Di questo capolavoro di Michael Cimino, “Il cacciatore”, riesco a dire poco, forse solo banalità, perché è talmente immenso e noto che spiazzerebbe qualsiasi commentatore.
Lo vidi, mi pare, più volte, a suo tempo, ma difficilmente lo riguarderei, o perlomeno non senza una certa preparazione, per mettermi nell’ordine di idee. Infatti sa andare a scavare sentimenti talmente conturbanti, toccanti, e dall’impatto così duro da reggere, che il timore reverenziale scatta immediato.
L’orrore della guerra in Vietnam è il grande tema, come un immenso fiume che travolge le vite dei protagonisti, i quali si immettono in esso come precari affluenti.
Ma più di ogni altro aspetto, la cosa eccezionale di questo film è che sa travolgerti per la bellezza di certi passi recitativi. Ci sono degli scambi di battute fra Robert De Niro e Meryl Streep in cui si innesca una complicità intima che va oltre ogni bravura di attore.
Sono veri e proprio inveramenti del reale. Ci si commuove, si sorride e si sentono le viscere che vorrebbero essere là, con loro, sulla scena, a farsi travolgere da quella cappella Sistina dell'espressività.
“Il cacciatore” non passa a chi lo guarda solamente attraverso vista e udito. Ciò che lo rende così eccezionale e al tempo stesso temibilmente terribile, sta nel fatto che si immette dentro prendendo la via delle vene, ha l’irruenza di una trasfusione emotiva.
Certi momenti più drammatici della storia possono essere assorbiti solo come in una sorta di stato febbrile dello spettatore. E altri lasciano invece dentro lo smarrimento svagato degli stati di convalescenza, con le forze dei sentimenti completamente sfiancate, ma in qualche modo messe in salvo.