Certe volte verso sera, davanti a casa, vedo passare due donne.
Non ci sarebbe nulla di eccezionale in questo. Se non forse il dettaglio che passano sempre a piedi, e so per certo che il loro tragitto non è limitato a pochi metri, ma sicuramente si dilunga di parecchio prima che la meta venga raggiunta.
Ormai nelle nostre campagne chi si sposta per necessità e lo fa con mezzi umili (la bici o anche solo semplicemente sui propri piedi), è quasi sicuramente uno straniero. Altro conto sono i cicloamatori, i pedalanti della domenica (come me…) o i podisti ipercalorici che devono smaltire la tara accumulata ingozzandosi dallo stress di non riuscire ad arrivare alla fine del mese.
Gli stranieri si spostano invece perché ne hanno bisogno e per loro, vista l’indisponibilità di mezzi, le strade misurano ancora come nell’Ottocento, o tutt’al più come ai primi del Novecento.
Sono due donne che vedo passare, più precisamente una vecchia e una ragazzina. Immagino siano nonna e nipote. Un dettaglio s’impone subito: sono molto belle. Non belle nel modo superficiale col quale usate dire “voi, gente di oggi”(*). Ho detto dettaglio non per caso, infatti. Posseggono una bellezza talmente armoniosa e modellata sui loro corpi, che risulta eccezionale e scontata ad un tempo, talmente è naturale.
Son belle per davvero, insomma. Sono donne.
E sono indiane, ciascuna una sorta di personificazione archetipica dell’età di donna che stanno attraversando.
La vecchia (potrei dire “anziana”, se non fosse sempre roba da lasciare alla “gente di oggi”) avanza in una melodia di gesti che è eleganza pura. Indossa un abito tipico indiano. Non propriamente un “sari”. Qualcosa di simile, meno vistoso, ma pur sempre puntualmente evocatore delle atmosfere della sua remotissima ed immensa terra.
Potrebbe tuttavia vestire anche una pelliccia, un tailleur, un barracano, jeans e maglietta, o essere addirittura nuda: nessuna specificazione esteriore sarebbe in grado di distogliere l’attenzione dalla classe, dalla grazia, che dalla sua persona si diffondono.
Il viso è plasmato di “terra non cotta”, la chioma fluisce abbondante di grigi argentei e cupi, in un piacevole bisticcio fra le pretese accampate dalla senescenza e le rivendicazioni mai smesse di una gioventù che ancora seguita ad albeggiare, se mi si passa la sub-continentale suggestione un po’ facile, fra i meandri frondosi del suo animo ancora in verde ed oscuro rigoglio.
Un gioco molto simile fra le età, rifulge anche nel sembiante d’ebano e avorio della nipotina. Laddove la nonna dichiarava la propria fanciullezza mai sopita, qui è invece una maturità di portamento e movenze ad imporsi nella sua semplicità più compiuta.
E’ la pigmentazione scura ovviamente ad imporsi anche su di lei, in tutte le sue declinazioni cutanee e corporali. Ma per la magia nascosta nella profondità più densa di tutto il mistero in cui si cala questa femminea accoppiata, sono certo che nemmeno dal viso della più candida e graziosa fanciulla svedese potrebbe scaturire una simile radiosa luminosità.
Non vi so spiegare bene come, ma dal modo in cui la ragazzina si muove si vede che vuole bene alla nonna. Sembra di vederla intenta a prendere lezioni di cammino. La nonna fende l'aria con la propria eleganza, lasciandosi dietro una duplice ondata di avvenenza senza tempo, e la nipotina pare annusare quell’aroma motorio infondendolo direttamente nei gesti del suo muoversi.
In un attacco di egocentrismo leggermente irrispettoso, mi ritrovo a pensare che doveva venire la globalizzazione per far sì che un pigro stanziale, inchiodato alla sua terra piccola come una cozza al suo scoglio, potesse sapere direttamente qualcosa delle genti del mondo.
Non sono certo famoso per il mio spiccato fiuto da segugio della “realpolitik”, ma anche ad un pensatore bizzarro e stralunato quale io sono non sfugge la complessità del tema dei migranti planetari. E’ forse la questione più grande, complessa e cruciale che il “secolo breve” abbia lasciato in eredità a questo secolo ancora molto bambino.
Però per quei pochi attimi leggiadri di passaggio delle mie due piccole, personali, dee indiane, non ci voglio pensare. Lascio ai miei pensieri solo immagini belle, come l’idea che una nonna e una nipotina si vogliono bene al mondo tutte allo stesso modo, e che un grande fiume è pur sempre un grande fiume, nella lontana ed esoterica India così come nella sudaticcia Bassa padana.
E in tutti i posti del mondo si ritorna a casa, alla fine della giornata, sia che lo si faccia su quattro ruote veloci, sia su quattro piedi che posandosi per terra parlano parole di poesia e speranza.
(*) = trattasi di espressione generica, di un "voi ipotetico", ovviamente non rivolto ai cari amici viandanti per pensieri, ma largamente spalmato sulla massa eterogenea ed informe di coloro che non sanno "pensare con l'anima".
Non ci sarebbe nulla di eccezionale in questo. Se non forse il dettaglio che passano sempre a piedi, e so per certo che il loro tragitto non è limitato a pochi metri, ma sicuramente si dilunga di parecchio prima che la meta venga raggiunta.
Ormai nelle nostre campagne chi si sposta per necessità e lo fa con mezzi umili (la bici o anche solo semplicemente sui propri piedi), è quasi sicuramente uno straniero. Altro conto sono i cicloamatori, i pedalanti della domenica (come me…) o i podisti ipercalorici che devono smaltire la tara accumulata ingozzandosi dallo stress di non riuscire ad arrivare alla fine del mese.
Gli stranieri si spostano invece perché ne hanno bisogno e per loro, vista l’indisponibilità di mezzi, le strade misurano ancora come nell’Ottocento, o tutt’al più come ai primi del Novecento.
Sono due donne che vedo passare, più precisamente una vecchia e una ragazzina. Immagino siano nonna e nipote. Un dettaglio s’impone subito: sono molto belle. Non belle nel modo superficiale col quale usate dire “voi, gente di oggi”(*). Ho detto dettaglio non per caso, infatti. Posseggono una bellezza talmente armoniosa e modellata sui loro corpi, che risulta eccezionale e scontata ad un tempo, talmente è naturale.
Son belle per davvero, insomma. Sono donne.
E sono indiane, ciascuna una sorta di personificazione archetipica dell’età di donna che stanno attraversando.
La vecchia (potrei dire “anziana”, se non fosse sempre roba da lasciare alla “gente di oggi”) avanza in una melodia di gesti che è eleganza pura. Indossa un abito tipico indiano. Non propriamente un “sari”. Qualcosa di simile, meno vistoso, ma pur sempre puntualmente evocatore delle atmosfere della sua remotissima ed immensa terra.
Potrebbe tuttavia vestire anche una pelliccia, un tailleur, un barracano, jeans e maglietta, o essere addirittura nuda: nessuna specificazione esteriore sarebbe in grado di distogliere l’attenzione dalla classe, dalla grazia, che dalla sua persona si diffondono.
Il viso è plasmato di “terra non cotta”, la chioma fluisce abbondante di grigi argentei e cupi, in un piacevole bisticcio fra le pretese accampate dalla senescenza e le rivendicazioni mai smesse di una gioventù che ancora seguita ad albeggiare, se mi si passa la sub-continentale suggestione un po’ facile, fra i meandri frondosi del suo animo ancora in verde ed oscuro rigoglio.
Un gioco molto simile fra le età, rifulge anche nel sembiante d’ebano e avorio della nipotina. Laddove la nonna dichiarava la propria fanciullezza mai sopita, qui è invece una maturità di portamento e movenze ad imporsi nella sua semplicità più compiuta.
E’ la pigmentazione scura ovviamente ad imporsi anche su di lei, in tutte le sue declinazioni cutanee e corporali. Ma per la magia nascosta nella profondità più densa di tutto il mistero in cui si cala questa femminea accoppiata, sono certo che nemmeno dal viso della più candida e graziosa fanciulla svedese potrebbe scaturire una simile radiosa luminosità.
Non vi so spiegare bene come, ma dal modo in cui la ragazzina si muove si vede che vuole bene alla nonna. Sembra di vederla intenta a prendere lezioni di cammino. La nonna fende l'aria con la propria eleganza, lasciandosi dietro una duplice ondata di avvenenza senza tempo, e la nipotina pare annusare quell’aroma motorio infondendolo direttamente nei gesti del suo muoversi.
In un attacco di egocentrismo leggermente irrispettoso, mi ritrovo a pensare che doveva venire la globalizzazione per far sì che un pigro stanziale, inchiodato alla sua terra piccola come una cozza al suo scoglio, potesse sapere direttamente qualcosa delle genti del mondo.
Non sono certo famoso per il mio spiccato fiuto da segugio della “realpolitik”, ma anche ad un pensatore bizzarro e stralunato quale io sono non sfugge la complessità del tema dei migranti planetari. E’ forse la questione più grande, complessa e cruciale che il “secolo breve” abbia lasciato in eredità a questo secolo ancora molto bambino.
Però per quei pochi attimi leggiadri di passaggio delle mie due piccole, personali, dee indiane, non ci voglio pensare. Lascio ai miei pensieri solo immagini belle, come l’idea che una nonna e una nipotina si vogliono bene al mondo tutte allo stesso modo, e che un grande fiume è pur sempre un grande fiume, nella lontana ed esoterica India così come nella sudaticcia Bassa padana.
E in tutti i posti del mondo si ritorna a casa, alla fine della giornata, sia che lo si faccia su quattro ruote veloci, sia su quattro piedi che posandosi per terra parlano parole di poesia e speranza.
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(*) = trattasi di espressione generica, di un "voi ipotetico", ovviamente non rivolto ai cari amici viandanti per pensieri, ma largamente spalmato sulla massa eterogenea ed informe di coloro che non sanno "pensare con l'anima".