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giovedì 27 settembre 2018

Schiavi del godere


I buoni libri sono fecondi di riflessioni, e a questa pregiata regola non sfugge il classico saggio socio-psicologico di Herbert Marcuse, “Eros e civiltà” (1955-1966).

L’uomo, fin da quando poté definirsi tale, è sempre stato preso nel mezzo (come individuo e come specie) da due fondamentali principi: quello di realtà e quello di piacere.

Come nostra tendenza ideale, intima, se fosse possibile, ci tufferemmo fisico e mente nel godimento completo e assoluto. Mangiare, bere, gozzovigliare, far l’amore, ubriacarsi, drogarsi, scherzare sempre, dormire, giocare…immaginate tutto quello che nella vita tende al piacere…cosa ci impedisce di votarcisi completamente, senza risparmiare nemmeno un milligrammo di energia goduriosa?

Ce lo impedisce il fatto che dopo tre giorni (per i migliori quattro) ci autodistruggeremmo. Ecco allora che evolutivamente la nostra specie ha imparato ad edificarsi un antidoto per evitare di annientarsi con le proprie mani.

Questo paracadute è il principio di realtà, e si compone di senso del dovere, misura, senso di colpa, lungimiranza, prudenza, rispetto, laboriosità, impegno…sono tutti quegli ingredienti che rendono sì la vita meno gaudente, più faticosa, dura, difficile, ma ci consentono di poter continuare a chiamarla vita, anziché morte.

Ora, dopo secoli che principio di piacere e di realtà stavano nei loro rispettivi posti, cos'è successo con l'avvento della cosiddetta civiltà consumistica?
In una società che ha elevato la produttività a suo primario valore, facendo passare tale fondamentale obiettivo attraverso la macina del consumo, il piacere per forza di cose si è visto tramutato in dovere.

Per produrre di più, serve consumare sempre più, ma il consumo va sollecitato. La miglior molla di convincimento in quel senso la si può ritrovare in tutti quei meccanismi interiori che sono di pertinenza del principio di piacere: appetiti, desideri, voglie, golosità, bramosie, invidie persino.
Il martellamento pubblicitario è la dimensione principe in cui far crescere rigogliosa tutta quella messe di “solleticanti”.

Ci ritroviamo così con le carte in tavola alquanto sparigliate. Laddove il dovere si sforzava di arginare il piacere, ci accorgiamo che è il piacere a far strabordare il dovere.

Con gran rassegnazione, accettiamo la stramba sentenza: per poterci rettamente osservare nel profondo della coscienza e vederci qualcosa di “giusto”, sentendoci a posto, siamo stati condannati a godere.

E di tale stravolgimento dimensionale, non c'è più efficace immagine di quella del gioco d'azzardo statalizzato, non del tutto dissimile a una sorta di masturbazione praticata con guanto di carta vetrata.

sabato 29 agosto 2015

C’è chi suole risuolare


Con maggiore frequenza di quanto normalmente non si pensi, la sfavillante scarpa all’ultima moda si rivela il perfetto esito di una risuolatura coi fiocchi. Che si tratti di risuolature volontarie o preterintenzionali, non lo saprei dire. Di fatto il cuoio nuovo ha spesso molto da invidiare a quello vecchio.

Rimasi non poco affascinato quando appresi di un giochetto linguistico Surrealista, pensato per sfidare ad un tempo l’aleatorietà espressiva e i confini più estremi della fantasia. Lo definisco “giochetto” in maniera affettuosa, ma in realtà si tratta di una delle tante strabilianti provocazioni con le quali i geniali esponenti del Surrealismo hanno assestato fondamentali scossoni conoscitivi alla cultura del Novecento. Il tutto è spiegato in un brano preso dal “Manifeste sur l’amour faible et l’amour amer” (Manifesto sull’amore debole e sull’amore amaro), scritto da Tristan Tzara (1896-1963) nel 1920. Ci illustra niente meno che una ricetta per composizioni poetiche “fatte in casa”:

«…Prendete un giornale. Prendete le forbici. Scegliete nel giornale un articolo della lunghezza che desiderate per la vostra poesia. Ritagliate l’articolo. Ritagliate poi accuratamente ognuna delle parole che compongono l’articolo e mettetele in un sacco. Agitate delicatamente. Tirate poi fuori un ritaglio dopo l’altro disponendoli nell’ordine in cui sono usciti dal sacco. Copiate scrupolosamente. La poesia vi somiglierà. Ed eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, benché incompresa dal volgo…».

Non so se Tristan Tzara avesse letto l’opera di Jonathan Swift (1667-1745). Ma sia come sia, la mia meraviglia non è stata minore, quando ho letto un certo passo dei celeberrimi “Viaggi di Gulliver in vari paesi lontani del mondo” (1726). Ci troviamo nella terza parte delle avventure, il nostro eroe è giunto alla remotissima terra di Balnibarbi. In particolare, ha avuto il privilegio di visitare l’accademia di Lagado (capitale di quella terra), dove eminenti studiosi rimuginano tutto il giorno per escogitare le più strampalate invenzioni e teorie. 

L’attenzione di Gulliver cade su un bizzarro macchinario che, a detta del professorone suo ideatore, avrebbe consentito a chiunque di diventare un eminente uomo di cultura, senza fare alcuna fatica. Racconta Swift: 

«…Ognuno sa infatti quanto laboriosi siano i comuni metodi per iniziarsi alle arti e alle scienze; con quell'invenzione, invece, l'uomo più ignorante con una spesa modesta e un po' di fatica fisica poteva scriver libri di filosofia, poesia, politica, diritto, matematica e teologia senza bisogno di essere minimamente aiutato dall'ingegno o dallo studio. Mi condusse poi alla macchina lungo i cui lati eran schierati tutti i suoi discepoli […]. La superficie risultava di vari pezzetti di legno, della grossezza di un dado da giuoco, alcuni più grandi degli altri; sottili fili di ferro li legavano insieme. Su ogni lato di questi cubetti v'era incollato un quadratino di carta, e su questi quadratini eran scritte tutte le parole del loro linguaggio nei vari modi, tempi e declinazioni, ma senza alcun ordine. […]. A un suo cenno, gli allievi afferrarono ciascuno una manovella di ferro, essendovene appunto quaranta fissate tutt'intorno ai lati della macchina, e la fecero rapidamente girare: tutta la disposizione delle parole cambiò a un tratto. Egli comandò allora a trentasei dei suoi ragazzi di legger piano le varie righe così come apparivano sulla macchina; e, quando essi trovavano tre o quattro parole in fila che potevano far parte di una frase, le dettavano ai quattro rimanenti discepoli, che fungevano da scrivani. Questa operazione fu ripetuta tre o quattro volte: la macchina era fatta in modo che, a ogni girata di manovella, le parole cambiavan di posto col rovesciarsi dei cubetti. Per sei ore al giorno quegli studentelli erano occupati in tal lavoro, e l'accademico mi mostrò vari grossi volumi in folio già riempiti di frammenti di frasi…».

Cosa aggiungere di più? 

Sapevo già che risuolare sotto il sole non è solinga e saltuaria soluzione. E avevo anche capito da solo che Swift era un gran surrealista ante-litteram. Ma non provavo così tanto stupore epifanico, da quando scoprii che “I will always love you”, canzone portata alla ribalta nel 1992 da Whitney Houston fra i brani in colonna sonora del film “Guardia del corpo”, è in realtà la cover di un brano del 1974, cantato in origine dall’ubertosa Dolly Parton.


giovedì 13 agosto 2015

Ferragosto e mici letterari


Cari amici viandanti per pensieri, nonostante tutto, anche per quest’anno vi faccio gli auguri di buon Ferragosto. Questo mese, ormai lo sapete, non è propriamente il mio preferito. E nemmeno questa festa, se proprio ve lo devo ribadire. 

L’avevo forse già scritto: agosto mi dà sempre l’idea del mese eccessivamente maturo. E’ un frutto ad un passo dalla marcescenza. E’ un odore corporale dolciastro, ad un millimetro dal diventare tanfo, maldestramente coperto con profumi da poco prezzo. Agosto è sempre carico di una sua corposità struggente. Per quanto mi possa piacere poco, è pur sempre un mese molto fascinoso e denso. Ecco, più che piacermi poco, lo trovo faticoso dal punto di vista esistenziale. Agosto è un continuo languore sfinente, una pena d’amore sparata a salve, è spossatezza sensuale senza meta.

Ma se non altro, è una mesata anche fortemente letteraria. Volendo associare a ciascun mese il proprio libro di riferimento (però, mica male come gioco: devo ricordamene per prossime scribacchiate!), agosto per me corrisponde a “Il giardino dei Finzi Contini” di Giorgio Bassani, oppure, anche se sembra banale dirlo, a “Luce d’agosto” di William Faulkner. 

In virtù di un magico interludio libresco, mi è capitato fra le mani in questi giorni uno di questi libri dallo spirito fortemente agostano. Era da tempo che avevo in previsione di leggerlo, e il caso ha voluto che sia successo proprio ora. Parlo del capolavoro di Elsa Morante, “La Storia”.  Si tratta di un “libro-agosto” molto intenso. Scritto con una prosa così incredibilmente bella da fartene amare ogni virgola. 

Di questo stupendo libro, voglio riportarvi due brevi passi, in forma di mio augurio per il presente Ferragosto. Mi hanno colpito per la bellezza introdotta soprattutto dalla tematica felina. Quasi superfluo dire che sono commoventemente “agostani” fino alla più intima essenza dell’ultima sillaba. 

Vilma è una povera popolana che non ha nessuno al mondo, comunemente considerata semideficiente. E’ a suo modo una Cassandra inascoltata, quando reca le terribili notizie sull’andamento della guerra, raccolte in altri quartieri nel suo vagabondaggio quotidiano. Nessuno però le dà mai retta, preferendo illudersi che si tratti solo di infondate fantasticherie di una mente labile. Unica sua oasi affettiva sono i gatti randagi del suo rione. Ecco come ce la dipinge Elsa Morante, con l’impagabile “agostanità” che sapeva trarre dalla sua penna preziosissima: 

«…Fra costoro, ci si incontrava, ogni tanto, una ragazza invecchiata di nome Vilma, trattata, là in giro, per una mentecatta. I muscoli del suo corpo e del suo volto erano sempre inquieti, e lo sguardo invece, estatico, troppo luminoso. Era rimasta orfana assai presto, e, per incapacità d’altro, si adattava a servizi pesanti, come un facchino. Scavallava tutto il giorno, infaticabile, in Trastevere e Campo dei Fiori dove andava pure mendicando avanzi, non per sé, ma per i gatti del Teatro Marcello. Forse la sola festa della sua vita era quando, verso sera, si sedeva là su un rudere, in mezzo ai gatti, a spargere in terra per loro delle testine di pesce mezze marce e dei rimasugli sanguinolenti. Allora il suo volto sempre febbrile si faceva radioso e calmo, come in Paradiso…».

Vilma è un personaggio minore, ma la incontriamo di nuovo dopo diverse pagine. Se possibile, qui il “senso di agosto” è ancora più penetrante, intriso nelle parole, come una luna afosa e gigantesca, intinta nella tremula catramosità notturna all’orizzonte: 

«…A intervalli capitava sempre d’incontrare Vilma, avvilita perché, di giorno in giorno, la raccolta degli avanzi si rendeva più difficile, e inoltre ogni volta aumentava, fra i suoi gatti dei ruderi, il numero degli assenti all’appello. Essa li conosceva uno per uno, e se ne informava in giro con una misera voce sconsolata: “Non s’è più visto lo Zoppetto? E Casanova? E quello senza un occhio? E Fiorello? E quello roscetto, con le croste? E quella bianca, incinta, che una volta stava dal fornaio?”. Gli interrogati le ridevano in faccia; ma tuttavia la si sentiva chiamare, inguaribilmente, di fra i ruderi del Teatro Marcello: “Casanoovaa!!! Baffetti!!! Boomboloo!!!”…».

“La Storia” di Elsa Morante, dunque: grande libro dall’intensa agostanità. 

E buon Ferragosto a tutti!!!


mercoledì 12 novembre 2014

Vucumpropoli


Quando si è immersi nella consuetudine fino ai capelli, per forza di cose si fatica a distinguere bene ciò che ci circonda. E vorremmo ben vedere! Ma come si fa vedere con gli occhi affondati in qualche cosa?

Ogni tanto viene utile allora uno scrollone di consapevolezza. Fare mentalmente come in certi film un po’ datati. Qualcuno sveniva e subito si levava per la stanza il grido tipico: presto, i sali! I mitici sali. Che cosa siano di preciso non l’ho mai saputo (e forse non lo voglio nemmeno sapere). Mi pare di aver sentito dire da qualche parte che si tratta di una sorta di super concentrato puzzone, tipo un gran fetore di carogna amplificata in pochi grammi di sostanza, in grado di mollare uno strattone sensoriale anche alla proboscide di un pachiderma.

Ci vorrebbe proprio uno scossone del genere, per cavarci fuori dall’assuefazione commerciale in cui siamo ficcati fin sopra alla testa. Non ci accorgiamo quasi più di niente, perché tutto è ormai troppo. Ma da mattina a sera, siamo circondanti, assediati, assillati, scassamichiati da gente che ci vuole vendere qualcosa. Viviamo vite completamente in vendita. 

D’accordo, per molti aspetti, è sempre stato così. Comprare, vendere e l’insieme di regole che fanno da panorama a queste due fondamentali attività: sono tutte questioni di civiltà importanti, conquiste della cultura e dell’ingegno umano. Ma forse mai prima della nostra epoca, la cosa ci era entrata così tanto nel profondo dell’essere, sino ad imbibirci il midollo. Proviamo allora a dare un’annusata profonda a un bel carognone scrollatore, tiriamoci fuori per un attimo dalla melma commerciale totalizzante (magari proprio sniffando il suo fetore) e rendiamoci un attimo conto: è impressionante. 

E’ la vucumprizzazione della realtà (la bruttezza immonda della parola è in qualche modo voluta: sempre per rendere più efficace l’effetto puzzaccia di carcassa frollata).  

Tutti ti vendono di tutto. Non fai in tempo a girarti, che ad ogni angolo sbuca un tizio che ti offre cose in cambio di denaro. Ti telefonano a casa in continuazione: vu cumprà? Te lo scrivono sui muri delle città, su cartelloni, insegne luminose, autobus, taxi: vu cumprà? Te lo scrivono per posta: vu cumprà? Non parliamo della tv, dei giornali, di internet: vu cumprà? Vu cumprà? Vu cumprà?

Uno degli aspetti più grotteschi di tutto questo, è che poi magari perdiamo la pazienza (anche giustamente, non dico di no) quando è un extracomunitario per la strada, o chi per lui, ad importunarci con qualche sua offerta di cianfrusaglie. Lo schiviamo, passiamo oltre stizziti, ma non ci rendiamo conto che è quasi come se gli stessimo dicendo: «…Ehi, lasciami perdere, non vedi come sono impegnato? Devo già farmi fracassare tutto il giorno le palle da ben altri venditori! Non ho tempo per il tuo dilettantismo…tzk, tzk…».

Che poi, siamo alle solite. Fossero cose che dico io, va beh, ci si potrebbe passare sopra con un liberatorio: ma va a dà via al cül, va là Gilipix!

Ma il punto è che non lo dico solo io:

«…Secondo Michael Sandel, filosofo e professore alla Harvard University, si è passati in pochi anni e senza rendersene conto “da un’economia di mercato a una società di mercato”, con una differenza sostanziale: “la prima è uno strumento per organizzare la produzione, la seconda è una società dove tutto è in vendita, dove il pensiero di mercato permea tutte le sfere del vivere”. Il mercato è il modello delle relazioni sociali, l’unico valore considerato è il valore di scambio. La crisi è stata utilizzata non solo per imporre delle riforme, ma, ancora peggio, per rafforzare ulteriormente l’idea di una presunta “obiettività” degli stessi concetti di mercato e libero scambio.

“Ogni organizzazione sociale, per potersi stabilire, deve fondarsi in maniera cruciale sull’incorporare nel senso comune tutto un insieme di credenze – idee al di là di ogni questione, assunzioni talmente profonde che lo stesso fato che siano delle assunzioni è raramente portato alla luce. Nel caso del neoliberismo, tale insieme di idee ruota attorno alla supposta naturalezza del mercato, al primato dell’individuo competitivo, alla superiorità del privato sul pubblico […] Il tentativo è quello di presentarli come verità eterne – i concetti del mercato e dell’individualismo sono una mera descrizione di uno stato ideale di natura”("After neoliberalism: analysing the present" - Stuart Hall, Doreen Massey, Michael Rustin - "Soundings" - 2013) …».

Dobbiamo restituire fiducia ai mercati - FALSO!” - Andrea BaranesEd. Laterza (2014)

venerdì 31 ottobre 2014

Né cicisbei, né bottegai


Da piccolo avevo orrore del Comunismo. Diventato grande, continuo ad avere orrore del Liberismo estremo. L’apparente incoerenza, del tutto voluta, fra le due affermazioni, è presto spiegata.

Non sono stato un bambino problematico, ma problematizzato sì. Anche se di questo fatto mi sono reso conto solamente tanti anni dopo (per fortuna). Ho sempre cercato di osservare le cose, per così dire, “di lato”. O meglio, ogni volta che ci riuscivo, anche “dal di sopra”. Non voglio mettervi in allarme: niente paura, anche io stavo tutti i pomeriggi a perder tempo al campetto con gli amici, oppure a gironzolare in giro con la bici, alla ricerca di qualche guaio da combinare. Non è questo il punto. Il punto è che fin da un’età precoce, mi è sempre piaciuto prestare ascolto alle cose da grandi che uscivano dalle bocche dei grandi. Ci capivo un centesimo, ma il telegiornale lo ascoltavo. Ci capivo ancora meno, ma i discorsi degli adulti non mi annoiavano.

In qualche modo intuivo (anche se non me rendevo conto pienamente, allora, sempre per fortuna) che uno dei destini più meschini che ci possano esser riservati è quello di rimanere impelagati, rispetto alla Storia che ci scorre intorno, nel suo proprio “particulare”. Non avere la forza di elevare lo sguardo al di sopra delle contingenze storiche: questo è un guaio. L’ho imparato ancor meglio in seguito, anche studiando un po’ di filosofia. La secolare avventura umana non è del tutto sbagliato osservarla metaforicamente come un grosso organismo vivente, come un fenomeno globale, che in grande riflette la sostanza e i meccanismi dei fenomeni reali minuti.

Così come l’uomo singolo, anche la Storia allora ha bisogno di vivere sopra degli equilibri. Non siamo totalmente sociali, ma non possiamo essere completamente individuali. Abbiamo bisogno del sostegno collettivo, così come ci serve, al pari dell’aria che respiriamo, la nostra libertà individuale. Lo capivo anche io, già da bambino, soltanto facendo una semplicissima auto-osservazione su me stesso (se mi si passa la ridondanza). Stare al campetto tutto il giorno era stupendo, ma veniva il momento in cui mi rendevo conto che bisognava tornare a casa. La libertà, anche solo a pensarla assolutamente senza vincoli, smetteva subito di avere significato, anche per quello che poteva capire l’ingenuo intuito di un pre-sbarbatello.

In apertura ho parlato di Comunismo e di liberismo, intendendo i due termini in senso più che altro paradigmatico, e non proprio in riferimento alle loro specificazioni storiche. Con Comunismo (ben consapevole che come fenomeno storico esso non è stato solo questo) intendo un estremo “ideale”, tipizzato, di concezione della società, che riconosca come unica dimensione dell’uomo, la dimensione sociale.

Lo stesso per liberismo: anche qui, intendo la condizione “ipotetica” di sbaragliamento di ogni regola che limiti il “libero” agire umano, un estremo “ideale”, tipizzato, di concezione della società, che riconosca come unica dimensione dell’uomo, la dimensione individuale.

Per approfondire cosa intendo, l’opponibilità dei termini potrebbe essere specificata anche con “statalismo” da una parte e “privatismo” dall’altra; “collettivismo” opposto a “particolarismo”.

Ora, non ci vuole un genio a capire che, almeno da trent’anni a questa parte, la bilancia si è pericolosamente messa a pendere dalla parte del piatto che sorregge l’anelito individualistico della visione sociale. E questo non va per niente bene. Il mondo pretende di stare sempre al campetto a fare i cavoli propri. Ma a casa ci sono da fare i compiti, da mangiare la minestra di verdura e andare a letto dopo Carosello.

La cosa curiosa è che ho riflettuto quasi da sempre su queste idee e un bel giorno, leggendo un bel libro, in qualche modo ce le ritrovo dentro. Trovando ancora una volta la conferma del fatto che la letteratura ci parla della nostra vita. Mutate tutte le mutande possibili; fate tutti i distinguo e gli adattamenti del caso; modellate con spirito interpretativo e adeguate il discorso nel nome del saggio motto di Sant’Agostino («…la lettera uccide, lo spirito vivifica…»). E poi ditemi se non è una soddisfazione leggere cose di questo tipo:

«…La morale che da tutto ciò si ricava è che chi entra nell’ambiente di corte compromette, se è felice, la sua felicità; e s’espone comunque a far dipendere il suo avvenire dagli intrighi d’una camerista. D’altra parte, in America, in regime repubblicano, occorre rassegnarsi a fare tutto il giorno la corte sul serio ai bottegai ed a ridursi stupidi come loro; col compenso, a rovescio, che là non c’è neanche l’Opera…».

La Certosa di Parma” (capitolo XXIV) – Stendhal, 1839


lunedì 28 aprile 2014

Scommessa con l’ignoto


Certe volte vale la pena affrontare libri ostici. Sia quando sono raccomandati da una tradizione di sapienza assodata, sia nel caso di autori meno noti, ma che si distinguano per una loro certa qual forma di “oltranzismo” intellettuale. 

La lettura, in quei casi, spaventa e disorienta, ci si capisce poco, si è costretti a combattere di continuo contro un vago scoramento in sottofondo. La stizza derivata dall’ardua comprensione e la forte tentazione di abbandonare sono sempre dietro l'angolo. Le righe vanno lette e rilette più volte, per riuscire a carpire perlomeno piccoli lampi di senso qua e là. Ma poi, se il libro è davvero “custode di profondità”, in qualche modo ti ripaga. Insomma, conviene affidarsi ogni tanto ad un autore che sa “spingersi oltre”.

Nella vita, conoscendo persone di ogni tipo, carattere ed indole, mi è successo molte volte di incasellarle inconsciamente in due generalissime categorie umane: ci sono coloro che affrontano le cose con sguardo filosofico, e coloro che sono esenti da tale sguardo. Naturalmente è più probabile che sia dotato di sguardo filosofico chi ha effettivamente affrontato lo studio della filosofia a scuola. Ma questa non è una condizione rigorosamente necessaria a tutti i costi. 

E' buona cosa aggiungere poi che questa classificazione non va intesa come riferimento a due compartimenti stagni. Come spesso accade, è difficile che un individuo rientri completamente nelle caratteristiche di un “tipo distintivo” precisamente definito. La realtà funziona più per sfumature, che non per nette separazioni fra bianco e nero. Non ci saranno dunque “ciechi filosofici completi” da una parte, e “vedenti filosofici assoluti”, dall'altra. Sarà opportuno invece parlare, di caso in caso, di “miopia filosofica”, di “presbiopia filosofica”, di “astigmatismo filosofico”, oppure di “lungimiranza filosofica a tratti offuscata da nubi e nebbie”, e così via.

Un bellissimo condensato di definizioni riguardanti cosa significhi possedere uno sguardo filosofico sul mondo, l'ho rinvenuta in un libro molto ostico (tra l'altro da me già citato la scorsa volta), ma altrettanto soddisfacente e “nutriente”. Il libro in questione è “Terminologia filosofica”, di Theodor W. Adorno (edizione, nella fattispecie, Einaudi, del 2007), una raccolta di lezioni universitarie tenute agli allievi di Francoforte fra il 1962 ed il 1963. Nella sua lezione numero 11, intitolata “Filosofia e saggezza”, Adorno afferma:

«...La filosofia può essere addirittura definita come un atteggiamento che cerca, per quanto può, di spezzare l’universale contesto di accecamento; secondo questa interpretazione – che in nuce si trova già in Eraclito – la filosofia è resistenza contro l’opinione costituita, che si identifica in larga misura con la colpa universale...[...]...nella misura in cui la filosofia rappresenta effettivamente la resistenza intellettuale organizzata, essa è opposizione contro le convenzioni e i clichés che sono coniati dalla società. Un individuo che non ha mai provato disgusto per quello che tutti pensano e tutti dicono, per quello che gli è messo davanti senza che l’abbia chiesto, un soggetto simile non può giungere alla filosofia. Bisogna vedere la costrizione, l’ingiustizia e la menzogna che stanno dietro l’ovvietà, bisogna vedere come certi modi individuali di comportamento che considerati isolatamente appaiono giusti e ragionevoli meritino invece valutazione completamente diversa se considerati nel tutto sociale a cui appartengono. Bisogna far luce sul contesto di accecamento, come si sono sforzati di fare Eraclito nell’antichità e Schopenhauer nella filosofia moderna. La filosofia è resistenza contro tutti i clichés, che è diventata consapevole…».

Ci sono, in queste poche righe, alcune espressioni che rifulgono di una potenza estrema, straordinari “poli di condensazione significativa”. Ho riportato tutto il passo, per ovvi motivi di completezza, ma i punti in cui l'intensità si esprime nel suo fulgore massimo, sono secondo me ben precisi, ed offrono uno spettacolo intellettuale mirabile, nell'evidenza dell'isolamento:

«...spezzare l’universale contesto di accecamento...»;

«...resistenza contro l’opinione costituita, che si identifica in larga misura con la colpa universale...»;

«...resistenza intellettuale organizzata...»;

«...opposizione contro le convenzioni e i clichés che sono coniati dalla società...»;

«...Un individuo che non ha mai provato disgusto per quello che tutti pensano e tutti dicono, per quello che gli è messo davanti senza che l’abbia chiesto, un soggetto simile non può giungere alla filosofia...»;

«...la costrizione, l’ingiustizia e la menzogna che stanno dietro l’ovvietà...».

Guardandosi intorno, ci si rende conto di come invece l'accecamento e l'ovvietà prevalgano. La “passività intellettuale organizzata” è preferita dai più. Mentre si è fatto fortissimo il “senso di colpa universale” che attanaglia, come una camicia di forza esistenziale, il soggetto al quale capiti, per i più disparati motivi, di ritrovarsi deragliato dagli standard di vita (materiali, ma soprattutto riguardanti lo “status sociale”) dettati dall'opinione costituita.

Gioverebbe alla realtà quella particolare incoscienza-coraggio (che solo uno sguardo filosofico sul mondo sa fornire) di spingersi alle più elevate quote del pensiero. Sospettare sempre di quello che ci è “messo davanti senza che lo abbiamo chiesto”. In poche parole, servirebbe più capacità di saper guardare alle cose con “sguardo filosofico”, nell'accezione complessa di questa espressione suggerita da Adorno (che non si esaurisce alla mia breve citazione, ma è estesa per tutto il bellissimo tomo da cui l'ho estrapolata).


domenica 2 febbraio 2014

Quant'è luogo questo comune...



Sto quasi portando a termine una delle mie “imprese di lettore” più soddisfacenti di sempre. Questa volta il tomo scelto è uno dei più “tomeschi” di tutta la storia della letteratura: «I fratelli Karamazov» di Fëdor Dostoevskij. Non sto nemmeno lì ad unirmi al coro di voci che nei decenni avranno detto meraviglie riguardo a questo portentoso libro. In poche, ritrite, ma veritiere parole: un capolavoro assoluto.

La complessità magmatica della vita, afferrata con grazia brutale per la cavezza, nell'improbo tentativo di domarla e di forgiarla in una qualche sagoma proteiforme: solo con questa “pomposeggiante”, e pur sempre elusiva perifrasi, posso forse tentare di definire quest'opera infinita.

E' un libro che per poterne parlare degnamente servirebbero altri dieci libri, altrettanto voluminosi. Mi limito a riportare una deliziosa epifania, rinvenuta intorno alla pagina 840 della mia edizione (Einaudi tascabili, 2004).

Siamo giunti alla Parte quarta, Libro undicesimo, Capitolo IX: “Il diavolo. Incubo di Ivan Fëdorovič”:

«...Ho consultato tutta la scienza medica: sanno diagnosticare ch'è un piacere, ti snocciolano la malattia da capo a fondo, così sulle dita, ma al dunque, guarirti non sanno mica. Mi capitò uno studentello esaltato: “Seppure”, diceva, “morrete, in compenso saprete perfettamente di che male siete morto!” Eppoi quella maniera che hanno di mandarti dagli specialisti: noi, sa, non facciamo che la diagnosi, ma lei vada dal tale specialista, che lo farà subito guarire. Davvero, davvero, te lo dico io, è sparito il dottore d'una volta, che ti curava di qualunque malattia: ora non c'è più che specialisti, e badano a farsi la réclame su pei giornali. Ti s'ammala il naso? Ti spediscono a Parigi: là (t'assicurano) c'è uno specialista di fama europea per curare i nasi. Arrivi a Parigi, quello ti esamina il naso: io, dice, vi posso curare soltanto la narice destra, perché narici sinistre non le assumo in cura, questo non rientra nella mia specialità: ma, terminato qui, recatevi a Vienna, là c'è uno specialista apposta che finirà di curarvi la narice sinistra...».

Non credevo ai miei occhi mentre leggevo queste frasi. Uno dei luoghi più comuni fra tutti i comuni luoghi, era già comune nella seconda metà dell'Ottocento. Pensavo che questa cosa si fossero messi a dirla intorno agli anni '70 del Novecento. E invece erano quelli dell'Ottocento. La fondamentale differenza, rispetto ai tempi dei fratelli Karamazov, è che quello era un luogo comune riservato ad un'élite. Il dottore ai tempi se lo potevano permettere i più abbienti. Ecco dunque forse cosa ci abbiamo guadagnato: la democratizzazione del luogo comune.

E' da quando sono bambino che sento dire questa frase: i dottori “di una volta” erano un'altra cosa. L'ho sentito dire quando il mio primo dottore era in piena attività: al posto suo si rimpiangevano gli antichi predecessori. Andato in pensione lui, giù a rimpiangerlo come ormai ri-classificato fra i neo dottori “di una volta”. E così, via, in una ruota sempre più comune di luoghi comuni. E ad ogni giro di ruota, il tema d'accompagnamento che suonava, e suona tuttora in sottofondo, era ed è sempre il medesimo: non ti fanno più nulla, ti mandano subito dallo specialista. Ed il bello, immagino, sta nel fatto che ogni generazione di pazienti è più che convinta di quanto sostiene: solo al proprio giro di ruota è toccato una categoria di medici generici così generica. “Una volta” no, “una volta” sapevano dove mettere le mani, ti curavano loro direttamente, non se la cavavano semplicemente spedendoti dallo specialista.

Gran sagoma d'un Dostoevskij! Dovevo leggere il tuo sontuoso mattone per arrivare a capire a cosa aspirano i medici quando guardano all'agognata pensione: non vedono l'ora di uscire di scena, per essere una buona volta considerati a loro volta medici “di una volta”, e guadagnarsi così finalmente la stima piena dei loro ex pazienti.


lunedì 2 settembre 2013

Italiordor della Terra di Mezzo

 

Mi sto avventurando con molto diletto nei meandri narrativi di una delle più affascinanti storie della letteratura di tutti i tempi: la trilogia del Signore degli Anelli (tradotto dal Gillipixilandese all’italiano: sto leggendo il Signore degli Anelli). Pur rispettandolo “a distanza”, mi ero sempre astenuto dall’affrontare questo libro. E’ una cosa capitata già con altri classiconi. Non è che li ritenga indegni: tutt’altro. Ma uno strano istinto mi suggerisce per lungo tempo di non azzardare il confronto. Poi viene un momento che mi pare essere quello giusto, e allora sento che l’ora della lettura è arrivato. Non sempre ci azzecco, ma il più delle volte è così.

Per dire, ho comprato «Guerra e pace» ed è rimasto a maturare nella mia libreria per quindici anni prima che mi decidessi a leggerlo. Sorte simile è toccata a «Don Chisciotte», «Moby Dick», «Sulla strada», «Cent’anni di solitudine», «L’educazione sentimentale», «Passaggio in India» e vari altri. Tutti libri che in seguito mi hanno regalato grande appagamento culturale.

E lo stesso sta succedendo con il gran librone di Tolkien. Di fatto me lo sto proprio gustando. Ma mai mi sarei aspettato di ritrovare in quelle righe che slalomeggiano alla grande fra avventure di Hobbit, Elfi, Orchi e Nani, un passaggio super-epifanico che sembra esser stato scritto per riassumere in estrema sintesi la situazione sociale e politica italiana degli ultimi decenni.

Sentite un po’ cosa si legge a pagina 308 della mia edizione del libro (Quarta edizione “Bompiani Vintage”, giugno 2013):

«..."E’ necessario che la strada sia percorsa, ma sarà molto difficile. Né la forza né la saggezza ci condurrebbero lontano; questo è un cammino che i deboli possono intraprendere con la medesima speranza dei forti. Eppure tale è il corso degli eventi che muovono le ruote del mondo, che sono spesso le piccole mani ad agire per necessità, mentre gli occhi dei grandi sono rivolti altrove”...».

C’è una domanda che mi vado ponendo ormai da diversi anni: come abbia fatto l’Italia, nonostante l’inenarrabile sequela di “disgrazie dirigenziali” attraverso le quali è incappata, diciamo grosso modo dal 1965 in poi (azzardo una data, ma probabilmente si può andare indietro anche di più), a non affondare nelle sue stesse miserie come il più reietto degli Stati europei e mondiali. Una possibile risposta l’ho trovata nelle parole che Tolkien mette in bocca al nobile Elrond, durante il grande consiglio deli Elfi: se l’Italia, tutto sommato, può chiamarsi ancora, con il minimo indispensabile di dignità, “una nazione”, è stato grazie al lavorio anonimo delle «...piccole mani...» spesso spronate «...ad agire per necessità, mentre gli occhi dei grandi...» erano inesorabilmente «...rivolti altrove...». E se l’Italia riuscirà a tirarsi fuori da questo ennesimo periodo di sofferenza che sta attraversando, sarà forse ancora una volta per il fatto che i deboli, come sempre, avranno intrapreso il cammino con la medesima speranza dei forti.



mercoledì 14 novembre 2012

Piccoli boom diseconomici in tempo di crisi



Una volta sentii Vittorio Sgarbi fare una bellissima considerazione riguardo a «Le diable au corps», il romanzo di Raymond Radiguet («Il diavolo in corpo» - 1923). Non ho letto «Il diavolo in corpo» e nemmeno ricordo per filo e per segno la riflessione sgarbiana, per cui stavolta siamo messi proprio male. Nondimeno mi piacerebbe imbastire un discorso intorno a questi temi, intrecciandoli con un piccolo dettaglio quotidiano osservato nei giorni scorsi, più un’epifania del lettore di tutt’altra origine, dalla quale, allo stesso modo, sono stato calamitato di recente.

Mi sono documentato e, sulla Garzantina di letteratura, a proposito di «Le diable au corps» ho trovato il seguente, succinto, ma interessante sunto: «…storia di un amore del tempo di guerra, nella prospettiva stupita e inquieta  di un adolescente costretto a subire le regole della sconfitta esistenziale degli adulti...».

Il caso di Raymond Radiguet (1903 – 1923), poeta e scrittore francese, impersona forse meglio di qualunque altro il fenomeno del genio artistico sublimato dalla morte nella dimensione di un eterno riferimento ai valori della giovinezza. Visse soli venti anni, ma nel breve lasso di tempo di un lustro o poco più, fece in tempo a scrivere due romanzi (l’altro è «Il ballo del conte d’Orgel», pubblicato postumo nel 1924) e una raccolta di poesie («Le joes en feu», «Le gote in fiamme», anch’essa postuma, del 1925), nonché a fondare nel 1920, insieme a Jean Cocteau, una rivista d’avanguardia artistica intitolata «Le Coq».

L’osservazione di Sgarbi era semplice ma molto efficace. La poetica fondamentale di «Le diable au corps» si incentra sull’idea dello stato di grazia in cui si dipana la giovinezza. Tutto il mondo intorno può anche andare in fiamme, ma il parallelo del proprio vissuto interiore, in quel periodo della vita, è plasmato in continuazione da folgoranti stupori ed “eroismi della gratuità”, in grado di far vivere come immersi in un ininterrotto stato esistenzialmente febbrile. Il protagonista di «Le diable au corps» vive una storia d’amore molto coinvolgente con una donna di qualche anno più grande, ed al cospetto di questo dato così totalizzante per il proprio vissuto personale, anche l’immane tragedia della Prima Guerra Mondiale, uno dei momenti più disperati e disumanizzanti dell’intera storia del mondo, si muta quasi in uno sfondo sfocato e senza sostanziale importanza immediata.

Si badi bene: non è questione di superficialità o di “apatia civile” e sociale, da parte del protagonista di «Le diable au corps», e nemmeno c’entrano il cinismo, l’indifferenza. Si tratta molto più nobilmente di dinamiche esistenziali dalle quali difficilmente ciascun essere umano può esimersi. Per quanto sia smisurato l’universo, per quanto infinite possano essere le stelle, enormi le galassie ed i pianeti rispetto alla nostra misera esistenza individuale, quest’ultima sa tuttavia riservarci immensità interiori la cui estensione emotiva riesce sempre immancabilmente ad oltrepassare in proporzioni persino quello “sproposito dimensionale” celeste. Non c’è infinitezza materiale o storica che un nostro incontaminato e semplice sentimento non sappia sopravanzare con la pura forza del proprio paradossale imporsi a noi stessi.

Come al solito, gli aneddoti tratti dalle mie osservazioni quotidiane sono sempre ben più modesti, rispetto alle originali fonti artistiche in riferimento alle quali mi pare di volta di in volta di poter stabilire un’affinità poetica. Ma la poesia non è mai questione di dimensioni. 

Durante le mie solite camminate sull’argine, vedo (e sento) spesso, appena più sotto la piccola altura di difesa fluviale, un gruppetto di bambini sui dieci anni o poco più, che fanno scoppiare dei petardi. Si dedicano interi pomeriggi alla futile operazione, vari giorni alla settimana, e le piccole esplosioni si susseguono a raffica, senza tante pause. Conosco abbastanza questi bimbi, e meglio i loro genitori. Non sono teppistelli molesti frutto di famiglie problematiche. Sono ragazzini normali, un po’ vivaci forse. E brave persone sono le loro mamme e i babbi. Mi è sorta così una miriade di pensieri fatti a forma di sorriso maldestro, nel considerare questo loro pervicace attaccamento allo spreco economico più futile, praticato in un momento storico in cui tutto intorno, il resto dell’umanità è indaffarata a darsi di gomito, in un vicendevole e continuo ammonirsi riguardo alla drammatica verità di fondo: «…C’è la crisi…». Quei ragazzini non sono stupidi e vagamente credo intuiscano già di stare sprecando soldi sudati con difficoltà dai rispettivi genitori. Ma la loro natura li spinge a rivendicare il proprio diritto ad essere felicemente inconsapevoli. L’energia vitale propria del periodo bambinesco che stanno attraversando s’impone loro senza troppe titubanze o interrogativi ulteriori. La gioia sprigionata da quei mini-botti, per i loro piccoli animi acerbi, è incommensurabilmente indicibile rispetto ad ogni altra ragionevole considerazione.

Visitando i paraggi di questi pensieri, mi se ne è poi imposto un altro ancor più singolare ed indistinto. Mi sono domandato se forse, chissà, in fondo in fondo non stiamo sbagliando proprio ogni cosa, affidandoci esclusivamente a tutto il tecnicismo ed alla commisurata ragionevolezza messi in gioco nel tentativo di superarla, questa crisi. Supportato anche dalla suggestione fornita da alcuni bellissimi versi letti sulla quarta di copertina di «Lettere luterane», una raccolta di illuminati articoli scritti poco prima di morire da Pier Paolo Pasolini, sono rimasto col dubbio se, insieme a tutte le ricette economiche che da più parti si vanno ammannendo, non sarebbe forse altrettanto efficace saper riscoprire nell’intimo dell’umanità un po’ della freschezza di quella insensata energia, ancora custodita incontaminata nell’animo degli svagati bombaroli in miniatura di mia conoscenza.

Non a caso, rileggendo varie volte il densissimo poetare di Pasolini, mi è sembrato che le sue parole si armonizzassero bene con l’eco dei mitraglianti scoppiettii provenienti da poco oltre l’argine:

«…Siamo stanchi di diventare giovani seri,
o contenti per forza, o criminali, o nevrotici:
vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare
qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare.

Non vogliamo essere subito già così sicuri.
Non vogliamo essere subito già così senza sogni…»

sabato 14 aprile 2012

Forma: riforma. Folla: cipolla



Nel bel romanzo giallo citato durante i giorni pasquali, «Un bastimento carico di riso» di Alicia Gimenez-Bartlett, oltre al brano illuminante ricordato la scorsa volta, ho rinvenuto un’altra notevole epifania del lettore.

Nel corso della vicenda raccontata, l’ispettore Petra Delicado, al fine di far proseguire le proprie indagini, chiama al commissariato una testimone, per farle visionare una lunga sequela di foto segnaletiche. La donna, proprietaria di un ristorante e grande esperta di cucina, crede di aver visto nel suo locale un tipo implicato nei reati di cui l’ispettore Delicado si sta occupando.

Con la noiosa rassegna di foto si spera di dare un’identità al sospettato. La cosa dura una mattinata abbondante ed alla buon ora il confronto ha un esito positivo: la cuoca riconosce l’indiziato in una delle fotografie. A quel punto, l’ispettore Delicado ringrazia vivamente la signora e le comunica che può andare.

La donna, che tra l’altro per venire al commissariato aveva dovuto lasciare momentaneamente in sospeso importanti incombenze dietro ai fornelli, ha un piccolo moto di ribellione e pretende di sapere almeno il nome del tizio individuato. E aggiunge una sua metafora per spiegarsi:

«…Non mi va di essere usata e basta. E’ come quando ti dicono di tagliare le cipolle ma non ti spiegano il resto della ricetta. Non mi va, io voglio sapere cosa ci sta a fare la cipolla nell’insieme. Sono una cuoca, non una sguattera, sarà per questo, forse…».

Questa piccola immagine, nella sua semplicità, l’ho trovata molto bella e sorprendentemente profonda. So di addentrarmi in una sorta di volo pindarico fanta-utopico, ma mi sento di dire che questo paragone culinario dovrebbe essere preso in considerazione da chi riveste ruoli decisionali a medi e ad alti livelli dell’intera «impalcatura sociale», e in qualche modo ha la responsabilità di determinare le vite di tante persone.

Cosa servirebbe per far funzionare meglio le diverse realtà di un’organizzazione sociale? Più consapevolezza, più coinvolgimento diffuso, far sentire alle persone che sono parte attiva delle dinamiche in cui vengono coinvolte. Ognuno dovrebbe poter constatare il frutto effettivo della propria azione sociale, professionale, civile, umana. Ciascuno proporzionalmente al ruolo giocato nell’ambito della comunità alla quale si rapporta.

Tutti insomma dovrebbero poter essere consapevoli di «…cosa ci sta a fare la cipolla nell’insieme…» della ricetta, perché ognuno, se può scegliere, preferisce essere cuoco che sguattero.

Senza confusione o sovrapposizione di ruoli, senza accavallamenti di competenze, di prerogative decisionali, di responsabilità o di riconoscimenti ad esse commisurati. Il merito ed il raggio d’intervento riservati ai diversi gradi rimarrebbero dei punti fermi. C’è chi ha talento e qualità per diventare ingegnere, dirigente, politico, imprenditore e chi per essere un buon operaio, o salumiere, o artigiano: a ciascuno il suo, in fatto di complessità, di sfera d’influenza e di relative ricompense sociali.

Ma a nessuno dovrebbe venir richiesto di svolgere un ruolo di pura esecuzione cieca di compiti, per quanto modesti questi siano. Anche il più umile dei cittadini dovrebbe sapere per quale motivo sta tagliando la cipolla, sia in ordine alla propria realtà immediata e, seppur più a grandi linee, anche rispetto all’ambito generale in cui agisce.

Non sarebbe tanto questione di buonismo o di filantropia spicciola. Chi sente di giocare da protagonista nell’ambito dell’organizzazione sociale, in proporzione alle prerogative consone al proprio ruolo, vive in completezza d’identità, è più stimolato a fare bene, a comportarsi virtuosamente, perché presagisce le future ricadute positive tornare già direttamente a suo vantaggio. Se ha un quadro sufficientemente chiaro verso gli orizzonti possibili, vede la strada che sta percorrendo, dove conducono i vari bivi, e sceglie la direzione più favorevole. La sommatoria di tutte le piccole e grandi scelte di ogni componente ai vari livelli, porta a muovere poi una coralità di intenti favorevoli all’evoluzione armonica del quadro generale che si sta tutti insieme dipingendo.

Lo so, parlo di un qualcosa che sta a metà fra una sorta di trasformazione epocale dell’uomo ed i candidi sogni di un illuso. Tematiche di simile portata, pur provenendo dall’estrema semplicità di una cipolla, non sono cosa liquidabili con tre o quattro decreti legge e qualche riformetta della scuola all’acqua di rose. C’è in gioco davvero un nuovo modo di concepire l’individuo, la sua educazione e la sua percezione di sé, del proprio valore, nell’ambito della società. Che cosa possa operare questo lento e graduale sovvertimento sovrumano, chi o quale fenomeno ne abbia la forza, sinceramente non lo saprei dire.

Ma siccome dalla cipolla son partito, sempre con la cipolla chiudo questo articoletto di oggi, riportando gli stupendi versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska, recentemente scomparsa (Kórnik, 2 luglio 1923 – Cracovia, 1º febbraio 2012), che con il suo tipico, profondissimo candore, così diceva in questa impareggiabile poesia intitolata appunto “Cipolla”:

La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa di dentro
senza provare timore.

In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.

Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.

La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezioni.
E a noi è negata
l’idiozia della perfezione.

sabato 7 aprile 2012

Pasqua Delicada a tutti


Questi sarebbero una specie di auguri pasquali, che cominciano però nella classica modalità del più remoto andarperpensierismo.

Mi sono accorto che le epifanie del lettore possono capitarti quando meno te le aspetti e provenire dalla fonte più impensata. Da un giallo, ad esempio.

In questi giorni, sto leggendo un romanzo giallo che mi piace parecchio.

Già in altra occasione raccontai di essere un lettore anomalo di gialli. L’intrico della trama mi interessa fino ad un certo punto. D’accordo, un impianto narrativo bello a garbuglio ci deve essere, perché senza una storia leggermente rompicapo e pollicinamente seguace di “indizi-briciola” disseminati lungo i capitoli, non si potrebbe nemmeno propriamente parlare di vicenda gialla.

Ma un giallo mi affascina molto di più se la psicologia dei personaggi è tratteggiata con sapienza narrativa particolare. Questo sicuramente si verifica nel giallo che sto leggendo adesso, un bel romanzo della scrittrice spagnola Alicia Giménez-Bartlett, una tipa che sicuramente sa come si tiene in mano la penna. S’intitola «Un bastimento carico di riso».

Il meglio del meglio per me, in fatto di gialli, capita appunto quando questi sanno riservare anche vere e proprie epifanie del lettore: la funzione della storia, in quei passaggi, cessa di essere ristretta al puro divertimento e comincia ad assumersi anche alcune, seppur velate, “responsabilità romanzesche”. Oltre a farti trascorrere il tempo, piacevolmente avvolto dalla tensione che ti calamita verso la risoluzione dell’intreccio, ti fa allora riflettere su aspetti della vita, te li pone dinnanzi visti da prospettive inusuali, te li dipinge sotto forme non comuni, capaci di far scattare dentro la molla della divagazione cogitabonda.

Questi sono i gialli che mi piacciono di più e in «Un bastimento carico di riso» ho trovato un’epifania del lettore molto bella. Il personaggio principale dei gialli di Alicia Giménez-Bartlett è l’ispettore di Polizia Petra Delicado. Si tratta di una sorta di Maigret in gonnella, perché pur essendo molto diversa come carattere dal burbero commissario francese, anche lei fa della psicologia e dell’empatia con il prossimo le sue armi investigative migliori. Petra Delicado è un personaggio molto bello innanzitutto perché è dipinta con tratti intensamente umani, e come ogni persona vera risulta spesso forte della coerenza delle proprie contraddizioni.

Come nella miglior tradizione gialla, anche Petra Delicado è corredata dal proprio controcanto umano: si tratta del vice-ispettore Fèrmin Garcon, che nelle avventure affrontate al fianco della sua superiore svolge l’importantissimo ruolo di spalla di completamento, lo specchio che riflette un “simile-contrario”, il dottor Watson della situazione, la moglie ai fornelli di Maigret, il papà di Ellery Queen, l’Archie Goodwin Nerowolfiano, l’Adso nella manica di Guglielmo da Baskerville, un “Aigor” in laboratorio per  il dottor Frankenstiiin.

Nella dinamica di amicizia fra Petra e Fèrmin, nelle loro piccole schermaglie sempre poggiate su sfondi bonari e solidali, si giocano le scene più belle delle loro storie. Un altro felice segreto di questa alchimia narrativa, sta nel fatto che una simile intesa rodata da anni di collaborazione sul lavoro, pur fondandosi alla fine su un affetto profondo, non sfocia mai per i due in qualcosa che vada oltre.

Il territorio amoroso, Petra e Fèrmin lo esplorano ciascuno per proprio conto, con altri personaggi di volta in volta inseriti nelle storie, ma fra loro rimane sempre quella tensione positiva, quell’attrarsi degli opposti, quella convergenza all’infinito mai risolta in aderenza, capace di far gustare in pieno al lettore questa sapiente alchimia di caratteri.

Ed è proprio nella descrizione di un incontro amoroso in cui Petra si ritrova coinvolta, che in «Un bastimento carico di riso» ho rinvenuto una delle più belle scene erotiche mai lette. Non viene descritto praticamente nulla di fisico, se non con vaghi cenni. Ma del trasporto passionale c’è tutto, ne viene colta la più intima essenza, o perlomeno quella che anche io ritengo debba essere tale.

Osservate, leggete con me:

«…Passo dopo passo verso la camera da letto, ci cercammo, ci strappammo l’un l’altro i vestiti tirandoli con rabbia. Immagino che al letto ci arrivammo, ma non ne sono sicura, perché quando sentii la sua pelle calda toccare la mia persi ogni nozione dello spazio e del tempo, e solo il centro del mio corpo mi servì da guida. Riprendemmo coscienza del mondo fra le risate. Veri e propri scoppi di ilarità, quelli con cui si festeggia la pienezza del piacere, la soddisfazione di essere vivi attraverso il sesso, l’allegria per la fantastica marachella che è fare l’amore, uno sberleffo alla tristezza e alla morte…».

Quale miglior modo di augurare buona Pasqua a tutti, mi sono detto allora, se non citando questo bel brano di ottima letteratura?

Non per un irrispettoso senso del mischiare il sacro al profano, si badi bene. Non per ostentare chissà quali tendenze alla trasgressione (se un giorno vi accorgerete che sto diventando trasgressivo, siete autorizzati a sputarmi in un occhio…). Ma per ricordare ciò che in occasione di feste solenni come questa a mio parere è sempre opportuno sottolineare. Come esseri umani siamo pur sempre imperfetti, difettosi e densi di contraddizioni nel nostro intimo. Ora densamente disperati e un attimo dopo, eccoci lì, pronti di nuovo ad inalare gioia da tutti i pori, instancabilmente affamati di una felicità che mai non sazia.

Ma ciò che ancor prima di questo ci contraddistingue è la scintilla di bellezza recata nel proprio profondo da ciascuno. E dovere di ogni individuo è portarla alla superficie, farla risplendere al meglio e possibilmente, condividerla.

Pasqua Delicada a tutti voi, dunque, cari amici viandanti per pensieri.

venerdì 9 marzo 2012

Troppo mondo


Mi sto confrontando in questi giorni con una lettura alquanto impegnativa, nonché parecchio “elevata”. Si tratta di un romanzo campione dello psicologismo più rimuginante, di una storia tanto andarperpensierosa che più di così non si potrebbe. Come al solito, mi guarderò bene dal propinarvi una recensione, compito per il quale mi sono già dichiarato altre volte inadatto. Mi appiglierò invece alla mia attuale lettura, nelle modalità epifaniche che più mi sono congeniali, cogliendo una piccola, preziosissima perla dallo scrigno di questo grande libro.

Dopo un centinaio di pagine percorse lungo i sentieri della vicenda assai mentale del protagonista, mi sono infatti imbattuto in questo fuoco di fila di considerazioni multicolore:

«…Il velo di Dio steso sopra le cose ne fa degli enigmi. Se non fossero tutte così minuziosamente particolareggiate, e così inesauribilmente ricche, forse mi riposerebbero di più. Ma io sono prigioniero della percezione, testimone obbligato. La realtà è troppo appassionante…».

Herzog” – Saul Bellow1961

Oltre ad avermi beato le sinapsi in virtù della sua bellezza, questa epifania del lettore mi ha dato lo spunto per alcune riflessioni. Da una parte, le parole di Saul Bellow hanno consolidato in me la propensione ad interrogarmi intorno ad uno dei grandi misteri dell’età contemporanea, che è sempre il seguente: perché tanta gente al giorno d’oggi si ostina ancora a drogarsi, quando il mondo mette a disposizione una miriade di stimoli già così immensa di per sé, che non basterebbero 32 vite per sperimentare tutto quanto?

Ma questa è stata soltanto una riflessione di superficie.

La parte più profonda del mio meditare ha riguardato un'altra sfumatura, quella che credo sia la principale da cogliere nelle parole dello scrittore. Anche se non ci voleva certo una perspicacia stratosferica, per afferrare questo aspetto, visto che la maestria narrativa di Bellow è così ficcante da imporsi con estrema evidenza.

Ciò che il maestro del romanzo americano intende sottolineare con le sue considerazioni è l’ambivalenza di conseguenze che la proprietà multiforme del reale può significare per la sensibilità umana.

La ricchezza di dettagli del mondo può rivelarsi così “intollerabilmente intensa” (attraverso lo strumento dell’amplificazione percettiva che le è proprio) sia nei momenti di gioia, ma purtroppo e drammaticamente, anche nei momenti infelici della vita. Questo è il senso, per come l’ho capito io, della fulminante affermazione di Bellow a chiosa di questo minisaggio filosofico: «…La realtà è troppo appassionante…».

Se fate mente locale a periodi della vita in cui vi siete sentiti particolarmente infelici, non mancherete di riportare alla memoria le circostanze che vi videro in quei momenti alquanto oppressi dalla presenza di “troppo mondo”.

Allo stesso modo, penso capiti se si ripensano periodi della vita sereni e soddisfacenti: il mondo intorno a noi era sempre “troppo”.

Soltanto che, nella prima ipotesi scarseggiante di gioia, il mondo era “troppo” per essere rigettato, per levarsene dai piedi almeno piccoli pezzettini. Mentre nella seconda congiuntura, quella dei momenti gioiosi, il mondo era “troppo” per essere abbracciato quanto si sarebbe voluto.

Come spesso accade per tantissime altre peculiarità proprie della nostra essenza di umani, anche in questo caso un dono fra i più belli che ci sono stati “messi a disposizione” per impreziosire le dimensioni esistenziali in cui siamo calati, si rivela un’arma a doppio taglio.

Nei periodi propizi, “troppo mondo” è una ricchezza di cui non ci sentiamo mai sazi, e che ci fa sfiorare vertiginose sensazioni di onnipotenza “sensitiva”, mista a lievi sentori di insoddisfatta frustrazione.

Nei periodi infausti, “troppo mondo” diviene il potenziale detonatore che rischia di innescare la deflagrazione dell’identità di una persona, la quale si disperde dietro i mille rivoli della realtà, divenuti altrettanti infiniti piccoli specchi frammentati, riflettenti ciascuno una porzione di se stessi troppo minuscola, perché sia possibile ricostruire da ciascuna di quelle immagini esplose, un quadro sufficientemente riconoscibile della propria personalità (e in questo caso, ad essere onesti, torna leggermente a rivalutarsi il punto di vista dei drogati…).


domenica 10 ottobre 2010

Giulio e Giacomo


Dopo aver bevuto l’incanto della visione di «Jules e Jim», sulla scia dell’entusiasmo Truffautiano (…che strano, aggettivando il regista francese si ottengono esiti alquanto buffi ed improbabili: la pronuncia sarà “truffoiano”, oppure “truffotiano”? La prima è più logica, ma io per simpatia sonora, adotto la seconda), mi sto leggendo il romanzo di Henri-Pierre Rochè (intitolato sempre «Jules e Jim») dal quale il grande cineasta ha tratto il suo celeberrimo capolavoro.

Sto scoprendo una piccola perla e un modo di romanzare che a me risulta nuovo nei modi di suscitare emozioni ed immagini, pur nella sua apparente tradizionalità narrativa.

Mi piace e mi entusiasma soprattutto perché Rochè sa fare con le parole scritte tutto quello che alle mie capacità è precluso: ti apre mondi, usando pochissime parole.
Rochè dice il massimo col minimo sforzo.

Tanto è minimo il suo sforzo, che a tratti hai l’impressione di stare ad ascoltare un tizio trasognato che passando di lì per caso, si sia messo a raccontare le sue cose giusto per farti un piacere. Tuttavia l’esito non è fastidioso, come potremmo magari supporre da un simile atteggiamento.

No, nessuna sgradevolezza, né impressioni di snobismo subito, promanano dalla prosa di Rochè.
Semmai è un’atmosfera del tutto preziosa, quella a cui dà adito il suo raccontare. Col fare iniziatico di un “sacerdote del romanzo”, ci parla della vita quasi ammonendoci al tempo stesso che della vita è del tutto inutile parlare. L’unica cosa da farci, con la vita, è viverla.

E poi questo libro, mi ha riservato un’epifania del lettore fra le più belle mai incontrate. Un passo che non solo vale il prezzo del libro di per sé (…e alla fine non sarebbe poi molto, 10 €), ma mi ha fatto pure venir voglia di correre indietro in libreria e versare 10 volte tanto (forse anche per ridare un’occhiata alla giunonica libraia…non bella “ufficialmente”, ma così libresca da far innamorare. Vi sembra forse possibile evitare d’innamorarsi delle libraie, di venerdì sera?...Io sinceramente non ce la faccio, e se voi ci riuscite, vi dico bravi).

Tornando alla mia epifania: è un sunto mirabile della tematica amorosa, un condensato dei suoi significati che supplisce in poche righe alla lungaggine di mille studi sociologici, alla minuzia di altrettante indagini psicologiche:

«…Jules e Magda andarono a fare un viaggio nel Sud della Francia. Mandarono a Jim delle fotografie commoventi, nelle quali apparivano come due esseri lunari e sembravano molto uniti. Jim sperò per Jules.
Poco tempo dopo il loro ritorno, Jules disse a Jim:
“Amo Magda. Ma è un’abitudine. Non è il grande amore. Lei è, insieme, una giovane madre e una figlia affettuosa”.
“Che bella cosa!” disse Jim.
“Non è l’amore che sogno”.
“Ma esiste questo amore?”
“Certamente. E’ quello che ho per Lucie”.
Jim si trattenne dal dire: “Perché non la possedete”.
“D’altra parte” disse Jules “non perdonerò mai a una donna di amarmi così come sono. C’è in questo qualcosa di perverso, un compromesso…da cui Lucie è immune. Lei non accetta nemmeno un’infima parte di me”.
“Chiunque potrebbe pensarla così” disse Jim.
“Sì…potrebbe…” disse Jules. “Ma io lo faccio”.
“Ebbene,” disse Jim “è cosa eroica, e rispettabile. Come essere un martire. E’ la chiave della vostra vita. Se Lucie vi amasse…”.
“Non sarebbe più Lucie” disse Jules…».

Jules e Jim
Henri-Pierre Rochè - 1953



sabato 25 settembre 2010

Il disegnatore che si disegnava


Ragazzi, oggi volevo proporvi proprio un bel frullato di pensieri.
Le suggestioni sfrecceranno fuori da tutti i cantoni, lievemente impazzite e scollate (ma non nel senso che avranno le tette di fuori…purtroppo…), con buona pace della coerenza del mio ragionare, tale da risultare alla fine particolarmente disordinato e naif. Mi salva un po’ il fatto che tutto ciò non rappresenta poi quella grossa novità, per codesto luogo di scribacchiamenti, copiosamente aduso a scorribande concettuali spesso incontrollabili e “schizzo-sfrenate”.

E così son qui a dirvi che, pur mantenendo sempre vivo l’interesse intorno a «I promessi sposi» (fra le cui fascinose fresche frasche linguistiche continuo ad immergermi con centellinata ed assaporata voluttà estetica), tra ieri e oggi mi sono inoltrato in una delle più titaniche imprese di tutta la mia finora variegata, anti-tassonomica e “psichedelicordinaria” avventura di lettore.
Va beh, forse esagero…era solo per dire che, in parallelo al Manzoniano beneamato tomo, ho appena iniziato un libro affascinante e complesso, intitolato «Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante», di Douglas R. Hofstadter.

Ma vi prego, per la paventata minaccia di trovarvi a questo punto di fronte al pericolo di una mia possibile recensione del suddetto volume, ripeto “vi prego” di non scappare a nascondervi sulla cima di una rovere, cadenzando la vostra salvifica ascesa col liberatorio grido Ciccio-Felliniano di «Voglio una donnaaa!!!».
Non intendo affatto produrmi in nessun tipo di recensione, sia perché sono solo alle prime pagine, sia perché la complessità dei temi esposti è tale che posso dire di essere riuscito a carpirne appena appena il sapore diffuso di fondo.

Se mi addentrerò dunque di qualche passo nel terreno periglioso dei contenuti del libro, sarà solo per mettere sul piatto la mia personale frittata di pensieri odierna.

«Gödel, Escher, Bach: chi erano costoro?», mi vien fatto di dire, tanto per introdurvi già, sempre un po’ manzoneggiando, nella labirintica concettualità che sarà il cuore della mia modesta dissertazione.
Partendo a ritroso: Johann Sebastian Bach, d’accordo, tutti sanno chi fu. Maurits Cornelis Escher è stato invece il geniale creatore delle “forme impossibili” più fantasmagoriche, e Kurt Gödel probabilmente il più grande studioso di logica del XX secolo, se non di ogni tempo.

Da quale prospettiva vengono presi in considerazione nel libro di Douglas R. Hofstadter, questi tre geniacci? Sono messi a paragone sulla base del loro comune ruolo di “domatori di paradossi”.
Di Bach, e qui mi scuso per le fregnacce che dirò mosso dalla mia somma ignoranza musicale, si affronta in particolare la produzione di “canoni”. Comporre secondo una struttura “a canone”, significa grosso modo (ma molto grosso…) creare uno schema sulla base di una frase musicale di fondo, che viene ripetuta da diverse voci in, praticamente, infinite varianti possibili del tema primario, a partire dalle più banali, sino ad arrivare alle più vertiginose e complesse. L’esempio più semplice di canone, che lo stesso autore menziona per rendere l’idea, è la familiare canzoncina di “Fra Martino”. Simili alla struttura dei “canoni” sono poi quelle delle ”fughe”, con tuttavia una minore schematicità di fondo.

Lo so, le mie definizioni da esperto musicale dei vostri stivali sono alquanto “canine”, ma ecco, quello che m’importava mettere in rilievo è che, come viene detto nel libro, Bach arrivò ad articolare così sapientemente questa particolare “via alla composizione musicale”, sino a riuscire a creare fughe a 6 e 8 voci, alle quali sottostava una complessità concettuale tale da essere equiparabile allo sforzo di giocare 60 partite a scacchi in simultanea, ad occhi chiusi, vincendole tutte.
In particolare, Bach, e qui si arriva trattarlo nella sua veste peculiare di “domatore di paradossi”, riuscì a creare un canone cosiddetto “Eternamente Ascendente”, un canone che sfiora molto da vicino la consapevolezza del paradosso, per l’appunto, e quella d’infinito:
«…Con questo canone, Bach ci offre un primo esempio della nozione che qui definiremo degli Strani Anelli. Il fenomeno dello “Strano Anello” consiste nel fatto di ritrovarsi inaspettatamente, salendo o scendendo lungo i gradini di qualche sistema gerarchico, al punto di partenza. (Nel nostro esempio il sistema è quello delle tonalità musicali)…».

“Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante”
Douglas R. Hofstadter - 1979

Come dite? Non ci state capendo una paradossale minchia di niente?
Provate allora a dare un’occhiata alla seguente litografia di M. C. Escher, del 1960, intitolata «Salita e discesa» (da me un po’ modificata, per sfizio…):


Lungo la bizzarra scala posta sul tetto del monastero, possiamo osservare due diverse teorie di monaci, chini chini sotto i loro cappucci, intente rispettivamente, ma soprattutto ciascuna “contemporaneamente a se stessa”, a salire e scendere questi inconcepibili e medesimi gradini che, potremmo dire, allo stesso tempo sembrano non condurre mai né troppo in alto, né mai troppo in basso: quale miglior esemplificazione di una “ascesa infinita”?

E quand’è allora che entra in scena Kurt Gödel?
Entra in scena (anche se ne parlerò, per eccessiva mia ignoranza, in misura iper-marginale…) dicendo che la sua ricerca consistette in pratica nella traduzione in termini matematici dell’antico “paradosso di Epimenide o del mentitore”, noto già anche agli antichi greci, un nodo della logica che aveva tenuto in scacco i più insigni studiosi di questa disciplina sino agli inizi del ‘900, e che, nelle diverse forme, non dissimili nella sostanza, suona nei modi seguenti.
Enunciato appunto dal cretese Epimenide, fa così: «…Tutti i cretesi sono mentitori…»; oppure, in una forma più immediata: «…Io sto mentendo…»; oppure ancora: «…Questo enunciato è falso…».
Provate un attimo a ragionare sul significato di ciascuna proposizione in relazione a chi la enuncia, e vi accorgerete di ritrovarvi ancora una volta, come nei casi suddetti di Bach e di Escher, nel bel mezzo di una impasse logica bell’e buona.

«…Va beh, ma dove sta in tutto ciò il contributo Gillipixiano originale?...», si protesterà a gran voce. Lo so, lo so che menando spudoratamente il can per l’aia in questo modo fino a qui, mi sono perduto per strada diversi lettori scappati di filato sulla summenzionata rovere felliniana.

Il contributo Gillipixiano non sarà gran cosa, ma sta ad ogni modo nel fatto che rimuginando su questi concetti, mi è venuto da pensare alla vita come ad un “Canone Eternamente Ascendente” di “gratuità” e di “utilità”, come ad una scala “Escheriana” di monaci, come ad un paradosso del mentitore, i cui termini in gioco sono dati da un incessante alternarsi di momenti motivati da scopi concreti e di momenti totalmente slegati da finalità effettive.

Voglio dire: la progettualità, la “direzionalità mirata a scopi” che ragionevolmente e verosimilmente infondiamo in talune nostre azioni o comportamenti (oserei dire nella maggior parte), non siamo mai sicuri che ci possano effettivamente condurre in alto o in basso nella nostra scala delle aspettative.
Di controcanto, può succedere invece che le azioni più gratuite, le meno razionali, quelle meno progettate o mirate a dei fini, ci conducano ad agguantare effettivi risultati, anche di altissimo valore, ma del tutto non preventivati in partenza.

Possiamo dunque vedere la vita come uno “Strano Anello”, molto parente dei canoni di Bach, delle scale monacali di Escher e del teorema di incompletezza di Gödel. Uno “Strano Anello” lungo il quale “utile” ed “inutile” si rincorrono senza tregua e senza mai concederci il preciso indizio circa il proprio essere situati effettivamente in alto o in basso nella scala dei nostri valori esistenziali.

Detto questo, concludo confessando che lo sto sentendo, non preoccupatevi, lo sto sentendo.
E’ il grido liberatorio di tutti i rifugiati sulla rovere felliniana, felicemente scampati alla lettura del presente scritto, che all’unisono si sfogano in siffatta guisa: «…La prossima volta, leggiti Topolinooooooo!!!...».



mercoledì 8 settembre 2010

Stufato di vita


Out here in the fields
I fight for my meals
I get my back into my living.

I don't need to fight
To prove I'm right
I don't need to be forgiven.
yeah,yeah,yeah,yeah,yeah

Don't cry
Don't raise your eye
It's only teenage wasteland

Sally, take my hand
We'll travel south cross land
Put out the fire
And don't look past my shoulder.

The exodus is here
The happy ones are near
Let's get together
Before we get much older.

Teenage wasteland
It's only teenage wasteland.
Teenage wasteland
Oh, yeah
Its only teenage wasteland
They're all wasted!

Baba O’Riley
The Who – 1971

*******

Forse il senso della vita consiste proprio in un’incessante, altalenante ed appassionante ricerca di nuovi significati cumulativi da assegnare alla vita stessa. Forse tutto il senso sta nella “ricerca per la ricerca”, in una curiosità inquieta che si autoalimenta ritrovando in se stessa quel combustibile dal quale è a sua volta ciclicamente travolta e ri-combusta.

Mettiamola così: forse la vita è tutta una stufa che si stufa.

Fra i vari ceppi, ciocchi e trucioli rinvenuti di recente dentro la stufa delle mie significazioni esistenziali, c’è andato a finire anche il seguente piccolo, minoritario, randellino di legna concettuale da ardere: vivere può anche voler dire passare il resto del tempo successivo all’adolescenza, impegnati a sciogliere tutti i nodi, i lacci ed i lacciuoli che esattamente durante il periodo della “teen-age-itudine” ci eravamo ben curati di stringere belli stretti ed intricati.

La fase “ormo-bombonale” di nostra esistenza che s’accoda alla fanciullezza (leggi sempre: adolescenza) è giusto il tempo delle sentenze definitive…indefinitamente destinate a richiudersi a riccio attorno ad una perentorietà talmente risolutrice, da sembrare quasi fatta apposta per essere radicalmente smentita nelle successive età.

Ogni giudizio riguardante se stessi e il proprio mondo, quando si è adolescenti, suona come un verdetto tremendo ed incontrovertibile, praticamente eterno.
Ti fa schifo un aspetto del tuo carattere?
A 15 anni, sarà per sempre.
Sei insoddisfatto di qualche parte del tuo corpo?
A 13 anni, sarà per sempre.
Detesti un libro, una persona, uscire di casa, stare in casa, studiare, parlare, tacere, dire, fare…baciare, lettere e testamento?
A 17 anni, 4 mesi, 22 giorni e 3 ore, tutto questo sarà per sempre.

Non è che in seguito, il modo di vedere tutte quelle cose si stravolga completamente. E’ piuttosto la propria “sapienza estetica” a raffinarsi, ad assumere “personalità”, a diventare più ricercata, ad acquisire la capacità di comprendere, accogliere e “filtrare” la complessità.
La dimensione della saggezza acquisita crescendo, si può dunque misurare con lo scioglimento di un nodo dopo l’altro, fra i tanti che avevamo allacciato durante la fase adolescenziale. L’immagine mi pare piuttosto calzante: l’idea del nodo che si scoglie dà il senso della liberazione che accompagna il graduale “snodamento”. Sono vincoli che prima si allentano e poi ci lasciano andare liberi, ci fanno respirare meglio, ci fanno sentire più completi nella nostra personalità.

Per fare un esempio, ho scoperto che il mio corpo di oggi è molto più “saggio” di quello da ragazzino. Sebbene leggermente meno prestante, com’è naturale, capisco molto meglio quando “mi parla” e nel nostro dialogo c’è più comprensione, più complicità e reciproco gradimento.
Ho altresì imparato ad assaporare meglio la mia “presenza nel tempo”, il mio modo di sentirmi nei diversi momenti della giornata o di giornate diverse; ho anche imparato a convivere persino con la noia, quando non è eccessiva, o perlomeno a minimizzarne i danni.

Mi sta capitando poi giusto giusto in questi giorni, lo scioglimento di un grande nodo adolescenziale che si viene a “slacciare” con inatteso e copioso stupore. Parlo del mio rapporto con «I promessi sposi» del Manzoni.

Si obietterà: «…ma come, a questo punto ci aspettavamo che tirassi in ballo i massimi sistemi adolescenziali, tipo l’acne giovanile o la miopia di origine onanistica, e invece ti riduci a parlare di un libro?...».

Può darsi che esageri, ma per me «I promessi sposi» valgono quanto i più importanti passaggi d’iniziazione post-puberale. Nel bene e nel male.
Se scegli di essere pischello studiante di un certo tipo, per Dante, per Virgilio, per Omero, e per Manzoni appunto, ci devi passare, e raramente son rose e fiori. Son piuttosto spesso “fioroni”. Quelli che ti fanno nelle interrogazioni.

Insomma, il Manzoni non lo puoi amare a scuola, sarebbe quasi contro natura, e anche io ovviamente lo lessi quasi sempre con la fretta nelle gambe di correre al campetto da calcio o da basket. Lo trovavo parruccone, macchinoso nella prosa, lontanissimo dalla sensibilità moderna, arzigogolato…che fesso che ero!

Come per tutti i migliori incontri, anche questa mia reunion di ravvedimento col Manzoni è avvenuta del tutto per caso. L’ho visto in edicola (pensate un po’…), in un’edizione che mi ha colpito, bella compatta, super-tascabile, del tutto in contrasto con la fossilizzata idea di “mattonità” derivata dalle esperienze adolescenziali.

Fin dalle prime righe è stata una folgorazione, un godimento lessicale e narrativo che mi ha immerso in un diffuso senso di meraviglia. Come dicevo prima, non è che il mio modo di percepire «I promessi sposi» sia stato stravolto dal tempo della scuola: non ero un minus habens allora e non sono un genio adesso.
E’ solamente la mia “sapienza estetica” ad essersi ritrovata più raffinata: è stato esattamente come riscoprire una rinnovata confidenza con una parte del mio corpo.
Perché «I promessi sposi» (come il Decameron, come la Divina Commedia), in qualità di nostra intelaiatura linguistica di fondo, sono effettivamente una parte del nostro corpo, sono dentro la nostra voce e le nostre parole, sono lì, a fare da architrave, da pilastri, da colonne a quello che diciamo, scriviamo e pensiamo.

E se proprio ci fosse bisogno di ricordare la loro modernità, assaporate questo piccolo passaggio che è un incanto di stupefazione senza tempo:

«…Il primo svegliarsi dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo...».