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Σάββατο 7 Ιουλίου 2018

Popoli della valle dell'Omo


Un gigantesco progetto idroelettrico minaccia i popoli della bassa Valle dell’Omo.
Hanno abitato nella valle per secoli grazie ad efficaci tecniche di sostentamento alimentate dalle piene naturali del fiume Omo.
Ma oggi le tribù rischiano di perdere la loro indipendenza e la sicurezza alimentare, senza esser state nemmeno consultate.

www.survival.it
In English about:
Omo Child: The River and the Bush 
The Omo River Tribes: The HydroElectric Dam Leaving the People of Ethiopia in the Dark

About the Mursi tribe

Una grave minaccia incombe sulla bassa Valle dell’Omo, in Etiopia, dove da secoli vivono diversi popoli indigeni che contano circa 200.000 persone.


© Ingetje Tadros/ingetjetadros.com

Un’enorme diga idroelettrica, la Gibe III, è in costruzione sul fiume Omo e fornirà l’acqua a vaste piantagioni commerciali che si trovano nelle terre ancestrali delle tribù.
La società italiana Salini Costruttori ha iniziato nel 2006 a costruire l’opera, che ora è quasi completa. Le immagini satellitari mostrano che il governo ha iniziato a riempire il bacino della diga.
Il fragile ambiente e i mezzi di sussistenza delle tribù, strettamente legate al fiume e alle sue esondazioni annuali, verranno distrutti.

I Karo (o Kara), contano circa 1000 - 1500 persone e vivono lungo le rive orientali del fiume Omo, nell'Etiopia meridionale.
I Karo (o Kara), contano circa 1000 - 1500 persone e vivono lungo le rive orientali del fiume Omo, nell'Etiopia meridionale.
© Eric Lafforgue/Survival

Dopo aver effettuato alcuni studi preliminari di valutazione, nel 2010 sia la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) sia la Banca Africana di Sviluppo (AfDB) hanno reso noto di non essere più interessate a finanziare Gibe III.
Ciò nonostante, la Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) – la più grande banca cinese – ha accettato di finanziare parte della costruzione della diga, e nel 2012 la Banca Mondiale ha deciso di finanziare le linee di trasmissione dell’energia.
La diga alimenterà centinaia di chilometri di canali di irrigazione deviando l’acqua verso le piantagioni.
Insieme ad altre associazioni locali e internazionali, idrologi e altri studiosi, Survival ritiene che la diga Gibe III e le piantagioni avranno conseguenze catastrofiche sui popoli della bassa Valle dell’Omo, che già vivono ai margini in quest’area arida e difficile.
Scarica il rapporto di Sean Avery ‘What future for Lake Turkana?’

Accaparramento di terre e reinsediamenti forzati

Nel 2011 il governo ha cominciato ad affittare enormi appezzamenti di terra fertile nella regione della bassa valle dell’Omo ad aziende malesi, italiane, indiane e coreane, specializzate nella coltivazione di palma da olio, jatropha, cotone e mais per la produzione di biocarburanti.
Per far spazio al grande progetto statale chiamato Kuraz Sugar Project – che attualmente ricopre 150.000 ettari ma potrebbe fagocitare un’area di 245.000 ettari – le autorità hanno iniziato a sfrattare dalle loro terre i Bodi, i Kwegu e i Mursi, trasferendoli in campi di reinsediamento. Anche i Suri, che vivono ad ovest dell’Omo, vengono sfrattati con la forza per far posto a vaste piantagioni commerciali.



Forse moriremo
I Kewgu della bassa Valle dell’Omo in Etiopia denunciano di soffrire la fame a causa dello sfratto dalla loro terra e del sistema di irrigazione delle piantagioni, che sta prosciugando il fiume da cui dipendono. Il video risale al 2012, quando iniziarono le operazioni per spianare il territorio della tribù.

I granai delle comunità e i loro preziosi pascoli sono stati distrutti. Chi si oppone al furto delle proprie terre, viene sistematicamente picchiato e confinato in prigione. Numerose sono le denunce di stupro e persino di uccisione degli indigeni da parte dei militari che pattugliano la regione per tutelare gli operai che lavorano alle infrastrutture e alle piantagioni.
A Bodi, Mursi e Suri è stato intimato di liberarsi delle mandrie – che rappresentano una parte essenziale del loro sostentamento – e che nei campi di reinsediamento (dove forse potranno tenere solo qualche capo di bestiame) dovranno dipendere totalmente dagli aiuti governativi.
Scarica il dossier di Human Rights Watch Report ‘What will happen if hunger comes’ (in inglese).
Non è stato effettuato nessuno studio di valutazione d’impatto ambientale o sociale adeguato sulle piantagioni e sugli schemi di irrigazione, e i popoli indigeni interessati non sono stati consultati in merito a questi progetti.
I maggiori donatori di aiuti all’Etiopia, Gran Bretagna e USA, hanno effettuato diverse visite nella regione per indagare sulle violazioni dei diritti umani. Una delegazione di donatori è tornata nella bassa valle dell’Omo nell’agosto 2014 ma i rapporti stilati a seguito della missione sono stati resi noti solo nel settembre 2015, dopo che Survival si è appellata alla Commissione Europea.
Nonostante all’inizio del 2015 la Gran Bretagna abbia dichiarato di non finanziare più il programma Promozione di Servizi di Base (Promoting Basic Services), che molti denunciano sia collegato al reinsediamento forzato, il governo ha aumentato i suoi finanziamenti in altre aree e continua a non spiegare quali meccanismi ha posto in atto per garantire che questi soldi non contribuiscano agli abusi.
Scarica il dossier dell’Istituto Oakland ‘Omo Land Deal Brief’ (in inglese).

Popoli della Valle dell’Omo

La bassa Valle dell’Omo è un territorio di grande bellezza, in cui ecosistemi diversi si intersecano con una delle ultime foreste pluviali sopravvissute nelle regioni aride dell’Africa sub-sahariana. Ad alimentare la straordinaria biodiversità della regione e garantire la sicurezza alimentare dei suoi popoli sono le piene stagionali del fiume, prodotte dalle piogge degli altipiani.

Gruppo festoso di donne Hamar soffiano nei corni e lanciano provocazioni agli uomini Maza che le frustano. Le donne considerano le cicatrici come un segno di devozione nei confronti dei mariti.
Gruppo festoso di donne Hamar soffiano nei corni e lanciano provocazioni agli uomini Maza che le frustano. Le donne considerano le cicatrici come un segno di devozione nei confronti dei mariti.
© Ingetje Tadros/ingetjetadros.com

I Bodi (Me’en), i Daasanach, i Kara (o Karo), i Kwegu (o Muguji), i Mursi e i Nyangatom abitano stabilmente lungo le sponde del fiume, da cui dipendono totalmente. Grazie alle pratiche socio-economiche ed ecologiche complesse che hanno sviluppato, hanno potuto adattarsi a condizioni dure e spesso imprevedibili dovute al clima semi-arido della regione.
Le esondazioni annuali del fiume Omo servono da nutrimento per la ricca biodiversità della regione e assicurano la sicurezza alimentare delle tribù, dato che le piogge sono scarse e irregolari.
Seppur in modi diversi, tutti i popoli della valle dipendono da una varietà di tecniche di sostentamento che si alternano e completano a vicenda con il mutare delle stagioni e delle condizioni climatiche: le coltivazioni di sorgo, mais, fagioli nelle radure alluvionali lungo le rive dell’Omo, le coltivazioni a rotazione nelle foreste pluviali e la pastorizia nelle savane o nei pascoli generati dalle esondazioni. Alcune tribù, e in particolare i Kwegu, cacciano e pescano.
Bovini, capre e pecore sono essenziali per sostentare la maggior parte dei popoli, che li utilizzano per il sangue, il latte, la carne e le pelli. Il bestiame è di particolare valore e viene usato anche per pagare le doti delle spose.

Canto tribale dalla valle dell’Omo. Registrazione di Daniel Sullivan.
È un elemento fondamentale per difendersi dalla fame quando la pioggia e i raccolti scarseggiano. In alcune stagioni le famiglie si spostano in accampamenti temporanei per fornire alle mandrie nuovo terreno da pascolo, e sopravvivono grazie al latte e al sangue di questi ultimi. I Bodi trascorrono ore ad osservare i loro animali e ad ammirarne valore e bellezza, e spesso compongono canzoni in loro onore.

Ragazzini Hamar con il corpo dipinto di cenere bianca, valle dell’Omo, Etiopia. La diga Gibe III distruggerà i mezzi di sussistenza del loro popolo.
Ragazzini Hamar con il corpo dipinto di cenere bianca, valle dell’Omo, Etiopia. La diga Gibe III distruggerà i mezzi di sussistenza del loro popolo.
© Magda Rakita/Survival

Altri popoli, come gli Hamar, i Chai o i Suri e i Turkana vivono più distante, ma grazie ad una rete consolidata di alleanze etniche, possono accedere alle risorse generate dalle piene dell’Omo nei momenti del bisogno, specialmente in caso di siccità e carestie.
Anche se cooperano ed effettuano scambi commerciali, tra alcuni di questi popoli si verificano periodicamente dei conflitti per l’utilizzo delle scarse risorse naturali. Con la progressiva sottrazione di terre da parte del governo, la competizione è andata crescendo e l’introduzione delle armi da fuoco ha reso i litigi più pericolosi di un tempo.

Senza voce

I popoli della valle dell’Omo soffrono da anni per la progressiva perdita di controllo e di accesso alle loro terre. Negli anni ’60 e ’70, nei loro territori sono stati istituiti due parchi nazionali dalla cui gestione i popoli indigeni sono stati esclusi.

Una famiglia Hamar davanti alla sua casa, valle dell’Omo, Etiopia. La diga Gibe III distruggerà i mezzi di sussistenza del suo popolo.
Una famiglia Hamar davanti alla sua casa, valle dell’Omo, Etiopia. La diga Gibe III distruggerà i mezzi di sussistenza del suo popolo.
© Magda Rakita/Survival
 
Negli anni ’80, inoltre, parte delle loro terre sono state trasformate in grandi fattorie irrigate e controllate dallo stato mentre recentemente il governo ha iniziato a convertire altre aree in vaste piantagioni per la produzione di biocarburanti.
I popoli indigeni, che da generazioni usano questa terra per coltivare i propri raccolti e far pascolare le proprie mandrie, non hanno avuto voce in capitolo.
Anche se la costituzione etiope garantisce ai popoli indigeni il diritto alla “piena consultazione” e alla “espressione del proprio punto di vista nella pianificazione e attuazione di politiche e progetti ambientali che li riguardano”, di fatto le comunità indigene vengono raramente consultate in modo appropriato.
I popoli della valle dell’Omo prendono le decisioni pubbliche nel corso di estesi incontri comunitari a cui partecipano tutti gli adulti. L’accesso all’informazione pubblica è pressoché nulla perché pochi parlano l’amarico [la lingua nazionale] e il livello di alfabetizzazione è tra i più bassi d’Etiopia.
I funzionari di USAID che hanno visitato la bassa valle dell’Omo nel gennaio 2009 per valutare l’impatto della diga Gibe III hanno reso noto che le comunità indigene locali non sapevano nulla o praticamente nulla del progetto.
Adesso la gente ha paura – viviamo nel terrore del governo. Per favore, aiutate i popoli pastori dell’Etiopia meridionale, perché sono sotto una grande minaccia.Un indigeno della valle dell’Omo
Con l’obiettivo di limitare al minimo il dibattito civile sulle politiche controverse e censurare il dissenso, nel febbraio 2009 il governo etiope ha varato il decreto 621/2009. Il provvedimento impedisce a qualsiasi associazione o Ong locale che riceva più del 10% dei suoi finanziamenti da fondi esteri (quindi virtualmente tutte le associazioni esistenti nel paese) di lavorare in settori cruciali per la società civile tra cui quello dei diritti umani e della partecipazione democratica.
Nel luglio 2009, l’ufficio giudiziario della regione meridionale ha revocato il riconoscimento a 41 “associazioni comunitarie” locali con l’accusa di non cooperare con le politiche governative. Secondo molti osservatori, si è tratta di una manovra del governo effettuata per sradicare qualsiasi dibattito d’opposizione alla diga.

La diga Gibe III

Nel luglio del 2006, il governo etiope ha affidato alla società italiana Salini Costruttori la realizzazione del più grande progetto idroelettrico mai concepito nel paese, la diga Gibe III. Il contratto è stato concluso senza gara d’appalto in violazione delle leggi etiopi.
Iniziati nel 2006 subito dopo la firma della commessa da 1,4 miliardi di euro, oggi i lavori di costruzione quasi completati e il governo ha iniziato a riempire la riserva a monte.

Uomini Kwegu pescano nelle acque del fiume Omo, Etiopia.
Uomini Kwegu pescano nelle acque del fiume Omo, Etiopia.
© Survival International
 
La diga sbarrerà il corso centro-settentrionale dell’Omo, il fiume che scorre impetuoso per 760 km dall’altopiano etiope fino al Lago Turkana, al confine con il Kenya. Il fiume attraversa i parchi nazionali Mago e Omo e, nel 1980, il suo bacino è stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco per la sua particolare importanza geologica e archeologica.
Secondo gli esperti la riduzione del flusso del fiume causerà l’abbassamento del livello del lago Turkana di circa due terzi. Questo distruggerà la riserve ittiche da cui dipendono centinaia di migliaia di indigeni.
Le leggi ambientali etiopi vietano la realizzazione di progetti che non siano stati preventivamente sottoposti a complete valutazioni di impatto ambientale e sociale (Environmental Social Impact Assessment – ESIA). Nonostante questo, l’Authority etiope per la protezione dell’ambiente (EPA) ha approvato retroattivamente le valutazioni d’impatto della Gibe III solo nel luglio 2008, con quasi due anni di ritardo.
Gli studi di impatto della diga Gibe III (ESIA) sono stati effettuati dall’agenzia milanese CESI per conto dell’azienda energetica etiope EEPCo e della società costruttrice Salini. Pubblicati in versione definitiva nel gennaio 2009, i suoi risultati sono saldamente favorevoli al progetto, il cui impatto sull’ambiente e sulle popolazioni interessate viene valutato come “trascurabile” o addirittura “positivo”.
Le analisi [del CESI] si basano su una serie di false premesse e sono ulteriormente compromesse da massicce omissioni, distorsioni e offuscamenti.Africa Resources Working Group (ARWG)
Secondo numerosi esperti indipendenti, la diga, le piantagioni e i canali di irrigazione avranno un enorme impatto sui delicati ecosistemi della regione modificando le esondazioni stagionali del fiume Omo e riducendone drammaticamente il volume. Questo causerà l’inaridimento di molte aree a riva ed farà scomparire la foresta ripariale. I popoli indigeni come gli Kwegu, che dipendono quasi totalmente dalla pesca e dalla caccia, si troveranno senza più nulla.

Nei periodi di siccità, i Nyangatom scavano buche profondissime alla ricerca di acqua. Letto del fiume Kibish, Etiopia.
Nei periodi di siccità, i Nyangatom scavano buche profondissime alla ricerca di acqua. Letto del fiume Kibish, Etiopia.
© Serge Tornay/Survival

Gravissime, denunciano gli scienziati, anche le ripercussioni sul lago Turkana del Kenya, che riceve più del 90% delle sue acque dal fiume Omo. Il drastico abbassamento del livello del lago potrebbe compromettere irreversibilmente le possibilità di sostentamento di almeno altre 300.000 persone tra cui i Turkana e i Rendille, che dal lago dipendono per pescare e procurarsi acqua potabile.

Dossier e documenti per approfondimenti:

- La lettera inviata da Survival ai ministri Giulio Tremonti e Franco Frattini (in italiano).
- La prima lettera inviata da Survival ai Direttori della Banca Africana di Sviluppo (in italiano).
- Il dossier di International Rivers La Diga Gibe III in Etiopia – Causa di carestie e conflitti (in italiano).
- Il dossier dell’associazione Campagna per la Riforma della Banca Mondiale (CRBM) L’Affare Gilgel Gibe – Tutto quello che la cooperazione non dovrebbe fare (in italiano).
- Lake Turkana and the Lower Omo – Hydrological Impacts of Major Dam and Irrigation Projects (Il lago Turkana e la bassa Valle dell’Omo – Impatti idrologici di una grande diga e dei progetti di irrigazione) è stato pubblicato dal Centro Studi africani dell’Università di Oxford.
- Humanitarian Catastrophe and Regional Armed Conflict Brewing in the Transborder Region of Ethiopia, Kenya and South Sudan (Catastrofe umanitaria e conflitto regionale armato nella zona di confine tra Etiopia, Kenya e Sud Sudan), di Claudia J. Carr e pubblicato dall’Africa Resources Working Group.
- The Downstream Impacts of Ethiopia’s Gibe III Dam – East Africa’s Aral Sea in the Making? (L’impatto a valle della diga Gibe III in Etiopia – Il futuro lago d’Aral dell’Africa Orientale?) pubblicato da International Rivers.
- Human Rights Watch Report ‘What will happen if hunger comes (in inglese).
- Il dossier dell’Istituto Oakland Omo Land Deal Brief (in inglese).
 
Passa all'azione! Aiuta popoli della valle dell'Omo
  • Manda una e-mail al Direttore Generale della Cooperazione italiana Giampaolo Cantini per chiedergli di assicurare che i soldi dei contribuenti italiani non siano usati, direttamente o indirettamente, per sostenere lo sfratto dei popoli della valle dell’Omo.
  • Effettua una donazione per sostenere la campagna di Survival per le tribù della Valle dell’Omo e altri popoli minacciati.
  • Guarda e diffondi Arrivano i nostri!, un breve filmato che con illustrazioni brillanti e umorismo tagliente racconta la storia dei popoli indigeni distrutti nel nome dello “sviluppo”.
 

Τρίτη 26 Ιουνίου 2018

L’Africa dei saccheggi e l’Africa della resistenza



Il continente africano detiene un triste primato, che ormai da decenni lo vede come uno dei territori maggiormente soggetti a colonizzazione e sfruttamento da parte delle compagnie estere che si spartiscono le risorse di una Terra violentata dalla deforestazione e dalle guerre civili.
Guerre civili che spesso sono alimentate dalle stesse multinazionali giunte in Africa con intenzioni di conquista, come nel caso del mercato del coltan, minerale estratto in Congo utilizzato per nella fabbricazione di pc e cellulari, che le varie aziende ripagano in armi da distribuire alle milizie locali perché possano garantire loro il controllo sulle miniere, esattamente come capitò anni addietro nel caso dei diamanti insanguinati. Per non parlare delle estrazioni petrolifere condotte da Shell e Agip negli anni novanta, che hanno provocato l’inquinamento del Delta del Niger, azioni, queste, che non sono rimaste impunite grazie all’impegno e alla lotta del popolo Ogoni e del poeta attivista Ken Saro Wiwa che, insieme ad altr* otto attivist*, ha dato la vita per la libertà del suo popolo e delle terre abitate.
A 20 anni dal suo assassinio per mano di Shell, la multinazionale in questione non ha ancora provveduto alla bonifica dei bacini idrici inquinati, il cui inquinamento ogni giorno mette a rischio la sussistenza e sopravvivenza delle popolazioni locali.
Non manca poi il fenomeno del land-grabbing (accaparramento delle terre), una pratica condotta dalle multinazionali per ottenere vaste aree di territorio, spesso foreste vergini, per convertirle in monocolture industriali di cotone, mais e palme da olio, in particolare per la produzione di biocarburanti.
Queste operazioni provocano l’esproprio immediato delle popolazioni locali che, senza alcun preavviso, si trovano costrette ad abbandonare la propria casa dopo che il governo ha affittato interi territori alle multinazionali di turno, come accaduto recentemente in Etiopia.
La valle dell’Omo è il territorio colpito in questo caso, dove abitano numerose tribù come Bodi, Kwegu, Suri e Mursi, popoli che già sono stati sfrattati e trasferiti in campi di reinsediamento per far spazio appunto alle multinazionali. Qui all’orizzonte vi è il progetto della diga idroelettrica Gibe III, già in funzione, e che potrebbe essere ultimato entro il 2018.


Gibe III, costruita sulla parte bassa dell’Omo al costo di 1.8 miliardi di dollari, consiste in una diga di 797 piedi di altezza (circa 243 metri), un bacino che ha la capacità di conservare 14700 milioni di metri cubi d’acqua.
Il fiume Omo rifornisce per il 90% il lago Turkama, situato nel Kenya nord occidentale, e si stima che il progressivo riempimento del bacino idroelettrico indebolirà il suo flusso di circa 2/3 nel giro di tre anni, mettendo a rischio la sopravvivenza di circa 300 persone.
Questa volta a finanziare e condurre questo progetto non è un colosso straniero dal nome conosciuto e altisonante, ma una multinazionale tutta italiana, Salini-Impregilo, che ha fatto dello sfruttamento dei territori e dell’esproprio dei popoli il suo marchio di fabbrica.
Salini-Impregilo è una multinazionale ben nota in Italia, detentrice di vari appalti, tra cui la costruzione di alcune linee dell’alta velocità, come quella del Terzo Valico Genova-Tortona, i cui lavori hanno causato l’esproprio di numerose famiglie e l’avvelenamento di interi territori a causa dell’amianto estratto nel corso degli schiavi, e la linea Bologna-Firenze, un’opera da cinque miliardi e mezzo di euro che è costata la morte di 81 torrenti, 37 sorgenti idriche, 30 pozzi e 5 acquedotti, inquinando con sostanze tossiche 24 corsi d’acqua.
Queste sono solo alcune delle devastazioni di cui Salini-Impregilo è colpevole, ma può vantare anche l’interessamento nella costruzione dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria, lo smaltimento dei rifiuti in Campania, e nella realizzazione della TEM (Tangenziale Est Esterna Milano) che ha causato l’esproprio di numerosi piccoli agricoltori e contadini.
La multinazionale italiana recentemente si è anche aggiudicata l’appalto per la realizzazione dell’area residenziale a Shamal, in Qatar, un’opera che rientra nei lavori necessari allo svolgimento del mondiale di calcio 2022, per il quale sono già deceduti oltre 1.300 lavoratori impiegati nei cantieri per la costruzione di stadi e infrastrutture.
Dove c’è Impregilo c’è sfruttamento, verrebbe da dire, lo slogan più adatto a un’azienda che sparge cemento in ogni parte del globo, senza alcun rispetto per la vita umana e la salute dei territori, ma solo per le proprie tasche.
Vogliamo dedicare questo articolo alla memoria di Ken Saro Wiwa che, a 20 anni dalla sua morte rimane indimenticato, esempio per chi lotta per la liberazione della Terra, per la difesa di valori che vanno ben oltre il mero guadagno.
A lui, a chi ha dato la vita per difendere la Terra e a chi ogni giorno dedica la propria vita a contrastare chi colonizza e devasta i territori nel nome del dio denaro vanno il nostro pensiero e la nostra ammirazione.

Παρασκευή 29 Σεπτεμβρίου 2017

Ban Monsanto's new super poison!

 
 
Monsanto is launching a super poison that kills plants in its path -- except for Monsanto GMOs. It even flies through the air onto neighbouring land!
But in days we can shut it down.
After a massive outcry from 1,000 affected farmers, a key US state could now ban this poison. This will set a precedent to influence regulation around the world.
Monsanto is mounting an intense pressure campaign, and hoping to keep it to a local fight. But if one million of us sign this petition now, we’ll submit it to the official process and show that the whole world wants this toxic chemical out of our fields and off our food! Add your name
 
About
 
This miracle weed killer was supposed to save farms. Instead, it’s devastating them.
 

Clay Mayes slams on the brakes of his Chevy Silverado and jumps out with the engine running, yelling at a dogwood by the side of the dirt road as if it had said something insulting.
Its leaves curl downward and in on themselves like tiny, broken umbrellas. It’s the telltale mark of inadvertent exposure to a controversial herbicide called dicamba.
“This is crazy. Crazy!” shouts Mayes, a farm manager, gesticulating toward the shriveled canopy off Highway 61. “I just think if this keeps going on . . .”
“Everything’ll be dead,” says Brian Smith, his passenger.
The damage here in northeast Arkansas and across the Midwest — sickly soybeans, trees and other crops — has become emblematic of a deepening crisis in American agriculture.
Farmers are locked in an arms race between ever-stronger weeds and ever-stronger weed killers.
The dicamba system, approved for use for the first time this spring, was supposed to break the cycle and guarantee weed control in soybeans and cotton. The herbicide — used in combination with a genetically modified dicamba-resistant soybean — promises better control of unwanted plants such as pigweed, which has become resistant to common weed killers.
The problem, farmers and weed scientists say, is that dicamba has drifted from the fields where it was sprayed, damaging millions of acres of unprotected soybeans and other crops in what some are calling a man-made disaster. Critics say that the herbicide was approved by federal officials without enough data, particularly on the critical question of whether it could drift off target.
Government officials and manufacturers Monsanto and BASF deny the charge, saying the system worked as Congress designed it.

Leaves and a stalk from a soybean plant showing signs of being affected by dicamba. (Andrea Morales/For The Washington Post)

The backlash against dicamba has spurred lawsuits, state and federal investigations, and one argument that ended in a farmer’s shooting death and related murder charges.
“This should be a wake-up call,” said David Mortensen, a weed scientist at Pennsylvania State University.
Herbicide-resistant weeds are thought to cost U.S. agriculture millions of dollars per year in lost crops.
After the Environmental Protection Agency approved the updated formulation of the herbicide for use this spring and summer, farmers across the country planted more than 20 million acres of dicamba-resistant soybeans, according to Monsanto.

But as dicamba use has increased, so too have reports that it “volatilizes,” or re-vaporizes and travels to other fields. That harms nearby trees, such as the dogwood outside Blytheville, as well as nonresistant soybeans, fruits and vegetables, and plants used as habitats by bees and other pollinators.
According to a 2004 assessment, dicamba is 75 to 400 times more dangerous to off-target plants than the common weed killer glyphosate, even at very low doses. It is particularly toxic to soybeans — the very crop it was designed to protect — that haven’t been modified for resistance.
Kevin Bradley, a University of Missouri researcher, estimates that more than 3.1 million acres of soybeans have been damaged by dicamba in at least 16 states, including major producers such as Iowa, Illinois and Minnesota. That figure is probably low, according to researchers, and it represents almost 4 percent of all U.S. soybean acres.
“It’s really hard to get a handle on how widespread the damage is,” said Bob Hartzler, a professor of agronomy at Iowa State University. “But I’ve come to the conclusion that [dicamba] is not manageable.”
The dicamba crisis comes on top of lower-than-forecast soybean prices and 14 straight quarters of declining farm income. The pressures on farmers are intense.
  
Arkansas one step from dicamba ban

Jeannine Otto AgriNews Publications - Sep 27, 2017

LITTLE ROCK, Ark. — The Arkansas State Plant Board voted on Sept. 21 to approve a ban on the application of dicamba herbicide, from April 16 to Oct. 31, 2018.
“The whole process has been troubling all along. Yesterday was just another point that the process isn’t following science,” said Ty Vaughn, vice president of global regulatory affairs for Monsanto, after the board’s decision was announced.
“At the end of the day, they rejected our petition and voted for recommending the taskforce’s ban of all dicamba after April 16,” he said.
Vaughn spent the day at the plant board meeting trying to make the case for the board to allow farmers in Arkansas to use dicamba herbicide in 2018. The herbicide has been linked to crop damage of non-dicamba-tolerant soybeans and produce and fruit crops.
The proposed ban now will be subject to a 30-day comment period, followed by a public hearing on Nov. 8. Following the comment period and the hearing, the final rule proposal will go to the executive subcommittee of the Arkansas Legislative Council to be approved.
Vaughn said that Monsanto has “options,” but said it was too early to talk about the next steps the seed company might take.
“We’ve got options, of course, with the public comment period and other things we’ll have to consider. This is new news, so it’s premature on what course of action we’ll take, but all options are going to have to be considered,” he said.

Rural Voices

Vaughn said that a petition signed by Arkansas farmers who want access to the dicamba herbicide for their farms was submitted to the plant board, but farmers were not asked to speak during the meeting.
“Other industry representatives talked and other stakeholders were also allowed to talk. The one group that wasn’t allowed to speak was growers, which is clearly an unfortunate situation since we’re trying to solve for growers having weed resistance issues,” he said.
Vaughn added that time is of the essence so that farmers in Arkansas can make their seed decisions for the 2018 growing season.
“That’s the dilemma. Growers would normally be buying seed now,” he said.
He said some farmers in the state purchased the Xtend platform, which includes dicamba-tolerant soybeans, for the genetics, but most growers also wanted the weed control benefits.
“Even yesterday, that was mentioned, that growers bought the trait, but not just for the herbicide tolerance, but for the germplasm. So some growers are going to continue to do that anyway, but those growers who have the weed resistance issues do have to make a decision,” he said.

See also

Orthodox Church & Capitalism: Orthodox Fathers of Church on poverty, wealth and social justice
Is capitalism compatible with Orthodox Christianity?
Grace and “the Inverted Pyramid”

The Orthodox African Church (Patriarchate of Alexandria) denounces the exploitation of Africa by contemporary colonialists

   
The ancient Christian Church - About Orthodox Church in USA & in the West World
African Americans & Orthodox Church
Natural Environment 
Native American Orthodox Christian Fellowship (NAOCF)  
Fr. Moses Berry, a descendant of African slaves, Orthodox priest and teacher in USA
A Letter from an Orthodox Christian to our Native Americans Brothers

Παρασκευή 26 Μαΐου 2017

L’exploitation des enfants dans le tiers monde


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1. L’EXPLOITATION DES ENFANTS DANS LE TIERS MONDE 2º ESO A
2. 1.534.000 enfants travaillent Sergio
3. Au Camerun 1.753.000 enfants travaillent à la campagne Laura
4. Près de 5 millions d’enfants travaillent, généralement dans des travaux dangereux Au Niger Alba M.
5. AU BURKINA FASO Au Burkina Faso plus d’un million d’enfants sont exploités. Gabriel
6. Au Togo Environ 830 400 enfants sont utilisés dans l'agriculture Enol
7. LE TRAVAIL DES ENFANTS Á LA RÉPUBLIQUE DU CONGO Les enfants exploités sont 29900, étant 13.100 des garçons et 16.800des filles. Rebeca
8. Au Rwanda plus de 17 000 enfants sont exploités au travail Paula
9. TOUS LES ENFANTS ONT LE DROIT À UNE ENFANCE HEUREUSE!! 


African Children (tag)
Africa: Slaves of cobalt ― Your Smartphone Is Probably Powered by Child Labor at Mines in Africa !!
Cocoa child slavery 
 

"Françafrique" // Exploitation du Tiers-monde


Gresea
Foto d'ici

21 décembre 2010 — Les secrets du tee-shirt H&M — par Erik Rydberg
21 novembre 2006 — Le droit social chinois mis sous pression par les transnationales US. — par Erik Rydberg
7 février 2011 — Ford et progrès social — par Erik Rydberg
21 avril 2009 — Shopping minier d’Areva en Afrique — par Bruno Bauraind
22 février 2008 — Texte de référence : le groupe Lundin en RDC (Katanga). — par Bruno Bauraind
23 octobre 2006 — Nokia exploite les saisonniers en Chine. — par Bruno Bauraind
24 juillet 2007 — Arcelor Mittal fait une affaire au Sénégal. — par Erik Rydberg
3 novembre 2014 — T-shirt féministe modérément "éthique" — par Erik Rydberg
15 décembre 2011 — Totalement Angola — par Erik Rydberg
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2 octobre 2006 — Anti-syndicalisme primaire du Belge Dress Confect (textile) au Sri Lanka. — par GRESEA ASBL
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Τετάρτη 26 Απριλίου 2017

L’Afrique face à l’invasion de faux médicaments


L’Organisation mondiale des douanes a saisi 126 millions de traitements prohibés dans seize ports africains en deux semaines.

Ils sont écoulés en grande majorité dans les commerces de rue des villes africaines, mais se retrouvent aussi dans les pharmacies des hôpitaux publics ou dans les stocks de grandes ONG humanitaires, feintées par l’habileté des faussaires. Les faux médicaments – avec un sinistre bilan évalué à plusieurs centaines de milliers de morts par an – sont devenus un fléau en Afrique. Le vaste coup de filet opéré par l’Organisation mondiale des douanes (OMD) en septembre 2016, et dont les résultats ont été dévoilés vendredi 20 janvier à Paris, confirme l’ampleur du problème.

L’Inde premier fournisseur 

Quelque 126 millions de médicaments falsifiés ou illicites ont été saisis lors de l’opération menée entre le 5 et 14 septembre 2016 dans seize ports africains. Sur les 243 conteneurs inspectés, 150 contenaient des produits non conformes. 75 % venaient d’Inde et 25 % de Chine. Le Nigeria (35 %) et le Bénin (26 %) ressortent comme les deux principales portes d’entrée sur le continent. Il s’agit de la quatrième opération d’interception de l’OMD depuis le lancement du programme commun avec l’Institut international de recherche anti-contrefaçon de médicaments (IRACM) en 2012. Au total, près de 900 millions de médicaments d’une valeur estimée à 400 millions d’euros ont été confisqués au cours de ces quatre années.

La contrefaçon cible les pathologies les plus courantes 
0 5 10 15 20 25 30 Part en % sur les saisies réalisées en septembre 2016Anti-paludéensAnti-inflammatoiresAntibiotiquesAnalgésiquesGastro-entérinaux
Gastro-entérinaux
part en %: 7,00
Source : Organisation mondiale des douanes

Ces médicaments ciblent les pathologies les plus répandues, en particulier le paludisme. « Cette invasion se déroule en silence et vise les populations les plus défavorisées. Non seulement ces faux médicaments sont la cause de centaines de milliers de décès, mais ils sont aussi responsables du développement de résistances à certains traitements », déplore le diplomate Jean-David Levitte, président du conseil d’administration de l’IRACM. Il estime que les faux médicaments représentent un tiers du marché en Afrique.
L’inertie des pouvoirs publics et l’absence de dispositif législatif réellement punitif laissent le champ libre aux réseaux de criminalité organisée. « Les criminels connaissent les failles du droit. Ils savent par exemple que, dans beaucoup de pays, le douanier ne peut pas ouvrir le conteneur pour le contrôler si l’importateur n’est pas présent », explique Ana Hinojasa, de l’OMD.

L'Afrique, envahie par les médicaments contrefaits

Source AFP - LES ECHOS |

L'Organisation mondiale des douanes a lancé un cri d'alerte : sur le continent africain, un tiers des médicaments sont des produits illicites ou contrefaits.
Un trafic d'ampleur mais très difficile à endiguer. En septembre, en seulement deux semaines et dans seize ports africains, l'Organisation mondiale des douanes (OMD) a intercepté près de 113 millions de médicaments contrefaits.
Dans 150 conteneurs sur 243 inspectés, ainsi que dans douze envois aériens, les douanes ont saisi des produits de santé illicites. "Plus de 97% des produits pharmaceutiques saisis venaient de Chine et d'Inde", a précisé Ana Hinojosa, responsable du contrôle et de la coordination au sein de l'OMD.

L'Inde, premier pays de contrebande

D'après l'OMD, l'Inde est le premier pays d'origine des produits pharmaceutiques illicites. Ces derniers sont des vrais médicaments mais sont introduits en contrebande, d'autres sont même mal conditionnés ou périmés. D'autres encore sont contrefaits mais fabriqués le plus souvent en Chine.
L'opération de saisie, appelée ACIM, est la quatrième du genre en Afrique. Au total, 869 millions de produits pharmaceutiques illicites ou contrefaits ont été interceptés lors de ces opérations depuis 2012, représentant une valeur commerciale de 400 millions d'euros, a détaillé Bernard Leroy, directeur de l'Institut international de recherche anti-contrefaçon de médicaments (Iracm).
Des chiffres vertigineux mais qui ne sont qu'une goutte d'eau comparé à l'ampleur supposée du phénomène, selon l'institut. Les faux médicaments représenteraient, en réalité, 10% du marché mondial de la pharmacie. Soit un chiffre d'affaires estimé à 85 milliards de dollars. 

Trafic contrôlé par le crime organisé

Et l'Afrique est particulièrement touchée. En effet, près d'un tiers des médicaments utilisés sur le continent est illicite ou contrefait.
A l'inverse du trafic des stupéfiants, celui des faux médicaments, contrôlé par le crime organisé, est largement impuni, étant considéré comme un "simple" délit de violation de la propriété intellectuelle. Ce, bien qu'il soit responsable de centaines de milliers de morts par an, déplore l'Iracm. "Le nombre de poursuites est ridicule et concerne en général des gens locaux", et non les organisateurs de ce trafic, a rappelé Bernard Leroy.
En Afrique, les douanes donnent la priorité à la collecte des taxes sur les importations, une importante source de revenus pour les Etats. Par ailleurs, le manque criant de moyens, de nombreuses failles juridiques et "une interférence très forte de la corruption" facilitent grandement la tâche des trafiquants, selon le directeur de l'Iracm.

A Cotonou, la pharmacie à ciel ouvert où prospère le trafic de faux médicaments

Au Bénin, 40 % des médicaments en vente libre seraient des faux. Une véritable mafia s’est constituée, avec la complicité des autorités.
Des odeurs d’antibiotiques mêlées aux exhalaisons de solutions injectables glucosées éprouvent les narines. Bienvenue au marché Adjégounlé. Située en plein centre de Cotonou, sur la partie est du marché Dantokpa, cette pharmacie à ciel ouvert suffit à prendre la mesure de l’ampleur du trafic de faux médicaments au Bénin.
Assises devant de minuscules échoppes, des commerçantes élégamment vêtues hèlent les passants venus se procurer des médicaments – le plus souvent sans ordonnance. Derrière elles sont rangés, les uns sur les autres, des produits pharmaceutiques et aussi des cartons de consommables médicaux conservés dans des conditions peu réglementaires, à la merci de la poussière et de la chaleur.

Plus que la drogue et que les armes 

Anselme, chauffeur d’une quarantaine d’années, est venu prendre de la quinine. Un antipaludéen fabriqué par Pharmaquick, une société pharmaceutique spécialisée dans le générique et installée au Bénin depuis 1982. Le Bénin ne produit que 2 % de ses besoins en médicaments. « Je viens toujours m’approvisionner en médicaments ici. Même quand le médecin me fait une ordonnance. C’est le même qu’en pharmacie et c’est moins cher », dit-t-il sans ciller.
Comme Anselme, ils sont des milliers de Béninois à venir s’approvisionner sur ce marché de vente de médicaments issus de circuits illicites, non contrôlés, mais autorisé par la Société de gestion des marchés autonomes (Sogema).
Selon les données de l’Organisation mondiale de la santé (OMS), 10 % des médicaments vendus dans le monde sont non conformes. Un marché évalué à 75 milliards de dollars (67,5 milliards d’euros), devant le trafic de la drogue et tout juste derrière le commerce des armes. La situation est encore plus grave en Afrique, où 30 % à 70 % des médicaments en circulation seraient des faux.
Au Bénin, pays perçu par les spécialistes comme une plaque tournante du trafic à cause de l’impunité dont bénéficient les trafiquants et de l’absence d’arsenal juridique adéquat, « c’est plutôt 40 % des médicaments qui seraient faux », avance le docteur Charles Ainadou, président de l’Ordre des pharmaciens. En 2004, le marché des médicaments au Bénin pesait 55 milliards de francs CFA (85 millions d’euros), dont 6 milliards de francs CFA (9 millions d’euros) pour les faux médicaments, d’après des données de l’Institut national de la statistique et de l’analyse économique (Insae).
Un faux médicament est défini selon le Conseil de l’Europe comme « tout médicament comportant une fausse présentation de son identité, ne contenant aucun principe actif ou des principes actifs à un mauvais dosage »

Médicament « vide » 

Sur le marché Adjégounlé sont en vente des produits d’origine douteuse comme le Cumorit, un médicament censé modifier l’équilibre hormonal et provoquer un avortement. « Des analyses au laboratoire ont permis de constater qu’il n’y avait rien dans ce médicament », explique le docteur Charles Ainadou. Une bonne partie viendrait du Nigeria, champion toutes catégories en faux médicaments.
On y trouve aussi des antipaludéens, des antalgiques, des antihypertenseurs… dont les emballages renseignent des laboratoires pharmaceutiques chinois ou indiens comme Sun Pharma. Mais aussi des laboratoires européens comme le Français Sanofi avec son antipyrétique Doliprane 500 mg, vendu un peu moins cher sur le marché parallèle : 800 francs CFA (1,2 euro) contre 1 100 francs CFA en pharmacie.
Il est difficile d’authentifier les produits à l’œil nu. Ils sont souvent très proches de leur date de péremption, comme ce sirop antitussif Sekisan de la firme espagnole Almirall que l’on peut trouver sur l’étalage de Tunde*, un commerçant nigérian. Son usage n’est plus recommandé après le 17 juillet 2016.

Dreadlocks sur la tête, Tunde, un habitué du marché depuis quatre ans, propose aussi du Tramadol 100 mg, un puissant psychotrope analgésique qui peut aussi être utilisé comme stupéfiant – et donc théoriquement sous contrôle international. Il doit être prescrit strictement sur ordonnance. C’est un produit du laboratoire américain Mylan, lit-on sur l’emballage. Comment a-t-il pu se retrouver sur le marché ? « Certains ont été volés dans des officines en Europe, confesse le vendeur. Mais contrairement à ce que les pharmaciens disent à la télévision, ce ne sont pas des faux. »
« Un médicament, dès lors qu’il quitte le circuit d’approvisionnement formel, ne mérite plus qu’on lui fasse confiance », rappelle le docteur Philppe Capo-Chichi, pharmacien toxicologue. A cause des mauvaises conditions de stockage et de conservation, il a pu se dénaturer et devenir nocif.

« Véritable peste » 

Au sein de la corporation des pharmaciens, de graves accusations sont portées contre les sociétés grossistes qui alimenteraient le marché parallèle. « Les grossistes sont la véritable peste », dénonce sans vouloir donner de nom le docteur Louis Koukpémédji, président du Syndicat des pharmaciens du Bénin (Syphab).
Le Bénin compte six sociétés grossistes, dont une publique : la Centrale d’achat des médicaments essentiels (CAME). Le problème se situerait plutôt chez certaines sociétés grossistes privées qui, pour gonfler leur chiffre d’affaires, livreraient des barons du marché noir. « Les trafiquants viennent avec du cash. Mais les pharmaciens prennent souvent à crédit et paient des acomptes », reconnaît un pharmacien travaillant pour un grossiste.

L'appel de Cotonou contre les faux médicaments from fondation Chirac on Vimeo.

Les structures grossistes profiteraient ainsi de leur couverture pour importer des conteneurs de médicaments pour le compte des trafiquants. « Au port, les conteneurs peuvent être bien en règle avec une autorisation dûment signée du ministère de la santé. Mais une fois le camion chargé, il disparaît dans les magasins de trafiquants », explique un cadre du ministère de la santé. Des chargements en transit pour les pays de l’hinterland, en particulier le Niger, sont souvent détournés pour le marché parallèle. Une technique dont s’accommodent les douanes, souvent très complaisantes. « Les douaniers ne nous aident pas. Ils sont pourris et corrompus », affirme un acteur averti du secteur, qui préfère garder l’anonymat.
« Nous sommes dans un merdier total », n’hésite pas à résumer Antoine Houssou, PDG de Pharmaquick, la seule industrie pharmaceutique du Bénin, sans pour autant entrer dans les détails. Les produits génériques de cette société, qui fabrique 3 à 5 millions de comprimés par jour, se retrouvent en quantité importante sur le marché parallèle. « Nous, nous ne faisons pas de faux médicaments. Mais dès lors que cela sort de nos usines dans les fourgonnettes des grossistes que nous livrons, nous ne savons plus ce qu’ils en font », se défend l’industriel.
 
« Combat voué à l’échec » 
 
Le nom d’un grossiste revient souvent : UB Phar. L’une des plus anciennes de la place. Contactée, l’entreprise s’est refusée à tout commentaire. « N’insistez pas. C’est simplement non. Je ne suis pas disposé à vous accorder un entretien sur ce sujet », tranche le directeur commercial, le docteur Ghislain Agonsanou.
En 2014, une opération menée conjointement par les douanes et la police a permis d’arraisonner 350 tonnes de chargement de faux médicaments, sans compter les 150 tonnes de comprimés de Tramadol interceptés dans la période. Mais que sont devenus les trafiquants ? Croupissent-ils en prison ? « Je ne peux pas jurer de ce qu’est devenu ce dossier », soupire le directeur des pharmacies, qui dit avoir les mains liées. La pression viendrait « d’en haut ».
Certains députés à l’Assemblée nationale trouveraient dans ce trafic des revenus conséquents pour financer leurs activités politiques. Des noms reviennent avec insistance, notamment celui d’un jeune homme qui a été candidat à la présidentielle de mars. « Sans preuve, nous ne pouvons pas avancer de noms. Ils sont très malins. Et sans un arsenal juridique, c’est un combat voué à l’échec. Mais qui doit voter les lois ? N’est-ce pas les députés ? », affirme, impuissant, un cadre du ministère de la santé.
Dans le trafic des faux médicaments, les lobbys sont puissants et influencent les décisions. Entre 2007 et 2013, le gouvernement a tenté de réprimer sévèrement les trafiquants en prenant d’assaut les marchés et dépôts illicites. La pression s’est intensifiée en 2009 avec l’Appel de Cotonou contre les faux médicaments, initié par la Fondation Chirac. « Mais les résultats étaient mitigés », reconnaît le général Idrissou Abdoulaye, ancien directeur du Centre nationale hospitalier et universitaire (CNHU). « En réprimant au lieu de régler le problème, on ne faisait que le déplacer. Les bonnes dames quittaient le marché pour se retrancher dans les maisons et les ruelles », explique le général, aujourd’hui à la tête du laboratoire de biochimie du CNHU.
La convention Médicrime, adopté par le conseil de l’Europe en septembre 2010 pour criminaliser le trafic, est un début de solution. Mais, depuis son adoption, elle n’a été ratifiée que par cinq pays, dont la Guinée, sur une vingtaine de signataires.
Au Bénin, aucun projet de loi ou de ratification condamnant le trafic n’a encore été soumis au Parlement. En attendant, à Adjégounlé, les trafiquants font de bonnes affaires sous le regard complice des autorités.

*Le prénom a été changé.


Eglise orthodoxe du Benin