martedì 25 marzo 2014

Un mondo eliocentrico

Di anno in anno Sonny cambiava nome all'Arkestra, a volte persino da un concerto all'altro, adattandolo allo spirito dell'occasione e alle sensazioni che desiderava esprimere. Messi in fila, alcuni di questi nomi formano una sorta di poesia concreta: Cosmic Space Jazz Group, Myth Science Arkestra, Solar Arkestra, Solar Myth Arkestra, Intergalactic Arkestra, Intergalactic Research Arkestra, Power of Astro-Infinity Arkestra, Solar-Hieroglyphics Arkestra, Nature-Immortality Arkestra, Solar-Science Arkestra, Solar-Nature Arkestra, Humanitarian Arkestra, Transmolecular Arkestra, American-Spirit Arkestra, Blue Universe Arkestra, Intergalactic Cosmo Arkestra, Cosmo Drama Arkestra, Cosmo Discipline Arkestra, Cosmo Jet Set Arkestra, Omniverse Arkestra, Outer Space Arkestra, Cosmic Stellar Arkestra, Disney Odissey Arkestra, Spaceage Jet-set Arkestra, Atlantis Odissey Arkestra, Astro-Solar Arkestra, Solar-Infinity Space Arkestra, 21st Century Echoes Arkestra, Intergalactic Infinity Arkestra, Intergalactic Astro-Solar Infinity Arkestra, Intergalactic Splendors of Love Arkestra, Outer-galactic Discipline Arkestra, Year 2000 Myth Science Arkestra, Astro Intergalactic Infinity Arkestra, Transgalactic Astro Infinity Arkestra, Omniverse Ultra 21st Century Arkestra, Intergalactic Myth-Science Solar Arkestra, Alter Destiny 21st Century Omniverse Arkestra, Astro Infinity Micro-Ensemble Unit, Love Adventure Arkestra, All-Star Inventions, All-Star Originals Arkestra, Chicago Reminiscence Arkestra...
Una volta un giornalista gli domandò come mai avesse appena modificato il nome del gruppo in Intergalactic Arkestra.
E' la dimensione in cui mi trovo al momento. Fra sei mesi potrei trasformarmi in qualcos'altro. Dipende tutto da ciò che scrivo e ciò che penso. Intergalactic si riferisce alle cose esterne alla nostra galassia. Si riferisce all'unità di tutte le galassie. E' incommensurabile, e proprio per questo eterna. Tempo fa dicevo di essere "interplanetario"; anche quello aveva un suo stile, ma non era incommensurabile né eterno.





Fate In A Pleasant Mood
[Live at Praxis '84]
Hocus Pocus
[Live at the Hackney Empire]
Dawn
[The Sun Ra Arkestra Meets Salah Ragab in Egypt]
Second Star To The Right
[Second Star To The Right]
Discipline 27
[Live at Praxis '84]
A Quiet Place In The Universe
[A Quiet Place In The Universe]
Space Is The Place / We Travel The Spaceways / Second Stop Is Jupiter / Outer Spaceways Incorporated
[Live at Praxis '84]
Yeah Man
[Live at the Hackney Empire]
String Singhs / Discipline 27-ii / I'll Wait For You
[Live at the Hackney Empire]



A volte invece i musicisti non conoscevano nemmeno i titoli, e i dischi uscivano con l'etichetta nera, senza i nomi dei brani: era la musica che Sonny chiamava "primitiva, naturale e pura". Altre volte lo stesso titolo veniva assegnato a due pezzi completamente diversi, come Reflections in Blue (1956 e 1986), Hours After (1958 e 1986) e The Others in Their World (1960 e fine anni Settanta). Un terzo gruppo di composizioni prendeva il titolo dalle date in cui venivano scritte, a volte più di una al giorno, come December 16, 1984A e December 16, 1984B. Nei suoi taccuini c'era persino una serie intitolata No Name #1, No Name #2 e via dicendo.
La stragrande maggioranza dei titoli, tuttavia, era programmatica nel senso più sfarzoso del termine, e le composizioni che alludevano all'Egitto, all'Africa e al mondo antico esprimevano un desiderio di fuga esotica (come Duke Ellington nella sua fase jungle): Africa, Aiethopia, Along the Tiber, Ancient Aiethopia, Ankh, Ankhnaton, Atlantis, Bimini, Dawn Over Israel, Egyptian Fantasy, The Nile, Nubia, Pharaoh's Den, Pre-Egyptian March, Pyramids, Solar Boats, Starship and Solar Boats, Sunset on the Nile, Tiny Pyramids e così via. Quindi arrivò la fase esotico-futurista: c'era la serie sul cosmo (Cosmic Chaos, The Cosmic Explorer, Cosmic Forces, Cosmic of Africa, Cosmo Approach Prelude, Cosmo Dance, Cosmo Energy), la serie sui pianeti (Blues on Planet Mars, Earth Primitive Earth, Jazz from an Unknown Planet, Jupiter Festival, Neptune, Next Stop Mars, On Jupiter), sul sole (Children of the Sun, Dancing in the Sun, Face the Sun, For the Sunrise, The Sun Myth, Sun Procession, Sun Song), sullo spazio (Celestial Love, Celestial Realms, Celestial Roads, Cluster of Galaxies, Distant Stars, Friendly Galaxy), sui viaggi spaziali (As Spaceships Approach, Cosmonaut-Astronaut Rendezvous, Journey Among the Stars, Journey Outward, Journey Stars Beyond, Journey through the Outer Darkness) e sul futuro (Future, Music from the World Tomorrow, New Horizons, Where is Tomorrow). In una fase precedente aveva portato il suo pubblico in quello che Amiri Baraka chiamava passato spirituale; ora cercava di portarli in un futuro spirituale.

(John F. Szwed, Space is the Place. Minimum fax, 2013)





Recorded November 1991 at the Village Vanguard, NY

'Round Midnight (Thelonious Monk)
SUN RA Blues (SUN RA)
Autumn in New York (Vernon Duke)
'S Wonderful (Ira Gershwin, George Gershwin)
Theme of the Stargazers (SUN RA)


SUN RA - Synthesizer
Chris Anderson - Piano
John Gilmore - Tenor Saxophone
John Ore - Bass
Earl C. "Buster" Smith - Drums
Bruce Edwards - Guitar




lunedì 17 marzo 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Terra degli uomini

Noi siamo abitatori d'un pianeta errante. Grazie all'aereo, il pianeta ci lascia vedere di quando in quando la sua origine: i rapporti di uno stagno con la luna rivelano parentele nascoste - ma ne ho avuto altri indizi. 
Di tratto in tratto, lungo la costa del Sahara tra Cap Juby e Cisneros, si sorvolano altipiani di forma tronco-conica, d'una larghezza che varia da poche centinaia di passi a una trentina di chilometri. L'altezza, notevolmente uniforme, è di trecento metri. Ma oltre a questa parità di livello, essi presentano le stesse colorazioni, la stessa grana del suolo, la stessa sagomatura del dirupo. Come le colonne di un tempio rimaste sole in piedi e affioranti sulle sabbie mostrano ancora le vestigia dell'intavolato crollato, così quei pilastri solitari sono la testimonianza d'un vasto altipiano che un tempo li univa.
Durante i primi anni della linea Casablanca-Dakar, in un'epoca in cui il materiale era fragile, i guasti, le ricerche, i salvataggi, ci costrinsero spesso ad atterrare in territorio ribelle. Ora, la sabbia inganna: si crede che sia solida, e si affonda. Dal canto loro, le saline abbandonate, che sembrano provviste d'una rigidità d'asfalto e che danno un suono duro sotto il tacco, talvolta cedono sotto il peso delle ruote, e allora la bianca crosta di sale si squarcia sul fetore di una palude nera. Perciò, quando le circostanze lo consentivano, noi sceglievamo le superfici lisce di quei pianori: non nascondevano mai insidie.
Questa garanzia derivava dalla presenza di una rena resistente, dai granelli di sabbia pesanti. Era un cumulo enorme di conchiglie minuscole. Ancora intatte alla superficie del pianoro, a mano a mano che si scendeva lungo un canalone si scopriva ch'esse si sminuzzavano ed agglomeravano sempre più. Nel deposito più antico, alla base del massiccio, costituivano già un puro calcare.
Ora, al tempo in cui Reine e Serre, compagni catturati dai ribelli, erano prigionieri, accadde che, avendo atterrato sopra uno di quei campi di fortuna per scaricare un messaggero mauro, cercai insieme con lui, prima di lasciarlo, se c'era una via dalla quale potesse scendere. Ma la nostra terrazza, in tutte le direzioni, finiva in un dirupo che cadeva verticale nell'abisso, con pieghe da panneggio. Non vi era evasione possibile.
Tuttavia, prima di decollare per andare a cercare altrove un altro campo, indugiai qui. Provavo un piacere forse puerile per il fatto di lasciare l'orma dei miei passi su un suolo che ancora nessuno, né animale né uomo, aveva contaminato. Nessun mauro avrebbe potuto lanciarsi all'assalto di quella roccaforte. Nessun europeo aveva mai esplorato quel territorio. Misuravo col passo una sabbia infinitamente vergine. Ero il primo a fare scorrere da una mano all'altra, come oro prezioso, quella polvere di conchiglie. Il primo a turbare quel silenzio. Su quella specie di banchisa polare che, da un tempo immemorabile, non aveva formato un sol filo d'erba, io ero, come un seme portato dal vento, la prima testimonianza della vita.
Splendeva già una stella e la contemplai. Riflettei che quella superficie bianca era rimasta esposta solo agli astri da centinaia di migliaia di anni. Una tovaglia immacolata stesa sotto un cielo puro. E provai un tuffo al cuore, come alle soglie d'una rivelazione, nello scoprire su quella tovaglia, a quindici o venti metri da me, un ciottolo nero.
Io avevo sotto i piedi uno spessore di trecento metri di conchiglie. Lo strato enorme negava tutto intero, come una prova perentoria, la possibilità della presenza d'una pietra. Forse nelle profondità sotterranee dormivano delle selci, nate dalle lente digestioni del globo; ma qual miracolo avrebbe potuto farne risalire una fino a quella superficie troppo nuova? Col cuore che batteva, raccolsi dunque la mia scoperta: un ciottolo duro, nero, grosso come un pugno, pesante come metallo e colato a forma di lacrima.
Una tovaglia stesa sotto un melo non può ricevere che mele, una tovaglia stesa sotto le stelle non può ricevere che pulviscolo d'astri: mai un aerolito aveva indicato con altrettanta evidenza la propria origine.
Fu del tutto naturale che, nell'alzare il capo, io pensassi che altri frutti dovevano essere caduti, dall'alto del melo celeste. Li avrei trovati nel punto medesimo della loro caduta, poiché, da centinaia di migliaia di anni, nulla aveva potuto spostarli. E poiché non si confondevano affatto con altri materiali. Partii subito in esplorazione, per cercare conferma alla mia ipotesi.
Fu confermata. Feci collezione delle mie scoperte, al ritmo di circa una pietra per ettaro. Sempre quell'aspetto di lava intrisa. Sempre quella durezza di diamante nero. Così, dall'alto del mio pluviometro di stelle, assistetti in uno scorcio impressionante al lento scroscio di quella pioggia di fuoco.
Ma veramente meraviglioso era il fatto che là, in piedi sulla schiena rotonda del pianeta, tra quel lenzuolo calamitato e quelle stelle, ci fosse una coscienza d'uomo, in cui tale pioggia potesse rispecchiarsi. Su uno strato di minerali un sogno è un miracolo.

(Antoine de Saint-Exupéry, Terra degli uomini. Garzanti, 1974)




mercoledì 12 marzo 2014

The Great British Beat

Curate intorno alla metà degli anni Ottanta da Colin Swan e Geno Buckmaster, rispettivamente bassista e chitarrista dei Direct Hits, le quattro uscite di The Great British Beat rappresentano un fulgido esempio di DIY. Le spartane C60 incise su un solo lato, con le loro copertine in bianco e nero fotocopiate, presentano artisti noti, meno noti e pressoché sconosciuti che si muovono tra neopsichedelia, northern soul, estetica mod e Pop Art con un gusto e una passione che avrebbero meritato risorse meno esigue. In effetti alcuni brani uscirono poi anche su vinile, come accadde per i Mixers nella bellissima raccolta All for Art and Art for All uscita nel 1984 per la Whaam! Sempre l'etichetta di Dan Treacy pubblicò la doorsiana Dark Ages dei Marble Staircase sotto forma di retro del singolo Still Dreaming. Stay this Way e Party Time, con il loro retrogusto malinconico, trovarono posto nel primo album dei Mood Six, The Difference is..., edito dalla benemerita Psycho nel 1985. Poca cosa? Forse, ma a distanza di tanti anni sufficiente a riscaldarci il cuore. 
Dedichiamo questo post all'amico Fabrizio, autorevole esponente della scena mod italiana, che ci procurò a suo tempo queste cassette permettendoci di venire a conoscenza di tali piccole gemme.




THE GREAT BRITISH BEAT VOL. 1

THE NORTHWOODS, So Sad, I don't Feel Too Bad
MIDWICH CUCKOOS, Dancing with the Dead
THE ACTIVATION, Snakes and Ladders
TINA BUTLER AND THE EXPLOSION, Harden my Heart
PAGE BOYS, In Love with You
THE MIXERS, Never Find Time
THE MARBLE STAIRCASE, Dark Ages
DIRECT HITS, Daddy Rolling Stone
THE OPEN DOOR, Since I Lost my Baby



THE GREAT BRITISH BEAT VOL. 2

THE ACTIVATION, The Sweetest Things
GENO BUCKMASTER, The Time it Takes
THE HITTETTES, Fun at the Beach
RICKY AND THE TEENDREAMS, Red Light
TELEVISION PERSONALITIES, Bridgette Riley
MOOD SIX, Stay this Way
COLIN SWAN & TONY CONWAY, Back to the Day
THE BLUE INDRA, Leaving this Morning
MY EX-GIRLFRIEND, Sugartown



THE GREAT BRITISH BEAT VOL. 3

THE DIRECT HOUSE BAND, Higher and Higher
THE PAGE BOYS, Nothing to a Girl
PHIL WARD, A Little Bit Me, a Little Bit You
NEW FRIENDS OF CARLOTTA, Wolfman Everyday
JENNY BRETT, Stoned Love
MOOD SIX, Party Time
RICKY AND THE TEENDREAMS, As Long as I'm in Love with You
GUY MORLEY, I'm Caught



THE GREAT BRITISH BEAT VOL. 4

DIRECT HITS, I've got Eyes
PHIL WARD, Andrea
JENNY BRETT WITH THE NORTHWOODS, The Valley of the Broken Hearts
THE ACTIVATION, I Stand Accused
SHEILA LEWS TAKES A TRIP!, Johnny None (A Tale of the Ol' West)
THE NORTHWOODS, The Windows of the World
GENO BUCKMASTER, I Love the Rain
RICKY AND THE TEENDREAMS, Goin' Out of my Head
THE DIRECT HOUSE BAND, I'll Call You when my Phones put back on

LINKS
The Great British Beat Voll. 1 & 2
The Great British Beat Voll. 3 & 4 plus Artwork





sabato 1 marzo 2014

Sono un ribelle, ho l'urlo nella pelle

La paura è uno dei sintomi del nostro tempo. Tanto più essa suscita costernazione in quanto è succeduta a un'epoca di grande libertà individuale, in cui la stessa miseria, per esempio quella descritta da Dickens, era ormai quasi dimenticata. 
In che modo è avvenuto questo passaggio? Se volessimo scegliere una data fatidica, nessuna sarebbe più appropriata del giorno in cui affondò il Titanic. Qui luce e ombra entrano bruscamente in collisione: l'hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione, l'automatismo con la catastrofe che prende l'aspetto di un incidente stradale.
E' un fatto che i rapporti tra i progressi dell'automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l'uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo non occupa più nella società il posto che l'albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano. Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. Ma non appena si profilano all'orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non soltanto la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali hanno conservato la loro forza esercitino un'autorità assoluta.
I particolari sono noti e molti li hanno più volte descritti; fanno parte integrante della nostra esperienza più intima. Qui si potrebbe obiettare che in passato sono esistite epoche di terrore, di panico apocalittico, non orchestrate o accompagnate da questo carattere di automatismo. E' questa una questione sulla quale non intendiamo soffermarci giacché l'automatismo diventa terrificante soltanto se si rivela una delle forme della fatalità, di cui anzi è lo stile precipuo, come l'insuperabile raffigurazione che ne ha dato a suo tempo Hieronymus Bosch. Che il terrore dei moderni abbia delle caratteristiche particolari, o sia semplicemente lo stile che l'angoscia cosmica adotta oggi, in uno dei suoi perenni ritorni? Non vogliamo soffermarci su questa questione, ma piuttosto rispondere alla domanda speculare che è quella che davvero ci sta a cuore: è possibile attenuare il terrore mentre l'automatismo perdura, o, come è prevedibile, mentre esso si avvicina sempre più alla perfezione? Non sarebbe insomma possibile rimanere sulla nave e conservare la nostra autonomia di decisione - ossia non soltanto preservare, ma addirittura rafforzare le radici che ancora affondano nel suolo originario? E' questo il problema fondamentale della nostra esistenza. 
E' anche il problema che si nasconde dietro a ogni angoscia del nostro tempo. L'uomo si chiede in che modo gli sia possibile sottrarsi all'annientamento. In questi anni, in qualsiasi parte d'Europa ci si trova a conversare, vuoi con amici vuoi con gente che non si conosce, il discorso si volge ben presto a temi generali e lascia trasparire un profondo avvilimento. Appare subito evidente che quasi tutti, uomini e donne, sono in preda a un panico che dalle nostre parti non si era più visto dagli inizi del Medioevo. In una sorta di cieco invasamento, li vediamo tuffarsi nel loro terrore, di cui esibiscono i sintomi senza pudore alcuno. Assistiamo a una gara di spiriti che discutono animatamente se sia più opportuno fuggire, nascondersi o ricorrere al suicidio, e che, pur godendo ancora della completa libertà, già congetturano con quali mezzi e astuzie sarà possibile accaparrarsi il favore della plebaglia non appena questa si sarà impadronita del potere. Con raccapriccio ci accorgiamo che a nessuna bassezza costoro non darebbero il loro assenso se gli venisse richiesta. Eppure non mancano tra loro uomini sani e vigorosi, con una bella corporatura di atleti. Viene da chiedersi a che giovi tanto sport.
Ebbene, questi uomini, oltre che pavidi, sono anche temibili. L'umore balza in essi dalla paura all'odio dichiarato non appena si accorgono che le stesse persone che poco prima incutevano timore mostrano ora qualche segno di debolezza. Siffatte congreghe non s'incontrano soltanto in Europa. Dove l'automatismo guadagna terreno e si avvicina alla perfezione, il panico si fa ancora più tangibile: in America, ad esempio, esso trova il terreno che gli è più propizio, e si diffonde lungo reti più veloci del fulmine. Già è un indice di angoscia il bisogno di sentire le notizie più volte al giorno; la fantasia si dilata e, girando sempre più vorticosamente su se stessa, finisce per paralizzarsi. Tutte quelle antenne su città gigantesche fanno pensare a capelli che si rizzano sul capo, sembrano evocare contatti demoniaci. 
Naturalmente l'Est non fa eccezione: l'Occidente vive nel terrore dell'Oriente e l'Oriente vive nel terrore dell'Occidente. In tutti i luoghi della terra si vive nell'attesa di spaventose aggressioni: a cui si aggiunge, per molti, il timore della guerra civile.
Il rozzo meccanismo della politica non è l'unica fonte di tanto timore. Oltre a quello esistono innumerevoli altre forme di angoscia, che implicano tutte quell'insicurezza che si appella incessantemente a medici, messia, taumaturghi. Tutto, infatti, può dare adito al timore. E' questo, inequivocabilmente, più di qualsiasi pericolo materiale, il segno premonitore del declino.

(Ernst Junger, Trattato del ribelle. Adelphi, 1990 - 1. ed. 1951)