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06 ottobre 2009
08 settembre 2008
Repubblica e Aristotele
Forse non tutti sanno che esiste una cosa che si chiama "filosofia aristoteliana".
Meno male che per l'umor nero esiste repubblica, che comunque quattro risate riesce sempre a farcele fare.
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29 gennaio 2007
13 novembre 2006
Scuola
A proposito dell'episodio di Nova Milanese (qui un articolo di repubblica che Leonardo giudica indecente, e ha perfettamente ragione) ho trovato in rete solo due scritti condivisibili. Uno è appunto il post di Leonardo, l'altro un delizioso, ironico e sarcastico post dal titolo Famo a capisse di quel genio che va sotto il nome di pls (paolo levi sandri, per gli amici).
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30 ottobre 2006
Roberto Saviano
E' da qualche tempo che volevo fare un post sul libro di Roberto Saviano, Gomorra.
Complice la mancanza di tempo e la pigrizia, l'ho sempre rimandato, anche perchè volevo fare qualcosa di serio e meditato.
Adesso posso limitarmi a linkare il bel post sulla questione scritto da letturalenta.
Complice la mancanza di tempo e la pigrizia, l'ho sempre rimandato, anche perchè volevo fare qualcosa di serio e meditato.
Adesso posso limitarmi a linkare il bel post sulla questione scritto da letturalenta.
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26 ottobre 2006
28 settembre 2006
Darfur/5
Dal Corriere:
Se è l'Africa che chiama di Franco Venturini:
"C'è l'Iraq, c'è l'Afghanistan, ci sono il Libano e i palestinesi, c'è l'Iran, può forse esserci anche il Darfur? La novità è che una risposta positiva, malgrado lo sfinimento per superlavoro della comunità internazionale, sta guadagnando terreno. Da Condi Rice a Kofi Annan e ai governi europei, tutti avvertono che il tempo stringe e che bisogna «fare qualcosa» per fermare i massacri nelle regioni occidentali del Sudan. E così i riflettori occidentali tornano timidamente ad accendersi sull'Africa, sulle sue tragedie silenziose, sui suoi genocidi trascurati, sui suoi orrori rimossi." Continua sul sito del Corriere
Se è l'Africa che chiama di Franco Venturini:
"C'è l'Iraq, c'è l'Afghanistan, ci sono il Libano e i palestinesi, c'è l'Iran, può forse esserci anche il Darfur? La novità è che una risposta positiva, malgrado lo sfinimento per superlavoro della comunità internazionale, sta guadagnando terreno. Da Condi Rice a Kofi Annan e ai governi europei, tutti avvertono che il tempo stringe e che bisogna «fare qualcosa» per fermare i massacri nelle regioni occidentali del Sudan. E così i riflettori occidentali tornano timidamente ad accendersi sull'Africa, sulle sue tragedie silenziose, sui suoi genocidi trascurati, sui suoi orrori rimossi." Continua sul sito del Corriere
Giornali online
Per anni il primo giornale online che guardavo la mattina è stato Repubblica. Da qualche tempo ho scoperto quasi con stupore che non è più così e quasi automaticamente all'apertura di firefox le mie dita digitano corriere.it (no, non ho una pagina iniziale predefinita).
Cercando di indagare i motivi di questo cambiamento pressoché inconsapevole provo a metterli in fila senza alcun ordine di importanza:
1. il sito di repubblica è pesantissimo, e spesso mi connetto in analogico;
2. il sito di repubblica è annegato dalla pubblicità, a sua volta pesantissima;
3. repubblica ha il menù in alto e nemmeno troppo intuitivo;
4. le notizie sono le stesse che si trovano sul corriere, che invece ha il menù laterale e pubblicità meno invasiva e ci mette meno tempo a caricarsi.
se mi viene in mente altro ci tornerò sopra.
Cercando di indagare i motivi di questo cambiamento pressoché inconsapevole provo a metterli in fila senza alcun ordine di importanza:
1. il sito di repubblica è pesantissimo, e spesso mi connetto in analogico;
2. il sito di repubblica è annegato dalla pubblicità, a sua volta pesantissima;
3. repubblica ha il menù in alto e nemmeno troppo intuitivo;
4. le notizie sono le stesse che si trovano sul corriere, che invece ha il menù laterale e pubblicità meno invasiva e ci mette meno tempo a caricarsi.
se mi viene in mente altro ci tornerò sopra.
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22 settembre 2006
Sempre Repubblica
La versione cartacea di Repubblica di oggi riporta nella prima pagina della cronaca locale la notizia sparata che vi ho segnalato nel post precedente.
Chissà se domani avranno la dignità di pubblicare - in un corpo altrettanto grande - che hanno schifosamente giocato sul razzismo sparando una notizia che si è rivelata falsa.
La ragazzina, meno male, si era inventata tutto.
Chissà se domani avranno la dignità di pubblicare - in un corpo altrettanto grande - che hanno schifosamente giocato sul razzismo sparando una notizia che si è rivelata falsa.
La ragazzina, meno male, si era inventata tutto.
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Repubblica
Il titolo sparato da Repubblica è questo:
Dodicenne violentata dal branco. Arrestato un giovane marocchino.
L'articolo si chiude con questa frase (il neretto è mio):
"La ragazzina è stata sottoposta, all'ospedale Maggiore di Bologna, ad accertamenti clinici, al termine dei quali i sanitari avrebbero escluso un rapporto sessuale consumato. L'adolescente sarebbe stata costretta, secondo il suo racconto, a un tipo di violenza fisica, ma non è ancora chiaro se da parte di uno, o più, dei componenti del gruppetto. Il racconto della vittima è al vaglio dei militari, che continuano le indagini per identificare gli altri componenti del gruppo."
questa schifezza di informazione la trovate sul sito di repubblica, a questo indirizzo.
Dodicenne violentata dal branco. Arrestato un giovane marocchino.
L'articolo si chiude con questa frase (il neretto è mio):
"La ragazzina è stata sottoposta, all'ospedale Maggiore di Bologna, ad accertamenti clinici, al termine dei quali i sanitari avrebbero escluso un rapporto sessuale consumato. L'adolescente sarebbe stata costretta, secondo il suo racconto, a un tipo di violenza fisica, ma non è ancora chiaro se da parte di uno, o più, dei componenti del gruppetto. Il racconto della vittima è al vaglio dei militari, che continuano le indagini per identificare gli altri componenti del gruppo."
questa schifezza di informazione la trovate sul sito di repubblica, a questo indirizzo.
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07 agosto 2006
André Glucksmann, Il peso dei morti non è mai lo stesso
Dal sito del Corriere della Sera
L’indignazione di tanti indignati m’indigna. Per l’opinione pubblica mondiale certi morti musulmani pesano quanto una piuma, altri tonnellate. Due pesi, due misure. Il massacro quotidiano di civili a Bagdad è relegato alla rubrica delle brevi, mentre il bombardamento che uccide 28 abitanti a Cana è elevato a crimine contro l’umanità e solo spiriti rari come Bernard-Henri Lévy e Magdi Allam se ne meravigliano.
L’indignazione di tanti indignati m’indigna. Per l’opinione pubblica mondiale certi morti musulmani pesano quanto una piuma, altri tonnellate. Due pesi, due misure. Il massacro quotidiano di civili a Bagdad è relegato alla rubrica delle brevi, mentre il bombardamento che uccide 28 abitanti a Cana è elevato a crimine contro l’umanità e solo spiriti rari come Bernard-Henri Lévy e Magdi Allam se ne meravigliano.
Perché i 200 mila massacrati del Darfur non suscitano un quarto delle reazioni d’orrore risvegliate dalle vittime 200 volte meno numerose in Libano? Poiché sono musulmani a uccidere altri musulmani, bisognerà credere che l’assassinio non conti agli occhi delle autorità coraniche, né per la cattiva coscienza occidentale? La spiegazione non regge, poiché l’omicidio non riveste maggiore importanza quando è l’armata russa, cristiana e benedetta dai Papi, a radere al suolo la capitale dei musulmani ceceni (Grozny, 400 mila abitanti) e uccidere decine di migliaia di bambini. Il Consiglio di Sicurezza non indice riunioni su riunioni e l’Organizzazione degli Stati islamici volge piamente lo sguardo altrove. Ne consegue che solo il musulmano ucciso dagli israeliani vale l’indignazione universale.
Bisognerà credere che Ahmadinejad dia voce a sentimenti covati in segreto dall’opinione pubblica mondiale? Eppure tante coscienze occidentali oltraggiate dai bombardamenti in Libano si proclamano doppiamente indignate se sospettate di antisemitismo. Tenderei a dar loro credito, non pensiamo che il pianeta intero sprofondi nella paranoia antigiudaica! Il mistero si infittisce ancora. Perché tale emiplegia? Perché l’indignazione mondiale monta quando si tratta di bombe israeliane? Le immagini delle devastazioni in Libano—che sconvolgono assai più degli affamati del Darfur e delle macerie in Cecenia—sono implicitamente sottese da una geopolitica surrealista. Chi si sofferma sulle cronache di Cana o Gaza non conta soltanto i feretri dei brutti giorni, gli infelici che si seppelliscono paiono circonfusi di un’aura di annuncio fatale, ignota alle centinaia di migliaia di cadaveri africani o caucasici.
Quanti esperti individuano ormai da decenni nel conflitto mediorientale il cuore del caos mondiale e la chiave della sua risoluzione? Quale diplomatico tralascerà di ripetere dieci volte e non una che le porte dell’inferno e il Sesamo del ritorno all’armonia internazionale stanno a Gerusalemme? Unostesso copione fisso nelle menti del XXI secolo vuole che tutto si giochi sulle rive del Giordano. Scenario «duro»: finché si contrapporranno 4 milioni di israeliani e altrettanti palestinesi, 300 milioni di arabi e un miliardo e mezzo di musulmani saranno condannati a vivere nell’odio, nel sangue e nell’oppressione. Versione «morbida »: basterà una qualsiasi pace, a Gerusalemme, perché a Teheran, Karachi, Kartum e Bagdad gli incendi si plachino e arretrino dinanzi all’armonia universale. I nostri saggi sono diventati folli? Teorizzano sinceramente e seriamente che in assenza del conflitto israelo-palestinese non si sarebbe verificato nulla di grave, non avremmo avuto la sanguinaria rivoluzione di Khomeini, né le spietate dittature dei partiti Baath siriano e iracheno, né il decennio del terrorismo islamico in Algeria, né i Talebani in Afghanistan, né gli sciami di alfieri di Dio senza fede né legge?
Un’ipotesi triste e contraria, di rado evocata, è ancor più verosimile: qualsiasi cessate il fuoco intorno al Giordano resta intrinsecamente instabile finché il palazzo, la strada, buona parte dell’intellighentsia e gli stati maggiori musulmani serberanno intatta la passione antioccidentale. La «mondializzazione» si accompagna immancabilmente a reazioni di rigetto spesso dure, talvolta crudeli. Non occorreva esistesse, dal 1947, l’entità sionista per infiammare l’antioccidentalismo germanico da Fichte a Hitler, l’antioccidentalismo russo che senza sosta è risorto sotto gli Zar come sotto Stalin e ormai Putin. Solo un ingenuo può supporre che la volontà di potenza iraniana, che attinge la sua forza d’urto dalla rivoluzione khomeinista, rintracci nella «questione ebraica » altro che un pretesto a jihadizzare il mondo intero. Una volta cancellata Israele, chi crede che la rivoluzione verde festeggerà il trionfo deponendo le armi? La geopolitica della cattiva fede che consacra il Medio Oriente perno dell’ordine mondiale è diventata la religione dell’Unione europea, la fede di infedeli e poco credenti d’Occidente.
I pensatori postmoderni hanno affermato a torto la fine delle ideologie mentre navigavamo ancora in piena illusione ideologica, dopo aver barattato la speranza fallace della lotta finale con la predicazione angosciata di una catastrofe non meno assoluta e finale. Gerusalemme non è il centro del mondo ma il presunto centro della fine del mondo. La nostra funesta fantasmagoria si nutre di premonizioni apocalittiche. A forza di invocarla, si finirà per credere alla fumosa guerra di civiltà. E a forza di prevederla, la si farà, secondo il metodo ben reso nell’inglese self fullfilling prophecy, il pronostico che si conferma da sé. Il bombardamento degli abitati israeliani con missili del Partito di Dio dà forza alle promesse di annientamento del Padrino iraniano. Tuttavia, sottolinea con ironia Clausewitz, non è l’aggressore ad avviare il conflitto ma è lui a decidere di fermare l’aggressione. Dunque Israele è necessariamente colpevole. Circostanza aggravante: colpevole di una fine del mondo della quale tutto il mondo farnetica. Dalla geopolitica surrealista al delirio, la china è scivolosa.
07 agosto 2006
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Foto manipolate dalla Reuters
A quanto pare, non soddisfatti dell'entità dei bombardamenti veri, alla Reuters se li inventano con photoshop.
Da reporters.
Da reporters.
01 agosto 2006
Vidal-Naquet
Le Monde di ieri
di Nicole Lapierre:
"L'historien Pierre Vidal-Naquet est décédé dans la nuit de vendredi à samedi à l'âge de 76 ans, à l'hôpital de Nice, ont annoncé dimanche 30 juillet les éditions La Découverte. Il était dans le coma depuis lundi à la suite d'une hémorragie cérébrale".
Avec la mort de Pierre Vidal-Naquet, vendredi 28 juillet, à l'hôpital de Nice, des suites d'une hémorragie cérébrale, la cité s'assombrit. Car ce n'est pas seulement un grand historien que l'on perd, c'est aussi un recours et un repère : une conscience morale, un chercheur épris de justice et de vérité, une figure exemplaire de l'intellectuel engagé. En ces temps où la pensée trop souvent s'isole et se replie, sa voix va nous manquer, nous le savons déjà. Et il y a du désarroi à devoir parler au passé de cet homme d'érudition et de passion, porté d'un même élan vers l'histoire, la mémoire et les urgences du présent.
De l'Antiquité à l'actualité, d'Athènes à Jérusalem, d'Alger à Auschwitz, Pierre Vidal-Naquet a mené travaux savants et combats militants en cherchant obstinément à dire le vrai. "Je suis un homme passionné qui s'engage, doublé d'un historien qui le surveille de près, enfin, qui devrait le surveiller de près", disait-il, sans dissimuler la difficulté qu'il y avait à concilier ainsi deux êtres en lui. Double, il l'était par tempérament ; son ami Jean-Pierre Vernant le décrit "excessif parfois dans ses prises de position, et lucide, critique par rapport à lui-même, aux extrêmes dans ses attitudes et mesuré, centriste dans sa réflexion".
Double également dans ses attachements à la France des valeurs républicaines et au destin juif. Et aussi dans sa manière de travailler sur des "couples d'oppositions", en reliant le mythe et la tragédie, la chasse et le sacrifice, les systèmes de pensée et les formes de sociétés.
Double, enfin, dans son existence même, prise entre le feu de l'action et le recul de la réflexion. Cette dualité, qui irriguait sa vie et lui donnait cette ouverture au monde déjouant les spécialités et les identités clôturées, prenait sa source dans une longue généalogie familiale.
Pierre Vidal-Naquet est né le 23 juillet 1930, à Paris, au sein d'une famille de la bourgeoisie juive assimilée, profondément républicaine et résolument patriote. Il était le premier enfant de Lucien, avocat parisien, et de Margot, issue d'une vieille famille comtadine. Des deux côtés, une
lignée de Français déjudaïsés qui n'avaient pas, pour autant, renié leurs origines.
Moïse Vidal-Naquet, son trisaïeul, marchand de vin à Montpellier et responsable consistorial, écrivait dans L'Echo du Midi du 7 mai 1843 : "Au temple ou à l'église, l'on est juif ou chrétien ; dans les actes de la vie politique, l'on doit être français avant tout." Edmond, son grand-père,
avocat lettré et mélomane, fut un farouche dreyfusard, comme son grand-oncle Emmanuel, personnage aux multiples activités professionnelles et politiques (banquier, économiste, journaliste, membre du premier comité de la Ligue des droits de l'homme...). A l'évidence, une figure de référence."
*CONTRE LA RAISON D'ETAT*
C'est à 11 ans, en pleine guerre, que le jeune Pierre apprend ce que fut cette lutte, pour la justice et contre la raison d'Etat, menée au nom d'une haute idée de l'honneur de la France : "Toute ma vie a été marquée par le récit que m'a fait mon père à la fin de 1941 ou au début de 1942 de
l'affaire Dreyfus."
La famille est alors réfugiée à Marseille. Les temps sont menaçants, mais de l'inquiétude croissante des parents, du sentiment de Lucien notant qu'il "ressent comme Français l'injure qui lui est faite comme juif", des contacts pris avec la Résistance, les enfants, protégés et insouciants, ne savent rien. Deux ans plus tard, le 15 mai 1944, c'est la "brisure" quand Lucien et Margot sont arrêtés, puis "l'attente", lancinante et vaine après leur déportation à Auschwitz. L'ombre portée de ce drame ne se dissipera jamais.
Orphelin au sortir de l'adolescence, il revient à Paris, termine ses études secondaires et entre en hypokhâgne à Henri-IV. C'est là, en 1947-1948, qu'il prend la décision de "se consacrer à l'histoire". Les classes préparatoires, puis la Sorbonne, ces années de formation sont celles d'une vie intellectuelle intense, où il découvre la politique, s'éprend de littérature, de théâtre et de poésie. Celles, en même temps, où se nouent d'indéfectibles amitiés. Avec le futur indianiste Charles Malamoud, c'est "un coup de foudre". Malamoud est alors communiste, l'attraction du PC est "écrasante", Vidal envisage d'adhérer, sous réserve de "faire de l'opposition à Staline". Impossible évidemment!
Cet intransigeant n'est pas fait pour la discipline de parti. L'indépendance est dans les revues. Avec Pierre Nora et d'autres, il lance Imprudence, un titre qui claque tel un défi, trois numéros seulement, mais l'un d'eux lui vaut une lettre de René Char, avec ces mots : "Tenez votre liberté et surveillez vos illusions, vous n'en serez que plus profond." Sous le signe de Char et celui du jeune Péguy se précise une aspiration. Entre Jaurès et Platon s'affirme une vocation.
Au printemps 1955, il obtient son agrégation et, l'automne suivant, est nommé professeur au lycée Pothier d'Orléans. La guerre d'Algérie entre dans son douzième mois, un nombre croissant de jeunes Français sont jetés dans la "sale guerre" et, sur les premiers intellectuels exprimant leur opposition, les arrestations commencent à tomber. Celle de l'universitaire André Mandouze, le 9 novembre 1956, le fait "entrer dans l'action". Contre cette guerre coloniale qui déshonore son pays, il mobilise dès lors toute son énergie : il faut rompre le silence, alerter les consciences !
Quand son vieil ami de lycée, l'historien Robert Bonnaud, lui raconte les massacres perpétrés par l'armée française, Vidal l'exhorte à témoigner, porte son texte à la revue Esprit, qui le publie en 1957, et s'attend à un immense scandale. Il n'en est rien, c'est le début d'un long combat. La même année, il devient l'un des principaux animateurs du comité Maurice Audin, du nom de cet assistant de mathématiques à la faculté des sciences d'Alger, arrêté le 11 juin 1957, déclaré "évadé" le 21 et, en réalité, tué par les militaires.
En 1958, il publie, aux Editions de Minuit, le dossier de L'Affaire Audin, une pièce à conviction contre la censure et le mensonge. Puis, avec le même acharnement sur les faits, il anime la revue Vérité-Liberté. Suspendu d'enseignement en 1960 (il est alors assistant à Caen) pour avoir signé le Manifeste des 121 sur le droit à l'insoumission, il milite en "permanent",
multipliant articles et interventions publiques.
Ce qui le pousse à se mobiliser tout entier ? Une exigence à la fois morale et politique et une profonde indignation dans laquelle résonne l'écho d'épreuves anciennes : son père a été torturé par la Gestapo et l'affaire Audin, qui rappelle le montage mensonger de l'affaire Dreyfus, est aussi l'histoire d'une disparition, qui évoque celle de ses parents. Au fond de son "engagement total", il y a une dette à l'égard du passé que le présent doit honorer. Elle est nôtre désormais : ce que l'on sait sur la torture dans la République, sur les forfaitures de la raison d'Etat, sur ces
ferments de totalitarisme nichés dans l'apparente quiétude démocratique, on le sait, pour l'histoire et l'avenir, grâce à lui.
Avec la fin de la guerre d'Algérie, en mars 1962, Vidal-Naquet revient à la pensée grecque, au CNRS d'abord, puis à la VIe section de l'Ecole pratique des hautes études, devenue en 1975 Ecole des hautes études en sciences sociales, où il enseignera jusqu'à sa retraite, en 1997.
La Sorbonne et ses "dévots d'une Grèce immortelle et éternelle" n'est pas faite pour cet homme rétif à tous les dogmes. Son parcours sort des sillons préétablis : point de thèse ni de maître ouvrage, mais des essais qui renouvellent l'approche de la culture hellénistique. Ces travaux ne le conduisent pas pour autant à délaisser le présent. Il est de ceux qui lancent, en novembre 1966, le comité Vietnam national, qui dénoncent le coup d'Etat des colonels, à Athènes, en avril 1967, ou que l'on retrouve en Mai 68 heureux de sentir passer un "souffle de liberté".
*DESTIN JUIF*
C'est aussi à partir de la fin des années 1960 que Vidal-Naquet va multiplier prises de position et réflexions sur le destin juif. Côté engagement, après la victoire israélienne de 1967, il avance, dans Le Monde, l'idée d'une paix fondée sur l'existence de deux Etats, et il ne cessera ensuite de prôner un rapprochement israélo-palestinien.
Son dernier acte public est la signature d'un appel intitulé "Assez !" à propos du Proche-Orient, paru dans Libération du 27 juillet au nom du collectif "Trop c'est trop". "A l'opposé de la logique guerrière, nous pensons que des victoires militaires ne garantissent pas l'avenir d'Israël",
écrivent les sept signataires, avant de conclure : "Assez de cette course effrénée vers l'abîme."
Côté savant, en étudiant La Guerre des Juifs de Flavius Josèphe - qui témoigne de la confrontation entre l'hellénisme et le judaïsme -, il découvre une figure du lointain néanmoins familière : Josèphe, un homme à la croisée des cultures, et un "intermédiaire", comme Vidal-Naquet lui-même voulut l'être "entre les Arabes et les Juifs". Par ailleurs, à travers
plusieurs textes autobiographiques., il revisite l'histoire de ce franco-judaïsme dont il est issu. Et, dans de nombreuses préfaces à des ouvrages sur le génocide et les camps, il éclaire les rapports entre la mémoire, le témoignage et l'histoire. Enfin, contre les négationnistes,
Assassins de la mémoire, il mène avec l'ardeur du militant et la rigueur de l'historien un combat exemplaire.
Pierre Vidal-Naquet est mort et les temps sont plus sombres. Mais il nous reste le sens de sa vie intense, de ses engagements en conscience, de sa passion historienne tendue vers une vérité dont il savait qu'elle ne pouvait être qu'un horizon. On a envie de dire qu'avec lui, et après lui, ses combats continuent : le mensonge et l'injustice ne passeront pas.
*Bibliographie*
L'Affaire Audin (Ed. de Minuit, 1958).
La Raison d'Etat (Ed. de Minuit, 1962).
Clisthène l'Athénien, avec Pierre Lévèque, (Belles Lettres, 1964).
La Torture dans la République (Ed. de Minuit, 1972).
Mythe et tragédie dans la Grèce ancienne, avec Jean-Pierre Vernant (éd.
Maspero, 1972).
Les Crimes de l'armée française (éd. Maspero, 1975).
Le Chasseur noir (éd. Maspero, 1981).
Les Assassins de la mémoire (La Découverte, 1987).
Les Juifs, la Mémoire et le Présent (La Découverte, 1991).
La Grèce ancienne, avec Jean-Pierre Vernant, (3 vol., Seuil, 1990-1992).
Mémoires, I et II (Seuil/La Découverte, 1995-1998).
L'Atlantide. Petite histoire d'un mythe platonicien (Belles Lettres, 2005)."
di Nicole Lapierre:
"L'historien Pierre Vidal-Naquet est décédé dans la nuit de vendredi à samedi à l'âge de 76 ans, à l'hôpital de Nice, ont annoncé dimanche 30 juillet les éditions La Découverte. Il était dans le coma depuis lundi à la suite d'une hémorragie cérébrale".
Avec la mort de Pierre Vidal-Naquet, vendredi 28 juillet, à l'hôpital de Nice, des suites d'une hémorragie cérébrale, la cité s'assombrit. Car ce n'est pas seulement un grand historien que l'on perd, c'est aussi un recours et un repère : une conscience morale, un chercheur épris de justice et de vérité, une figure exemplaire de l'intellectuel engagé. En ces temps où la pensée trop souvent s'isole et se replie, sa voix va nous manquer, nous le savons déjà. Et il y a du désarroi à devoir parler au passé de cet homme d'érudition et de passion, porté d'un même élan vers l'histoire, la mémoire et les urgences du présent.
De l'Antiquité à l'actualité, d'Athènes à Jérusalem, d'Alger à Auschwitz, Pierre Vidal-Naquet a mené travaux savants et combats militants en cherchant obstinément à dire le vrai. "Je suis un homme passionné qui s'engage, doublé d'un historien qui le surveille de près, enfin, qui devrait le surveiller de près", disait-il, sans dissimuler la difficulté qu'il y avait à concilier ainsi deux êtres en lui. Double, il l'était par tempérament ; son ami Jean-Pierre Vernant le décrit "excessif parfois dans ses prises de position, et lucide, critique par rapport à lui-même, aux extrêmes dans ses attitudes et mesuré, centriste dans sa réflexion".
Double également dans ses attachements à la France des valeurs républicaines et au destin juif. Et aussi dans sa manière de travailler sur des "couples d'oppositions", en reliant le mythe et la tragédie, la chasse et le sacrifice, les systèmes de pensée et les formes de sociétés.
Double, enfin, dans son existence même, prise entre le feu de l'action et le recul de la réflexion. Cette dualité, qui irriguait sa vie et lui donnait cette ouverture au monde déjouant les spécialités et les identités clôturées, prenait sa source dans une longue généalogie familiale.
Pierre Vidal-Naquet est né le 23 juillet 1930, à Paris, au sein d'une famille de la bourgeoisie juive assimilée, profondément républicaine et résolument patriote. Il était le premier enfant de Lucien, avocat parisien, et de Margot, issue d'une vieille famille comtadine. Des deux côtés, une
lignée de Français déjudaïsés qui n'avaient pas, pour autant, renié leurs origines.
Moïse Vidal-Naquet, son trisaïeul, marchand de vin à Montpellier et responsable consistorial, écrivait dans L'Echo du Midi du 7 mai 1843 : "Au temple ou à l'église, l'on est juif ou chrétien ; dans les actes de la vie politique, l'on doit être français avant tout." Edmond, son grand-père,
avocat lettré et mélomane, fut un farouche dreyfusard, comme son grand-oncle Emmanuel, personnage aux multiples activités professionnelles et politiques (banquier, économiste, journaliste, membre du premier comité de la Ligue des droits de l'homme...). A l'évidence, une figure de référence."
*CONTRE LA RAISON D'ETAT*
C'est à 11 ans, en pleine guerre, que le jeune Pierre apprend ce que fut cette lutte, pour la justice et contre la raison d'Etat, menée au nom d'une haute idée de l'honneur de la France : "Toute ma vie a été marquée par le récit que m'a fait mon père à la fin de 1941 ou au début de 1942 de
l'affaire Dreyfus."
La famille est alors réfugiée à Marseille. Les temps sont menaçants, mais de l'inquiétude croissante des parents, du sentiment de Lucien notant qu'il "ressent comme Français l'injure qui lui est faite comme juif", des contacts pris avec la Résistance, les enfants, protégés et insouciants, ne savent rien. Deux ans plus tard, le 15 mai 1944, c'est la "brisure" quand Lucien et Margot sont arrêtés, puis "l'attente", lancinante et vaine après leur déportation à Auschwitz. L'ombre portée de ce drame ne se dissipera jamais.
Orphelin au sortir de l'adolescence, il revient à Paris, termine ses études secondaires et entre en hypokhâgne à Henri-IV. C'est là, en 1947-1948, qu'il prend la décision de "se consacrer à l'histoire". Les classes préparatoires, puis la Sorbonne, ces années de formation sont celles d'une vie intellectuelle intense, où il découvre la politique, s'éprend de littérature, de théâtre et de poésie. Celles, en même temps, où se nouent d'indéfectibles amitiés. Avec le futur indianiste Charles Malamoud, c'est "un coup de foudre". Malamoud est alors communiste, l'attraction du PC est "écrasante", Vidal envisage d'adhérer, sous réserve de "faire de l'opposition à Staline". Impossible évidemment!
Cet intransigeant n'est pas fait pour la discipline de parti. L'indépendance est dans les revues. Avec Pierre Nora et d'autres, il lance Imprudence, un titre qui claque tel un défi, trois numéros seulement, mais l'un d'eux lui vaut une lettre de René Char, avec ces mots : "Tenez votre liberté et surveillez vos illusions, vous n'en serez que plus profond." Sous le signe de Char et celui du jeune Péguy se précise une aspiration. Entre Jaurès et Platon s'affirme une vocation.
Au printemps 1955, il obtient son agrégation et, l'automne suivant, est nommé professeur au lycée Pothier d'Orléans. La guerre d'Algérie entre dans son douzième mois, un nombre croissant de jeunes Français sont jetés dans la "sale guerre" et, sur les premiers intellectuels exprimant leur opposition, les arrestations commencent à tomber. Celle de l'universitaire André Mandouze, le 9 novembre 1956, le fait "entrer dans l'action". Contre cette guerre coloniale qui déshonore son pays, il mobilise dès lors toute son énergie : il faut rompre le silence, alerter les consciences !
Quand son vieil ami de lycée, l'historien Robert Bonnaud, lui raconte les massacres perpétrés par l'armée française, Vidal l'exhorte à témoigner, porte son texte à la revue Esprit, qui le publie en 1957, et s'attend à un immense scandale. Il n'en est rien, c'est le début d'un long combat. La même année, il devient l'un des principaux animateurs du comité Maurice Audin, du nom de cet assistant de mathématiques à la faculté des sciences d'Alger, arrêté le 11 juin 1957, déclaré "évadé" le 21 et, en réalité, tué par les militaires.
En 1958, il publie, aux Editions de Minuit, le dossier de L'Affaire Audin, une pièce à conviction contre la censure et le mensonge. Puis, avec le même acharnement sur les faits, il anime la revue Vérité-Liberté. Suspendu d'enseignement en 1960 (il est alors assistant à Caen) pour avoir signé le Manifeste des 121 sur le droit à l'insoumission, il milite en "permanent",
multipliant articles et interventions publiques.
Ce qui le pousse à se mobiliser tout entier ? Une exigence à la fois morale et politique et une profonde indignation dans laquelle résonne l'écho d'épreuves anciennes : son père a été torturé par la Gestapo et l'affaire Audin, qui rappelle le montage mensonger de l'affaire Dreyfus, est aussi l'histoire d'une disparition, qui évoque celle de ses parents. Au fond de son "engagement total", il y a une dette à l'égard du passé que le présent doit honorer. Elle est nôtre désormais : ce que l'on sait sur la torture dans la République, sur les forfaitures de la raison d'Etat, sur ces
ferments de totalitarisme nichés dans l'apparente quiétude démocratique, on le sait, pour l'histoire et l'avenir, grâce à lui.
Avec la fin de la guerre d'Algérie, en mars 1962, Vidal-Naquet revient à la pensée grecque, au CNRS d'abord, puis à la VIe section de l'Ecole pratique des hautes études, devenue en 1975 Ecole des hautes études en sciences sociales, où il enseignera jusqu'à sa retraite, en 1997.
La Sorbonne et ses "dévots d'une Grèce immortelle et éternelle" n'est pas faite pour cet homme rétif à tous les dogmes. Son parcours sort des sillons préétablis : point de thèse ni de maître ouvrage, mais des essais qui renouvellent l'approche de la culture hellénistique. Ces travaux ne le conduisent pas pour autant à délaisser le présent. Il est de ceux qui lancent, en novembre 1966, le comité Vietnam national, qui dénoncent le coup d'Etat des colonels, à Athènes, en avril 1967, ou que l'on retrouve en Mai 68 heureux de sentir passer un "souffle de liberté".
*DESTIN JUIF*
C'est aussi à partir de la fin des années 1960 que Vidal-Naquet va multiplier prises de position et réflexions sur le destin juif. Côté engagement, après la victoire israélienne de 1967, il avance, dans Le Monde, l'idée d'une paix fondée sur l'existence de deux Etats, et il ne cessera ensuite de prôner un rapprochement israélo-palestinien.
Son dernier acte public est la signature d'un appel intitulé "Assez !" à propos du Proche-Orient, paru dans Libération du 27 juillet au nom du collectif "Trop c'est trop". "A l'opposé de la logique guerrière, nous pensons que des victoires militaires ne garantissent pas l'avenir d'Israël",
écrivent les sept signataires, avant de conclure : "Assez de cette course effrénée vers l'abîme."
Côté savant, en étudiant La Guerre des Juifs de Flavius Josèphe - qui témoigne de la confrontation entre l'hellénisme et le judaïsme -, il découvre une figure du lointain néanmoins familière : Josèphe, un homme à la croisée des cultures, et un "intermédiaire", comme Vidal-Naquet lui-même voulut l'être "entre les Arabes et les Juifs". Par ailleurs, à travers
plusieurs textes autobiographiques., il revisite l'histoire de ce franco-judaïsme dont il est issu. Et, dans de nombreuses préfaces à des ouvrages sur le génocide et les camps, il éclaire les rapports entre la mémoire, le témoignage et l'histoire. Enfin, contre les négationnistes,
Assassins de la mémoire, il mène avec l'ardeur du militant et la rigueur de l'historien un combat exemplaire.
Pierre Vidal-Naquet est mort et les temps sont plus sombres. Mais il nous reste le sens de sa vie intense, de ses engagements en conscience, de sa passion historienne tendue vers une vérité dont il savait qu'elle ne pouvait être qu'un horizon. On a envie de dire qu'avec lui, et après lui, ses combats continuent : le mensonge et l'injustice ne passeront pas.
*Bibliographie*
L'Affaire Audin (Ed. de Minuit, 1958).
La Raison d'Etat (Ed. de Minuit, 1962).
Clisthène l'Athénien, avec Pierre Lévèque, (Belles Lettres, 1964).
La Torture dans la République (Ed. de Minuit, 1972).
Mythe et tragédie dans la Grèce ancienne, avec Jean-Pierre Vernant (éd.
Maspero, 1972).
Les Crimes de l'armée française (éd. Maspero, 1975).
Le Chasseur noir (éd. Maspero, 1981).
Les Assassins de la mémoire (La Découverte, 1987).
Les Juifs, la Mémoire et le Présent (La Découverte, 1991).
La Grèce ancienne, avec Jean-Pierre Vernant, (3 vol., Seuil, 1990-1992).
Mémoires, I et II (Seuil/La Découverte, 1995-1998).
L'Atlantide. Petite histoire d'un mythe platonicien (Belles Lettres, 2005)."
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30 luglio 2006
Bernard-Henry Lévy
Due articoli apparsi sul Corriere della Sera. Da leggere.
La guerra vista da Israele / 1
Come in Spagna nel '36
Israele era entrato nel Libano meridionale nel 1978 per contrastare e neutralizzare le milizie palestinesi che ne minacciavano la sicurezza. Il contesto era quello della feroce guerra civile che dilaniava il Libano. Le truppe hanno lasciato il Sud del Paese nel 2000, su iniziativa dell'allora premier laburista, ed ex militare, Ehud Barak.
Oggi, 17 luglio, è l'anniversario dello scoppio della guerra di Spagna. Sono passati settant'anni dal putsch dei generali che diede l'avvio alla guerra civile, ideologica e internazionale voluta dal fascismo dell'epoca. E non posso non pensarci, non posso non fare l'accostamento mentre atterro a Tel Aviv. La Siria dietro le quinte... L'Iran di Ahmadinejad pronto all'azione. L'Hezbollah di cui tutti sanno che è un piccolo Iran, o un piccolo tiranno, che non ha esitato a prendere in ostaggio il Libano. E come sfondo, il fascismo con il volto dell'integralismo islamico, quel terzo fascismo che, come tutto indica, sta alla nostra generazione come l'altro fascismo, poi il totalitarismo comunista, stavano a quella dei nostri padri.
Fin dal mio arrivo, fin dai primi contatti con i vecchi amici che dal 1967 non avevo mai visto così tesi né così ansiosi, fin dalla mia prima conversazione con Denis Charbit, militante nel campo della pace, il quale non dubita della legittimità di questa guerra di autodifesa imposta al suo Paese, fin dal primo incontro con Tzipi Livni — la giovane e brillante ministro degli Esteri che tanto contribuì a convincere Ariel Sharon a evacuare Gaza e che ora trovo stranamente disorientata davanti a una geopolitica nuova e sotto molti aspetti indecifrabile per intelletti formati sulle categorie standard del conflitto «arabo-israeliano» tradizionale — sento che nella storia delle guerre d'Israele c'è in gioco qualcosa d'inedito. Come se, appunto, non fossimo più molto sicuri di essere limitati all'ambito d'Israele. Come se il contesto internazionale, il ruolo, ancora una volta, dell'Iran e del suo braccio armato Hezbollah dessero a tutta la faccenda un profumo e prospettive inediti.
Prima di salire verso il fronte nord, ci dirigiamo subito verso Sderot, la città martire di Sderot, alla frontiera di Gaza in guerra con gli alleati Hamas di Hezbollah... Eh sì, la città martire! Le informazioni che giungono dal Libano sono così terribili, l'idea stessa delle vittime civili libanesi è così insopportabile per la coscienza e il cuore, le inquadrature, le immagini del Sud di Beirut bombardata, passate e ripassate di continuo, sono diventate così perfettamente sistematiche che è difficile immaginare, lo so, che anche una città israeliana possa essere una città martire. Eppure... Le strade vuote... Le case sventrate o crivellate da schegge di granate... La montagna di razzi esplosi depositati nel cortile del commissariato centrale, che sono caduti nelle ultime settimane... Oggi, la pioggia di altre granate che si è abbattuta sul centro della città, obbligando le poche persone che avevano l'intenzione di approfittare della brezza estiva a ridiscendere nelle cantine... Poi, religiosamente appuntate su un pannello di tessuto nero nell'ufficio del sindaco, Eli Moyal, le foto di quindici giovani, alcuni bambini, morti negli ultimi tempi sotto il fuoco degli artificieri palestinesi...
Tutto questo non cancella evidentemente il resto. E non sarò certo io a prestarmi al piccolo, sporco gioco della contabilità dei cadaveri. Ma perché ciò che si deve agli uni non sarebbe dovuto agli altri? Come mai si parla tanto poco, in fin dei conti, delle vittime ebree cadute dopo che Israele ha lasciato Gaza? Per me che ho passato la vita a lottare contro l'idea che esisterebbero morti buoni e morti cattivi, vittime sospette e granate privilegiate, per me che, oltretutto, da sempre combatto affinché lo Stato ebraico lasci i territori occupati per ottenere, in cambio, la sicurezza e la pace, c'è una questione di probità e di equità nel giudizio: la devastazione, la morte, la vita nei rifugi, le esistenze spezzate dalla scomparsa di un figlio fanno parte anche del destino di Israele.
Haifa. La mia città preferita in Israele. La grande città cosmopolita dove ebrei e arabi coabitano fin dalla fondazione del Paese. Anch'essa è una città morta. Una città fantasma. E pure qui, dalle alture alberate del Monte Carmel fino al mare, ecco l'urlo delle sirene che, a intervalli quasi regolari, obbliga le rare automobili a fermarsi, gli ultimi passanti a precipitarsi nelle metropolitane e che, soprattutto, rende improvvisamente palpabile l'incubo degli israeliani da quarant' anni. Infatti il problema, mi dice in sostanza Zivit Seri, l'esile, graziosa madre di famiglia i cui modi un po' goffi e l'aria indifesa mi commuovono come mi commuovevano una volta i corpi di Sarajevo, il problema, mi spiega guidandomi fra gli edifici distrutti di Bat Galim, letteralmente «la figlia delle onde», che è il quartiere della città ad aver maggiormente sofferto per i bombardamenti, il problema, dunque, non sono soltanto le persone uccise: Israele vi è abituata. E nemmeno il fatto che qui non si prendono di mira obiettivi militari, ma obiettivi deliberatamente civili: anche questo lo sapevamo. No, il problema, quello vero, è che i bombardamenti fanno intuire quello che accadrà un giorno, non necessariamente molto lontano, dove le stesse testate di missili avranno un doppio potere: primo, di mirare ancora più giusto e di colpire, per esempio, le installazioni petrolchimiche che vedete laggiù, sul porto; secondo, d'essere equipaggiate esse stesse di armi chimiche capaci di seminare una desolazione al cui confronto Chernobyl e l'11 settembre messi insieme appariranno come un piacevole preludio...
Perché in effetti è questa la situazione. Sono questi, visti da Haifa, i rischi dell'operazione in corso. Israele non è entrato in guerra perché gli avevano «violato» le sue frontiere. Non ha lanciato i suoi aerei sul Sud del Libano per il solo piacere di «punire» un Paese che ha consentito a una milizia armata di costruire il suo Stato nello Stato. Ha reagito con tale vigore perché la simultaneità degli attacchi sulle sue città e delle dichiarazioni del presidente iraniano che invocano la cancellazione di Israele dalla carta geografica, e la congiunzione, per la prima volta in un'unica mano, di una volontà chiaramente annientatrice e delle armi che essa richiede, creavano una situazione nuova. Bisogna ascoltare gli israeliani quando ci dicono che non avevano più scelta. E bisogna ascoltare Zivit Seri quando spiega, davanti a un edificio sconquassato da una granata, con lastre di cemento che penzolano da pezzi di ferro ritorti, che era mezzanotte meno cinque, in Israele.
Bisogna ascoltare anche la tristezza di Sheikh Mohammed Charif Ouda, il capo della piccola comunità hamadi la cui famiglia vive qui da sei generazioni, che mi riceve a casa sua, sulla parte alta del quartiere di Khababir, con indosso un shalwar kamiz e un turbante secondo la moda pachistana. Il grande errore di Hezbollah, per lui come per tutti i cittadini della città, è di colpire indiscriminatamente. Di uccidere alla cieca, ebrei e arabi mescolati, come nel massacro alla stazione centrale di Hai
Fin dal mio arrivo, fin dai primi contatti con i vecchi amici che dal 1967 non avevo mai visto così tesi né così ansiosi, fin dalla mia prima conversazione con Denis Charbit, militante nel campo della pace, il quale non dubita della legittimità di questa guerra di autodifesa imposta al suo Paese, fin dal primo incontro con Tzipi Livni — la giovane e brillante ministro degli Esteri che tanto contribuì a convincere Ariel Sharon a evacuare Gaza e che ora trovo stranamente disorientata davanti a una geopolitica nuova e sotto molti aspetti indecifrabile per intelletti formati sulle categorie standard del conflitto «arabo-israeliano» tradizionale — sento che nella storia delle guerre d'Israele c'è in gioco qualcosa d'inedito. Come se, appunto, non fossimo più molto sicuri di essere limitati all'ambito d'Israele. Come se il contesto internazionale, il ruolo, ancora una volta, dell'Iran e del suo braccio armato Hezbollah dessero a tutta la faccenda un profumo e prospettive inediti.
Prima di salire verso il fronte nord, ci dirigiamo subito verso Sderot, la città martire di Sderot, alla frontiera di Gaza in guerra con gli alleati Hamas di Hezbollah... Eh sì, la città martire! Le informazioni che giungono dal Libano sono così terribili, l'idea stessa delle vittime civili libanesi è così insopportabile per la coscienza e il cuore, le inquadrature, le immagini del Sud di Beirut bombardata, passate e ripassate di continuo, sono diventate così perfettamente sistematiche che è difficile immaginare, lo so, che anche una città israeliana possa essere una città martire. Eppure... Le strade vuote... Le case sventrate o crivellate da schegge di granate... La montagna di razzi esplosi depositati nel cortile del commissariato centrale, che sono caduti nelle ultime settimane... Oggi, la pioggia di altre granate che si è abbattuta sul centro della città, obbligando le poche persone che avevano l'intenzione di approfittare della brezza estiva a ridiscendere nelle cantine... Poi, religiosamente appuntate su un pannello di tessuto nero nell'ufficio del sindaco, Eli Moyal, le foto di quindici giovani, alcuni bambini, morti negli ultimi tempi sotto il fuoco degli artificieri palestinesi...
Tutto questo non cancella evidentemente il resto. E non sarò certo io a prestarmi al piccolo, sporco gioco della contabilità dei cadaveri. Ma perché ciò che si deve agli uni non sarebbe dovuto agli altri? Come mai si parla tanto poco, in fin dei conti, delle vittime ebree cadute dopo che Israele ha lasciato Gaza? Per me che ho passato la vita a lottare contro l'idea che esisterebbero morti buoni e morti cattivi, vittime sospette e granate privilegiate, per me che, oltretutto, da sempre combatto affinché lo Stato ebraico lasci i territori occupati per ottenere, in cambio, la sicurezza e la pace, c'è una questione di probità e di equità nel giudizio: la devastazione, la morte, la vita nei rifugi, le esistenze spezzate dalla scomparsa di un figlio fanno parte anche del destino di Israele.
Haifa. La mia città preferita in Israele. La grande città cosmopolita dove ebrei e arabi coabitano fin dalla fondazione del Paese. Anch'essa è una città morta. Una città fantasma. E pure qui, dalle alture alberate del Monte Carmel fino al mare, ecco l'urlo delle sirene che, a intervalli quasi regolari, obbliga le rare automobili a fermarsi, gli ultimi passanti a precipitarsi nelle metropolitane e che, soprattutto, rende improvvisamente palpabile l'incubo degli israeliani da quarant' anni. Infatti il problema, mi dice in sostanza Zivit Seri, l'esile, graziosa madre di famiglia i cui modi un po' goffi e l'aria indifesa mi commuovono come mi commuovevano una volta i corpi di Sarajevo, il problema, mi spiega guidandomi fra gli edifici distrutti di Bat Galim, letteralmente «la figlia delle onde», che è il quartiere della città ad aver maggiormente sofferto per i bombardamenti, il problema, dunque, non sono soltanto le persone uccise: Israele vi è abituata. E nemmeno il fatto che qui non si prendono di mira obiettivi militari, ma obiettivi deliberatamente civili: anche questo lo sapevamo. No, il problema, quello vero, è che i bombardamenti fanno intuire quello che accadrà un giorno, non necessariamente molto lontano, dove le stesse testate di missili avranno un doppio potere: primo, di mirare ancora più giusto e di colpire, per esempio, le installazioni petrolchimiche che vedete laggiù, sul porto; secondo, d'essere equipaggiate esse stesse di armi chimiche capaci di seminare una desolazione al cui confronto Chernobyl e l'11 settembre messi insieme appariranno come un piacevole preludio...
Perché in effetti è questa la situazione. Sono questi, visti da Haifa, i rischi dell'operazione in corso. Israele non è entrato in guerra perché gli avevano «violato» le sue frontiere. Non ha lanciato i suoi aerei sul Sud del Libano per il solo piacere di «punire» un Paese che ha consentito a una milizia armata di costruire il suo Stato nello Stato. Ha reagito con tale vigore perché la simultaneità degli attacchi sulle sue città e delle dichiarazioni del presidente iraniano che invocano la cancellazione di Israele dalla carta geografica, e la congiunzione, per la prima volta in un'unica mano, di una volontà chiaramente annientatrice e delle armi che essa richiede, creavano una situazione nuova. Bisogna ascoltare gli israeliani quando ci dicono che non avevano più scelta. E bisogna ascoltare Zivit Seri quando spiega, davanti a un edificio sconquassato da una granata, con lastre di cemento che penzolano da pezzi di ferro ritorti, che era mezzanotte meno cinque, in Israele.
Bisogna ascoltare anche la tristezza di Sheikh Mohammed Charif Ouda, il capo della piccola comunità hamadi la cui famiglia vive qui da sei generazioni, che mi riceve a casa sua, sulla parte alta del quartiere di Khababir, con indosso un shalwar kamiz e un turbante secondo la moda pachistana. Il grande errore di Hezbollah, per lui come per tutti i cittadini della città, è di colpire indiscriminatamente. Di uccidere alla cieca, ebrei e arabi mescolati, come nel massacro alla stazione centrale di Hai
fa, che ha fatto otto morti e venti feriti. Di far regnare un clima di terrore, dunque di continua inquietudine che, facendo le debite proporzioni, mi ricorda come gli abitanti di Sarajevo speculavano all'infinito sul fatto che era bastato un pelo, un caso, un cambiamento di programma all'ultimo minuto, un appuntamento che si prolunga, o più breve del previsto, o miracolosamente spostato in un altro luogo, ed ecco che si trovavano nel punto d'impatto del razzo! L'errore, dunque, è questo. Ma è anche, insiste, nel grande salto indietro che Hezbollah impone a tutto il Medio Oriente rimuovendo di nuovo, come sta facendo, la questione palestinese...
Infatti Charif Ouda ha ragione. Per quanto indifferenti fossero alla sorte degli abitanti di Gaza e Ramallah, almeno i dirigenti arabi tradizionali sapevano ancora fingere. Mentre Nasrallah non si preoccupa nemmeno di questo. La sofferenza e i diritti dei palestinesi ormai non sono, nella sua geopolitica intima, un litigio né un alibi. Basta leggere le sue dichiarazioni e la Carta del suo movimento, basta ascoltare i comunicati assassini passati al canale tv Al-Manar per vedere che, pur sognando una Umma riconciliata di cui l'Iran sarebbe la base, la Siria il braccio armato e Hezbollah la punta avanzata, non ha strettamente più niente a che fare di quella sopravvivenza di epoche passate che è il nazionalismo arabo in generale e palestinese in particolare. Resta il nudo odio. La guerra senza scopo di guerra. Restano tre questioni in sospeso della Jihad in versione persiana della quale la guerra attuale ha appena, in qualche modo, dato l'avvio: Israele, il Libano e, dunque, la Palestina.
Ancora razzi. Ho lasciato Haifa per San Giovanni d'Acri, poi, lungo la frontiera libanese, per una successione di villaggi, kibbuz e altri moshavs che vivono, da dieci giorni, sotto un vero e proprio diluvio di fuoco, per non dire un temporale d'acciaio che cade, oggi, su questi paesaggi biblici dell'Alta Galilea. «Non ho mai saputo bene cosa bisognasse fare in questi casi», mi dice sforzandosi di sorridere il colonnello Olivier Rafovitch mentre ci avviciniamo a Avivim e il fracasso delle esplosioni sembra farsi più vicino. «Si tende ad accelerare, non è vero? A dirsi che l'unica cosa da fare è allontanarsi al più presto da quest'inferno... Ma è da idioti, a pensarci bene. Infatti, chi sa se non è proprio accelerando che si va incontro a...?».
Fatto sta che, comunque, ci affrettiamo. Attraversiamo di corsa un villaggio druso deserto. Poi un grosso borgo agricolo di cui non ho il tempo di annotare il nome — forse Sasa — e che è stato evacuato. Poi una zona completamente scoperta dove un katiuscia ha appena sfondato la strada. E' pazzesco vedere i danni, visti da vicino, che questi ordigni creano. Ed è pazzesco il baccano che possono fare quando ce ne stiamo zitti a spiare il rumore della loro traiettoria che si mescola a quello dell'automobile: colpo sordo e senza fumo del razzo caduto in lontananza; detonazione stridente, esasperata, quando passa sopra le teste; vibrazione lunga, come una nota grave, quando scoppia vicino e fa tremare tutto attorno a voi...
Forse, del resto, non bisognerebbe più dire roquette, razzo. In inglese non so. Ma in francese, o piuttosto in «franglese», c'è nella parola qualcosa che, come nulla fosse, riduce l'oggetto e implica una visione non del tutto attendibile, menzognera, di questa guerra. Si dice insalata di roquette, rughetta, in italiano... O croquette per i cani, crocchette... O roquet, botolo, piccolo cane più rumoroso che cattivo, che vi mordicchia i polpacci e avrebbe, di fronte a lui, il cattivo molosso israeliano... Allora, perché non dire granata, obus? O missile? Perché non rendere, utilizzando la parola giusta, tutta la sua dimensione di violenza barbara a questa guerra voluta dagli Iranosauri di Hezbollah e da loro soltanto? Politica dei termini. Geopolitica della metafora. La semantica, in questa regione, è più che mai una faccenda di morale.
Gli israeliani non sono dei santi. Ed è evidente che sono capaci, in una situazione di guerra, di operazioni, manipolazioni, dinieghi machiavellici. Eppure, un segno indica che questa guerra qui non l'hanno voluta ed è caduta loro addosso come una cattiva sorte. Questo segno è la scelta, al posto di ministro della Difesa, dell'ex militante di La Paix Maintenant, «Pace adesso», che da sempre ha aderito alla causa della spartizione della terra con i palestinesi, dirigente della centrale sindacale Histadrouth e assai meglio preparato, in linea di principio, a fare scioperi che a fare la guerra: è Amir Peretz. «Stanotte non ho dormito», comincia, pallidissimo, gli occhi arrossati, nel piccolo ufficio dove ci riceve, insieme con l'editorialista di Haaretz, Daniel Ben Simon; ufficio che non è nel Ministero ma nella sede del Partito laburista. «Non ho dormito perché ho passato la notte ad aspettare notizie di un'unità di nostri ragazzi caduti, ieri pomeriggio, in un'imboscata, nel settore libanese...». Poi, dopo che un giovane aiutante, pure lui dall' aspetto di militante sindacale, gli ebbe teso e poi ripreso un telefono da campo da cui il ministro aveva ascoltato, senza una parola, gli occhi bassi, gli spessi baffi tremolanti per un'emozione mal controllata, le notizie che aspettava: «Non diffondete subito, per favore, perché le famiglie non sono al corrente; ma tre di loro sono morti e non sappiamo nulla del quarto, è terribile...».
In quarant'anni, sono parecchi i ministri della Difesa di Israele che ho conosciuto. Da Moshe Dayan a Shimon Peres, Itzak Rabin, Ariel Sharon e altri ancora, ho visto succedersi eroi, semieroi, strateghi geniali e di talento e persone abili. Quello che non avevo mai visto è un ministro, non certo così umano (che la vita di un qualsiasi soldato abbia un prezzo inestimabile è una costante nella storia del Paese), né così civile (neanche Shimon Peres, dopotutto, aveva un vero passato militare), ma così poco formato, in compenso, a comandare un esercito in tempi di guerra (la sua prima decisione, fatto unico negli annali, non fu forse di amputare del 5% il budget del proprio ministero?), quello che non avevo mai visto è un ministro della Difesa che corrisponde così esattamente alle famose parole di Malraux sui comandanti del miracolo che «fanno la guerra senza amarla» e che, proprio per questa ragione, «finiscono sempre per vincerla». Amir Peretz, come i personaggi di André Malraux, vincerà. Ma il fatto che sia stato nominato indica che Israele, dopo i ritiri dal Libano e da Gaza, pensava di entrare in una nuova era, dove occorreva preparare la pace, non la guerra...
( Traduzione di Daniela Maggioni)
(1- Continua)
Infatti Charif Ouda ha ragione. Per quanto indifferenti fossero alla sorte degli abitanti di Gaza e Ramallah, almeno i dirigenti arabi tradizionali sapevano ancora fingere. Mentre Nasrallah non si preoccupa nemmeno di questo. La sofferenza e i diritti dei palestinesi ormai non sono, nella sua geopolitica intima, un litigio né un alibi. Basta leggere le sue dichiarazioni e la Carta del suo movimento, basta ascoltare i comunicati assassini passati al canale tv Al-Manar per vedere che, pur sognando una Umma riconciliata di cui l'Iran sarebbe la base, la Siria il braccio armato e Hezbollah la punta avanzata, non ha strettamente più niente a che fare di quella sopravvivenza di epoche passate che è il nazionalismo arabo in generale e palestinese in particolare. Resta il nudo odio. La guerra senza scopo di guerra. Restano tre questioni in sospeso della Jihad in versione persiana della quale la guerra attuale ha appena, in qualche modo, dato l'avvio: Israele, il Libano e, dunque, la Palestina.
Ancora razzi. Ho lasciato Haifa per San Giovanni d'Acri, poi, lungo la frontiera libanese, per una successione di villaggi, kibbuz e altri moshavs che vivono, da dieci giorni, sotto un vero e proprio diluvio di fuoco, per non dire un temporale d'acciaio che cade, oggi, su questi paesaggi biblici dell'Alta Galilea. «Non ho mai saputo bene cosa bisognasse fare in questi casi», mi dice sforzandosi di sorridere il colonnello Olivier Rafovitch mentre ci avviciniamo a Avivim e il fracasso delle esplosioni sembra farsi più vicino. «Si tende ad accelerare, non è vero? A dirsi che l'unica cosa da fare è allontanarsi al più presto da quest'inferno... Ma è da idioti, a pensarci bene. Infatti, chi sa se non è proprio accelerando che si va incontro a...?».
Fatto sta che, comunque, ci affrettiamo. Attraversiamo di corsa un villaggio druso deserto. Poi un grosso borgo agricolo di cui non ho il tempo di annotare il nome — forse Sasa — e che è stato evacuato. Poi una zona completamente scoperta dove un katiuscia ha appena sfondato la strada. E' pazzesco vedere i danni, visti da vicino, che questi ordigni creano. Ed è pazzesco il baccano che possono fare quando ce ne stiamo zitti a spiare il rumore della loro traiettoria che si mescola a quello dell'automobile: colpo sordo e senza fumo del razzo caduto in lontananza; detonazione stridente, esasperata, quando passa sopra le teste; vibrazione lunga, come una nota grave, quando scoppia vicino e fa tremare tutto attorno a voi...
Forse, del resto, non bisognerebbe più dire roquette, razzo. In inglese non so. Ma in francese, o piuttosto in «franglese», c'è nella parola qualcosa che, come nulla fosse, riduce l'oggetto e implica una visione non del tutto attendibile, menzognera, di questa guerra. Si dice insalata di roquette, rughetta, in italiano... O croquette per i cani, crocchette... O roquet, botolo, piccolo cane più rumoroso che cattivo, che vi mordicchia i polpacci e avrebbe, di fronte a lui, il cattivo molosso israeliano... Allora, perché non dire granata, obus? O missile? Perché non rendere, utilizzando la parola giusta, tutta la sua dimensione di violenza barbara a questa guerra voluta dagli Iranosauri di Hezbollah e da loro soltanto? Politica dei termini. Geopolitica della metafora. La semantica, in questa regione, è più che mai una faccenda di morale.
Gli israeliani non sono dei santi. Ed è evidente che sono capaci, in una situazione di guerra, di operazioni, manipolazioni, dinieghi machiavellici. Eppure, un segno indica che questa guerra qui non l'hanno voluta ed è caduta loro addosso come una cattiva sorte. Questo segno è la scelta, al posto di ministro della Difesa, dell'ex militante di La Paix Maintenant, «Pace adesso», che da sempre ha aderito alla causa della spartizione della terra con i palestinesi, dirigente della centrale sindacale Histadrouth e assai meglio preparato, in linea di principio, a fare scioperi che a fare la guerra: è Amir Peretz. «Stanotte non ho dormito», comincia, pallidissimo, gli occhi arrossati, nel piccolo ufficio dove ci riceve, insieme con l'editorialista di Haaretz, Daniel Ben Simon; ufficio che non è nel Ministero ma nella sede del Partito laburista. «Non ho dormito perché ho passato la notte ad aspettare notizie di un'unità di nostri ragazzi caduti, ieri pomeriggio, in un'imboscata, nel settore libanese...». Poi, dopo che un giovane aiutante, pure lui dall' aspetto di militante sindacale, gli ebbe teso e poi ripreso un telefono da campo da cui il ministro aveva ascoltato, senza una parola, gli occhi bassi, gli spessi baffi tremolanti per un'emozione mal controllata, le notizie che aspettava: «Non diffondete subito, per favore, perché le famiglie non sono al corrente; ma tre di loro sono morti e non sappiamo nulla del quarto, è terribile...».
In quarant'anni, sono parecchi i ministri della Difesa di Israele che ho conosciuto. Da Moshe Dayan a Shimon Peres, Itzak Rabin, Ariel Sharon e altri ancora, ho visto succedersi eroi, semieroi, strateghi geniali e di talento e persone abili. Quello che non avevo mai visto è un ministro, non certo così umano (che la vita di un qualsiasi soldato abbia un prezzo inestimabile è una costante nella storia del Paese), né così civile (neanche Shimon Peres, dopotutto, aveva un vero passato militare), ma così poco formato, in compenso, a comandare un esercito in tempi di guerra (la sua prima decisione, fatto unico negli annali, non fu forse di amputare del 5% il budget del proprio ministero?), quello che non avevo mai visto è un ministro della Difesa che corrisponde così esattamente alle famose parole di Malraux sui comandanti del miracolo che «fanno la guerra senza amarla» e che, proprio per questa ragione, «finiscono sempre per vincerla». Amir Peretz, come i personaggi di André Malraux, vincerà. Ma il fatto che sia stato nominato indica che Israele, dopo i ritiri dal Libano e da Gaza, pensava di entrare in una nuova era, dove occorreva preparare la pace, non la guerra...
( Traduzione di Daniela Maggioni)
(1- Continua)
La guerra vista da Israele / 2
Contro le falangi del male
La guerra di Israele contro Hezbollah come la guerra di Spagna. Nel 1936, è la tesi espressa da Lévy nella prima parte del reportage, i fascismi si coalizzarono a sostegno di Franco e delle sue «falangi» inducendo le democrazie e il comunismo a unirsi per contrastarli. La guerra di Spagna prefigurò così la Seconda guerra mondiale. I fascismi di allora hanno un parallelo nel «fascismo islamico» espresso dall'Iran del presidente Ahmadinejad e dalle milizie sciite libanesi di Hezbollah.
Incontro l'ex generale Ephraim Sneh, laburista e sostenitore, non meno del ministro della Difesa Amir Peretz di cui oggi è il vice, di una pace negoziata con i palestinesi, in un luogo detto Coah Junction, letteralmente Crocevia della Forza, che agli occhi dei cabalisti è uno dei posti in cui, giunto il momento, deve manifestarsi e passare il Messia... In gioventù, Sneh è stato ufficiale medico presso i paracadutisti, comandante di un'unità di élite di Tsahal (l'esercito israeliano, ndr), poi, dal 1981, responsabile della Zona di Sicurezza d'Israele nel Sud del Libano. Ha lo stesso fisico del tranquillo padre di famiglia, cordiale e al tempo stesso burbero, che hanno i generali di riserva d'Israele quando riprendono servizio: nella circostanza, una sorta di missione di controllo per la Commissione di Difesa della Knesset. Perché quest'appuntamento? Perché mi ha convocato proprio lì? In un paesaggio di pietre, reso incandescente dal sole, dove non vedo, a parte noi due, anima viva? Vuole mostrarmi qualcosa? Spiegarmi un dettaglio di strategia che non poteva apparirmi se non da qui? Mi porterà ad Avivim che è, un chilometro più a nord, il nodo della battaglia in corso? Vuole parlare di politica? Mi parlerà, come Peretz, come la Livni, come quasi tutti, dello scoraggiamento d'Israele davanti alla scarsa ambizione di una Francia che avrebbe un così grande ruolo in Libano e in Siria; che potrebbe, se lo volesse, rimettere in piedi il Paese dei Cedri imponendo, veramente, che fosse applicata la risoluzione 1559; e che preferisce, purtroppo, limitarsi all'apertura di corridoi umanitari? Sì, mi dice questo.
En passant. Però ben presto mi accorgo che, se mi ha fatto venire fin qui, è per parlarmi di una faccenda che lo appassiona, che non ha niente a che vedere con questa guerra: altro non è che il rapimento, la prigionia, la decapitazione di Daniel Pearl... Una conversazione su Danny Pearl a un tiro di schioppo da un campo di battaglia... Un ufficiale letterato il quale decide che nulla è più urgente se non discutere, con le nostre automobili immobilizzate in una fornace e in mezzo ai sassi, della Jihad, dell'Islam dei Lumi, dell'impasse della teoria di Huntington sullo scontro delle civiltà, di Karachi e delle sue moschee terroriste... Nemmeno questo avevo mai visto. C'è voluta una spedizione sulle prime linee di una guerra dove Israele e il mondo sono più che mai legati per concepirne l'idea.
Al tempo stesso... C'è da credere che talvolta la Storia abbia meno immaginazione di quanto si vorrebbe e che i vecchi generali non hanno poi riflessi tanto cattivi. Il fatto è che, a pochi chilometri più a sud, nel villaggio di Mitzpe Hila, vicino a Maalot, le circostanze mi offrono una sconvolgente reminiscenza dell'affaire Pearl. Mi trovo nella casa dei genitori del soldato Gilad Shalit, la cui cattura da parte di Hamas, il 25 giugno scorso, fu una della cause occasionali di questa guerra. Mi interrogo sull'ironia della Storia che ha fatto sì che un giovane, senza qualità particolari e senza importanza per la collettività, si sia trovato a scatenare questo enorme evento. Siamo lì, al sole, sul prato dove Gilad giocava da bambino e dove sentiamo cadere, vicinissimi, i katiuscia, ai quali gli Shalit, solo loro, sembrano non prestare più attenzione. Siamo seduti attorno a un tavolo da giardino a discutere sulle ultime notizie portate dall'inviato delle Nazioni Unite, giunto qui poco prima di me, e intanto penso che, se questa guerra dovesse durare, se l'effetto- Iran dovesse imprimerle una portata e un'estensione nuove, quel modesto caporale sarà il Francesco Ferdinando di una Sarajevo che si chiamerà Kerem Shalom...
Ma che succede? E' forse l'espressione di Aviva, la madre, quando le chiedo cosa sa delle condizioni di prigionia del suo ragazzo? Quella di Noam, il padre, quando comincia a spiegarmi, con un povero barlume di speranza negli occhi, che suo figlio è francese da parte di una delle nonne, Jacqueline, nata a Marsiglia, e spera quindi che il mio governo unirà i propri sforzi a quelli di Israele? E' forse il dibattito, che indovino nel suo intimo, fra il padre pronto a qualsiasi compromesso per ritrovare l'adorato figlio e l'ex soldato di Tsahal che non cede al ricatto dei terroristi? E' la visita della camera del caporale quand'era piccolo? E' tutta la casa così somigliante, improvvisamente, a quella di Danny Pearl, a Encino, in California? Fatto sta che mi sento invaso da una sensazione di déjà vu e che, sui volti di Aviva e Noam si sovrappongono in me quelli di Ruth e Judea Pearl, i miei amici, il padre e la madre coraggiosi di un altro giovane, simile a questo, rapito da quei folli di Dio il cui programma ideologico non era molto diverso da quello di Hamas.
Risalire verso Avivim. Poi, da Avivim fino a Manara, tenuta dagli israeliani, dove hanno installato, in un circo di duecento metri di diametro, un campo di artiglieria con due cannoni montati su cingolati che bombardano, dall'altra parte della frontiera, gli arsenali, il comando e i lanciarazzi di Maroun al-Ras. Tre cose qui mi colpiscono. L'estrema giovinezza degli artiglieri: vent'anni; forse diciotto; la loro aria stupefatta quando parte il colpo, come se ogni volta fosse la prima; i loro scherzi da ragazzi quando l'amico non ha avuto il tempo di otturarsi le orecchie e la detonazione lo stordisce; poi, al tempo stesso, il lato grave, compreso, di chi si sa agli avamposti di un dramma immenso, e che lo sconcerta. L'aspetto indolente, stavo per dire trasandato, e l'aria sfaccendata di una piccola compagnia che mi ricorda irresistibilmente il gioioso caos dei battaglioni di giovani repubblicani descritti, ancora una volta, da André Malraux: un esercito più simpatico che marziale; più democratico che sicuro di sé e dominatore; un esercito che qui, in questo caso, mi pare agli antipodi dei battaglioni di bruti, o di Terminators senza principi né pietà, che tanto spesso hanno descritto i grandi mass media europei.
En passant. Però ben presto mi accorgo che, se mi ha fatto venire fin qui, è per parlarmi di una faccenda che lo appassiona, che non ha niente a che vedere con questa guerra: altro non è che il rapimento, la prigionia, la decapitazione di Daniel Pearl... Una conversazione su Danny Pearl a un tiro di schioppo da un campo di battaglia... Un ufficiale letterato il quale decide che nulla è più urgente se non discutere, con le nostre automobili immobilizzate in una fornace e in mezzo ai sassi, della Jihad, dell'Islam dei Lumi, dell'impasse della teoria di Huntington sullo scontro delle civiltà, di Karachi e delle sue moschee terroriste... Nemmeno questo avevo mai visto. C'è voluta una spedizione sulle prime linee di una guerra dove Israele e il mondo sono più che mai legati per concepirne l'idea.
Al tempo stesso... C'è da credere che talvolta la Storia abbia meno immaginazione di quanto si vorrebbe e che i vecchi generali non hanno poi riflessi tanto cattivi. Il fatto è che, a pochi chilometri più a sud, nel villaggio di Mitzpe Hila, vicino a Maalot, le circostanze mi offrono una sconvolgente reminiscenza dell'affaire Pearl. Mi trovo nella casa dei genitori del soldato Gilad Shalit, la cui cattura da parte di Hamas, il 25 giugno scorso, fu una della cause occasionali di questa guerra. Mi interrogo sull'ironia della Storia che ha fatto sì che un giovane, senza qualità particolari e senza importanza per la collettività, si sia trovato a scatenare questo enorme evento. Siamo lì, al sole, sul prato dove Gilad giocava da bambino e dove sentiamo cadere, vicinissimi, i katiuscia, ai quali gli Shalit, solo loro, sembrano non prestare più attenzione. Siamo seduti attorno a un tavolo da giardino a discutere sulle ultime notizie portate dall'inviato delle Nazioni Unite, giunto qui poco prima di me, e intanto penso che, se questa guerra dovesse durare, se l'effetto- Iran dovesse imprimerle una portata e un'estensione nuove, quel modesto caporale sarà il Francesco Ferdinando di una Sarajevo che si chiamerà Kerem Shalom...
Ma che succede? E' forse l'espressione di Aviva, la madre, quando le chiedo cosa sa delle condizioni di prigionia del suo ragazzo? Quella di Noam, il padre, quando comincia a spiegarmi, con un povero barlume di speranza negli occhi, che suo figlio è francese da parte di una delle nonne, Jacqueline, nata a Marsiglia, e spera quindi che il mio governo unirà i propri sforzi a quelli di Israele? E' forse il dibattito, che indovino nel suo intimo, fra il padre pronto a qualsiasi compromesso per ritrovare l'adorato figlio e l'ex soldato di Tsahal che non cede al ricatto dei terroristi? E' la visita della camera del caporale quand'era piccolo? E' tutta la casa così somigliante, improvvisamente, a quella di Danny Pearl, a Encino, in California? Fatto sta che mi sento invaso da una sensazione di déjà vu e che, sui volti di Aviva e Noam si sovrappongono in me quelli di Ruth e Judea Pearl, i miei amici, il padre e la madre coraggiosi di un altro giovane, simile a questo, rapito da quei folli di Dio il cui programma ideologico non era molto diverso da quello di Hamas.
Risalire verso Avivim. Poi, da Avivim fino a Manara, tenuta dagli israeliani, dove hanno installato, in un circo di duecento metri di diametro, un campo di artiglieria con due cannoni montati su cingolati che bombardano, dall'altra parte della frontiera, gli arsenali, il comando e i lanciarazzi di Maroun al-Ras. Tre cose qui mi colpiscono. L'estrema giovinezza degli artiglieri: vent'anni; forse diciotto; la loro aria stupefatta quando parte il colpo, come se ogni volta fosse la prima; i loro scherzi da ragazzi quando l'amico non ha avuto il tempo di otturarsi le orecchie e la detonazione lo stordisce; poi, al tempo stesso, il lato grave, compreso, di chi si sa agli avamposti di un dramma immenso, e che lo sconcerta. L'aspetto indolente, stavo per dire trasandato, e l'aria sfaccendata di una piccola compagnia che mi ricorda irresistibilmente il gioioso caos dei battaglioni di giovani repubblicani descritti, ancora una volta, da André Malraux: un esercito più simpatico che marziale; più democratico che sicuro di sé e dominatore; un esercito che qui, in questo caso, mi pare agli antipodi dei battaglioni di bruti, o di Terminators senza principi né pietà, che tanto spesso hanno descritto i grandi mass media europei.
Poi quello strano veicolo, esteriormente simile a due cannoni autotrasportati, ma posteggiato in disparte e che non spara: questo terzo veicolo è una sala macchine mobile, dove si entra, come in un sommergibile, da una torretta e una scala esterna; dentro vi sono sei uomini, certi giorni sette, che si danno da fare attorno a una batteria di radar, computer e altri apparecchi di trasmissione il cui ruolo è di raccogliere informazioni per poi determinare i parametri di tiro da trasmettere agli obici; la verità è che all'origine del fuoco israeliano c'è un vero e proprio laboratorio di guerra dove soldati-scienziati, col naso incollato agli schermi, tentando d'integrare i dati più imponderabili che arrivano dal campo, sviluppano un'intelligenza ottimale per calcolare la distanza del bersaglio, la sua rapidità di spostamento e, last but not least,
il grado di prossimità di civili: almeno qui, ne sono testimone, l'obiettivo prioritario è di evitarli.
Con David Grossman c'incontriamo in un ristorante all'aperto di Abu Gosh, davanti ai monti di Gerusalemme, che mi sembra un Eden dopo l'inferno degli ultimi giorni: sole sfolgorante, rumore d'insetti che non è più quello degli aerei né dei cingolati dei carri armati, un soffio di spensieratezza, un venticello leggero.... Parliamo del suo ultimo libro che è una rilettura del «mito di Sansone». Di suo figlio, appena arruolato in un'unità di carristi e per il quale sento che trema. Commentiamo una statistica che ha letto e lo preoccupa: secondo l'articolo, quasi un terzo di giovani israeliani avrebbero perso la fiducia nel sionismo e ricorrerebbero a certe astuzie per farsi esentare dal servizio militare. Poi naturalmente discutiamo della guerra, e del grandissimo malessere in cui, come gli altri intellettuali progressisti del Paese, sembra averlo fatto sprofondare... Da un lato, mi spiega Grossman, c'è la vastità delle distruzioni, il rischio dell'avvampare di una guerra civile in Libano; c'è l'errore di essersi imposti un traguardo così arduo (distruggere Hezbollah, rendere le loro infrastrutture e l'esercito innocui...) che persino una mezza vittoria rischia, giunto il momento, di avere il profumo di una sconfitta. Ma, dall'altro, c'è l'attacco sorpresa di Hezbollah contro un Paese, Israele, che si era successivamente ritirato dal Libano e poi da Gaza; c'è il diritto d'Israele, come di qualunque altro Stato del mondo, a non rimanere con le mani in mano di fronte a un'aggressione così folle, immotivata, gratuita; c'è il fatto, insiste, che il Libano è il Paese d'accoglienza di Hezbollah, il suo alleato; un Paese, al tempo stesso, al cui governo Hezbollah partecipa pienamente. Dall'altro lato, dunque, c'è il fatto che la risposta israeliana non poteva esser portata se non sul suolo libanese...
Osservo David Grossman. Scruto il suo bel volto di ex bambino prodigio della letteratura israeliana invecchiato troppo presto e divorato dalla malinconia. Non è soltanto uno dei grandi romanzieri israeliani odierni. E' anche, con Amos Oz, Avraham Yehoshua e qualcun altro, una delle coscienze morali del Paese. E credo che la sua testimonianza, la sua fermezza, il suo non cedere sulla giustezza della causa d'Israele dovrebbero convincere gli animi più perplessi.
Infine, Shimon Peres. Non volevo terminare questo viaggio senza andare, come ogni volta, ma stavolta più che mai, da Shimon Peres. E' Daniel Saada, un amico di altri tempi, membro fondatore di Sos Razzismo, stabilitosi in Israele e diventato anch'egli suo amico, a portarmi da lui. «Shimon», come tutti lo chiamano qui, ha 84 anni. Ma non ha perso nulla della sua prestanza. Né del suo magnifico aspetto di principe-abate del sionismo. Ha sempre lo stesso viso, grande fronte e grandi labbra, che sottolinea l'autorità melodiosa della voce. A momenti, ho persino l'impressione che abbia voluto incorporarsi una leggera amarezza nel sorriso, un bagliore nello sguardo, un portamento e, talvolta, di accentuare le parole che non erano proprie ma del suo vecchio rivale Yitzhak Rabin. «Tutto il problema — comincia — è il fallimento di quello che uno dei vostri grandi scrittori chiamava la strategia da stato maggiore. Nessuno, oggi, controlla più nessuno. Nessuno ha il potere di fermare né di dominare nessuno. Di modo che noi, Israele, non abbiamo mai avuto tanti amici come adesso; amici che però, nella nostra Storia, non sono mai stati così inutili. Salvo...».
Peres prega la figlia, una signora di una certa età che assiste alla conversazione, di andare, nell'ufficio vicino, a cercare due lettere di Abu Mazen e Bill Clinton. «Sì, salvo che voi li avete, gli uomini di buona volontà. I miei amici. Gli amici dei Lumi e della pace. Quelli che né il terrorismo né il nichilismo né il disfattismo porteranno mai a rinunciare. Noi abbiamo un progetto, sa... Sempre lo stesso progetto di prosperità, sviluppo condiviso, che finirà per trionfare... Ascolti...». Shimon ha fatto un sogno. Shimon è un giovane uomo di 84 anni il cui invincibile sogno dura, in effetti, da trent'anni e la presente impasse, lungi dallo scoraggiarlo, sembra misteriosamente stimolarlo. L'ascolto, dunque. Ascolto questo Saggio d'Israele spiegarmi che occorre simultaneamente «vincere questa guerra imposta», squalificare il «quartetto del male» costituito da Iran, Siria, Hamas e Hezbollah e aprire «vie di parola e di dialogo» che, un giorno o l'altro, finiranno pur per portare da qualche parte. Ascoltandolo, riudendo queste profezie vecchie ma che oggi, non so perché, mi sembrano avere un coefficiente nuovo di evidenza e di forza, mi metto a immaginare pure io la gloria di uno Stato ebraico che osasse, nello stesso tempo, quasi lo stesso gesto, dire e soprattutto fare le due cose: agli uni, ahimè, la guerra; agli altri, una dichiarazione di pace che, all'improvviso, non lascerebbe più scelta.
(traduzione di Daniela Maggioni)
il grado di prossimità di civili: almeno qui, ne sono testimone, l'obiettivo prioritario è di evitarli.
Con David Grossman c'incontriamo in un ristorante all'aperto di Abu Gosh, davanti ai monti di Gerusalemme, che mi sembra un Eden dopo l'inferno degli ultimi giorni: sole sfolgorante, rumore d'insetti che non è più quello degli aerei né dei cingolati dei carri armati, un soffio di spensieratezza, un venticello leggero.... Parliamo del suo ultimo libro che è una rilettura del «mito di Sansone». Di suo figlio, appena arruolato in un'unità di carristi e per il quale sento che trema. Commentiamo una statistica che ha letto e lo preoccupa: secondo l'articolo, quasi un terzo di giovani israeliani avrebbero perso la fiducia nel sionismo e ricorrerebbero a certe astuzie per farsi esentare dal servizio militare. Poi naturalmente discutiamo della guerra, e del grandissimo malessere in cui, come gli altri intellettuali progressisti del Paese, sembra averlo fatto sprofondare... Da un lato, mi spiega Grossman, c'è la vastità delle distruzioni, il rischio dell'avvampare di una guerra civile in Libano; c'è l'errore di essersi imposti un traguardo così arduo (distruggere Hezbollah, rendere le loro infrastrutture e l'esercito innocui...) che persino una mezza vittoria rischia, giunto il momento, di avere il profumo di una sconfitta. Ma, dall'altro, c'è l'attacco sorpresa di Hezbollah contro un Paese, Israele, che si era successivamente ritirato dal Libano e poi da Gaza; c'è il diritto d'Israele, come di qualunque altro Stato del mondo, a non rimanere con le mani in mano di fronte a un'aggressione così folle, immotivata, gratuita; c'è il fatto, insiste, che il Libano è il Paese d'accoglienza di Hezbollah, il suo alleato; un Paese, al tempo stesso, al cui governo Hezbollah partecipa pienamente. Dall'altro lato, dunque, c'è il fatto che la risposta israeliana non poteva esser portata se non sul suolo libanese...
Osservo David Grossman. Scruto il suo bel volto di ex bambino prodigio della letteratura israeliana invecchiato troppo presto e divorato dalla malinconia. Non è soltanto uno dei grandi romanzieri israeliani odierni. E' anche, con Amos Oz, Avraham Yehoshua e qualcun altro, una delle coscienze morali del Paese. E credo che la sua testimonianza, la sua fermezza, il suo non cedere sulla giustezza della causa d'Israele dovrebbero convincere gli animi più perplessi.
Infine, Shimon Peres. Non volevo terminare questo viaggio senza andare, come ogni volta, ma stavolta più che mai, da Shimon Peres. E' Daniel Saada, un amico di altri tempi, membro fondatore di Sos Razzismo, stabilitosi in Israele e diventato anch'egli suo amico, a portarmi da lui. «Shimon», come tutti lo chiamano qui, ha 84 anni. Ma non ha perso nulla della sua prestanza. Né del suo magnifico aspetto di principe-abate del sionismo. Ha sempre lo stesso viso, grande fronte e grandi labbra, che sottolinea l'autorità melodiosa della voce. A momenti, ho persino l'impressione che abbia voluto incorporarsi una leggera amarezza nel sorriso, un bagliore nello sguardo, un portamento e, talvolta, di accentuare le parole che non erano proprie ma del suo vecchio rivale Yitzhak Rabin. «Tutto il problema — comincia — è il fallimento di quello che uno dei vostri grandi scrittori chiamava la strategia da stato maggiore. Nessuno, oggi, controlla più nessuno. Nessuno ha il potere di fermare né di dominare nessuno. Di modo che noi, Israele, non abbiamo mai avuto tanti amici come adesso; amici che però, nella nostra Storia, non sono mai stati così inutili. Salvo...».
Peres prega la figlia, una signora di una certa età che assiste alla conversazione, di andare, nell'ufficio vicino, a cercare due lettere di Abu Mazen e Bill Clinton. «Sì, salvo che voi li avete, gli uomini di buona volontà. I miei amici. Gli amici dei Lumi e della pace. Quelli che né il terrorismo né il nichilismo né il disfattismo porteranno mai a rinunciare. Noi abbiamo un progetto, sa... Sempre lo stesso progetto di prosperità, sviluppo condiviso, che finirà per trionfare... Ascolti...». Shimon ha fatto un sogno. Shimon è un giovane uomo di 84 anni il cui invincibile sogno dura, in effetti, da trent'anni e la presente impasse, lungi dallo scoraggiarlo, sembra misteriosamente stimolarlo. L'ascolto, dunque. Ascolto questo Saggio d'Israele spiegarmi che occorre simultaneamente «vincere questa guerra imposta», squalificare il «quartetto del male» costituito da Iran, Siria, Hamas e Hezbollah e aprire «vie di parola e di dialogo» che, un giorno o l'altro, finiranno pur per portare da qualche parte. Ascoltandolo, riudendo queste profezie vecchie ma che oggi, non so perché, mi sembrano avere un coefficiente nuovo di evidenza e di forza, mi metto a immaginare pure io la gloria di uno Stato ebraico che osasse, nello stesso tempo, quasi lo stesso gesto, dire e soprattutto fare le due cose: agli uni, ahimè, la guerra; agli altri, una dichiarazione di pace che, all'improvviso, non lascerebbe più scelta.
(traduzione di Daniela Maggioni)
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21 luglio 2006
Bernard-Henry Levy sul Medioriente
Non voglio certo trasformare questo blog in una rassegna stampa, ma l'articolo di Bernard-Henry Levy apparso sul corriere della sera di ieri mi sembra interessante da riproporre (e magari lo fa anche qualcun altro).
ISRAELE E L'OCCIDENTE
Se i katiuscia minacciassero noi
di Bernard-Henry Levy
ISRAELE E L'OCCIDENTE
Se i katiuscia minacciassero noi
di Bernard-Henry Levy
Una parola stranamente ricorrente nei commenti, in Europa, sulla risposta israeliana alla dichiarazione di guerra dell’Hezbollah è «sproporzione» Non sono certo un grande esperto in affari militari. E anch’io penso, è evidente, che ognuna delle vittime civili, pudicamente chiamate dagli strateghi «danni collaterali», sia una tragedia. Detto questo, avrei comunque voglia di chiedere a coloro che parlano così come reagirebbero se un commando di terroristi venissero per esempio sul territorio di Francia, non tenendo assolutamente conto delle nostre frontiere, se non persino negandole, a rapire soldati francesi. Come reagirebbero se Strasburgo, Lilla o Lione si trovassero, come Sderot, Ashqelon e adesso Haifa, sotto una pioggia di katiuscia che fanno decine — su scala francese centinaia — di altre vittime civili il cui martirio, mi pare, equivale a quello dei libanesi. E se la capitale del nostro Paese si trovasse a portata di missili a medio raggio Zelsal 1, forniti da artificieri iraniani debitamente inviati in missione da Ahmadinejad e ci dicessero, come ha detto a proposito di Tel Aviv il segretario generale dell’Hezbollah, Hassan Nasrallah, che colpire Parigi non è più un’ipotesi del tutto teorica, ma un obiettivo bellico prioritario e un’impresa santa. Avrei voglia di chiedere quale fosse, secondo loro, la reazione «proporzionata», dal momento che l’autore di questo tipo di dichiarazioni e degli attacchi che le accompagnano è notoriamente ispirato, finanziato, armato da un paese il cui presidente non ha mai fatto mistero della propria determinazione a dotarsi dell’arma atomica e, con o senza tale arma, a cancellare dalla carta geografica uno Stato ebraico intrinsecamente perverso e criminale. Ancora, avrei voglia di chiedere come sarebbe stato possibile imbastire una risposta tale da risparmiare un Libano ridiventato, per sua disgrazia, l’ostaggio di ideologi e capi di guerra irresponsabili: gente che non ha smesso di costruirvi, in flagrante contraddizione con la sua cultura, la sua genialità, le sue tradizioni di tolleranza, di cosmopolitismo e di pace, uno Stato nello Stato che è, innanzitutto, uno Stato terrorista che minaccia tutta la regione e, naturalmente, i libanesi stessi. Avrei voglia di chiedere come si potesse evitare d’intervenire in Libano visto che il governo di questo paese conta molti ministri Hezbollah; che il suo presidente, Emile Lahoud, afferma, appena può, la sua solidarietà di principio con gli obiettivi e la causa di Hezbollah; che le sue strade servono al trasporto di razzi, lanciamissili e truppe verso le linee di fronte e i fortini tenuti da Hezbollah; e che a partire dalle stazioni radar dei suoi aeroporti, come da quello di Beirut, vengono localizzati i bersagli marittimi israeliani che le batterie Hezbollah colpiscono, come la settimana scorsa. E poi, «sproporzione» per «sproporzione», come schivare la vera, la sola domanda valida, che è di sapere chi ha fatto, oggi, i progressi concreti dello spirito di moderazione e di misura che ognuno auspica: gli israeliani, i quali, pur non essendo angeli, per carità, si sono ritirati dal Libano da sei anni, da Gaza da sei mesi e sono pronti, in grande maggioranza e a costo di ricevere, come in questo momento, valanghe di bombe sulle loro città e sui loro villaggi, a ritirarsi dalla Cisgiordania perché vi si installi lo Stato palestinese in formazione; o i folli di Dio che se ne infischiano altamente della formazione di un qualsiasi Stato palestinese e non hanno, in realtà, nessun’altra preoccupazione se non di veder scomparire Israele? Infatti, è proprio qui la discriminante. Etale è la posta in gioco, la sola, di una guerra quasi più radicale, in questo senso, delle precedenti guerre israelo-arabe. Da un lato, i sostenitori della coabitazione di due popoli che apprendano, con il tempo, senza illusioni né angelismo, a negoziare, a fare la pace e poi, forse, un giorno, ad andare d’accordo e a volersi bene: sono, in Palestina, gli amici di Mahmoud Abbas; sono, nel mondo arabo in generale, i dirigenti e i rappresentanti, in numero crescente, dell’opinione pubblica illuminata; ed è l’essenziale della popolazione d’Israele, sia essa di destra o di sinistra, finalmente consapevole che non esiste, a termine, altra strada se non quella della spartizione della terra. Dall’altro, gli oltranzisti di una causa che ormai ha un rapporto lontanissimo e con la causa nazionale palestinese e con la sofferenza che la sostiene: è, a Gaza, l’Hamas di Khaled Mechaal ed è, qui in Libano, l’Hezbollah. I due pilastri di un «fascislamismo» di cui non si ripeterà mai abbastanza che i burattinai si nascondono a Damasco e soprattutto a Teheran e i cui responsabili sul campo sono palesemente pronti, se la vittoria finale è a questo prezzo, a battersi fino all’ultimo libanese, palestinese e, certo, fino all’ultimo ebreo. 20 luglio 2006 |
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20 giugno 2006
Soddisfazioni
Dal sito di Repubblica, uno stralcio:
" Per quanto riguarda la tipologia "A", quella dell'analisi del testo, tra le tracce più probabili figurano il brano "La somarella di Giovannino" di Giovanni Pascoli o "Il fanciullino" di Calvino. C'è chi giura, però, che quest'anno capiterà Svevo ("era quasi sicuro l'anno scorso") o Pirandello. "
l'articolo intero è decisamente gustoso, leggetelo prima che qualcuno rovini il gioco segnalando la farsa.
" Per quanto riguarda la tipologia "A", quella dell'analisi del testo, tra le tracce più probabili figurano il brano "La somarella di Giovannino" di Giovanni Pascoli o "Il fanciullino" di Calvino. C'è chi giura, però, che quest'anno capiterà Svevo ("era quasi sicuro l'anno scorso") o Pirandello. "
l'articolo intero è decisamente gustoso, leggetelo prima che qualcuno rovini il gioco segnalando la farsa.
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