Cari amici viandanti per pensieri, illustrissimi lettori e popolo gilipixiano tutto, abbiamo un altro anno sul groppone! «...E grazie al ca...» obietterete senz'altro voi. No lo so, era solo per dire che la cosa non deve cagionarvi più di tanto disappunto, ma nemmeno può essere fonte di eccessivo entusiasmo. Diciamo che ce lo teniamo, e tutto lì.
Per quanto riguarda me personalmente, questo 2010 non ha fatto interamente schifo. O meglio, non si può negare che la situazione generale in cui ci ritroviamo è una discreta chiavica, ma se uno si arrabatta un po' a colpi di fantasia e sopportazione, può venirne sempre fuori con un mezzo sorriso sulle labbra.
Lo scorso anno mi dilettai a vaticinare sulla base della sagoma numerologica dei nuovi 365 giorni entranti. Dissi che il 2010 sarebbe stato più simpatico, per via di quel grassottello del numero "zero" che si ritrovava sulla sua coda. Ora, se tanto mi dà tanto, a vedere il 2011 per iscritto, ci sarebbe da stare poco allegri, con quel suo duplice "uno" puntuto che non consiglia di voltargli troppo le spalle.
Ma siccome l'arte dell'aruspice è basata sulla solida regola tramandata dagli antichi, riassumibile nella preclara massima: «...facìmme 'n po' come minchia ce pare a noi...», mi posso sbilanciare anche stavolta sulla previsione di risvolti positivi desumibili dalle fattezze grafiche dell'anno a venire.
Quei due piccoli "uno" nella seconda metà della cifra, non sono infatti da vedere come minaccia di eventuali punture retroattive di scarsa gradevolezza inferte dalla sorte ai malaugurati raccoglitori di saponette, bensì li possiamo interpretare come solidi sostegni ai quali potremo appigliarci nel nostro cammino lungo l'anno, con il vantaggio di avere anche il riparo delle piccole tettoie offerte dai due "baffetti" sulla cima dei numeri.
Questi graziosi ombrellini potranno rivelarsi oltremodo utili, perchè, come direbbe il sergente Hartman, nella vita, si sa, è sempre un attimo vedersi piovere sulla testa uno scroscio di materia organica anfibia, altrimenti nota come mer...«...Meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d'orto...».
Va beh, per farla breve, queste tre fregnacce erano solo una scusa per augurare a tutti voi, cari amici viandanti per pensieri, un buon 2011. E per rinnovarvi il mio più profondo grazie per la pazienza che dimostrate nel leggere le mie cose. Se fosse possibile, vi abbraccerei tutti, ma vedendo l'impresa piuttosto ardua, mi limito a portarvi il saluto del mio amico "cane da mano".
Ancora tanti auguri e...ricordate sempre: «...Alègher, alègher, che'l b. del c. l'è semper nègher!..»
Ad essere un campagnolo timido, con la voce bassa e la testa fra le nuvole, a volte ci si guadagna.
Ad esempio: avete presente quelle persone che quando imbastiscono un dialogo sono convinti di emanare dalla propria bocca le sentenze più sopraffine, le verità più incontestabili ed imprescindibili, quasi fossero novelli ciceroni o un Demostene redivivo? Quelli che il verbo “ascoltare” lo hanno cancellato dal proprio vocabolario, se mai un tempo ne avevano colto il significato. Quelli che scambiano il concetto di dialogo con una sbirciatina verbale all’indirizzo di un individuo fatto specchio, che poi sarebbe l’interlocutore, il cui compito è esclusivamente quello di riflettere le loro preziosissime parole…
Ecco, se sei un campagnolo timido, disponi della naturale difesa per stanare i peggiori fra questi individui. L’unica cosa da fare è cercare di inserirsi nel dialogo col proprio flebile tono vocale.
Se dall’altra parte vengono concessi spiragli attraverso cui poter introdurre anche qualche proprio ragionamento, vuol dire che ci troviamo di fronte ad una persona meritevole della nostra compagnia. In quel caso si sente la disponibilità al dialogo, sintomo di ben più vaste aperture d’animo della persona in questione.
Se invece il granitico muro della favella erige inesorabilmente la diga insormontabile dell’egocentrismo oratorio del tizio che ci troviamo di fronte, non resta altro che lasciar sfogare la marea, pensando fra sé e sé «…dai su, vecchio idiota, finisci alla svelta il tuo comizio…», e chi s’è visto s’è visto.
L’operazione riesce meglio al campagnolo spensierato “ipotonale” (ossia non dotato di timbro particolarmente stentoreo). Nel primo caso infatti, se chi abbiamo di fronte è disposto a concedere ascolto persino ad un siffatto esemplare di bizzarra umanità, significa che è veramente persona degna di approfondimento amicale. Nel secondo caso invece, il “blablatore” mono-direzionale impegnato ad infarcire il medesimo campagnolo con la sua sapienza suprema, non si accorgerà di nulla, visto il rintronamento causato nella sua scatola cranica dal concettoso tramestio senza via di fuga che ivi vi alberga.
Ma non era questo ciò di cui vi volevo parlare oggi. O meglio, la svagatezza campagnola c’entra sempre, ma applicata ad un altro tipo di discorso. Il campagnolo sempre perso fra i suoi vacui pensieri infatti può anche godere del piacere degli stupori rurali, con molta più efficacia di quanto non capiti agli altri abitanti delle lande agricole.
Andando infatti sempre dietro al proprio peregrinare concettuale, il campagnolo fluttuante fra le idee finisce per non guardarsi troppo intorno, quando si aggira nel suo habitat campagnolesco. Così va a finire che un bel giorno, si accorge con meraviglia che su una pianta in giardino, ben fissata al suolo con le proprie radici da almeno 30 anni, si è manifestata una sorpresa vegetale per lui inedita.
«…Cosa sarà mai?...» si domanda con giocosa sospensione del giudizio il rannuvolato campagnolo, interrompendo per alcuni istanti il proprio naturale labirinteggiare nei meandri della propria bacata immaginazione. «…Possibile aver avuto sotto il naso tale espressività arborea tropicaleggiante e non essersene mai avveduti in tutto questo lasso di tempo? Si tratterà forse di uno sbango, di una sbabaya, di un frutto della pensione?». Per essere bizzarra, la curiosa protrusione fruttifera in questione, è bizzarra senz’altro. Si può dire che sia dotata di squame, ma non squame qualunque: praticamente squame leggermente grassottelle ed uncinate. Quella piccola espettorazione di rossicci confetti che presenta sulla punta, suggerisce poi quasi un effetto speciale cinematografico studiato per un nuovissimo film di fantascienza prossimamente sugli schermi: «Alien contro i contrabbandieri di M&M’s».
«…Ma che frutto sarai mai, insomma…Sarà una noce di porco, sarà uno sbananas, oppure un magistrado? (Aahhahaah…teribbile questa!!!) …».
«…Ma no…» realizza dopo alcuni istanti lo stupefatto campagnolo, «…è semplicemente una pigna della cara e vecchia magnolia. Stai a vedere che pure io mi sono comportato con lei come fanno quei conversatori monodirezionali che criticavo in apertura: mi ha parlato per anni con questi suoi variopinti discorsi discreti, e io non l’ho mai ascoltata…».
Svariate volte mi sono divertito a punzecchiare l’atmosfera consumistica in cui praticamente tutti siamo calati fino al collo.
Non è che non mi renda conto che si tratta di un’operazione piuttosto facile, tanti e tali sono i difettosi spiragli attraverso i quali la mercificazione della vita moderna offre il proprio fianco miseramente scoperto. E non è che non comprenda come queste critiche paghino un notevole tributo metaforico alla celeberrima immagine del barone di Munchausen, che pretendeva di cavarsi d’impaccio dalla risucchiante palude in cui s’era cacciato, issandosi con una sua propria mano appigliata al proprio stesso codino.
Capisco benissimo tutte queste cose, ma il fatto è che prendere un po’ per il culo il consumismo (e non ho detto “fondelli”…) è divertente. Soprattutto se lo si fa depurando la nostra visione da quel filo di ipocrisia quasi inevitabile in simili considerazioni. Dentro al sistema cosiddetto consumistico ci sono nato e cresciuto, mi ha regalato anche tante belle cose (perché non ammetterlo?), ha fatto parte, nel bene e nel male, della mia vita, è stato persino scenario di fondo dei miei affetti, in qualche modo ha influenzato, volente io o nolente, i miei percorsi, le mie scelte.
Una sana presa per il culo del consumismo ha dunque per me più lo scopo di mettere in guardia dai suoi eccessi, di tenere sul chi vive riguardo ai suoi estremi. Incazzarsi per le assurdità consumistiche è doveroso, se questo può servire da viatico verso un atteggiamento più consapevole del valore delle cose e del loro utilizzo.
Le “cose” hanno una loro bellezza: essa merita il nostro affetto e la nostra salvaguardia. In questo senso dovremmo vedere le “cose” più come delle compagne di viaggio nella nostra avventura materiale in questo mondaccio, piuttosto che non alla stregua di entità votate al mero consumo (ci tengo a sottolineare l’uso del “piuttosto che” in senso “esclusivo”, com’è corretto in italiano: «…Chi usa il “piuttosto che” in senso “alternativo”, “opzionale”, avvelena anche te: digli di smettere…»).
Fatta questa doverosa premessa “sociologico-papponizzante” (che per altro, lascia un po’ il tempo che trova: nuvoloso, tendente a piovere mer…meringhe…), oggi volevo raccontare come talvolta mi succeda di cadere in pieno, e senza saper opporre difesa alcuna, nella rete consumistica, abboccando all’amo mercificatore come un vero e proprio pescegatto blandito a furia di pastura pubblicitaria.
Insomma, per farla breve, mi son comprato una topa.
Ecco, no, ferma…andiamoci piano con i frettolosi fraintendimenti dettati da erronea interpretazione dialettale. Col termine “topa”, nel dialetto di Gillipixiland, non s’intende solamente la trilatera matassetta pilifera, oggetto oscuro (ma non è sempre detto: dipende dalla “natural livrea” della padroncina…) del desiderio maschile. O meglio, si può intendere pure quella. In gillipixilandese stretto, con “topa” viene indicato anche il tipico copricapo sovietizzante in pelo, il russevole coperchio pelliccioso, il colbacco insomma. Era “lui” il personaggio “misterioso” che mi ha aiutato nel farvi gli auguri di Natale, dalle rive del fiume (e Antonella aveva simpaticamente ipotizzato giusto…).
Non a caso in apertura di articoletto ho parlato di consumismo. Questo mio acquisto non è stato dettato altro che da un puro sfizio consumistico. La necessità di un colbacco dalle mie parti risulta infatti pari a quella percepita da una famiglia di esquimesi per un impianto dell’aria condizionata da installare nel loro igloo.
Fatto sta che di tanto in tanto, se vivi in questa società, un tributo al consumismo più folle, lo devi pur pagare. Il consumismo possiede questa inusitata forza ammaliante, in virtù della quale, ad un certo punto, senti di non poter più vivere fino a quando l’oggetto campione dell’inutilità mondiale non sarà tuo.
Qual era la cosa più eccessivamente inutile di cui sentivo l’estrema necessità a questo punto della mia vita, perché essa potesse proseguire con regolarità? Presto detto: una “topa” (sempre in accezione gillipixilandese; nell’altra accezione cespugliosa e triangolare, mi sarebbe piuttosto utile, ma questo è un altro discorso).
Però se di gesto consumistico doveva trattarsi, meritava che lo fosse fino in fondo. E spiegandovi ora le modalità del mio toccare il fondo consumistico, nel prosieguo di narrazione, vengo a tranquillizzare anche tutti gli amici degli animali. Perché la mia topa è sì di pelliccia realmente appartenuta ad un animale, ma allo stesso tempo, non è di pelliccia vera, e soprattutto non è stata portata via a nessun animale.
Ma com’è possibile un simile prodigio, vi domanderete?
Dovete sapere che questo colbacco, dietro mio interessamento personale riguardo alla questione (non so se serve sottolinearlo, ma ad ogni modo vi avverto che da questa frase in poi sparerò fregnacce grosse come dei condomini…), è in puro pelo di «Er Zebù».
Er Zebù è una simpatica bestiola che vive nelle campagne romane. È molto difficile e raro avvistarlo, anzi, praticamente è impossibile, perché ha un carattere molto schivo, anche a causa di una sua peculiarità naturale: Er Zebù è infatti privo di pelliccia e si vergogna ad andare in giro nudo.
Cos’ha dunque pensato questa illustre ditta di abbigliamento (non faccio nome per evitare pubblicità e per questo immagino la ditta mi ringrazierà tantissimo) dalla quale mi sono fornito della mia topa?
Alcuni suoi incaricati si sono recati in ambasciata da Er Zebù, convincendolo, non senza difficoltà nel superare la sua proverbiale ritrosia, ad indossare delle pellicce confezionate appositamente per lui. Queste pellicce sono rigorosamente ed interamente in poliestere ed acrilico. Er Zebù si è detto subito entusiasta dell’idea («…Grunf, grunf…» ha dichiarato), passando subito parola ai suoi simili, “Li Zebù” (già, è strano, ma Er Zebù al plurale diventa proprio Li Zebù).
Li Zebù, sfoggiando con eccitazione la loro nuova pelliccia, sono diventati anche meno sfuggenti di carattere. Non che ora si lascino avvicinare dall’uomo più di prima, ma almeno si incontrano in gruppetti nelle loro tane, per fare una briscola o bere un goccio in compagnia, grunfeggiando del più e del meno. La pelliccia insomma ha migliorato la vita sociale de Li Zebù.
Alla fine di ogni stagione fredda, Li Zebù riconsegnano poi volontariamente le pellicce agli addetti della ditta di abbigliamento. Questa restituzione pilifera primaverile è divenuta quasi un rito festoso e naturale per Li Zebù, un momento che segna i passaggi stagionali della loro lieta vita di bestiole ritrose, tanto che quel momento è stato addirittura battezzato con un suo specifico nome: Li Saldi.
Dalle pellicce indossate e poi rese da Li Zebù, si ricavano successivamente capi di vestiario per gli umani, come appunto la mia topa. Per tutta la stagione calda, Li Zebù non si lagnano adesso più di tanto dell’assenza di pelame corporale, anzi, ora scorrazzano lieti nel proprio habitat naturale comprendendo meglio quanto sia pratica la nudità, che ritorna molto comoda quando dietro un cespuglio o alle fonti di un ruscelletto, incontrano leggiadri esemplari de Le Zebù, le graziose femmine della loro specie. Tanto poi sanno che ad ogni nuovo autunno, potranno ritirare la pelliccia invernale nuova, sempre per interessamento della medesima ditta, ed eventualmente anche piccole pelliccette su misura per i nuovi cuccioletti de Li Zebù nati nel frattempo.
Ecco allora spiegato l’arcano, riguardo alla pelliccia del mio colbacco: è realmente appartenuta ad un animale, Er Zebù; non è vera, ma sintetica; e soprattutto non è assolutamente stata portata via, bensì donata di buon grado da Er Zebù in persona, in occasione de Li Saldi.
Ora ditemi voi, cari amici viandanti per pensieri, se potevo compiere un gesto consumistico più nobile di questo, talmente privo d'effetto per gli umani da scatenare un’utilità immaginaria per una bestiolina inesistente...
E’ bello, sapete, andarsene in giro per le strade della città, sfoggiando “totòepeppinescamente” il proprio colbacco di Er Zebù, con la stessa trasognata decontestualità ostentata dai due comici partenopei al loro approdo nella stazione centrale di Milano.
E poi questa cara topa è anche il miglior promemoria possibile per tenere a mente l’essenza stessa del sistema consumistico: arrivato a casa, me l’afferro per il suo dietro, la traggo in alto velocemente e ogni volta mi accorgo che nel mondo dei consumi, per ora, ci rimango sempre ben immerso dentro.
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(…Nella foto di apertura, potete ammirarmi mentre sfoggio la mia topa di Er Zebù, sotto lo sguardo sconsolato di un James Dean che rimpiange i bei tempi andati in cui la gente aveva ancora il pudore di bruciarsi solamente la gioventù…).
Amare il linguaggio significa sapersi mettere in ascolto delle sue sfumature più sottili. Non è sempre una questione di facile accessibilità, ma le volte che mi accade di pigliare all’amo un dettaglio linguistico non banale, una sottigliezza espressiva non immediatamente evidente, provo sensazioni di gioia diffusa e profonda.
In quei frangenti si afferra veramente una soddisfazione non paragonabile a nessun’altra inclinazione gratificante dell’animo. Per riprendere una cara metafora già visitata in altre occasioni, quello che mi capita è percepire il linguaggio come vero e proprio prolungamento (o “protesi”, con termine forse meno elegante…) non solo del nostro spirito, ma addirittura del corpo stesso. Nella parola veramente possiamo sentirci completati, come entità fisiche e come esseri dotati di personalità. E alla stessa maniera che capita quando perveniamo alla consapevolezza di una qualità fino a quel momento ignorata del nostro corpo, oppure ad un pregevole risvolto del nostro animo ancora inesplorato, anche le scoperte linguistiche sono altresì ricche di potente carica rivelatrice.
Nei giorni scorsi, è tornata a visitare i miei pensieri un’espressione brevissima, ma a mio avviso fra le più affascinanti mai plasmate a partire dal materiale linguistico. Ve ne ho già parlato, ma mi piace ogni tanto rispolverarla (e mai verbo sarebbe più indicato al caso...), anche perché stavolta mi si è rivelata, fra le sue pieghe semantiche, una piccola, esaltante epifania. Si tratta più precisamente del titolo di un libro, in inglese, e proprio lo scarto espressivo afferrabile fra la versione originale e la sua traduzione italiana, ha fornito il motivo scatenante della mia piccola gioia intellettuale.
Il libro in questione è una celeberrima opera del romanziere americano John Fante. Sto ritardando ancora un po’ l’attimo di riportare il titolo per iscritto su questa pagina elettronica, proprio come si fa quando si tiene in sospeso l’approdo ad un ineffabile godimento, perché spesso l’attesa della bellezza promessa sa recare con sé un dolce tormento capace di adagiarsi, nelle nostre aspettative, in gradevole amplesso con la prospettiva dell’appagamento finale. Alla fine tuttavia si giunge sempre all’acme del piacere, e così sarà anche stavolta. Dunque il titolo del romanzo a cui sto pensando è…«Ask the dust».
Ask the dust…provate a pronunciare queste tre piccole paroline, se vi va. Fatelo sottovoce, sussurrandole, oppure anche scandendole per bene, con un tono ed un volume più corposi. Non avete quasi l’impressione che il cuore, prendendo a braccetto la mente, si metta a fare l’amore con i suoni carezzevoli sgorganti dalla vostra lingua e dal palato, invitando nel contempo alla festa anche l’udito, dando adito alla delizia globale in cui vi ritrovate avvolti?
Per sfiorare queste piccole estasi linguistiche non è poi necessario che l’oggetto del nostro stupore sia portatore di significati strettamente gioiosi o leggeri. Il caso che vi sto sottoponendo ci conforta esattamente in questo senso.
«Ask the dust»…«Chiedi alla polvere».
Non è propriamente un’espressione rassicurante. Evoca scenari di tribolazione interiore, panorami di smarrimento, di impoverimento spirituale. Evoca la sete, la secchezza della bocca, triviale ostacolo allo stesso atto del pronunziare parole per chiedere.
Come mai mi permetto dunque di affermare che si tratta di un’espressione portatrice di qualità estetico-linguistiche appaganti? Proprio perché quella di cui sto parlando, quella a cui si mira con questo tipo di atteggiamento verso la “parola”, è una dimensione alta dell’anima. E’ la dimensione che può permettersi di guardare alle cose della vita col distacco dell’estasi. In altre parole, è la dimensione della bellezza linguistica pura, non contaminata dai contrattempi e dalle bassezze del vivere spicciolo. Non che lingua e vita siano due capitoli separati, ma esiste un territorio sublimato del linguaggio, dove ciò che diventa primario è la perfetta corrispondenza fra volontà significante ed effetto espressivo ottenuto. Questa è la sola bellezza che conta in un simile modo di considerare il linguaggio.
Accennavo prima al fatto che la piccola epifania riservatami in questo caso dal beneamato titolo del romanzo di John Fante, è stata scatenata dal confronto fra l’originale e la traduzione italiana.
«Ask the dust»…«Chiedi alla polvere». A parte l'ovvio fatto che nella traduzione se ne va inevitabilmente perduta la secca e frusciante sonorità dell'originale, è stato un piccolo dettaglio grammaticale a rimarcare lo stupore. Conosco ovviamente questa regola linguistica inglese da non so quanto tempo, ma chissà perché solamente in forza del titolo del romanzo “fantesco”, m'è venuto da apprezzarne in modo particolare la magica bellezza soggiacente.
Sto parlando del fatto che in inglese il verbo “ask” (“chiedere”) non regge la preposizione. In inglese non si dice «chiedere qualcosa “a” qualcuno», ma semmai un cosa tipo «interpellare qualcuno per qualcosa»” («Ask someone for something»).
La differenza è sottile, ma merita tutto il nostro stupore. «Ask someone» (invece di «chiedere “a” qualcuno») mette sullo stesso piano di dignità il richiedente e l'interrogato. Non c'è quella sensazione di distanza e di separazione introdotta, a seconda del caso, dalle preposizioni “a, al, agli, alle,...ecc.”. Forse si tratta solo di una mia vacua suggestione, ma questa cosa, per quel che riguarda il mio modo d'intenderla, innesca anche una valorizzazione ulteriore dell'atto dell'ascoltare.
Nel «domandare qualcuno» («Ask someone»), io ci leggo una maggiore predisposizione a voler stabilire un grado di empatia superiore con ciò che mi sarà risposto, più di quanto non accada invece quando si «domanda “a” qualcuno».
Il nostro uso della preposizione crea una cesura fra i dialoganti, laddove invece la forma inglese li mette subito sulla medesima lunghezza d'onda. In questo senso, «Ask the dust» rende quasi l'idea che il “richiedente”, non solo si produca in un'interrogazione figurata della polvere, ma che di polvere abbai intrisa la bocca stessa. Allo stesso modo, quando una persona pone una domanda in inglese, è mossa da un'intenzionalità di immedesimazione completa con colui al quale il quesito è rivolto. In quella formulazione priva di preposizione si cela una speranza di sentire l'altro dentro di sé (e su questo dettaglio, i più goliardici si astengano da battutacce, please...).
Io che sono un conversatore alquanto scarso, talvolta sogno (non in senso figurato, ma proprio nel sonno...) di avere dialoghi stupendi con persone frequentate anche comunemente, però con le quali non riesco mai a colloquiare in misura soddisfacente nella realtà.
Poche volte nella vita da sveglio ho provato una sintonia di discussione con qualcuno come in occasione di quelle chiacchierate oniricamente simulate. In quelle circostanze verbal-ronfatorie, sento me stesso e l'interlocutore fusi insieme nei significati delle parole che pronunziamo.
Ecco, non saprei spiegarvi come, ma sono quasi certo che il dialogo perfetto, del tipo scaturito in queste parallele esperienze del mondo dei sogni, ha esattamente la stessa natura di un dialogo intessuto nello spirito del domandare alla maniera inglese, quella che si manifesta nella magica e compenetrante formula dell'«asking someone».
“…L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è…” Paul Klee
A scanso di equivoci, questa è solo una mia bizzarra foto
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Così imparo a fare il bullo: «…e sono il dj dell’arte di qua…ed ecco a voi il Claudio Cecchetto della critica artistica di là…». E quasi ci rimango dentro. Nel senso che è bastata una gentile richiesta della cara amica Rosalucsemblog, che a momenti “Radio free Gillipix” fonde le valvole. Sì, perché l’artista del quale Rosa mi ha chiesto di parlare è diiiiiiiiiiiiifficilissimo.
Niente meno che Paul Klee.
L’opera di Klee rappresenta uno dei più alti e raffinati tentativi di riuscire a comunicare servendosi del linguaggio dell’«indicibile» puro, e scusate se è poco!
«…E mo’ che ‘jè racconto?...» è stato il primo pensiero spontaneo che mi è balenato alla mente. Ma niente paura: non sia mai detto che un Gillipixel scribacchino getti la spugna di fronte ad una sfida espressiv-narrativa. Piuttosto sparo vaccate a raffica e mi metto a muso aperto a prendermi tutti gli ortaggi in faccia, senza mancare nemmeno un ravanello.
Dunque, vediamo un po’, allora…Paul Klee.
Innanzitutto, parto dall’unica cosa certa che credo di aver capito su di lui: il nome non si pronuncia all’inglese, come in tanti tendono erroneamente a fare. Non è “Póóól Klììì”. La pronuncia è invece teutonica, in pratica uguale a come si scrive: “Pàul Klèèè”. Klee era infatti nato il 18 dicembre 1879 a Münchenbuchsee, nel Canton Ticino Svizzero, e morì il 29 giugno 1940 a Muralto, sempre poco distante dalla sua terra d’origine.
L’attività artistica di Paul Klee ha spaziato intensamente sul versante teorico, tanto quanto è stata profonda dal punto di vista della produzione effettiva di opere. Negli anni giovanili, fece parte del movimento pittorico e culturale «Der bluae Reiter» («Il cavaliere azzurro»), fondato nel 1911 da Wassily Kandisky, che di Klee fu “collega” ed interlocutore artistico praticamente per tutta la vita (pur seguendo essi cammini artistici complementari, ma differenti). I due si ritrovano, pochi anni dopo, nelle vesti di professori della mitica scuola di arte, design ed architettura, creata da Walter Gropius a Weimar: la Bauhaus.
E fin qui son buoni tutti a raccontarvela, ma ora viene il bello. Già in partenza, incontro nella mia esposizione una difficoltà apparentemente banale, ma di fatto basilare: di Klee è impossibile prendere in esame alcune opere “tipiche”. La sinteticità e l’appiglio discorsivo immediati, offerti dai tagli di Fontana, dai boccettini di Morandi, dalle statuette emaciate di Giacometti, con Klee me li posso scordare alla grande. L’opera di Klee è sperimentazione continua, ogni quadro, ogni disegno, ogni tela, è una storia a sé. Ma non rammarichiamoci eccessivamente per questa caratteristica: come vedremo, essa è fondamentale per avvicinarci un po’ di più alla comprensione della poetica stessa di Klee.
Per capire Klee, bisognerebbe parlare di Kandisky, del «bluae Reiter», poi della Bauhaus…ma non temete, cari amici viandanti per pensieri, non pretendo che passiate i migliori anni della vostra vita incollati a questo articolo. Cerchiamo allora di venire al dunque, al punto essenziale, “nucleare”, cruciale, sostanziale, basilare, della poetica di Paul Klee. La ricerca teorica di Klee e Kandinsky si propone fin da subito un obiettivo altissimo: ricondurre la “comunicazione estetica” alle proprie forze autonome e primordiali, annullando ogni sovrapposizione culturale che vi si è andata accumulando in cima, nel corso di secoli di tradizione occidentale.
Il linguaggio delle immagini (e con esso tutto il suo “alfabeto” fatto di linee, colori, tonalità e così via), lungo il corso della storia dell’arte e dell’espressività visiva e figurativa, si è andato cristallizzando in codici. Un “codice” (un “linguaggio”) presuppone un accordo, un “contratto” stipulato su di una base razionale, logica e culturale condivisa dai parlanti, nel continuo confronto con l’esperienza.
Faccio un esempio banale: la lingua italiana è giunta sino a noi, nella forma in cui la conosciamo oggi, grazie all’accumulo di secoli di “micro-accordi” fatti di volta in volta da chi se n’è servito quotidianamente, parlandola e poi anche scrivendola.
Se oggi possiamo pronunciare bellissime parole come “gatto”, “donna”, “tetta” o “chioma”, ed intenderci perfettamente riguardo all’oggetto che vogliamo indicare, è perché in passato ci sono state migliaia e migliaia di persone prima di noi che hanno gradualmente “contrattato” la corrispondenza di quei suoni rispettivamente ad una graziosa bestiolina pellicciosa e fusaiola (“gatto”), alla dolce altra metà del cielo (“donna”), ad un delizioso componente fisico in dotazione binata a quest’ultima (“tetta”: regalo, al pari dei trenini elettrici, normalmente pensato per i più piccoli, ma poi molto apprezzato anche dai papà…), alla propaggine morbida e più o meno fluente che adorna le teste umane (“chioma”). E così via, quasi all’infinito per ogni parola del nostro vocabolario.
Tra suono e significato non c’è nessun nesso necessario. Il suono “gatto” e la corrispettiva palletta pelosa e miagolante, teoricamente non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altra. E’ solo in virtù del “contratto linguistico” fra i parlanti, che li associamo.
Questo è accaduto per tutti i linguaggi. E’ accaduto con la lingua matematica stessa, oppure la lingua geometrica, tanto per fare altri esempi eclatanti. Ed è accaduto ovviamente anche per il linguaggio visivo. Pur essendo più sottile da cogliere come concetto (perché la nostra “visione del mondo” pare nutrirsi direttamente del succo dell’«immediatezza empirica»), anche il nostro linguaggio visivo si serve di “codici” fondati su “accordi stipulati”, allo stesso modo di una lingua propriamente detta come l’italiano, l’inglese, il latino, il greco, ecc.
Prendiamo, con l’ennesimo esempio, un “modo di esprimersi” tipico del linguaggio visivo occidentale: la prospettiva. Anch’essa, pur sembrando connaturata alle “cose” (per via dell’«immediatezza empirica» di cui parlavo sopra), è tuttavia il risultato di un contratto stipulato fra i parlanti del linguaggio figurativo. Fra “prospettiva” e realtà passa forse solo un grammo in più di “necessarietà” di quanta ne intercorra fra il suono “gatto” e la bestiola di riferimento. Ma rimane il fatto che la “prospettiva” è solo uno dei modi di “assorbire” realtà attraverso i sensi.
Controprova ne sia il fatto che in altre tradizioni culturali (quella cinese, per dire, o giapponese, o altre…), la prospettiva come da noi concepita, non è contemplata affatto. Anche se ci pare strano ammetterlo (perché ci è tanto familiare da sembrare un dato “di natura”), la prospettiva è un “contenitore visivo” condiviso da noi occidentali solamente “per convenzione”: è un meccanismo linguistico che vive in virtù di un accordo, di un contratto.
Vaghe reminiscenze di un esame di psicologia sostenuto all’università, mi riportano alla mente un interessante esperimento visivo compiuto con persone di una tribù africana. Questi soggetti, osservando alcuni disegni che ad un “occidentale medio” causavano illusioni ottiche innescate da meccanismi prospettici (tipo la figuretta riportata sotto, un classico trabocchetto ottico denominato "illusione di Hering"), non coglievano la stranezza visiva. Semplicemente non erano stati “educati” alla prospettiva, non rientrava nel loro linguaggio visivo e di conseguenza non comprendevano quando la prospettiva “parlava” loro.
Illusione di Hering: le linee rosse "sulla carta" sono parallele,
ma un osservatore educato alla prospettiva le percepisce incurvate al centro
Ora possiamo tornare a Klee (e per piccoli rimandi di sfuggita, anche a Kandinsky): essi sostengono che esiste una dimensione della comunicazione estetica che viene radicalmente prima della fase del “linguaggio contrattato”. Non solo: secondo i due artisti, gli elementi estetici sono portatori di una forza espressiva autonoma che precede addirittura i significati assunti dalle forme nelle loro specificazioni naturali o negli oggetti concreti. Per dire: ancor prima di specificarsi nelle fattezze di un albero, di un cavallo, di una bottiglia di Chianti, di una bella ragazza (ma anche di una meno bella, mica stiamo a fare discriminazioni, qui…), le “forme” esistono anticipatamente “date” nella nostra coscienza.
A questo punto, per fare una cosa come si deve, dovrei scomodare Freud, Jung e prima ancora Immanuel Kant, ma il discorso mi sembra già abbastanza a groviglio di rovi, per andare a fare ulteriore casino e rischiare magari di dire cazzate ancor più grosse di quelle già proferite.
Mi sia concesso solo un breve accenno a Kant, ma proprio da profano filosofico. Con Kant si inaugura la stagione della filosofia che dice definitivamente addio alla pretesa di capire se ci sia corrispondenza fra il mondo pensato e quello esterno al pensiero. Quando prendiamo in mano una mela e poi magari l’addentiamo, il frutto e tutta l’azione che mettiamo in moto, trovano un loro corrispettivo in una realtà esterna a noi stessi, o sono solamente una rappresentazione della nostra coscienza? Per usare una categoria d’indagine filosofica denominata in senso strettamente tecnico “sintesi alla brutto boia”, Kant ci dice che poco importa sapere di quella corrispondenza. Quello che importa è che l’«assetto pensante» è uguale, universale, per tutti gli uomini. La mente dell’uomo è un contenitore di pensieri inevitabilmente inquadrati in un sistema di riferimento che ha per coordinate numerose “categorie innate”, le più fondamentali fra le quali sono lo spazio ed il tempo.
In una direzione analoga è indirizzato il discorso poetico di Paul Klee: egli ha cercato nel corso di tutta la sua vita artistica di affermare l’esistenza di una “comunicatività estetica” che precede l’esperienza e la cultura. Ancor prima di sperimentare le forme coi sensi, esiste nella nostra coscienza una strada estetica all’intesa fra gli esseri umani, una comunione di intenti che parla un “linguaggio figurativo puro”, anteriore a tutte le “contaminazioni” assorbite poi attraverso la cultura e l’educazione.
Dice al proposito la mia guida spiritual-artistica, Giulio Carlo Argan: «…i segni corrispondenti a significati dati, cioè i linguaggi rappresentativi le cui forme sono logicamente collegate agli oggetti, sono segni spenti, perché la loro comunicazione è mediata dagli oggetti della comune esperienza (la natura) …».
Tornando all’esempio precedente: il suono e il segno scritto della parola “gatto” sono “spenti” rispetto alla corrispettiva bestiola, così com’è “spento” un dipinto che riproduca un gatto, ma anche la specificazione estetica del gatto nella realtà è “spenta”, perché frutto anch’essa di convenzioni culturali e dettate dall’esperienza (il suono e un dipinto della parola “tetta” sono forse più accesi, ma è questione di gusti personali…e scusate la cazzata d’interludio…).
Ancora Argan: «…La comunicazione estetica […per Klee e Kandinsky…] vuol essere invece una comunicazione intersoggettiva, che va direttamente dall’uomo all’uomo senza l’intermediario dell’oggetto, della natura…».
Non a caso la ricerca estetica di Klee e Kandinsky è stata anche accomunata dal profondo interesse rivolto all’espressività grafica dei bambini. Entrambi hanno studiato i disegni infantili come espressione di una fase estetica ancora “primordiale”, il più possibile avulsa dalle specificazioni intellettuali che si vanno acquisendo nella fase dell’apprendimento.
Ma Klee va oltre. Per lui anche l’animo del fanciullo è già saturo di “sapienza culturale, simbolica, ereditaria”. Klee, prosegue Argan, «…sorride della pretesa di Kandinsky di cogliere nel bambino la condizione primaria, originaria dell’essere: il bambino nasce vecchio, carico di esperienze ancestrali e non c’è divario tra la sua esperienza e quella dell’adulto, l’umanità stessa può ancora considerarsi bambina…[…]…quella della prima infanzia non è affatto una condizione di primitività assoluta, di non esperienza; su ogni vita che nasce molte vite vissute hanno lasciato l’impronta delle loro esperienze…».
Se nemmeno l’infanzia può dirsi culturalmente “incontaminata”, dove ricercare dunque la purezza di un’espressività estetica capace di venire prima di ogni specificazione dell’esperienza e dell’educazione? Ci risponde ancora Argan, che essa si può ritrovare «…in quella regione sconfinata dell’inconscio che Freud e Jung avevano da poco aperto alla ricerca: una regione in cui nulla si dà come rappresentazione o concetto e tutto si dà per immagini e segni […] l’opera di Klee è una specie di diario della propria vita interiore o profonda: di tutto ciò che è rimasto allo stato d’impulso o motivo, e non si è tradotto in causa di determinati effetti, non ha fatto storia. In questo senso Klee può considerarsi, in pittura, il parallelo di Joyce: e come in Joyce le parole e le frasi, così in Klee le immagini si scompongono, ricompongono e combinano secondo nessi alogici e asintattici, ma vitali e sensibili come legamenti nervosi…».
Cari amici viandanti per pensieri, come passa il tempo quando ci si diverte, vero? Infervorandomi fra i labirinti artistici, quasi non mi accorgevo di avervi già rifilato una sbrodolata non da poco. Questo Klee è veramente impegnativo, ce ne sarebbe da dire per ore. A questo punto volevo fare qualche cenno pratico a come si traduce tutta questa teoria in un’opera concreta del maestro svizzero. Ma per il momento, mosso da uno sprazzo di compassione per i vostri provati zebedei, sospendo qui la puntata, faccio squillare la campanella della ricreazione e vi rimando ad un secondo episodio su Klee (chiedendo il gentile permesso della cara Rosalucs…).
E così eccoci qui di nuovo: ”…so this is Christmass and what have you done…” e compagnia bella. Ormai è il terzo Natale che passo con voi, in senso figurato e narrativo, e devo dire che anche stavolta posso guardarvi negli occhi (sempre allegoricamente parlando…) e dirvi con un sorriso affettuoso: «…Grazie di cuore, cari amici viandanti per pensieri…».
Sarò melenso, mellifluo, sdolcinato, retorico e para-smidollato a venirvi a propinare una smanceria del genere. Ma con tutta la gentaglia che si vede in giro, forse non sarò proprio io il peggiore in circolazione.
Insomma, lo so che sembra un po' una sparata a mo' di “captatio benevolentiae”, una “sententia ad paraculandum” bella e buona. Ma il mio grazie d’altra parte è anche alquanto interessato. Sì, perché ringraziare voi, sempre pazienti a sbirciare le mie scribacchiate adagiati sulle vostre sedie e davanti ai vostri monitor, è come un render merito, da parte della spiga di frumento, alla pioggia che l'alimenta e al raggio di sole che la fa crescere. Siete voi i motori immobili e leggenti, causa prima della mia passione scribacchiatoria.
Ma per tornare al Natale, ecco, volevo aggiungere che ogni anno mi sembra di impiegare sempre più tempo ad immedesimarmi nell'atmosfera classica di questa festa. Anni fa, già una settimana prima ci ero dentro fino al collo. Poi i giorni di acclimatazione si sono ridotti sempre più, fino a diventare quasi ore, adesso come adesso. Di questo passo, fra qualche anno andrà a finire che mi sentirò veramente dentro al Natale che sarà già arrivato Santo Stefano.
Stamattina, in ufficio, ero ancora molto lontano da siffatto sentire natalizieggiante (che poi, non so spiegarvi bene in cosa consista...). I vari auguri che si rimpallavano fra colleghi più o meno conosciuti, mi sembravano più stonati del solito.
Poi mi ha beccato una inusitata nostalgia del mio fiume. Il mio caro fiume. E' strano perché, pur abitandovi vicinissimo, in inverno, tra freddo, maltempi e giornate brevi, sto anche tante settimane senza vederlo. Oggi, così, di botto, mi mancava tantissimo. Fatto sta che nel tornare a casa, quando mi son trovato in prossimità di Gillipixiland, ho girato la macchina verso l'argine. Pioveva, non c'era un'anima in giro, a parte qualche avventuroso che faceva fare il giretto al cane.
Sono sceso verso la riva, e lui era sempre là, fedele e fiero come l'avevo lasciato l'ultima volta che l'avevo visto. Il mio fiume. Mi son bastati pochi minuti di quella comunione mentale e spirituale che solo la sua vicinanza sa regalarmi, per ritrovare una cosa bella. Era piuttosto gonfio, e mi sono venute in mente tutte le persone che in questo momento stanno in apprensione per altri corsi d'acqua bizzosi. Ho sperato soprattutto per loro, che il Natale sia davvero buono.
Ho ripensato poi un attimo a tutte le volte che il fiume mi ha tenuto compagnia nei mie giretti in bici. C'intendiamo sempre io e il fiume, perché lui, i miei pedali e i miei pensieri vanno alla stessa velocità.
E' venuto presto il tempo di rincasare, ma prima non ho mancato di scattare una piccola foto di arrivederci, a quando il tempo si riaprirà per le mie ciclo-meditate. Nell'inquadratura è entrato anche un nuovo surreale personaggio di “Andarperpensieri, di cui sentirete parlare prossimamente. No, no...non si tratta di una nutria presa su in autostop, che montandosi la testa si era messa alla guida. A suo tempo vi spiegherò.
Ma intanto, con originalità supersonica, vi auguro un Natale sereno. Non cose eccezionali, non fortune stratosferiche, non auguri con gli effetti speciali. Coi tempi che corrono, essere sereni è già una gran cosa e questo mi sento di augurarvelo senza provare nel contempo quel velo di ipocrisia che accompagna tante volte certo cerimoniale aguralizio.
E adesso, dal momento che la melassa sparsa oggi è già stata sufficiente ed abbondante, per aggiustarvi in bocca, vogliate gradire un classico della perfidia melodica di tutti i tempi: “Venus in furs”. Al trapanamento canoro c'è sempre il vecchio Lou; al tormento interiore, i suoi Velvet. Una garanzia.
Cari amici viandanti per pensieri, oggi devo farvi una grave confessione.
Io sono uno spacciatore!
Ebbene sì, ho diffuso l’assuefazione fra i miei colleghi di lavoro ed ora non possono più fare a meno delle dosi da me procurate. Tutto cominciò in occasione di una festa di commiato per un caro collega che si trasferiva in una lontana città, ad iniziare una nuova vita. A me commissionarono di contribuire con un po’ di quella “roba” che nelle viziose plaghe di Gillipixiland è estremamente diffusa e assunta fin dalla più tenera età dagli infanti un attimo dopo aver mollato il biberon.
Mi venne raccomandata la massima discrezione, anche perché il tutto doveva essere una sorpresa per il collega partente festeggiato. Feci una puntata dal mio fornitore di fiducia. Era un periodo di nebbie discrete, ideali per garantire la migliore qualità della “roba”, insieme alla circospezione nell’acquisto. Considerando il gran numero di persone da soddisfare alla festa, anche su indicazione del mio fornitore, mi procurai tre pezzi di roba purissima, “insaccati” nelle loro naturali membrane, come si usa da queste parti. Sarebbero bastati per decine e decine di dosi, dopo aver opportunamente “tagliato” la sostanza, procedura normalmente consigliata quando si maneggia “roba” confezionata a Gillipixiland.
Il segreto non venne intaccato, mi occupai io personalmente di “tagliare” le dosi, con un apposito strumento di precisione portato da casa, tanto che all’ingresso del caro collega festeggiato, lo spettacolo che si presentava sul tavolo era una gioia per occhi ed olfatto: un’apparecchiata luculliana di fette e fette di salame di Gillipixiland, un florilegio sfavillante di pois biancorossi in caleidoscopica ed invitante distesa.
Il gioco di parole intessuto fra “roba” e “dosi” voleva essere un modo scherzoso per raccontarvi la vicenda occultandola dietro un divertente depistaggio narrativo, ma nella sostanza dei fatti, ciò che vi ho detto è pura verità. Il fascino dei sapori di Gillipixiland conquistò tutti i colleghi.
Sul momento, la cosa mi allietò non poco: ero fiero della mia terra, capace di esprimersi in siffatte delizie per il palato, tali da stupire un pubblico di bocche cittadine non certo avvezze ad ingollare suole di scarponi alla brace.
Ma a quel punto il germe della dipendenza era stato inevitabilmente sparso. Fra le tante strambe direzioni che la mia vita ha imboccato, mai e poi mai avrei pensato di finire per intraprendere anche la carriera di “spacciatore di salami”.
Infatti, da quella volta in poi, soprattutto in prossimità delle feste principali dell’anno, qualche collega mi chiede un paio di stentorei salami (nel senso che le loro fette cantano sotto il palato) o un’abbinata di paffuti cotechini. E col tempo i clienti sono diventati numerosi, tanto che passo certe settimane sentendomi un misto fra impiegato e rappresentante di salumi.
In quei casi, arrivo come mio solito in città che fa ancora buio, parcheggio l'auto e guardingo mi carico sulle spalle lo zainetto preventivamente imbottito di materiale altamente affettabile. Mi incammino per le vie cittadine con fare dissimulato, recando sulle spalle il mio oscuro carico di peccato di gola.
Il primato personale (credo ancora insuperato a livello mondiale) l'ho fatto registrare il giorno in cui feci il mio ingresso in ufficio con 4 salami e 3 cotechini sul groppone.
Ora, cari amici viandanti per pensieri, io dico: non siete fieri di avere un amico originale come me? Quando mai, fra i vostri conoscenti, avete potuto annoverare un altro individuo che timbra il cartellino reggendo in una mano il badge e nell'altra l'intero campionario del perfetto salumiere in missione alla volta dell'annuale “Fiera del suino moderno”?
Il bello poi è quando apro lo zainetto per dare il via allo spaccio, distribuendo gli ordinativi ai vari “gastronomo-dipendenti” di turno: per l'ufficio si sprigiona il classico profumo dell’essenza suinesca ormai “passata in giudicato”, tingendo tutta la situazione di sfumature ancor più buffe e, a loro modo, poetiche.
Tuttavia, per evitare ulteriori danni alla moralità urbana, ho tenuto nascosto che dal mio fornitore sono disponibili anche sostanze ben più “pesanti”, tipo culatelli, coppe, zamponi, spalle crude, ciccioli, pancette e così via. Sarò anche spacciatore, ma pur sempre spacciatore d'onore, e fedele al proprio motto gastronomico: «…Al cittadino non far sapere che son passati i tempi del formaggio con le pere...».
«...in a screaming ring of faces I seen her standing in the light she had a ticket for the races just like me she was a victim of the night...»
“Tunnel of love” Dire Straits - 1980
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Da ragazzino, quando ero un fumettaro veramente incallito e particolarmente trasognato, avrei voluto sapere tante cose sulle origini dei miei eroi di cartone prediletti. Dov’erano nati, chi erano i loro genitori, com’era stata la loro infanzia, se avevano fratelli o sorelle, che mestieri avevano fatto (se ne avevano fatti), quali amori avevano avuto, e così via. Tutte queste cose le avrei volute sapere riguardo ad Alan Ford, Tex Willer, Zagor, Mister No, Reed Richards, John e Sue Storm, Bob Rock, il conte Oliver, Grunf e tutti gli altri che adoravo.
Sono contento di aver vissuto l’acme della mia passione per i fumetti mentre avevo un’età in cui i miei beniamini dal “fiato parlante” li potevo quasi sentire come degli amici reali, essendo io calato all’epoca proprio in quel particolare limbo emotivo, a metà strada tra l’amore per l’immaginato e le continue proiezioni di esso nel mondo concreto, che caratterizza appunto l’era della fanciullezza.
Solo in seguito ho compreso meglio quanto poco sensato fosse quel mio desiderio di sapere di più della biografia degli amati personaggi dei fumetti. L’incanto stesso del racconto nel quale erano immersi pretendeva che le loro vite rimanessero sempre sospese in una nuvola di “indefinitezza temporale” appositamente architettata dagli autori delle storie, per mantenere sempre vivo il loro fascino di entità votate ad un presunto eterno presente. Ecco perché, nei vari episodi, i riferimenti ai trascorsi biografici di ogni personaggio erano centellinati con il misurino: non potevano essere confusi con gli uomini in carne ed ossa, e pur recandone in apparenza tutte le caratteristiche essenziali, ne erano in fondo dei simulacri privilegiati, immuni dal tempo normalmente inteso. In caso contrario, sarebbero risultati uomini o donne qualsiasi.
Se così fosse andata la faccenda, che gusto ci sarebbe stato? Dove si sarebbe smarrito tutto il loro potenziale fascino, la loro peculiare capacità di far sognare il lettore?
Nonostante tutto ciò, all’epoca della mia maggiore infatuazione fumettistica, accoglievo sempre con gioia ogni nuovo giornalino che introducesse anche il minimo spiraglio di rivelazioni sul passato dei miei cartonati amici. Mi godevo la mia ignoranza, mi gustavo il mio diritto di non saperne nulla dei meccanismi narrativi del fumetto e della fiction in genere, pur intuendoli vagamente nel mio inconscio di piccolo appassionato di storie e “fole contate”.
Oggi l’ho presa su un po’ alla larga, ho fatto tutto un giro intorno, per arrivare a dire che secondo me, in fondo, anche il “personaggio” di Gillipixel è da considerarsi come una specie di fumetto.
E con questo? No, niente.
Con questo intendo semplicemente dire che anche cotesto presunto personaggio fumettistico che è Gillipixel, gode di una sorta di immunità biografica. Anche per questo motivo, di Gillipixel, gli elementi derivati effettivamente dalla “sua” vita vera, sono rari e “sublimati”. Gillipixel sono io e non sono io, entrambi raccontati da me, senza concedere troppi particolari di me, ma entrando talvolta sufficientemente nei dettagli per far capire qualcosa di me che è molto più del semplice me magari conosciuto nella realtà concreta.
Capito ‘na minchia, vero? Devo ridirla più lentamente?
Ma no, forse è meglio che vi racconti l’episodio nel quale presumo risieda l’origine di tutta la mia stramberia, che a sua volta è la causa primaria dell’intero mio modo di dare forma a questo blog.
Doveva essere l’anno della quarta elementare, se non vado errato, ma poco importa la precisione netta. Io ero il solito bambinetto riservato e diligente (forse più per pigrizia che per altro…). Piccolo “inciso-premessa”: a Gillipixiland la bici è un prolungamento naturale della persona. Incontrare un tizio a piedi lungo una strada appena fuori dal centro abitato equivale quasi alla stranezza di vederlo girare in mutande. A parte chi gira in auto o altri mezzi motorizzati, una persona in giro per Gillipixiland è veramente degna di essere chiamata tale quando si “centaurizza” facendosi propaggine di una sella, due pedali, un manubrio e compagnia velocipeda bella.
Dovete dunque sapere che io, nel lasso di mia bambinitudine, una bici nuova tutta per me non la possedetti mai. Dal punto di vista “biciclistico”, ho sempre ereditato dal parentado vario oppure usufruito di mezzi rigorosamente usati. A casa mia, le spartane tradizioni contadine regnavano sovrane, con tutto il loro strascico di austerità e risparmio solenne, per cui una catena che aveva già girato migliaia di volte sotto la spinta di altri polpacci, poteva benissimo continuare a fare il suo morchioso dovere anche sollecitata dalle mie gambette di sbarbatello.
Questa cosa, da piccolo, ad ogni “nuova” bici usata su cui andavo a posare le mie fanciullesche terga, mi ha sempre trasmesso una punta di delusione. Poi passava il momento iniziale, mi affezionavo al mio ferreo cavallino di turno, e tutto si sistemava.
Il fatto più buffo è che alla fine, divenuto grande, la prima bici nuova vera e propria, con sella intonsa da qualsivoglia precedente aderenza chiappale altrui, me la concessi quando ormai avevo imparato ad apprezzare le bici vecchie, tuttora i miei cavalli d’acciaio preferiti.
Tornando a bomba, stavo dicendo che allora sarà stato all’incirca l’anno della quarta elementare, ed io ero fresco di regalo della mia seconda bici “nuova” usata. Fino a quel momento avevo scorrazzato su di una graziellina minuscola, ma ormai le mie leve stavano diventando eccessive per quei calibri ridotti, con conseguente sinfonia di ginocchiate in do minore per manubrio e leve dei freni.
Quella che mi arrivò però fu una delle biciclettine più deludenti di sempre. Non era né da bambino, né da ragazzo, né tanto meno da uomo. La sua misura ibrida ed intermedia fra quelle che nella mia immaginazione di allora reputavo essere canoniche, me la faceva pensare con leggero disappunto come una bici da “ometto”. Per dirla con un’espressione dei miei eroi di cartone: puah!
Il disagio si acuì nell’attimo in cui montai in sella: il manubrio era già ammaccato e l’impressione della ruota protrusa spropositatamente in avanti rispetto alla mia limitata esperienza ciclistica precedente, era sgradevole e disorientante. Però come per ogni altra bici, alla fine mi ci affezionai, anzi, dopo un po’ ne andavo fiero perché era unica rispetto a tutte quelle dei miei amici.
L’episodio chiave avvenne un giorno che pioveva da bestia e il fatto di averlo vissuto in sella alla mia biciclina ormai divenuta fedele compagna di scorribande, ne accresce il valore ai miei occhi. La campanella di fine lezioni suonò ed io mi fiondai in strada a pedalare indiavolato sotto l’acqua, parandomi dall’infida pioggia di “stravento” con l’ombrello messo praticamente “a parete” di fronte al manubrio.
Ero già agitato di mio, perché nel primo pomeriggio mi attendeva il detestato corso di nuoto, in città. Quel corso proprio mi repelleva per la presenza di uno “pseudo-maestro-kaiser-terzo” che, opportunamente dosato nel corso delle loro carriere, avrebbe fatto passare la voglia di scendere in una piscina anche a Johnny Weissmuller, Mark Spitz e Ian Thorpe messi insieme.
Chissà cosa mi passava per la mente dunque mentre affrontavo la piccola curva a gomito verso casa, imboccando il viale e non vedendo assolutamente una mazza per via dell’ombrello-sipario che mi precedeva. Non vedevo, ma sentii benissimo la craniata micidiale che andai a sbattere contro il cassone di un camion parcheggiato lungo il ciglio della strada: come aveva osato mettersi sulla mia traiettoria? Non usava, nel galateo dei camion in sosta, cedere il passo ad un bambino che va di fretta sotto l’ombrello col suo biciclino?
Fu una botta tremenda, non meno intensi lo stupore e lo shock. Mi fermai mezzo intontito e spaventato, l’ombrello semicalato ed il fiato tagliato a fette dall’agitazione. Mi portai la mano alla fronte. Per quel che ne capivo in quegli attimi di confusione, non sembravano esserci conseguenze, a parte un male boia. Stetti fermo giusto un minuto per ripigliarmi un minimo, e ricordo che, riportando di nuovo la mano alla testa, tastai un bozzo enorme che mi era lievitato, una sorta di cornino proprio nella parte frontale alta del cranio. L’agitazione crebbe a dismisura e mi affrettai a correre a casa di volata.
Una volta riavvolto nel conforto delle mura domestiche, credo che la tensione accumulata per l’episodio svaccasse al completo, perché vomitai, per la tremenda reazione emotiva immagino, e mi venne subito la febbre. L’unico pensiero che mi dava gran conforto, era che per quel giorno mi ero risparmiato le lezioni di quel despota del nuoto, che ignorava lo stile libero e imponeva solo quello tirannico. In un paio di giorni mi ripresi, ma credo che la mia bizzarria mentale e la mia immaginazione sgangherata scaturirono proprio da quella incredibile botta, da quel donchisciottesco colpo di testa assetato ad un camion che si ostinò a non voler entrare in gol.
Ecco perché vi dicevo prima che Gillipixel è un fumetto, un cartone animato: perché come capita ai fumetti, una volta gli si gonfiò sulla fronte un bozzo di alcuni centimetri, nel giro di pochi secondi. Ma soprattutto perché non so ancora bene se la cosa accadde a Gillipixel o a me.
Ognuno sta con tantissimi altri sui piedi della terra immerso in una bolla di luce: ed è sempre la vita
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"...Equitare, arcum tendere, veritatem dicere..."
"...From the Forests and Highlands We come, we come..."
Oggi sono pigro come un bradipo parastatale e non mi venivano cose originali, mie, da scrivere. Però volevo ugualmente battere un colpo, così lascio qui le due piccole citazioni (lì sopra, fra le virgolette), che, nel caso, troverete in epigrafe sempre a «La mia Africa» di Karen Blixen, la cui lettura per me sta proseguendo con buona soddisfazione.
Suscitare bellezza con una "mini-dedica-sentenza" in testa ad un libro è una piccola arte. Il significato conta, ma conta tantissimo anche il suono delle parole, la loro eleganza, il ritmo. E in ordine a questi fattori, le due piccole frasi usate dalla baronessa Blixen per me sono eccezionali.
La prima ("...Equitare, arcum tendere, veritatem dicere...") mi suggerisce una possanza morale eccezionalmente vigorosa, fa balenare alla mente immagini di fieri samurai al galoppo (o nobili guerrieri equipollenti per essi) ritti sull'arcione, le cosce a morsa intorno al dorso dell'animale, nell'atto di scoccare la freccia decisiva per la risoluzione della battaglia.
La seconda ("...From the Forests and Highlands / We come, we come...") suggerisce invece un'immagine di gente che affronta la vita come commensali chiamati ad onorare un desco lussureggiante ed imbandito di avventura e fierezza.
Niente, tutto qui per oggi, cari amici viandanti per pensieri.
Ah...a dire il vero una cosa semi-originale l''avevo scritta, ancora appena più sopra, prima dei 7 asterischi. Ma fate un po' voi...io quasi quasi la rinnego per indegnità...
- Gillipix, ma te da piccolo per caso sei caduto dal seggiolone? - Cosa te lo fa pensare?" - No, niente...così...
Da un'Antica leggenda Assira
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Dato un determinato oggetto, gravante in direzione del suolo secondo un proprio specifico e ben circostanziato peso, penzolando esso medesimo nel vuoto per mezzo di un cavo costituito da materiale a scelta, sufficientemente resistente a reggere lo sforzo…approntato insomma tutto codesto scenario, esisterà sempre un discrimine di zavorra minimale in grado di far saltare il cavo, una volta posato sull’oggetto stesso in semi-impercettibile aggiunta al fardello originale?
In altre parole, se 6 persone di 80 kg ciascuna salissero su di un ascensore che ne regge giusto 480, si schianterebbero di sotto nel caso in cui una di esse recasse in tasca una piuma di pulcino?
Per dirla ancora diversamente: posti 10 individui a cavalcioni della groppa di un elefante, in modo da sollecitare il simpatico pachiderma all’estremo massimo della sua vigoria fisica, sarà sufficiente che uno dei passeggeri inghiotta la caramella che stava saporitamente ciucciando nel frattempo, per far collassare sotto la marginale accelerazione scaturita il povero proboscidato, lasciandolo completamente prostrato in prona e quadrupeda spaccata?
Ultralimen Sogliaroli (sì, sì…si chiamava proprio così, cosa c’è di male?...) sembrava venuto al mondo esattamente per rispondere attraverso la propria esistenza a questi interrogativi.
Non era infatti ancora passato tanto tempo dal giorno della sua nascita, che Ultralimen (“Soglia” per gli amici) aveva già involontariamente preso a distinguersi come un vero e proprio “Mozart del limite”. In realtà, Soglia aveva sempre intuito dentro sé l’inconscio presentimento di possedere un simile talento connaturato all’essenza della propria indole, ma fu soltanto crescendo che il fenomeno si manifestò con evidenza, a se stesso e agli altri.
Le prime nebulose avvisaglie del portento presero a balenare proprio sul varcar di “Soglia” della soglia di sua vita. Per la mamma il travaglio non era stato poi così lungo, né difficoltoso. Medico, ostetrica e partoriente avevano tratto la conclusione che le ottime condizioni di salute di mamma e nascituro, più un pizzico di fortuna unito forse alle favorevoli congiunture astrali, erano stati gli ingrediente fondamentali per un simile agevole esordio sul palcoscenico della vita.
Non potevano sapere, soprattutto perché Soglia non sarebbe stato in grado di riferire, che buona fetta del merito spettava invece al talento in boccio del piccolo infante. Egli stesso non comprendeva ancora bene di cosa si trattasse. Percepiva solo una sorta d’istinto che lo chiamava ad essere assecondato. E lui non faceva altro che assecondarlo.
Già da dentro la pancia della mamma, Soglia, con la sensibilità di un raffinatissimo “termometro temporale”, si era accorto del momento preciso in cui lo scadere esatto dei nove mesi stava per scoccare. Facendosi trovare pronto sul traguardo, balzò fuori bianco e roseo sul filo di lana della nascita, assecondando con precisione ponderata gli sforzi della mamma, di modo che la minima spinta risultasse decisiva per sgusciare nel mondo mantenendo entrambi un gradino al di sotto della sofferenza normalmente richiesta.
«…Uhè, huè, huè…» si affrettò a dichiarare il piccolo Soglia. «…Nghè, nghè, nghè …» precisò subito dopo. Con un perfetto dosaggio di “Uhè” e di “nghè”, esattamente misurati sulla sapienza professionale dell’ostetrica, riuscì a fermarne giusto in tempo la mano ancora “ghibertianamente” sospesa a mezz’aria, evitando così la solita sculacciata di prammatica, resa ormai superflua dal tempestivo sfogo spontaneo esibito.
Per Soglia, non fu che l’inizio di un portentoso crescendo ad inseguire la sua vocazione di “segugio del limite”. Un bel giorno di alcuni mesi dopo, la mamma di Soglia stava spensieratamente appendendo i panni freschi di bucato sullo stenditoio nel cortile, quando un brivido di raccapriccio le corse dalla schiena a risalire lungo la nuca: nel trambusto dei mestieri di casa, si era sbadatamente scordata sul tavolo il biberon con il latte caldissimo, alla portata di Soglia, assiso sul suo seggiolone.
Inforcò le scale di gran volata, due gradini per passo, solo per constatare, una volta giunta in casa col fiatone colmo d’ansia, che Soglia se ne stava bellamente intento a sorseggiare il suo biberon, reggendolo da sé con piena fermezza.
Era successo che Soglia, assecondando la percezione del proprio corpo, giusto pochi attimi prima aveva arguito prodursi nei suoi muscoletti quello scarto minimo in più di forza necessaria a sollevare agevolmente il biberon, e lo aveva fatto soltanto quando aveva colto la temperatura del contenuto lattiginoso scendere di una micro-frazione di grado sotto il livello utile per non scottarsi la bocca.
Troppo lungo sarebbe raccontare qui la miriade di episodi che scandirono il mirabile sviluppo della “sapienza liminale” di Soglia.
Soglia nel corso della sua vita mantenne assiduamente un peso forma invidiabile. Era infatti sempre consapevole del milli-secondo spaccato in cui al proprio corpo si aggiungeva quel grammo di troppo che lo faceva classificare nella categoria dei grassi, e si regolava immediatamente di conseguenza con la dieta, senza mai avvicinarsi nemmeno lontanamente a punti di non ritorno ponderale.
Soglia non assaporò mai amori eccessivi, ma nemmeno provò delusioni amorose. Slalomeggiando da par suo lungo il discrimine esatto che separa le due dimensioni, riuscì a gustare un’intensità affettiva ed erotica sempre appena sufficiente, ma tuttavia neanche mai scarseggiante.
Nei momenti della passione sensuale, Soglia era avvantaggiato dal fatto d’intuire ogni volta con estrema esattezza l’attimo preciso in cui l’eruzione di piacere della propria donna si sarebbe manifestato in una colata lavica di godimento. Si premurava allora di sospendere ad oltranza quell'attimo di stazionamento sulle alture della beatitudine fisica, senza mai dare l'impressione di voler discendere nella vallata sottostante, territorio dell'appagamento banale ed ordinario.
Naturalmente poi, sapeva anche fare esplodere la bocca del vulcano al momento adeguato, ma la parte più bella degli incontri con lui, nel ricordo delle sue donne, rimaneva sempre quella lunga ed estenuante freccia rivolta verso il bersaglio dello sfogo animalesco, mantenuta pressoché infinitamente infissa a combaciare strettamente con la cocca nella corda tesa dell'arco.
Con le donne, Soglia non era mai troppo volgare, mai troppo gentile, mai troppo simpatico, mai troppo importuno, mai troppo brillante, mai troppo noioso...di ogni atteggiamento sapeva dosare sempre la quantità giusta per mantenere l'interesse femminile sempre entro il grado necessario di “desiderio militante” ed auto-rigenerante.
Di tanto in tanto, poi, Soglia si premurava di commettere deliberatamente una cazzata micidiale, di modo che il minimo comune denominatore del suo comportamento con le donne, non risultasse oltrepassare nemmeno la barriera della pallosità.
Fra gli amori più appassionati che Soglia poteva ricordare di aver vissuto, ce ne furono diversi, non solo mai consumati, ma addirittura nemmeno mai dichiarati. In quei casi, Soglia leggeva chiaramente nell'animo della porzione di femminino con la quale era chiamato a confrontarsi, la necessità di mantenersi sul pianerottolo di un “platonismo” che sarebbe stato solamente rovinato da un qualsiasi altro genere di passo avanti.
Soglia s’inventò un mestiere, fondando la «Limen - s.r.l.», prospera impresa di servizi specializzata in “consulenze subliminali”, espansa successivamente nel mondo con numerose succursali estere, raggruppate sotto il nome di «Doorstep - ltd.».
La «Limen - s.r.l.» aveva tratto fuori dal fallimento intere compagnie aeree, semplicemente pianificando “al grammo” le dimensioni del peso col quale era consigliabile stipare i velivoli, così come era corsa in aiuto di persone comuni, consigliando loro sequele di micro-azioni quotidiane da compiere per cagionare valanghe di eventi che pilotassero la propria vita nella direzione desiderata.
Nessun cliente fece mai ritorno ad una delle agenzie della «Limen – s.r.l.» o della «Doorstep – ltd.» per porgere qualsivoglia genere di lamentela. I prezzi applicati erano infatti calcolati sempre in modo da assestarsi pochi centesimi al di sotto delle possibilità economiche dell'interessato, e tutti alla fine erano soddisfatti.
Non è stato felice, Soglia, ma nello stessa misura non ha conosciuto mai nemmeno l’infelicità. Il suo peculiare talento gli aveva insegnato che il massimo di felicità raggiungibile, stante la condizione umana, lo si poteva afferrare rimanendo sempre un passo al di fuori da essa, come di fronte ad un traguardo destinato ogni istante a porsi un attimo avanti rispetto alla sua soddisfazione.
Un giorno, una delle ultime volte che l'ho visto, Soglia mi chiese un favore: se mi fosse passato per la mente di scrivere qualcosa sulla sua vicenda umana, mi pregò, avrei dovuto usare l’accortezza di non andare mai oltre le 9188 battute, spazi inclusi. «…Come mai questo numero, Ultralimen?...» gli chiesi allora io, che sono uno dei pochi a chiamarlo ancora col suo nome di battesimo. «…Perché già con 9189, caro Gillipix, il lettore si romperebbe sicuramente i coglioni…».
«...Is this the real life ? Is this just fantasy ? Caught in a landslide No escape from reality...».
”Bohemian rhapsody” The Queen - 1975
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Intraprendendo alcune settimane fa la mia modesta rubrica di “piccolo sbrodolatore artistico sulla camicia bianca”, mai avrei pensato di tramutarmi cammin facendo in una sorta di deejay dell’arte. La metamorfosi si è concretata grazie alla cara amica Farly, che nel suo commento alla precedente puntata aveva espresso il desiderio di sentirmi parlare dello scultore Alberto Giacometti. Dunque, come da miglior tradizione delle emittenti libere degli anni ’70, “Radio Free Gillipix” ha l’onore di parlarvi oggi dell’opera e della poetica di Alberto Giacometti, su gentile richiesta della simpatica ascoltatrice Farly.
Vi confesso che di Giacometti, prima d’ora ne avevo sentito parlare solo vagamente. Ecco dunque un altro buonissimo motivo per ringraziare Farly della sua richiesta, che mi permette di approfondire un po’ la figura di questo artista.
Alberto Giacometti (Borgonovo di Stampa, 10 ottobre 1901 – Coira, 11 gennaio 1966) è nato in Svizzera ed ha vissuto molto a Parigi, subendo gli influssi delle maggiori correnti artistiche sue contemporanee, soprattutto del Surrealismo.
Potremmo definire Giacometti come artista della “crisi”. Per cercare di avventurarmi con voi nella sua poetica, mi limiterò alle sue opere più famose e significative, ossia le lunghissime statuette che stilizzano la figura umana al limite dell’annientamento.
Allo scopo di capirci qualcosa, riguardo Giacometti, mi pare un buono spunto partire da un aneddoto. Lo sentii raccontare una volta dal filosofo Gianni Vattimo (cioè…non è che son solito trovarmi al bar con Vattimo a sbocconcellare tartine, sorseggiando un Negroni e contandocela a vicenda: l’ho sentito alla tele…).
Vattimo riportava una boutade di un collega filosofo spagnolo (del quale ora mi sfugge il nome), che oltre ad essere una geniale trovata, a mio parere offre l’esempio di come dietro i risvolti dell’umorismo possano celarsi spesso profonde intuizioni filosofiche. Credo di aver già parlato in altra occasione di questa battuta, ma vedrete che nel contesto “giacomettiano” essa acquista una profondità particolare.
Cosa combinò dunque il filosofo iberico amico di Vattimo? Se ne venne fuori con una rivisitazione della celeberrima frase pronunciata dal Cristo sulla croce: «…Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?...» (in aramaico pare suoni: «…Elì, Elì, lemà sabactàni?...»). Quando il genio c’è non resta altro da fare che ammetterlo. Infatti, con una semplice ma cruciale introduzione dell’avverbio negativo, ecco come il goliardico amico filosofico tramutò la frase: «…Dio mio, Dio mio, perché “non” mi hai abbandonato?...».
Ve lo dicevo: la frase è al tempo stesso buffa, ma portatrice di risvolti filosofici assai vasti. Chi non ha mai, almeno una volta nella vita, anelato di svanire nel nulla? Chi, per i motivi più o meno disparati, più o meno gravi, non si è trovato in uno stato d’animo di angoscia talmente devastante da non desiderare di essere trasformato “in niente”? Di evaporare senza lasciare traccia alcuna? Di annichilirsi completamente, sia sotto il profilo fisico, sia sotto quello spirituale?
Ma al contempo, chi non ha mai provato in quei medesimi momenti la contraddittoria convinzione parallela che nessun tipo di annichilimento, nemmeno il più radicale che ci riusciva di immaginare, sarebbe mai bastato per cancellarci definitivamente e per sempre?
Per buttarla ulteriormente in citazione, potrei ricordare anche i versi della famosa canzone dei Queen, «Bohemian Rapsody»: «...Mama, I don't want to die I sometimes wish I'd never been born at all...»
Insomma, cari amici viandanti per pensieri, per parlarvi dei cavoli è andata a finire che l’ho presa su dalle merende, ma alla fine ritorno al tema di Alberto Giacometti.
Se le statuette filiformi di Giacometti potessero prendere la parola e dirci tutto il loro travagliato sentire, quali migliori frasi potremmo mettere loro in bocca se non quelle ricordate adesso? «…Dio nostro, Dio nostro, perché “non” ci hai abbandonato?...Mamma, non è che voglio morire, io proprio non volevo nemmeno esser nato...».
Un tale assunto poetico Giacometti lo traduce in linguaggio scultoreo invertendo la millenaria dinamica che “da sempre” si era giocata fra lo spazio e la figura rappresentata (dopo Fontana e Morandi, vediamo dunque come anche Giacometti si ponga in posizione di frattura rispetto alla tradizione). Le sue “figurette emaciate” non si conquistano più il loro posto nello spazio, mordendone una porzione, come era sempre stato “da che scultura era stata scultura”. Al contrario, esse si ritraggono come schiacciate dallo spazio, compresse da esso, quasi risucchiate e “spolpate” dalla forza invasiva della realtà che le lega ad essa senza via di fuga.
Non è più il caso, come nella scultura tradizionalmente intesa, di una identità che si afferma nello spazio. In Giacometti avviene invece una negazione d’identità dettata dall’«insistenza» della realtà. E la realtà è «insistente» non solo perché prosciuga l’uomo, ma anche perché non gli concede mai un annullamento definitivo, totale (come nella frase dell’amico di Vattimo, o nella vana speranza di Freddy Mercury…).
Infatti le figure di Giacometti sono sospese ad un passo dalla deformazione risolutiva, ma mantengono sempre un minimo comune denominatore figurativo che ce le lascia riconoscere ancora come sembianza umana. Non rappresentano quasi più niente di fisico, ma solo ciò che rimane dopo aver portato alle estreme conseguenze la frustrante volontà di annullamento fisico: sono in altre parole ridotte a dei “segni”.
Il “segno” è la minima ed estrema traccia di tangibilità che rimane anche quando, sotto il peso insopportabile del dolore esistenziale, si è preteso di cancellare ogni altra componente del nostro essere fisicamente nel mondo. Il “segno” residuo della nostra umanità impresso nel mondo sta a ricordarci la vanità irrimediabile della pretesa di non essere mai nati.
Non a caso, nei libri di storia dell’arte, si parla di Giacometti e di diversi altri artisti suoi coevi come degli autori post-bellici. In essi la tragedia della Seconda Guerra Mondiale traspare sempre in controluce, come un basso continuo di “consapevolezza dolorosa”, e per le figure giacomettiane si citano anche le terribili immagini dei campi di concentramento. Allo stesso modo, è altrettanto significativo l’interesse dimostrato per l’arte di Giacometti da Jean Paul Sartre, filosofo dell’Esistenzialismo, il cui maggior saggio reca l’emblematico titolo di «L’Essere e il Nulla».
Con questo, spero di aver soddisfatto un po’ la curiosità di tutti e la richiesta di Farly. Anche per oggi, artisticamente parlando, credo di aver terminato qui. Adesso vi saluto che mi sono rimaste ancora quattro bambole da pettinare e due giaguari da smacchiare.
Dai che mi metto avanti col lavoro, se no viene sera e c’è ancora tutto da fare…
"...She left me roses by the stairs,
surprises let me know she cares...".
Blink 182 - 1999
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Io sono un grande sognatore.
No, no, non dico nel senso figurato del termine. Non sto parlando stavolta per metafore o simili infingimenti “scenografico-concettuali”. Non c’entrano certi idealismi o altre svagate escursioni fra le vaporose nubi di futuri vagheggiati.
Parlo proprio del sognare vero e proprio, del sognare fisico, materiale, pratico. Del mettersi lì a ronfare e lasciarsi passare tutte quelle immagini e sensazioni fantastiche davanti agli occhi e attraverso l’intero corpo.
Ogni volta che mi corico nel letto per la periodica immersione nel “mondo ad occhi chiusi”, non solo ritrovo la gioia della serenità e pregusto il piacere del riposo, magari dopo giornate faticose. Ma ciò che assaporo è anche una sorta di entusiasmo simile a quello provato dallo spettatore, mentre fa il suo ingresso nella sala ovattata di velluto del cinema, o nell’invaso sonoro e denso di un accogliente teatro.
Mettermi a dormire è come accettare l’invito ad una bellissima festa. So già che durante la notte potrò ricevere la mia porzione di bellezza, sottoforma di bagliori visivi ed altre fantasmagorie emotive usualmente non disponibili nel limitato panorama dei “cinque sensi vigili”.
Quando sogno, i sensi, come se si avventurassero dentro una “casa degli specchi emotivi”, si amplificano e si riverberano a vicenda, per ritrovarsi alla fine in numero ben superiore di cinque. Quando sogno, sento di divenire io stesso “sensorialità” pura, percezione vitale amplificata.
A volte ho sentito dire, da alcuni amici o conoscenti, che loro sognano poco o niente. Me ne sono dispiaciuto di cuore.
Perché io invece sono affetto da “ipertrofia onirica” e so che è un bell’essere affetti. Sogno a valanga, per tempi lunghissimi, storie complicate, trame ramificate, vicende intricate come il sottobosco di una foresta pluviale tutta penzolante di suggestioni, atmosfere, sapori, suoni, luci, colori, sensazioni.
L’«Istituto Luce», «Teche Rai», l’archivio della «Paramount», gli scantinati degli «Universal Studios», i solai della «R.K.O.», mi fanno un baffo. Certe mattine trasudo talmente sogni, che mi basta girare il fianco ed è come cambiare canale, come passare da un racconto all’altro, da un’ambientazione ad una successiva che ne è il continuo, oppure anche ad un’altra scena totalmente nuova.
Sogno da maschio e da femmina; sogno da infante e da vecchio; sogno umanamente ed “animalmente”; sogno così tanto che il corpo si infrange nell’anima, e viceversa.
Tra l’altro, non dev’essere un caso il fatto che un certo “attrezzo corporale” dalla morfologia cangiante (ad esclusivo appannaggio virile, precisiamo…), normalmente dedito a scandire le ore di veglia con la sua pendula ordinarietà di “virgola” seriosa e defilata, passi invece a sottolineare le migliori beatitudini oniriche ergendosi nella ben più lussureggiante sagoma di “punto esclamativo” capovolto (ma guarda un po’ che capriole allegoriche tocca fare, pur di non mettere l’avviso di blog contenente “materiale adulto”…che a dire il vero, tutte le robe che scrivo io alla fin fine non sono né adulte, né minori: forse sono solo per passare cinque minuti senza sentirsi nessuna età sul groppone…).
Sarà dunque stato per queste e chissà quali altre motivazioni oniriche che, quando ho letto il seguente brano, il mio animo epifanico di lettore ha gioito e goduto smisuratamente:
«…Chi di notte, dormendo, sogna, conosce un genere di felicità ignota nel mondo della veglia: una placida estasi e un riposo del cuore che sono come il miele sulla lingua. Sa anche che la bellezza dei sogni è la loro atmosfera di libertà infinita: non la libertà del dittatore che vuole imporre la sua volontà nel mondo, ma la libertà dell’artista privo di volontà.
Il piacere del vero sognatore non dipende dalla sostanza del sogno, ma da questo: tutto quello che accade nel sogno non accade solo senza il suo intervento, ma fuori del suo controllo. Si creano spontaneamente paesaggi, vedute splendide e infinite, colori ricchi e delicati, strade, case che non ha mai visto e di cui non ha mai sentito parlare. Compaiono degli sconosciuti che sono amici o nemici, benché chi sta sognando non abbia mai fatto nulla per loro né contro di loro.
L’idea della fuga e l’idea dell’inseguimento tornano sempre, nei sogni, entrambe ugualmente estasianti. Tutti dicono cose piene d’intelligenza e spiritose. E’ vero che, cercando di ricordarle, durante il giorno, paiono sbiadite e senza senso perché appartengono a un’esistenza diversa; ma appena il sognatore si sdraia, la notte, il circuito si riallaccia e i sogni tornano a sembrargli stupendi.
Una libertà immensa, una beatitudine ultraterrena circola dentro di lui come l’aria e la luce: è un essere privilegiato, è l’uomo che non ha obblighi, l’uomo per la cui ricchezza e il cui piacere sono chiamate a raccolta tutte le cose: i re di Tarso gli porteranno i loro doni. Trovandosi in mezzo ad una grane battaglia o ad un ballo prova il lieto stupore di potervi partecipare stando sdraiato.
Solo quando si comincia a perdere la coscienza della libertà, quando l’idea della necessità mette piede nel mondo, quando c’è, come che sia, fretta o sforzo, una lettera da scrivere, o un treno da prendere, quando si è costretti a lavorare, a spronare i cavalli del sogno o a premere il grilletto del fucile, il sogno decade e si trasforma in incubo, che appartiene alla categoria meno ricca e più rozza dei sogni…»
“Out of Africa” Karen Christentze Dinesen, baronessa von Blixen-Finecke –
Per gli amici: Karen Blixen – 1937
QUESTO BLOG E' FELICEMENTE IMMUNE DAL "PIUTTOSTO CHE"UTILIZZATO (SBAGLIANDO) COME SINONIMO DI "OPPURE"
Gemellaggi e altre Gillipixate...
Cari lettori di andarperpensieri,
Vi ricordo che quasi tutti i venerdì, questo mia variegata paginetta si gemella con il caro blog amico di Kika, la quale vi riveste con grande maestria i soggetti femminili di quadri storici, mentre il vecchio Gillipix indaga fra i volti della modernità, alla ricerca di insospettate somiglianze fisiognomiche. Tutto questo in:
«...Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo...»
Montale (...E' u' Genio) ---
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