agli equivoci: niente a che vedere con pecorecci "kamasutri" da spiaggia o pruriginose trasposizioni banalizzanti, stile scollacciati film LinoBanfeggianti anni '70 (...con tutto il rispetto per il simpaticissimo Lino Banfi e per quel gran pezzo dell'Ubalda: che si mantenga sempre tutta nuda e tutta calda!!!).

Questo libro è invece un complesso, articolato e dottissimo studio (suddiviso in alcuni brevi saggi) su aspetti delle filosofie orientali che hanno approfondito il rapporto dell'uomo con l'importante capitolo esistenziale rappresentato dal desiderio, dalle passioni e dalla emotività.
Condizione "sine qua non" per il verificarsi di una "epifania del lettore trasversale" è che i concetti messi in gioco dai due brani a confronto posseggano una certa dignità culturale.
Forse è superfluo precisarlo nel caso di questo libro.
Ma per dire, se mi capitasse di leggere su "Novella 2000" che quest'anno in spiaggia senza le infradito sei assolutamente "out" e mi imbattessi poi nel medesimo "concetto" su "Cronaca vera", ecco, non è che proverei tutta quella gran esaltazione epifanica.

Il concetto di cui parlo è invece un super-concetto di lusso, roba da leccarsi i baffi del pensiero. Deriva da diverse opere del periodo classico del "tantrismo hindu" (epoca grosso modo compresa fra il III ed il X secolo ed anche oltre) e sostiene che il "pacchetto esistenziale" riassumibile indicativamente nel "trittico" «Passione-Emozione-Attaccamento» (condensato dal termine indiano rāga) si manifesti essenzialmente come forza che si propaga dall'interno della spiritualità dell'individuo.
La sostanza del nostro rapporto di desiderio con le cose nel mondo, non sarebbe dunque insita "quantitativamente" in tali cose, ma dipenderebbero "qualitativamente" da un'energia interiore che in qualche modo in noi è insediata.
Una sorta di piccola rivoluzione copernicana rispetto alla visione occidentale comune sul medesimo tema, che si rivolge solitamente al "potere" attrattivo dell'«altro da sè» come alla forza effettivamente attiva nella dinamica del "desiderare".

Sentite allora cosa si dice in questo bel passaggio del libro citato:

«...Non è il piacere che direttamente muove rāga («Passione-Emozione-Attaccamento»), dice acutamente il Matangapārameśvarāgama, ma è rāga-corazza che crea il piacere nei confronti del particolare oggetto verso cui si rivolge...[...]...il rāga risiede nelle profondità del soggetto e non negli oggetti...[...].
Dunque, anche rāga («Passione-Emozione-Attaccamento») come vidyā («Conoscenza»), è una realtà insieme elementare e complessa, tanto più ardua da definire tanto più intimamente si annida nella struttura profonda dell'io. Facciamoci aiutare in questo difficile compito da alcune penetranti considerazioni di Abhinavagupta nel suo magnum opus, il Tantrāloka...[...].
L'universo, dice il grande maestro kashmiro, è stato creato appunto per soddisfare le anime nelle quali una frenesia, una febbrile smania di fruizioni è stata suscitata. Questa sottile frenesia (lilokā) non ha oggetto, è per così dire uno "strato desiderante", uno stato di infinita appassionata aspettazione, e, di conseguenza, un pensarsi imperfetti, una sorta di nescienza. Essa è la "macchia" primordiale (mala), che si manifesta come la disposizione ad assumere future limitazioni...».

E state un po' sentire adesso cosa mi verrà a dire alcuni secoli dopo il buon Baruch Spinoza nella sua «Etica» (sempre citato in «Passioni d'oriente - Eros ed emozioni in India e Tibet»):

«...Verso nessuna forza ci sforziamo, nessuna cosa vogliamo, appetiamo e desideriamo perchè la giudichiamo buona; ma, al contrario, noi giudichiamo buona qualche cosa perchè ci sforziamo verso di essa, la vogliamo, l'appetiamo e la desideriamo...».

Ora non so cosa ne dite voi...ma non è mirabolante?