Anche in questi giorni di rigidità invernali, il giardino, in apparenza bigio, spoglio e muto, coltiva i suoi piccoli mugugni sotterranei, le sue elucubrazioni letargiche, per far sì che come ogni anno la primavera non lo trovi impreparato, al momento di tirar fuori dal guardaroba tutti i suoi vestiti leggeri guarniti di un tripudio di fiorellini e verdi frasche.
La natura appare come contratta nel suo sforzo di allontanare il più possibile da sé tutti i contenuti di acqua, per non offrire il fianco troppo scoperto alle implacabili morsicate del gelo. Tutto sembra un grosso gatto vegetale sonnecchiante sulla sua sedia, centellinando le energie in vista del momento di tornare a compiere i propri eleganti balzi arborei e floreali, fra pochi mesi.
La dice lunga il fatto che i sottili cordoli messi a delimitare sentieri e porzioni specifiche di giardino, in questo periodo si presentino più verdi del prato medesimo, impellicciati come sono da “peluriose sofficità” muscose. Praticamente, persino il cemento è più verde dell’erba, a questo punto dei giochi stagionali.
Poi l’attenzione viene attirata da una strana faretra di frecce un po’ rinsecchite ed aperte a ventaglio nell’aria pungente del mattino. Le punte di questi dardi sono minute e rossicce, con delle venature a lisca di pesce, che sembrano state ricavate sfregando un preistorico bocciolo di selce floreale.
Chi potrebbe sospettare che dietro l’apparenza spoglia di questi sparuti spuntoni si cela in realtà la spumeggiante sagoma di future ortensie in fiore? Ci vorranno ancora diverse settimane, ma alla fine la freccia ancora una volta esploderà nei tripudianti palloncini di mini-petali ammonticchiati, tipici di questo fiore.
Per ora tutto è rattrappito, intirizzito, trattenuto dentro, ma questi piccoli accenni fugaci lasciano intendere che la vita sotto continua a pulsare, si è solo presa la consueta pausa di riflessione. Solo alcune avanguardie irriverenti giocano a “bastian contrariare” l’andamento generale del paesaggio, e si divertono a “sbruffoneggiare”, cacciando fuori una improbabile bacca rossa, oppure si gigioneggiano nella loro grassezza plantare, sfidando sfacciatamente ogni regola del buon senso vegetale e del risparmio idrico normalmente consigliato di questi gelidi tempi.
Mi è venuto allora da pensare ai miei libri, i miei beneamati libri.
Non posseggo una biblioteca sterminata, ma almeno ho la soddisfazione di essermela creata tutta da solo, pian piano, nel tempo, aggiungendo volume a volume, e legando in questo modo i diversi periodi della mia vita alla lettura di un particolare romanzo, di un certo saggio, di una biografia, di una raccolta di poesie, ecc.
Ciascun libro, o quasi, l’ho sempre acquistato quando ne sentivo la “necessità”, quando mi sembrava di intuire che fosse arrivato il momento giusto per quel tipo di lettura. Talvolta anche quando reputavo che non avrei potuto essere sereno senza avere accanto a me quel testo.
Però non sempre si riesce a cogliere la sintonia perfetta fra esigenze dello spirito ed il giusto nutrimento culturale da offrirgli. E così è successo, e continua a succedere, che tanti libri mi sbocciano fra le mani, fioriscono nei miei sensi e nel mio animo, li leggo e “li vivo”, traendone godimento supremo, intimo piacere ed innalzamento interiore.
Ma molti altri finiscono invece per riposare nel loro letargo, in qualche parte della casa, solamente perché non avevo calcolato bene quale fosse il loro momento opportuno, la loro stagione da far combaciare ai tempi della mia vita.
Se ne stanno lì, nella libreria, in un armadietto, in uno scatolone, nel ripiano basso del comodino, buoni buoni, in attesa. Per ora si tengono in disparte, dietro il riserbo delle copertine, consapevoli del flusso vitale che continua a scorrere nascostamente lungo le loro righe, solo momentaneamente private dell’acqua di uno sguardo che le percorra avanti e indietro. Come la simil-selce ritratta dell’ortensia pronta ad esplodere nella sua sfericità estiva, recano fra la pagine tutto il loro carico di bellezza, e un giorno o l’altro lo depositeranno dentro di me in tutto il proprio turgore culturale vellutato e sinuoso.
Sta succedendo in questi giorni con un libro che mi procurai ormai tanti anni fa, e la cui lettura tentai di approcciare già diverse volte. Ma si vede che fino ad oggi non era mai stato il momento buono.
Parlo di «L’uomo senza qualità» di Robert Musil, e scusate se è poco. Questo libro è reputato uno dei capisaldi della letteratura del Novecento, uno dei quattro pilastri fondanti, insieme all’«Ulisse» e al «Finnegans wake» di Joyce, e alla «Recherche» di Proust.
E anche se queste classificazioni sono pur sempre un po’ artificiose e limitative, questo non toglie il fatto che il testo di Musil rimanga un libro epocale e di estrema complessità culturale.
In questi giorni ne ho letto un centinaio di pagine e sembra la volta giusta, anche se dovrei andare cauto, perché con un testo su due tomi per un totale di quasi duemila pagine, un misero centinaio sono poco più che un prologo. Ma stavolta mi pare che la lettura mi rimandi sensazioni positive, mi sento in sintonia con la narrazione, la sento entrarmi dentro, come mai mi era accaduto nei precedenti tentativi di assalto alla roccaforte del supremo mistero celato in questo libro.
E’ una prosa lussureggiante, non saprei definirla altrimenti. Leggere questo testo è come ritrovarsi nel pieno di una foresta pluviale di concetti ed emozioni, immersi in un abbraccio tropicale di liane narrative, fronde sintattiche, colossali radici semantiche che affiorano impetuose dal floridissimo terreno del testo scritto.
Insomma: un’ardua impresa da lettore, una sfida bella e buona. Spero solo non si tratti dell’ennesimo tentativo andato a vuoto. Ma stavolta sono fiducioso di ritrovarmi sbocciata in cuore, fra una pagine a l’altra, la bellezza culturale di tante ortensie in fiore.
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Prima di congedarmi anche per oggi, cari amici viandanti per pensieri, volevo fare una piccola precisazione su quel gadget che avrete visto comparire in alto sulla destra, quella foto rivisitata del celebre elmetto di “Full metal jacket”.
“Born to write”: mi sembrava bello rivedere in questo senso la frase del soldato Joker, “Born to kill”, già di per sè ricca di intenti paradossali e di intenzionalità complesse, con quel suo beffardo accostamento al simbolo della pace.
“Nato per scrivere”: è così che molte volte mi sento. Ma la cosa non vuole sottintendere trombonesche prese di posizione, né auto-incensamenti dal sapore messianico. Non è che mi sono montato la testa, non mi sto auto-assegnando onorificenze o qualifiche di profeta della domenica. “Nato per scrivere” vuol dire soltanto che è la cosa che mi sento di riuscire a far meglio nella vita. Magari la faccio pure da schifo e dunque figuriamoci allora come faccio tutto il resto, ma scrivere per me finisce molto spesso per far fortemente rima con vivere, e trovo il tutto una cosa molto bella.
Insomma, mi sento “nato per scrivere”, ma nel contorto e complicato modo in cui il soldato Joker si sentiva “nato per uccidere”, compreso il fatto che, così come è senza dubbio meglio fare la pace o l’amore invece di uccidere o fare la guerra, sarebbe altrettanto preferibile vivere di più e scrivere di meno. Ma proseguendo di questo passo, si finisce per imboscarsi in un groviglio di flanellose questioni che nemmeno il supremo “Tagliamosche”, leggendario spaccatore del pelo in quattro di Gillipixiland, avrebbe saputo dirimere.
Dunque, non preoccupatevi, cari amici viandanti per pensieri: foto più o foto meno, sono ancora io, Gillipixel, il solito imbratta pagine di sempre…