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giovedì 31 marzo 2016

La Buona Annata's Literary Supplement: Olio di cane

Mi chiamo Boffer Bings. Sono nato da onesti genitori appartenenti alle più umili condizioni, essendo mio padre produttore di olio di cane e avendo mia madre un piccolo laboratorio all'ombra della chiesa del villaggio, dove svolgeva le operazioni necessarie all'eliminazione di quei neonati ritenuti poco desiderabili. Fin da ragazzo mi avevano insegnato a sapermi ingegnare: non soltanto aiutavo mio padre a procacciarsi i cani per le sue tinozze, ma spesso prestavo servizio anche per mia madre provvedendo all'asporto di quei residui del suo lavoro che rimanevano nello studio. Adempiendo a quest'incarico ogni tanto mi trovavo costretto a sfruttare ogni oncia della mia naturale intelligenza in vista del fatto che tutti i locali agenti della legge erano contrari all'attività di mia madre. Essi non venivano eletti in seguito a votazione popolare, e la faccenda quindi non aveva mai costituito un problema politico; si faceva così e basta. 
L'attività di mio padre, la produzione dell'olio, suscitava naturalmente meno risentimento, quantunque i proprietari dei cani che scomparivano lo guardassero a volte con sospetto, il quale sospetto veniva riflesso, in certa misura, su di me. Mio padre aveva, quali taciti soci nei suoi affari, tutti i medici della città, e questi di rado scrivevano una ricetta che non prescrivesse ciò che si compiacevano di designare Ol.can. E' veramente la medicina più preziosa che sia mai stata scoperta. La maggioranze dalle persone, però, non è disposta a sacrificarsi personalmente per gli afflitti, ed era evidente che a molti dei cani più grassi della città fosse stato proibito di giocare con me - un fatto che feriva la mia giovane sensibilità e che, a un determinato momento, poco ci mancò non mi spingesse alla pirateria.
Ripensando a quei giorni non posso che rammaricarmi, a volte, che nel condurre involontariamente i miei genitori alla morte io fui anche il fautore di sventure che ebbero profonda ripercussione sul mio futuro.
Una sera, passando davanti alla fabbrica d'olio di mio padre con in braccio il corpicino di un trovatello prelevato dallo studio di mia madre, scorsi una guardia che sembrava osservare con grande attenzione i miei movimenti. Ragazzetto com'ero, avevo ugualmente imparato che gli atti di una guardia. qualunque sia la loro apparente natura, sono sempre suggeriti da motivi reprensibili, e quindi la elusi sgattaiolando dentro la fabbrica attraverso una porta laterale che era rimasta semiaperta. La richiusi immediatamente e mi trovai solo col mio morto. Mio padre a quell'ora ormai se n'era andato. L'unica luce veniva dalla fornace che risplendeva di un cremisi vivo, profondo, sotto una delle marmitte, riverberando foschi riflessi sulle pareti. Dentro il calderone l'olio continuava a rimuginarsi in indolente ebollizione e ogni tanto portava alla superficie un pezzo di cane. Essendomi seduto ad aspettare che la guardia se ne andasse, tenevo sulle ginocchia il corpicino nudo del trovatello e gli carezzavo dolcemente i capellucci, corti, di seta. Ah com'era bello! Persino a quella tenera età avevo una gran passione per i bambini, e mentre guardavo quel cherubino, in fondo al cuore sentivo quasi il desiderio che quella piccola ferita rotonda sul suo petto - opera di mia madre - non fosse stata mortale.
Fin allora era stata mia abitudine buttare i piccini nel fiume che la natura, appunto, aveva giudiziosamente fornito a tale scopo, ma quella sera non osai abbandonare la fabbrica per timore del poliziotto. "Dopo tutto," mi dissi, "che importanza può avere se lo metto in questo calderone? Mio padre non distinguerà mai le ossa sue da quelle di un cucciolo, e i due o tre decessi che si potrebbero verificare a causa della somministrazione di un altro genere di olio al posto dell'incomparabile Ol.can. non contano molto in una popolazione che aumenta con tanta rapidità." In breve, fu allora che mossi il primo passo verso il crimine e, col gettare il piccino nel calderone, mi attirai addosso indescrivibile dolore.
Il giorno dopo, con qualche meraviglia da parte mia, il babbo, fregandosi le mani con soddisfazione, comunicò alla mamma e a me che era riuscito a produrre la migliore qualità di olio che fosse mai esistita; che i medici stessi a cui ne aveva sottoposto alcuni esemplari l'avevano pronunciata tale. Aggiunse che non aveva assolutamente idea di come avesse raggiunto quel risultato; i cani erano stati trattati come al solito sotto tutti i riguardi, e appartenevano a razze comuni. Ritenni fosse mio dovere spiegare com'erano andate le cose - e quindi lo feci senz'altro, benché, se avessi potuto prevederne le conseguenze, la mia lingua si sarebbe paralizzata. Deplorando la loro precedente ignoranza circa i vantaggi insiti nella possibilità di combinare le loro rispettive industrie, i miei genitori presero immediatamente le misure necessarie per riparare a quell'errore. Mia madre trasferì il suo studio in un'ala della fabbrica, e le mie mansioni relative alla sua attività cessarono; non dovevo più eliminare i corpi dei piccoli superflui, e non c'era alcun bisogno di adescare i cani verso il proprio destino dato che mio padre li scartò completamente, anche se le bestiole mantenevano ancora un onorevole posto nel nome dell'Olio. Di conseguenza, gettato così improvvisamente nell'ozio, avrei potuto naturalmente diventare un ragazzo vizioso e dissoluto; invece no. La santa influenza di mia madre mi era sempre accanto per proteggermi dalle tentazioni che assalgono la gioventù; mio padre, poi, era decano in una delle chiese della città. Ohimè, perché mai due persone così stimabili, per colpa mia, son dovute finire così miseramente!
Vedendo che ora i suoi affari le fruttavano il doppio, mia madre ci si dedicò con novella assiduità. Non soltanto eliminava i piccini poco graditi e superflui su ordinazione, ma andava anche per le strade, di qua e di là, a raccogliere bambini più grandi, e addirittura gli adulti, quelli almeno che riusciva ad attirare nella fabbrica d'olio. Anche mio padre, innamorato della qualità superiore di olio che riusciva a produrre, faceva provvigioni per le sue latte con zelo e diligenza. La conversione del prossimo loro in olio di cane divenne, insomma, l'unica passione della loro vita - un'avidità travolgente ed entusiasmante s'impossessò delle loro anime e sostituì, per loro, la speranza nel Paradiso - da cui, anche, essi erano ispirati.
Erano diventati così intraprendenti che si tenne una riunione pubblica in cui vennero prese alcune risoluzioni che li censuravano severamente. Il presidente fece loro capire che qualsiasi altra incursione sulla popolazione locale sarebbe stata giudicata con spirito di ostilità. I miei poveri genitori abbandonarono l'aula della riunione affranti, disperati e, penso, leggermente squilibrati. In tutti i modi io, quella sera, stimai prudente non entrare con loro in fabbrica, e dormii perciò fuori, in una stalla.
Intorno a mezzanotte un qualche misterioso impulso mi spinse ad alzarmi e ad andare a curiosare attraverso una finestra nella stanza della fornace dove sapevo che ora dormiva mio padre. Il fuoco bruciava con una tale alacrità che faceva prevedere un raccolto abbondante per il giorno seguente. Uno dei calderoni più grandi stava "borbottando" lentamente con un'aria misteriosa di riserbo, come se segnasse il tempo in attesa di esibire tutta la sua energia. Mio padre non era a letto; s'era alzato e, in camicia da notte, stava preparando un cappio all'estremità di una grossa corda. Dagli sguardi che lanciava verso la porta della camera da letto di mia madre capivo anche troppo bene cosa aveva in mente di fare. Muto e immobile dal terrore non potevo far nulla né per prevenire né per impedire. Improvvisamente la porta dell'appartamento di mia madre si aprì pian piano, e i due si trovarono una di fronte all'altro, entrambi sorpresi, a quanto pareva. Anche la signora era in camicia da notte e, nella mano destra, brandiva l'arnese del suo mestiere, un lungo stiletto dalla lama sottile.
Anche lei era stata incapace di rinunciare all'ultima occasione di profitto che l'azione ostile dei cittadini e la mia assenza le avevano lasciato. Per un istante si guardarono negli occhi fiammeggianti, quindi balzarono l'uno sull'altra con indescrivibile furia. Lottarono e lottarono girando la stanza tutto attorno, lui imprecando, lei urlando, tutti e due combattendo come demoni - lei nel tentativo di colpirlo con lo stiletto, lui in quello di strangolarla con le sue manone nude. Non so per quanto tempo ebbi la sventura di assistere a questo sgradevole esempio di infelicità domestica, infine però, dopo uno sforzo più accanito degli altri, i due combattenti improvvisamente si divisero.
Il torace di mio padre e l'arma di mia madre rivelavano segni evidenti di contatto. Per un altro istante i due si fissarono nel modo meno amabile possibile; poi il mio povero babbo, ferito, sentendosi la mano della morte addosso, balzò in avanti, e, incurante della resistenza di lei, agguantò la mia cara mamma, la trascinò accanto al calderone in ebollizione, raccolse tutte le forze che stavano ormai per abbandonarlo, e saltò dentro con lei! Dopo un attimo erano entrambi scomparsi e aggiungevano il proprio olio a quello del comitato di cittadini presentatosi il giorno avanti per portar loro l'invito a comparire di fronte alla pubblica assemblea.
Convinto che tali infelici eventi mi precludessero qualunque strada verso una carriera rispettabile in quella città, mi trasferii nella famosa città di Otumwee, dove scrivo queste memorie con il cuore colmo di rimorso per un'azione sventata che culminò in un così desolante disastro commerciale.

(Ambrose Bierce, Racconti neri. Garzanti, 1974)









venerdì 5 settembre 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Un cittadino di Carcosa

Perché esistono diverse specie di morte: alcuni conservano il corpo, e di altri il corpo svanisce insieme allo spirito, ma questo di solito accade in solitudine (tale è il volere di Dio) e, non vedendo la sua fine, noi diciamo che l'uomo è morto o partito per un lungo viaggio - come infatti avviene. In una specie di morte, anche lo spirito muore, e questo può accedere pur rimanendo per molti anni il corpo vigoroso. Talora, come è testimoniato veridicamente, lo spirito muore insieme al corpo, ma dopo un certo tempo rivive nel luogo ove il corpo si è putrefatto. Hali



Stavo meditando le parole di Hali (che Dio gli dia pace) per penetrarne appieno il significato, come chi, cogliendo un'allusione, si domanda se dietro le parole non ci sia qualcosa d'altro, e non feci caso al luogo in cui mi ero smarrito. Finché un improvviso alito di vento freddo non risuscitò in me il senso di ciò che mi circondava. Con stupore osservai che nulla mi era familiare. Ai miei lati si stendevano campi desolati, fitti di alti arbusti secchi che frusciavano e stridevano nel vento autunnale, evocando suggestioni Dio sa quanto misteriose e inquietanti. In alto, a breve distanza l'uno dall'altro, si ergevano picchi cupi, che parevano aver stretto tra loro un'intesa e si scambiavano sguardi di dubbio significato, quasi levassero il capo a sorvegliare l'adempimento di un evento da lungo tempo previsto. Pochi alberi morti apparivano qua e là in quella malevola cospirazione di tacita attesa.
La giornata doveva essere vicino a concludersi. Sebbene sentissi l'aria fredda e cruda, la mia coscienza di questo fatto era più mentale che visiva; non provavo alcun senso di disagio. Su tutta la scena gravava un ammasso di nuvole basse, plumbee, come una visibile maledizione. C'era nell'aria una minaccia, il presagio di un prodigio, un che di malefico, un'allusione ad una sorte avversa. Non si vedevano uccelli, né animali, né insetti. Il vento sospirava tra i nudi rami degli alberi spogli, e l'erba verde si piegava a sospirare il suo terrificante segreto alla terra, ma nessun altro suono o movimento rompeva la spaventosa pace di quel luogo desolato. 
Osservai tra l'erba numerose pietre consumate dal tempo, palesemente tagliate con arnesi maneggiati da mano umana. Spezzate, coperte di muschio, mezzo interrate; qualcuna a terra, altre inclinate ad angolazioni diverse, nessuna verticale. Erano ovviamente pietre tombali, sebbene le tombe da lungo tempo non esistessero più, nemmeno come tumuli o depressioni del terreno: gli anni avevano tutto livellato. Sparsi qua e là, dei blocchi più massicci indicavano dove tombe pompose e ambiziosi monumenti funerari erano stati un giorno eretti, a sfida dell'oblio. Così antichi apparivano quei relitti, quei vestigi della vanità umana, quei segni di affetto e di pietà, così rovinati, macchiati, disfatti, così negletto, deserto, abbandonato il luogo che non potei fare a meno di immaginarmi nelle vesti di uno che scopre casualmente un cimitero dove è sepolta una razza d'uomini preistorici, il cui nome è da secoli estinto. 
Assorto in meditazione, per un po' dimenticai me stesso e i miei casi personali. Poi mi chiesi: "Come sono capitato qui?". Bastò un attimo di riflessione per rendermi tutto chiaro, e anche per spiegare, se pure in maniera inquietante, il singolare carattere di cui la mia fantasia rivestiva ciò che vedevo e sentivo. Io ero ammalato.
Adesso ricordavo di essere stato prostrato da una subitanea febbre. I miei familiari mi avevano raccontato come nel delirio gridassi senza sosta, chiedendo aria e libertà. Avevano dovuto legarmi al letto per impedirmi di fuggire all'aperto.  E adesso, eludendo la vigilanza di chi mi assisteva, ero riuscito ad evadere ed ero qui! Qui, dove? Non potevo nemmeno immaginarlo, privo come ero di punti di riferimento. Chiaramente, mi trovavo a notevole distanza dalla città dove abitavo, l'antica e famosa città di Carcosa. 
Non c'era intorno a me segno di vita umana, né visibilmente né auditivamente; non si levava fumo nell'aria, né abbaiavano cani, né belavano pecore, né bambini gridavano, intenti ai loro giuochi. Nulla, se non quel vecchio cimitero in rovina, con la sua aria di mistero e di incubo, dovuta certo alla mia mente turbata. Stavo delirando di nuovo, in  un posto sconosciuto, senza possibilità di aiuto? O tutto era un'illusione della mia follia, un'allucinazione? Chiamai per nome le mie mogli e i miei figli, allungai le mani in cerca delle loro, pur continuando a camminare tra tombe fatiscenti ed erba secca.
Un rumore alle mie spalle mi fece voltare. Un animale selvatico, una lince, si stava approssimando... Pensai;:"Se fuggo nel deserto, se mi torna la febbre e cado al suolo, quella bestia mi azzanna, mi divora...". Così preferii andarle incontro, gridando nella speranza di spaventarla in maniera che fosse lei a fuggire. Ma la lince trotterellò tranquilla sino a giungere a pochi passi da me, poi girò a sinistra e scomparve dietro una roccia.
Pochi minuti dopo la testa di un uomo spuntò dalla terra, non lontano dal punto in cui mi trovavo. Stava risalendo il pendio di una bassa collina la cui cresta si distingueva appena dalle ondulazioni naturali del terreno. L'uomo era mezzo nudo, i capelli arruffati, la barba lunga e incolta. Portava in una mano un arco e una freccia, e con l'altra reggeva una torcia accesa che si lasciava dietro una lunga scia di fumo nero. Camminava piano, con prudenza, come se temesse di cadere in qualche tomba aperta e nascosta tra l'erba. Questa bizzarra apparizione mi sorprese senza allarmarmi, tanto che, avvicinatomi, rivolsi all'uomo il saluto abituale: "Dio vi guardi!".
Non rispose né si fermò. Io dissi: "Sto male e mi sono perduto. Vi prego d'indicarmi la strada per Carcosa".
Invece di rispondere, l'uomo prese a cantare una specie di inno barbarico in una lingua sconosciuta, continuando a camminare, e dopo pochi minuti scomparve.
Sul ramo secco di un albero morto, una civetta emise il suo lugubre verso, e lontano un'altra civetta rispose. Alzando gli occhi, vidi uno squarcio di improvviso sereno tra le nuvole; in quel lembo azzurro, Aldebaran e le Pleiadi brillavano come diamanti! In tutto il paesaggio dominava un presagio notturno; la lince, l'uomo con la torcia accesa, la civetta... Eppure... Vedevo le stelle splendere nel cielo azzurro! Vedevo, ma apparentemente non ero visto né udito. Nelle maglie di quale sortilegio ero rimasto impigliato?
Sedetti ai piedi di un grande albero per riflettere con calma a ciò che più mi conveniva fare. Che fossi pazzo, non potevo ormai dubitare, ma nella mia convinzione sussisteva un'ombra di incertezza. La febbre era caduta, provavo anzi una sensazione di euforia e di vigore finora a me ignota; una esaltazione mentale e fisica. I miei sensi erano vigili; sentivo lo spessore dell'aria, percepivo il silenzio. 
Una grossa radice dell'albero a cui mi appoggiavo racchiudeva nelle sue volute una lastra di pietra rettangolare, e la parte inferiore di questa lastra (inferiore o superiore, come dirlo?) si protendeva in una cavità formata da un'altra radice. La pietra era così parzialmente protetta dalle intemperie, sebbene apparisse assai malridotta. Gli angli smussati, i bordi consunti, la superficie scavata. Quella lastra evidentemente ricopriva la tomba su cui l'albero era poi cresciuto. Le prepotenti radici avevano derubato la tomba, facendone prigioniera la pietra.
Di colpo, il vento fece volar via foglie secche e ramoscelli che si erano accumulati sulla lastra, ed io vidi le lettere in bassorilievo di una iscrizione. Mi chinai a leggerle. Dio del cielo! Il mio nome e cognome, la data della mia nascita, la data della mia morte!
Mentre scattavo in piedi, terrorizzato, un raggio di luce illuminò il tronco dell'albero, dal mio lato. Dall'oriente rosato stava sorgendo il sole. Io ero in piedi tra l'albero e il grande disco di fuoco, ma nessuna ombra si proiettava sul tronco.
Un coro di lupi ululanti salutava l'alba. Li vidi isolati o in gruppi, seduti sui posteriori in vetta alle piccole irregolari alture e tumuli che popolavano il deserto, sino alla linea dell'orizzonte.
E improvvisamente seppi che quelle alture, quei tumuli erano le rovine dell'antica e famosa città di Carcosa.

Questi sono i fatti rivelati al medium Bayrolles dallo spirito di Hoseib Alar Robardin. 

(Ambrose Bierce, Una cosa infernale. Del Bosco, 1972)