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Nessuno sapeva dirci da dove fosse spuntato quel dizionario. La nonna negava
categoricamente di essere l’Adelina a cui si riferiva la dedica, e in più sosteneva di
non sapere chi fosse quell’Assurbanipal. Ammetteva, questo sì, che il libro era in casa
fin da quando ne aveva memoria.
La dedica, scritta in elegante corsivo inglese, recitava: «Per Adelina, nel giorno
del suo onomastico, dal suo caro zio Assurbanipal». Era senza alcun dubbio
un’edizione spagnola, però mancavano le prime due o tre pagine, da cui avremmo
potuto scoprire casa editrice e data di stampa.
«Mai avuto uno zio con un nome del genere», si difendeva la nonna, già di
malumore e stanca dei nostri scherzi. La nonna non era certo il tipo da dire bugie così
senza motivo, ma devo ammettere che negli ultimi anni aveva iniziato a perdere la
sua memoria prodigiosa.
Io e mia sorella scoprimmo l’Assurbanipal (proprio così battezzammo il
dizionario fin dal primo momento) quando eravamo già assidui frequentatori della
biblioteca di casa, e ormai alti e svegli abbastanza da riuscire a raggiungere l’ultimo
ripiano della libreria, dove era rimasto dimenticato per anni.
La mamma assicurò che un dizionario così vecchio non ci sarebbe servito a
niente e non c’era motivo di usarlo: apposta ne avevano comprato un altro più
moderno e completo. Noi preferivamo il vecchio Assurbanipal tutto sfasciato e che
puzzava di umidità, perché ci sembrava un libro con una sua personalità, con una
storia e una tradizione; non come quella scomoda enciclopedia moderna, rilegata in
plastica e con illustrazioni un po’ infantili.
Sembrava che l’Assurbanipal avesse vita propria; prometteva misteri fin dalle
sue lettere minuscole, racchiudeva l’enigma della storia tra uno zio dal nome
spropositato e una nipote improbabilmente sconosciuta. Io e mia sorella Hester
volevamo andare in fondo a questa storia.
Per l’onomastico della nonna ci venne la bella idea di regalarle un libro di
ricette. Lei detestava la cucina. Noi lo avevamo fatto solo per buona volontà, e perché
il libro costava poco. E, naturalmente, questo iniziò subito a girare per casa senza
trovare una propria collocazione.
Quando pioveva o faceva molto freddo preferivamo non uscire e inventarci un
modo per passare il tempo. Se ci stancavamo di leggere o giocare, ci saltava in testa di
fare una torta.
Un giorno mi presentai in cucina con il ricettario nuovo di zecca e a Hester si
illuminarono gli occhi; era il primo libro di cucina entrato in casa e decidemmo di
iniziare a usarlo.
Scegliemmo una torta di fragole per l’illustrazione invitante, aprimmo il libro
alla pagina corrispondente e posammo un coltello sulle pagine per non farlo chiudere.
Hester da un lato e io dall’altro, con le mani bianche di farina, ci mettemmo all’opera.
«Non capisco», disse Hester all’improvviso, rompendo la calma e l’atmosfera
che avevamo creato, «qui dev’esserci un errore».
Mi piegai in avanti e lessi il punto che indicava con un dito bianco: «Quando
avrete ottenuto una pasta omogenea, versate il composto in un davanzale
precedentemente imburrato…». Ci guardammo e scoppiammo a ridere. Cos’era
quella storia di un davanzale precedentemente imburrato? Era senza dubbio un
refuso. Dissi a Hester che, proseguendo nella lettura, di sicuro avremmo trovato
l’indicazione di mettere la torta a raffreddare nello stampo di una finestra. Mi
sbagliavo. Nemmeno una parola su come raffreddare la torta. Grazie a quell’episodio
ridemmo e scherzammo per il resto della giornata.
Non andò allo stesso modo quando, pochi giorni dopo, scoprimmo il secondo
refuso: invece di «tagliate le fragole a fettine», c’era scritto «tagliate gli occhi a
fettine». Questo era, da ogni punto di vista, un refuso di pessimo gusto. A Hester fece
così schifo che ci toccò lasciare la torta a metà. Non volle neanche più usare il
ricettario e così fummo costretti a tornare alle nostre vecchie ricette inventate.
Quando le raccontammo cos’era successo, alla nonna sembrò normalissimo e
ci disse che cose del genere capitano spesso nei libri di oggi, da quattro soldi,
stampati male e rilegati peggio. Comunque sia, quel commento ci suonò come una
frecciatina per il nostro regalo. Io e Hester ci scambiammo occhiate complici. Più
tardi pensammo di rimediare alla nostra mancanza di tatto regalandole un altro libro,
e stavolta uno che le piacesse anche se più caro.
Notammo una smorfia di diffidenza sul suo volto quando le consegnammo
un’antologia di romantici inglesi rilegata in pelle, ma un attimo dopo sorrise e disse
che eravamo dei tesori.
Il terzo refuso lo scoprimmo un pomeriggio. Eravamo nel portico, a
sonnecchiare sulle sedie a dondolo, quando un gridolino soffocato e un colpo secco
sulle mattonelle del pavimento ci fecero sobbalzare. Aprimmo gli occhi e trovammo la
nonna in piedi, accanto alla sua sedia. Si copriva la bocca con le mani e scuoteva la
testa; guardava ora noi ora il libro buttato a terra. Balbettò più volte: «Che insolenza!
Che mancanza di rispetto!». Io e Hester non riuscivamo proprio a indovinare cosa
volesse dire. Quando sembrò aver recuperato la calma e la dignità di sempre, la
nonna ci disse: «Coleridge. Parte VI.» e si infilò in casa impettita. Un istante dopo si
riaffacciò sul portico e precisò: «Pagina 24».
Raccogliemmo il libro, con una certa inquietudine, e leggemmo:
Ma un vento repentino m’investì,
e non aveva suono o movimento:
una rumorosa ventosità
che si espelle dall’orifizio anale.
Continuammo a leggere e notammo sbalorditi che non si trattava dell’unico
refuso e che tutti erano ugualmente volgari e di pessimo gusto.
Evitammo di parlare di quell’inspiegabile incidente, soprattutto con la nonna; a ogni
occasione, ne approfittava per lanciarci occhiate recriminatorie che ci addossavano
una colpa ingiusta.
Una sera, mentre eravamo in salotto, papà entrò indignato per quelle
traduzioni fatte da dilettanti senza alcuna logica e senza rispettare l’opera originale e
lo spirito dell’autore. Portava con sé un libro acquistato da poco. La nonna fece
orecchie da mercante, fissò lo sguardo sul suo lavoro a maglia e si sistemò gli occhiali
mormorando qualcosa che non riuscii a capire.
«Hai sentito cos’ha detto la nonna?», sussurrò Hester mentre mi passava il
libro che le aveva dato papà, in modo che verificassimo quanti spropositi c’erano
scritti.
«Non ci sono riuscito.»
«Ho letto le labbra.»
«Cos’ha detto?»
«Assurbanipal», affermò decisa.
Una volta sicuri che la nonna fosse indaffarata in veranda, sgattaiolammo in
biblioteca e prendemmo il libro.
«Cerca Davanzale.»
Le pagine mi si imbrogliavano tra le dita.
… Davanti… Davanuino… Stampo.
«Come temevo», mormorò Hester strappandomi di mano il dizionario.
«Cerchiamo Occhio…»
Occhiera… Occhietto… Occhiro… Fragola.
Più avanti, alla lettera S, trovammo alcuni versi di Coleridge come definizione
di una parola che in casa non avevamo mai sentito in bocca a nessuno.
Lasciammo l’Assurbanipal su un tavolo. Il giorno dopo era scomparso. Lo
cercammo per tutta la casa e chiedemmo a tutti. Nonna Adelina giura e spergiura che
lei non sa niente di questa faccenda.
Norberto Luis Romero (Argentina/Spagna), Erratas (dalla raccolta Transgresiones, Editorial Noega, Gijón, España / Alción Editora, Córdoba, Argentina, 1983)
(Estratto dall’e-book: Un re capriccioso e indolente, Dragomanni, dicembre 2014 — traduzione di Marta Graziani, Silvia Pellacani e Valentina Volpi)
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Refusi — Norberto Luis Romero
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Il grande organo dell’Isola di Org — Norberto Luis Romero
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(Tratto da Bagliori estremi – Microfinzioni argentine contemporanee, Edizioni Arcoiris, Salerno 2012 — traduzione e cura di Anna Boccuti)
Ogni
anno, nello stesso giorno, si tiene una grande festa nell’isola di Org. Quel
giorno, alle prime ore del mattino, vengono sfilate le fodere che proteggono i
565 tubi del grande organo e un gruppo di esperti lo accorda. Verso le cinque
del pomeriggio, il maestro si siede alle tastiere e comincia a eseguire le
meravigliose e antichissime partiture anonime.
A
varie miglia di distanza, le imbarcazioni che casualmente navigano in quelle
acque violente sentono la melodia e dirigono subito il timone verso l’isola,
che è circondata da scogliere poco o niente visibili e quindi naufragano.
Di
questi naufragi vivono i pacifici abitanti dell’isola di Org: l’economia dei
loro mercati di strada dipende dalla potenza del grande organo e dalla bellezza
delle sue melodie che, da tempo immemore, dà loro da vivere rifornendoli del
necessario: legname, oggetti di uso quotidiano, cibi, vestiti e, soprattutto,
grandi quantità di carne.
Norberto
Luis Romero (Argentina/Spagna), El gran órgano de la isla de Org
(Tratto da Bagliori estremi – Microfinzioni argentine contemporanee, Edizioni Arcoiris, Salerno 2012 — traduzione e cura di Anna Boccuti)
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Omphalos — Norberto Luis Romero
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(Immagine: Ree Gurova)
Seduto sull’orlo del suo stesso ombelico contempla le pieghe voluttuose, le spirali che a cascata conducono al circolo ultimo e perfetto che una volta lo mantennero unito a quell’altra, quell’intrusa che gli diede la vita in cambio di nulla e che, nonostante il suo amore, ebbe l’audacia di tagliarlo, lasciandolo orfano di se stesso, poiché in quello non trova, né ha con chi dialogare, né chi lo ammiri, perché quella pelle neppure lo riflette.
Norberto Luis Romero (Argentina/Spagna), Omphalos
(Tradotto da Hansel en Baviera)
(Immagine: Ree Gurova)
Seduto sull’orlo del suo stesso ombelico contempla le pieghe voluttuose, le spirali che a cascata conducono al circolo ultimo e perfetto che una volta lo mantennero unito a quell’altra, quell’intrusa che gli diede la vita in cambio di nulla e che, nonostante il suo amore, ebbe l’audacia di tagliarlo, lasciandolo orfano di se stesso, poiché in quello non trova, né ha con chi dialogare, né chi lo ammiri, perché quella pelle neppure lo riflette.
Norberto Luis Romero (Argentina/Spagna), Omphalos
(Tradotto da Hansel en Baviera)
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