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martedì 14 agosto 2018

Il cacciatore


Di questo capolavoro di Michael Cimino, “Il cacciatore”, riesco a dire poco, forse solo banalità, perché è talmente immenso e noto che spiazzerebbe qualsiasi commentatore.

Lo vidi, mi pare, più volte, a suo tempo, ma difficilmente lo riguarderei, o perlomeno non senza una certa preparazione, per mettermi nell’ordine di idee. Infatti sa andare a scavare sentimenti talmente conturbanti, toccanti, e dall’impatto così duro da reggere, che il timore reverenziale scatta immediato.

L’orrore della guerra in Vietnam è il grande tema, come un immenso fiume che travolge le vite dei protagonisti, i quali si immettono in esso come precari affluenti.

Ma più di ogni altro aspetto, la cosa eccezionale di questo film è che sa travolgerti per la bellezza di certi passi recitativi. Ci sono degli scambi di battute fra Robert De Niro e Meryl Streep in cui si innesca una complicità intima che va oltre ogni bravura di attore.

Sono veri e proprio inveramenti del reale. Ci si commuove, si sorride e si sentono le viscere che vorrebbero essere là, con loro, sulla scena, a farsi travolgere da quella cappella Sistina dell'espressività.

“Il cacciatore” non passa a chi lo guarda solamente attraverso vista e udito. Ciò che lo rende così eccezionale e al tempo stesso temibilmente terribile, sta nel fatto che si immette dentro prendendo la via delle vene, ha l’irruenza di una trasfusione emotiva.

Certi momenti più drammatici della storia possono essere assorbiti solo come in una sorta di stato febbrile dello spettatore. E altri lasciano invece dentro lo smarrimento svagato degli stati di convalescenza, con le forze dei sentimenti completamente sfiancate, ma in qualche modo messe in salvo.

Non è un film guardabile a cuor leggero, perché va a cambiare per sempre qualcosa di molto delicato e scoperto, dentro di noi.

lunedì 13 agosto 2018

Il posto


Un’opera d’arte sa arrivare con una certa “ubiquità emotiva” alla sensibilità di tutti, indipendentemente dalle esperienze singole di chi ha modo di entrare in contatto con essa.

Eppure, per cogliere meglio una sintonia con “Il posto”, preziosissimo film di Ermanno Olmi, aiuta aver conosciuto quella impalpabile sensazione provata certe domeniche mattine autunnali, da bambini, quando ci si svegliava coi vapori atavici del bollito di carne ad alleggiare in ogni stanza, facendo a gara in uggiosità con le brumose atmosfere esterne, fissate nell’attimo da una sospensione brinata del tempo.

I pochi film che ho visto con attori non-professionisti, mi hanno sempre fatto nascere un automatico e interiore “ma perché?”, visto che di professionisti ce ne sono parecchi e anche molto bravi.

“Il posto” in questo senso sa farci ricredere: qui l'essenza “a-recitativa” dei protagonisti diventa amplificazione di umanità assolutamente delicata, capace di cogliere le sfumature di certi pudori intimi, inarrivabili se non nelle esperienze quotidiane dirette.

Gli imbarazzi, le malinconie, i timori, i piccoli sprazzi di gioia fuggevolissima, le speranze esplosive quasi subito appesantite dal greve mantello del disincanto pratico…tutte queste e una miriade di altre emozioni, vengono passate in rassegna dalla delicatezza espressiva del film.

La storia è semplicissima, quasi inconsistente: un ragazzo, fresco diplomato di scuola, parte al mattino presto dalla sua casa di periferia milanese, verso la città, per essere esaminato, scopo eventuale assunzione come impiegato nell’austera “mega-ditta”, solenne regno dell'anonimato produttivistico.

Da qui nasce una sequela di attimi recitativi dai quali Olmi sa estrarre il succo espressivo, proprio come il tepore del fuoco lento fa col brodo della domenica.

Alla fine della visione ci si ritrova a nostra volta inspiegabilmente un po' bolliti nell’essenza di tutte le sensazioni “da lunedì” mai provate.

È un inno al mistero di ogni “prima volta”, questo film, alla perdita dell’innocenza, all’idea che ognuno nella vita si dovrà confrontare con una propria Milano dell’animo.

domenica 12 agosto 2018

La ragazza con la valigia


Definirei questo film un diamante fragile. Chi lo guarda si aspetti di sentirsi infrangere qualcosa nel proprio intimo. Se ne esce con non pochi cocci rotti, con vari sentimenti acciaccati, ma con un strana impressione di “convalescenza dell’animo”.

Ne esce male soprattutto la figura maschile, fatta passare attraverso il tritatutto di varie meschinità.
Fulcro di tutta la storia è la perturbabilità potenziale dell’energia erotica e affettiva, concentrata nella fattispecie nelle fattezze di una Claudia Cardinale in stato di grazia.

La narrazione è a tratti delicata, diventa cinica, a volte spietata, poi assume sfumature trasognate e ingenue, però si rimane immersi per tutto il film in un’aura poetica indefinita, determinata soprattutto dalla tensione recitativa che si innesca fra gli attori, più che dall’intreccio della trama.

Il contorno è l'Italia anni sessanta di un boom già alquanto scoppiato e disilluso, anche se piccoli barlumi di candore, di cui sono capaci alcuni personaggi, aiutano a non lasciar morire del tutto una certa fiducia in un qualche tipo di riscatto.

La sensazione che rimane dopo l'ultimo fotogramma, è di aver fatto un viaggio lontanissimo. Di essersi addentrati nell’animo umano, tanto profondamente quanto non mai. Di aver lì osservato aspetti della vita che ci hanno turbato e inquietato. Che le cose belle si pagano care. Ma anche una indefinibile contentezza per aver visitato quei luoghi dello spirito così ineffabilmente complessi.

sabato 11 agosto 2018

Fuori orario


Oggi volevo dire due cose su questo film, “Fuori orario” di Martin Scorsese, ma c'è un piccolo dettaglio: non me ne ricordo un fotogramma che sia uno e, a parte il fatto di sapere perfettamente che mi piacque tanto, ma tanto, altro non saprei.

Se ci pensate, è l’ideale nel rapporto recensore-lettore: rischio di rovinar sorprese azzerato, ma effetto curiosità a mille.

Mi succede coi film: dimentico la trama quasi del tutto, eppure mi rimane indelebile una certa impressione, una marchiatura interiore, un certo posto dell’animo dove il film medesimo mi ha trasportato.

“Fuori orario” è una storia a incastri perfetta. C'è questo tizio assolutamente ordinario e a incastrarsi senza una sbavatura sono vari eventi fortuiti che gli capitano nel giro di poche ore, una notte in cui era uscito per svagarsi un po'.

Se siete dei segreti ammiratori della scuola di pensiero per cui “…le cose accadono e noi non possiamo farci nulla…”, il Wile-coyotesco gioco a puzzle di pesi e contrappesi del succedere, sciorinato in “Fuori orario”, fa proprio per voi.

È il risarcimento perfetto a ogni cacca di cane pestata nella vita, a ogni ombrello che vi si è frantumato in mano nella foga di sbandierarlo per la rapidità di un acquazzone che vi aveva sorpreso, lavandovi poi regolarmente da testa a piedi.

È un teorema atto a dimostrare come dalla sommatoria incessante e proterva di una serie di sfortune più o meno grandi o gravi, si ottenga il risultato dello sfociare in una catartica dimensione di riconciliazione col tutto.

È la sorpresa del vivere modellata a cubo di Rubik.

È la stordente soddisfazione per il felice esito di un travagliato percorso; è il sollievo liberatorio, del tutto simile a quello assaporato sullo scemare delle frasi di un recensore di film che non ricordava ciò di cui pretendeva di parlare…

venerdì 10 agosto 2018

Il grande Lebowski


Questo film parla di alcune arti minori.

Dell’arte della pigrizia. Dell’arte di fare flanella, passando tempo non-utile con gli amici. Dell’arte di lasciar vivere. Dell’arte di saper stare da soli, anche, forse.

È un film per tipi ai quali il mondo a volte fa paura, ma dopo ci mettono poco ad accorgersi che quasi tutto il male, prima o poi, degenera in aspetti grotteschi.

È un film sulla libertà di essere, sul prenderla con calma, sul riconciliarsi coi propri fallimenti.

È un film di raffinata intelligenza comica, laddove si intenda la comicità come chiave interpretativa spesso utile per capire la vita.

C'è un ridere che nasce dalla pancia. Un altro dal cervello. Altri tipi ancora, dal cuore, dalla gola, da un mignolo del piede (non se mancante, però).

“Il grande Lebowski” suscita un ridere sorgente da ogni estremità del corpo, che poi implode dentro, infrangendo il labile muro del non-senso, per sfociare nel paesaggio puro della fantasia.

Da questa storia, non si farebbe fatica a trarre la logica conseguenza che tutto ciò che è demenziale è reale. Ma allora si sarebbe dovuta intitolare “Il grande Hegelowski”.

Il ritmo e i tempi in questa storia sono fondamentali quanto la sua leggerezza. Per questo, in un film così occidentale, è contenuta anche una non trascurabile dose di oriente.

giovedì 9 agosto 2018

Il buio oltre la siepe


L’annosa questione se una storia sia stata raccontata meglio da un film o dal rispettivo libro (spesso risolta a favore di quest'ultimo), nel caso del “Buio oltre la siepe” si complica per giungere a una particolare forma di insolubilità definitiva.

Mentre lo si guarda, il film con Gregory Peck sembra sempre più bello del libro di Harper Lee, e viceversa, in un'altalena di preferenze senza posa possibile.

Questo film penetra nelle profondità del mistero della fanciullezza e del diventare grandi. E anche qui non si riesce a stabilire bene se sia questo il tema portante della storia, oppure quello dell'intolleranza razziale e del rispetto nei confronti della presunta diversità.

“Il buio oltre la siepe” ci racconta come i bambini e i ragazzini non siano altro che mini-adulti ancora in indefinita fusione col tutto, nella numinosa continuità con le cose, gli elementi naturali, e le altre persone.

Da piccoli, il mondo è un magna di arcani e insondabilità che impressiona e inquieta, e tuttavia si dà per stabilito, fissato, immutabile.

Ci si rende conto che si sta diventando grandi, quando nascono le domande intorno a tutto ciò.
Questo ci racconta in misura magistrale “Il buio oltre la siepe”, soprattutto in versione film, con un Gregory Peck in stato di grazia nell’impersonare il meglio dell’idealismo americano, anch'esso grande chimera dell’infanzia di ciascuno, forse di quella dell'umanità stessa.

Perché, parafrasando una nota boutade riguardante il comunismo, subire il fascino del sogno americano fino intorno ai vent’anni, denota un’eroica ingenuità poetica, ma crederci ancora dopo i quaranta, è da irrecuperabili fessi.

mercoledì 8 agosto 2018

Un americano a Roma


Questo film è assolutamente privo della benché minima profondità, eppure raramente ho visto condensati e articolati in un solo attore, frammenti di gioia incontaminata, emozioni empatiche così multiformi, istrionismo magnetico e goliardia espressiva tanto immediata e senza alcun filtro.

Capita talvolta di ritrovarsi quasi per caso con un gruppo di cari amici, e senza aver preventivato nulla, la serata prende la via del “perfetto stare in compagnia”. Ecco, una sensazione simile regala Alberto Sordi nei panni dell’ineffabile Nando Mericoni, fanatico e strampalato americanofilo.

La prima volta lo vidi su una vecchia videocassetta, registrato da una qualche programmazione Rai di tarda notte. Riguardandolo poi varie volte, mi coglieva, rinnovata, la piccola magia di ritrovare familiarità estrema in ogni gesto, in ogni inflessione della voce, in ogni minima smorfia del viso o movenza del corpo di Sordi. Una quintessenza di bellezza fatta scaturire dal nucleo stesso dell’arte di rendersi macchietta comica pura.

Durante quelle prime visioni del film, la simpatia, la strafottenza, la sfacciata giovinezza di Nando Mericoni erano il paesaggio dove avrei voluto abitare, forse per sempre.