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sabato 14 giugno 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Riflessioni di uno scarafaggio

Mi sono trasferito.
Prima abitavo all'Hotel Duke, all'angolo di Washington Square. La mia famiglia ci viveva da generazioni, e intendo dire come minimo due o trecento generazioni. Ma non fa più al caso mio. Il posto è degenerato. Ho sentito la mia bis-bis-bis -, e potete risalire fin che vi pare, era ancora viva quando le ho parlato - raccontare dei bei tempi andati, quando la gente arrivava in carrozze a cavalli con valigie che odoravano di cuoio, gente che faceva colazione a letto e lasciava cadere qualche briciola per noi sul tappeto. Non di proposito, naturalmente, perché anche noi allora sapevamo stare al nostro posto, e il nostro posto era negli angoli dei bagni o giù in cucina. Adesso possiamo camminare sui tappeti con una certa impunità, perché i clienti dell'Hotel Duke sono troppo ciechi per vederci, o non hanno il coraggio di calpestarci se ci vedono, oppure si limitano a ridere.
L'Hotel Duke ha un lacero tendone verde che si estende fino al bordo del marciapiede, con tali e tanti buchi che non potrebbe riparare proprio nessuno dalla pioggia. Si salgono quattro gradini di cemento e ci si ritrova in una triste hall che sa di marijuana e whisky stantio, scarsamente illuminata. Dopotutto la clientela adesso non ha necessariamente voglia di vedere chi altri alloggia nell'albergo. La gente si aggira nella hall e può anche succedere che faccia conoscenza, ma più spesso tutto si risolve con uno spiacevole scambio di parole. Sulla sinistra, nella hall, c'è un buco ancora più scuro chiamato "Sala da ballo del Dr. Toomuch". Per entrare si pagano due dollari. Musica da juke-box. Clientela da vomito. Perdio!
L'albergo ha sei piani e di solito prendo l'ascensore. Perché mai dare la scalata a quelle sudice canne fumarie o salire scala dopo scala quando posso coprire con un balzo il dislivello di un solo centimetro tra pavimento e cabina e rintanarmi al sicuro in un angolo dietro l'uomo dell'ascensore? Riconosci i vari piani dall'odore. Quinto piano, ovvero odore di disinfettante da quando, più di un anno fa, ci fu una sparatoria con spargimento di sangue e budella in quantità proprio davanti all'ascensore. Il secondo piano si fregia di un tappeto consunto, così ha odore di polvere mescolato a un vago odore di urina. Il terzo piani puzza di crauti (qualcuno deve averne rovesciato un vasetto sul pavimento di piastrelle) e così via. Se voglio scendere al terzo, per esempio, e l'ascensore non si ferma, non faccio che aspettare il viaggio successivo e prima o poi ci riesco.
Mi trovavo all'Hotel Duke quando arrivarono le schede per il censimento degli USA nel 1970. Che spasso. Ognuno ricevette una scheda, e tutti ridevano. Tanto per cominciare la maggior parte della gente qui non ha casa e il censimento chiedeva: "Di quante stanze è composta la vostra casa?" e: "Quanti bagni avete?" e: "Quanti bambini?" e così via. E quanti anni ha vostra moglie? La gente crede che gli scarafaggi non capiscano l'inglese o qualsiasi altro linguaggio si parli dalle loro parti. La gente crede che gli scarafaggi capiscano soltanto una luce che si accende all'improvviso, che significa: "Fila via!" 
Ma quando si è in un posto da tanto tempo quanto noi, e cioè molto prima che arrivasse il Mayflower, la parlata corrente non è più un mistero. Così ebbi modo di godermi più di un commento sul censimento degli USA, cui nessuno degli stronzi del Duke si dava la pena di rispondere. Mi divertiva l'idea di poter rispondere io,  - e perché no? Vantavo più generazioni di residenti di qualsiasi altra bestia umana nell'albergo. Sono uno scarafaggio (non dico con questo di essere Kafka sotto mentite spoglie), e non conosco l'età di mia moglie e, se per quello, non so neppure quanti mogli ho. Una settimana fa ne avevo sette, tanto per dire, ma quante di loro sono state schiacciate? Quanto ai figli, sono al di là di ogni possibile calcolo, una considerazione che ho sentito fare con un certo orgoglio anche dai miei vicini a due zampe, ma se volessimo contarli davvero, se è il numero che vogliono (più sono, meglio è, immagino) scommetto che vincerei io. Soltanto la scorsa settimana mi ricordo due capsule di uova che stavano per essere depositate da due mie mogli al terzo piano (quello dei crauti). Mio Dio, andavo talmente di fretta, ero a caccia - mi vergogno a dirlo - di cibo, di cui avevo sentito l'odore e che poteva essere distante un centinaio di metri. Patatine al sapore di formaggio, pensai. Mi spiace dire addio alle mie mogli così in fretta, ma i miei bisogni erano forse grandi quanto i loro, e che ne sarebbe di loro, o piuttosto della nostra razza, se non pensassi a tenermi in forze? Un momento dopo vidi una terza moglie schiacciata sotto uno stivale da cowboy (gli hippies di qui adottano lo stile western anche se sono di Brooklyn), quanto meno non stava deponendo un uovo in quel momento, se ne andava di fretta, come me, in direzione opposta. Addio piccola! ma, ahimè, non sono neppure sicuro che mi abbia visto. Forse non rivedrò più le mie mogli partorienti, quelle due, mentre è possibile che abbia visto qualcuno dei miei figli prima di lasciare il Duke. Chi può saperlo?
Quando vedo certa gente qui, mi ritengo fortunato di essere uno scarafaggio. Quanto meno sono più sano, e nel mio piccolo elimino i rifiuti. Ed eccomi arrivato al punto. In passato c'erano rifiuti sotto forma di briciole di pane, qualche tartina avanzata da un festino a base di champagne in camera. L'attuale clientela dell'Hotel Duke non mangia. O si drogano o si sbronzano. Ho sentito solo parlare dei bei tempi andati dai miei bis-bis-bis-nonni. Ma ci credo. Raccontano che potevano saltare in una scarpa, per esempio, fuori della porta, ed essere portati in camera da un cameriere con il vassoio alle otto del mattino, e fare così colazione con le briciole dei croissants. Sono finiti anche i giorni in cui si lustravano le scarpe, perché di questi tempi se qualcuno si arrischia a mettere le scarpe fuori della porta, non solo non le trova pulite, ma non le trova del tutto. Al giorno d'oggi tutto quello che si può sperare è che questi orridi capelloni vestiti di pelle di daino a frange,  e le loro donne trasparenti, facciano un bagno di tanto in tanto, e mi lascino da bere qualche goccia d'acqua nella vasca. E' pericoloso bere dal gabinetto e alla mia età non me la sento più.
Ma adesso voglio parlare della fortuna che mi è appena capitata. Ne avevo viste delle belle la settimana prima, con un'altra giovane moglie schiacciata sotto i miei occhi da un passo falso (si teneva fuori del passaggio, ricordo), e la follia di quella intera stanza di avanzi da leccare - proprio così - cibo servito sul pavimento come per uno strano gioco. Giovani uomini e donne, nudi, che fingevano di essere senza mani per qualche pazzesca ragione, e cercavano di mangiare i loro sandwiches come dei cani, disseminandoli sul pavimento e poi contorcendosi per la stanza tra salami, sottaceti e maionese. C'era cibo in quantità questa volta, ma era rischioso lanciarsi in mezzo a quei corpi rotolanti. Peggio dei piedi. Ma la vista dei sandwiches era irresistibile. Non c'è più ristorante. Metà delle camere dell'Hotel Duke sono "appartamenti", in altre parole sono dotate di un frigorifero e di un fornellino. Ma per lo più, tutto quello che la gente tiene di scorta è qualche lattina di succo di pomodoro per il Bloody Mary. Non friggono neppure un uovo. Tanto per cominciare, l'albergo non fornisce casseruole, tegami, apriscatole e neppure un coltello o una forchetta: glieli ruberebbero subito. E nessuno di quei bei tipi si sogna di uscire a comperare una pentola per scaldarci la minestra. Così gli avanzi sono ben poca cosa. E dei "servizi" dell'albergo questo non è certo il peggio. La maggior parte delle finestre non chiudono bene, i letti sembrano delle amache piene di protuberanze, le sedie hanno le giunture che non tengono e le cosiddette poltrone, forse una per camera, ti possono sparare da un momento all'altro una molla nelle parti basse. I lavabi sono spesso otturati, e nei gabinetti l'acqua o manca del tutto, oppure continua a scorrere furiosamente. E i furti! Alcuni li ho visti con i miei occhi. Una cameriera fornisce il passepartout e qualcuno entra, fuggendo poi con il contenuto delle valigie sotto il braccio, nelle tasche, o in una federa, come fosse biancheria sporca. 
In ogni caso, circa una settimana fa, mi trovavo al Duke in una camera temporaneamente libera, alla ricerca di qualche briciola o di un po' d'acqua, quando entrò un fattorino negro con una valigia che sapeva di cuoio. Lo seguiva un distinto signore che profumava di lozione dopobarba, oltre che di tabacco naturalmente, è ovvio. Disfece i bagagli, posò alcune carte su uno scrittoio, aprì il rubinetto dell'acqua calda, e borbottò qualcosa tra sé, fece scorrere l'acqua nel gabinetto, controllò la doccia che schizzò dappertutto sul pavimento, quindi chiamò la direzione. Riuscivo a capire gran parte di quello che diceva. In sostanza stava dicendo che per il prezzo che pagava per notte questo e quello potevano essere meglio, e non era possibile magari cambiare stanza?
Mi rimpiattai nel mio angolino, affamato, assetato, ma incuriosito, sapendo anche che sarei stato schiacciato da quello stesso distinto signore se avessi fatto tanto di comparire sul tappeto. Sapevo perfettamente che sarei entrato nella lista dei reclami se mi avesse visto. La vecchia portafinestra si spalancò (era una giornata ventosa) e le carte si sparpagliarono ai quattro angoli. Dovette richiudere la finestra spingendoci contro lo schienale di una sedia, quindi raccolse le carte imprecando.
"Washington Square! Henry James si rivolterebbe nella tomba!"
Ricordo queste parole pronunciate mentre si picchiava la fronte come per scacciare una zanzara.
Un fattorino in un'assurda, logora, livrea della casa, picchiò e armeggiò attorno alla finestra senza nessun risultato. La finestra spifferava aria fredda, faceva un terrificante baccano e qualsiasi cosa, perfino un pacchetto di sigarette doveva essere ancorato, altrimenti veniva spazzato via. Il fattorino, guardando la doccia, riuscì a bagnarsi, poi disse che avrebbe chiamato il "tecnico". Il "tecnico" all'Hotel Duke è un capitolo a parte che non voglio neppure affrontare. Quel giorno non si presentò, immagino perché il fattorino aveva fatto la sua ultima brutta figura, e il signore prese il telefono e disse:
"Può mandare qualcuno di sobrio, se possibile, per portare giù la mia valigia?... Oh tenga pure i soldi, pago il conto e me ne vado. E mi chiami un taxi, per favore."
E fu a questo punto che presi la la mia decisione. Mentre il signore faceva i bagagli dissi addio mentalmente a tutte le mie mogli, fratelli, sorelle, cugini, figli e nipoti e bisnipoti e salii a bordo della bella valigia che sapeva di cuoio. Mi infilai in una tasca nel coperchio e mi rintanai tra le pieghe di una borsa di plastica fragrante di sapone da barba e lozione, dove non avrei potuto essere schiacciato neppure quando si fosse chiuso il coperchio.
Mezz'ora dopo mi ritrovai in una stanza più accogliente dove il tappeto era folto e non puzzava di polvere. Il signore fa colazione a letto alle sette e trenta del mattino. In corridoio trovo ogni bendidio nei vassoi lasciati sul pavimento davanti alle porte; perfino avanzi di uova strapazzate e naturalmente marmellata e riccioli di burro in quantità. L'ho scampata bella ieri quando un cameriere in giacca bianca mi ha inseguito per trenta metri giù nella hall pestando con entrambi i piedi, ma mancandomi ogni volta. Sono svelto, io, e la vita all'Hotel Duke me ne ha insegnate di cose!
Ho già ispezionato la cucina, andando su e giù, in ascensore naturalmente. Una quantità di rifiuti in cucina, ma sfortunatamente disinfettano una volta alla settimana. Ho incontrato quattro possibili mogli tutte malaticce per i vapori, ma decise a rimanere in cucina. Quanto a me, ho scelto di stare di sopra. Non ho rivali, e tutti quei vassoi delle colazioni, e qualche volta gli spuntini di mezzanotte. Forse sono diventato un vecchio scapolo, ma ancora abbastanza energia in corpo nel caso dovesse presentarsi una possibile moglie. Nel frattempo mi considero di gran lunga superiore a quei bipedi dell'Hotel Duke che ho visto mangiare roba che io non oserei toccare, o menzionare. Lo fanno per scommessa. Scommessa! La vita è un gioco, no? Che bisogno c'è di scommettere?

(Patricia Highsmith, Delitti bestiali. Sonzogno, 1984)