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Hitchcock — Ricardo Bernal

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Come tutti sappiamo, Alfred Hitchcock appare per qualche secondo in ciascuno dei suoi film. Grande inventore di scherzi macabri, Hitchcock ha stretto un patto con la morte: apparirà per alcuni secoli in ciascuna delle nostre vite. Lo vedremo sullo sfondo, mentre attraversa la strada fra la folla, lo vedremo spuntare da dietro un albero, o riflesso nello specchio di un bar, o a bordo di un taxi qualsiasi che si allontana in una notte qualsiasi, di un anno qualsiasi… Dobbiamo tenere gli occhi aperti.


Ricardo Bernal (Messico), Hitchcock

(Tradotto da El callejón de la carne)

L'eterno pellegrinaggio del piccolo coccodrillo di plastica — Ricardo Bernal

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(Maurits Cornelis Escher, Reptiles, 1943)


U
n piccolo coccodrillo di plastica cammina sulla superficie bianca del foglio, ad ogni passo lascia una parola e alla fine della riga si gira all’indietro per leggere: Un piccolo coccodrillo di plastica cammina sulla superficie bianca del foglio, ad ogni passo lascia una parola e alla fine della riga si gira all’indietro per leggere: Un piccolo coccodrillo di plastica cammina sulla superficie bianca del foglio, ad ogni passo lascia una parola e alla fine della riga si gira all’indietro per leggere: Un piccolo coccodrillo di plastica…


Ricardo Bernal (Messico), El eterno peregrinaje del diminuto cocodrilo de plástico

(Tradotto da Químicamente impuro)

Sortilegio — Ricardo Bernal

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(Immagine: Remus Moise)


Che carino, hai creduto che le mosche fossero state invitate da papà a vedere il calcio, ma subito dopo il calcio hanno trasmesso le pubblicità dei tagliaerba, le pubblicità di canne da pesca e di rimedi infallibili contro l’insonnia; e poi la tele è diventata solamente righe e un ronzio che si confondeva col canto delle mosche. Allora hai visto che alcune di loro passeggiavano piano piano sulla faccia di papà e papà non si muoveva, gli occhi fissi sulle righe immobili, le mosche volavano e due di quelle sono entrate nella sua bocca aperta che adesso non gridava per chiederti dell’altra birra e ti sei accorta di un odore fantasma, dolce e strano; un odore che forse avevano inventato le mosche. Papà, mi ascolti?, ma lui se ne stava serio, tutto concentrato sulle righe, e hai temuto che si sarebbe infuriato se lo avessi interrotto e così sei andata a dormire ché già era passata mezzanotte. Il giorno dopo ti sei svegliata quando il sole ti ha inchiodato le sue unghie lunghe nelle palpebre, giuro che non ho sognato nulla, dieci di mattina e non hai fatto colazione e sei corsa via con il cuore mandarino che ti si apriva a spicchi nel petto, e il fatto che in cima alle scale continuavano a ronzare le mosche e tuo papà era un’enorme barca verde camaleonte violaceo che stava guardando alla tele azzurra il notiziario degli incidenti stradali, e le mosche gli entravano nella bocca, sempre più numerose e sempre leccando le loro proboscidine labbra fauci minuscole di mosche affamate che in realtà, allora te ne sei resa conto, erano una maschera nera che si cuciva da sola. Papà, vado subito a scuola, hai detto con voce di pulcino, però lui non ha risposto e hai notato che c’era dell’acqua violetta che infradiciava i suoi terribili pantaloni militari, ciao papà, hai pensato, e hai visto la tua immagine nello specchio dell’ingresso, i capelli arruffati e pieni di cenere, gli occhi gonfi da così tanto affondarti nella palude degli incubi, le labbra grigie fiorendo spaccature, e sei uscita in punta di piedi perché papà non pronunciasse quelle parole di ghiaccio che dice quando non sei come lui immagina che tu sia: una bambina buona e dolce, ormai ho cinquant’anni, papà, e a scuola l’uomo col camice non mi dice più niente, e il latte non mi sa più di acido, e non piango più quando mi ricordo di mamma che se n’è andata in un’altra casa dove vive con un papà diverso che dice parole diverse, parole che le hanno fatto scordare di te, scordarsi di quest’altro papà che continuava a vedere la tele quando sei tornata, dopo essere stata chissà dove, e l’odore era aumentato, furioso, pronto a frugarti la memoria con uncini invisibili. Papà, vuoi mangiare qualcosa? Silenzio. Ma papà, non è possibile che tu stia ancora guardando la tele, oltretutto non ti sono mai piaciuti i cartoni, e adesso i suoi occhi hanno perduto quel brillio mercuriale che hanno sempre quando lui si muove feroce, e ti insegue, e ti chiude nell’angolo, no papà, no, e col suo rasoio ti taglia via i veli, no papino, e adesso i suoi occhi, con quelle loro ali che vibrano, non possono più vederti, non saprai mai più dove mi sono nascosta, non mi spierai mai più mentre faccio il bagno. Ti avvicini piano, l’odore ti colpisce in volto come un alito di inferno, spegni la tele e le mosche cantano liriche nervose attorno al silenzio di tuo padre così quieto, e tu alla fine ti azzardi a toccargli la spalla e gli affondi le dita nella carne molle come fosse plastilina, e chiudi gli occhi, e dentro di te vedi un triciclo che si arrugginisce nel cortile sotto la pioggia; vedi bambole senza testa sotto il lettino. Ritiri la mano e vedi un paio di vermetti che si arrampicano lenti lungo il tuo dito indice, papà non hai più la lingua, solo vermi che ti brulicano fuori dalla bocca, vermi che ti fanno avanti e indietro sulle rughe, che ti esplorano le articolazioni sotto la carne in cerca del bambino che sei stato tanto tempo fa, il bambino che giocherà con me a marito e moglie e mi porterà in un regno di pozzanghere e fango dove io sarò principessa per sempre, e per sempre resteranno in questa casa le mosche, tristi di vedere e rivedere i nostri ritratti sulle pareti di polvere, e dopo aver giocato io dormirò con te, papà, senza paura, senza rancori, dormirò fra le tue braccia amorose finché morte non ci separi.


Ricardo Bernal (Messico), Sortilegio

(Tradotto da El Callejón de la carne)

Suicida — Ricardo Bernal

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Decido di porre fine alla mia vita per stanchezza, sazietà, io in eccesso che vogliono detronizzare il vero io. Esco sul terrazzo: sopra ci sono luna, stelle, gemme, le fusa degli aerei e le nuvole; sotto il rumore, le luci delle macchine, molto lontano come in un subuniverso inesplorato. Mi arrampico sul cornicione, faccio un passo, un altro, continuo camminando nell'aria e a ogni passo cade uno dei miei io, plana compiendo circoli, si incarna nel corpo di un cittadino in più, formica frettolosa nel rumore randagio della notte. Quando arrivo a metà del tragitto sono soltanto io, sudo molto. Alzo la testa e ti scopro: anche tu hai camminato fino a qui dal tuo terrazzo, sei ringiovanita, più trasparente, e già spogliata dei tuoi altri io. Mi guardi sorridente, increspi le labbra e mi tiri un sonoro manrovescio. Cado.


Ricardo Bernal (Messico), Suicida

(Tradotto da El callejón de la carne)

Testa vuota — Ricardo Bernal

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(Alberto Savinio, Ulisse e Polifemo — 1929)


Ho la testa vuota: le parole mi entrano da un orecchio, volteggiano distratte all'interno del mio cranio ed escono dall'altro orecchio. Decido di andare a far visita al vecchio Ulisse per chiedergli consiglio.

La casa è enorme. Il maggiordomo, un elegante ciclope strabico, mi invita a passare nel salone. Dopo poco scende Ulisse, barba lunga, vestaglia blu. Gli spiego il mio problema e mi accompagna in un piccolo studio, dove mi dà un vasetto pieno di cera.

— Non so se possa servire — dice —, non l'ho mai usata... Distesa sulla moquette, una sirena grassa con tubi sulla testa e la faccia piena di melma verde, come cioccolata. Esco dalla casa di Ulisse. Piove. Mi infilo la cera in un orecchio, le parole entrano dall'altro, volteggiano ma non escono. cominciano a riempire il mio cranio, scendono lungo il braccio, arrivano alle dita: le scrivo.

Ricardo Bernal (Messico), Cabeza hueca

(Tradotto dal blog El callejón de la carne)