222. Boyd Rice (Stati Uniti) - Boyd
Rice (1977). Il disco, noto anche come The black album, è composto da nove
tracce: ognuna consta d’un brevissimo segmento sonoro ripetuto indefinitamente
(ovvero: mandato in loop). Come classificarlo esteticamente? Ho rigirato il
problema come un cubo di Rubik e sono arrivato a due (misere) conclusioni: o si
considera tale musica quale sonorizzazione propedeutica a una catarsi
sciamanica (quale alienazione che allontana dal quotidiano e invita a superiori
stati di coscienza); oppure come musica il cui apprezzamento si regge su un
contratto concettuale con l’ascoltatore. Mi spiego: noi guardiamo Boyd Rice che
occhieggia dalla copertina, armato di martello, sopra un tappeto di vinili
spezzati, e diciamo: “Bene, il pop ha avuto la sua nemesi. Questo è un disco
antipop, antisistema, antimelodico, anticapitalista et cetera. Mi piace”. È
l’antitesi brutale alla tradizione a suggellare un patto fra lui e noi e a
eccitare il consenso. Quando tale patto verrà meno il disco si derubricherà a
quello che è: una serie di loop inascoltabili. Lo stesso avviene in altri
ambiti: pensiamo (ma è un esempio fra i moltissimi) alle scatole di cornflakes
firmate da Andy Warhol, e vendute per centinaia di dollari; grazie al contratto
emozionale/concettuale tra il carisma dell’artista creatore e il fruitore
(debitamente gonfiato dalla propaganda dei mercanti e dalle elucubrazioni dei
critici), ogni scatola di cartone sublima(va) in oggetto artistico ambitissimo.
Una volta rotto il contratto (morte di Warhol, disinteresse all’avanguardia americana,
calo delle vendite), ogni collezionista o galleria d’arte si ritroverà fra le
mani il prodotto nella sua nuda e indubitabile oggettività: nient'altro che una vecchia scatola di cereali. Curioso fenomeno che non avviene, ne converrete, con la Quinta di Beethoven, Blonde on blonde o La tempesta di Giorgione. Da ascoltare, comunque. Melodici,
astenersi come d’uso.
223. Terry Riley (Stati Uniti) - A
rainbow in a curved air (1969). Uno dei capolavori della musica elettronica
moderna. In esso rileva la ripetizione (può ascriversi alla corrente
minimalista del tempo, propria dei connazionali Philip Glass e Steve Reich), seppur
complicata dalle stratificazioni sonore (Riley suona tutti gli strumenti, dalle
tastiere alle percussioni ai fiati) e da sicure derivazioni world, tratte, in
particolare, dalla musica indiana. Da quest’ultima il californiano deriva la
struttura ritmica (propria dei raga, di cui fu attento studioso) e, non meno
importante, l’afflato concettuale (basato sulla eternità dei cicli temporali) –
inderogabile concetto metafisico e religioso che informa di sé,
necessariamente, anche le epifanie musicali. Da non mancare.
224. Claudio Rocchi (Italia) - Rocchi
(1975). L’album che segnò l’inizio di una sperimentazione più ardita per il
cantautore milanese. Rocchi rimesta un ciceone di concretismi, space, inserzioni
sonore, riecheggiamenti world (che sostanziano integralmente l’iniziale Zen session, 12’59’’) su cui galleggiano,
fascinose, le blande sopravvivenze della forma canzone: un folk psichedelico
dilatato (Zero, Certa Puglia) e imbevuto di quella siderale lontananza proprio del sogno.
Notevole.
225. Rocky's Filj (Italia) - Storie di
uomini e non (1973). Il disco inizia con uno dei capolavori della stagione
progressive italiana, L’ultima spiaggia
(12’54’’); così lo presenta un competente estremo di quel periodo, John, amministratore del blog John’s Classic Rock: “Dopo un
micro-attacco orchestrale e un breve innesto melodico, scatta di colpo un break
rock dalle sonorità conturbanti che spiana il terreno ad una sorta di
improvvisazione free basata principalmente sul sax, sul flauto e su di una
autorevole linea di basso che detta legge sino al finale”. Con l’eccezione
di Il soldato, brano più sbilanciato
verso un topico melodismo italiano, il resto dell’album (suonato
impeccabilmente) conferma un empito jazz rock che richiama, a tratti, i
primissimi King Crimson. A distanza di anni li trovo sorprendenti. Da
ascoltare, ovvio. Rocky Rossi, voce, sassofono, clarinetto; Roby Grablovitz,
chitarra, flauto; Luigi Ventura, basso, trombone; Rubino Colasante, basso,
batteria.
226. Ron 'Pate's
Debonaire (Stati Uniti) - Raudelunas pataphysical revue (1977). Occhio
… l’apostrofo prima di Pate’s indica l’appartenenza alla ‘Patafisica, corrente fondata
letterariamente e ideologicamente da Alfred Jarry. Cosa sia la patafisica è
discutibile: la scienza dell’identità dei contrari, delle eccezioni, del
relativismo fenomenologico … a distanza di anni non l’ho capito … posso dire
che i patafisici sono provocatori, ricercatori del futile, sobillatori del buon
senso. E così i Nostri: guidati dal reverendo Fred Lane (nome d’arte di Tim
Reed) aprono e chiudono il disco con due pericolanti versioni da big band, My kind of town (Chicago is) e una sguaiata Volare; nel mezzo, patafisicamente incongrui, abbiamo un concerto
per gracidii di rane, noise puro, avanguardia free jazz, musica spettrale da
giostrina, monologhi. Indefinibile e da ascoltare. Fred Lane, voce; Adrian Dye,
voce, tastiere; Nolan Hatcher, voce, corno; Cyd Cerise, chitarra, sassofono;
Omar Bagh-dad-a, tastiere; Ron 'Pate, trombone; Bob "Cheapskate"
Cashion, trombone; Mitchell Cashion, tromba, trombone, sassofono, corno,
percussioni; Craig Nutt, voce, sassofono, trombone, corno, percussioni; Johnny
Williams, sassofono; Davey Williams, sassofono; Johnny Fent-Lister, sassofono;
Nolan Hatcher, corno; Dick Foote, oboe, sassofono; Fred McGann, sassofono;
Roger Hagerty, oboe, sassofono; Don "Pretty Boy" Smith, tromba; Dick
Foote, oboe, sassofono; Don "Pretty Boy" Smith, tromba; Theodore
Bowen, cembalo; Cathy Mehler, violoncello; Abdul "Ben" Camel, basso;
Theodore Bowen, basso; "Bill" The Kid Dap, batteria; Anne LeBaron,
percussioni; arpa; LaDonna Smith, tromba, viola; Davey Williams, corno; Nips
"Napes" Newton, arpa, percussioni; Mark Lanter, batteria;
percussioni; Charles Ogden, batteria.
227. Dieter Roth-Gerhard Rühm-Oswald Wiener (Austria/Svizzera) - 3. Berliner Dichterworkshop 12./13.7.73 (1973). Gli austriaci Gerhard Rühm e Oswald Wiener
militavano nel Wiener Gruppe, sorta di cenacolo letterario d’avanguardia devoto
alle correnti più radicali sorte nei primi decenni del secolo breve (Surrealismo,
Dadaismo …). L’inizio (i primi dieci minuti) si stabilizzano su un pianismo
d’avanguardia piuttosto prevedibile (per chi è avvezzo alla lista NWW), quindi
si spalancano le celle imbottite: un coro intona in ordine sparso la vocalità
della propria follia dannata, quasi una parodia del Ligeti lunare di Kubrick; segue
la quiete, rotta quasi subito da giustapposizioni di fischi e fischietti
malandrini: la voliera del disagio mentale. Ci si ferma di nuovo, si riprende,
ci si trastulla con bizzarrie assortite, e poi via così, sino allo sfinimento
della ragionevolezza. Ognuno lo definisca a modo suo. Da ascoltare, ma con
cautela.