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giovedì 24 dicembre 2015

Beyond the (Italian) boundaries - Post rock vol. 13 (Mario Bertoncini/Mario Nascimbene/Walter Branchi & Mauro Bortolotti)

Mario Bertoncini
Indice generale/General index

Auguro a chiunque segua il blog un Natale e un 2016 sereni

Mario Bertoncini - Arpe eolie (2007; recordings 1973-1974). Co-fondatore di Nuova Consonanza (1959; era l’associazione nata per promuovere l’avanguardia italiana), assieme a Macchi, Evangelisti, Bortolotti; fra gli altri. Arpe eolie è un capolavoro (in cui è sfruttata, appunto, l’arpa eolia, le cui vibrazioni sono originate dal vento) di cui Bertoncini è esecutore e artefice assoluto. Echi remotissimi e avvolgenti, e sempre minacciati dalla casualità, come una fiamma mossa dalle correnti più capricciose, tengono in scacco estatico l’ascoltatore. Inevitabile.

Mario Nascimbene - Atti degli Apostoli (2004; recordings 1969). Mario Nascimbene fu autore di numerose colonne sonore, ancora da valutare. Al sottoscritto egli è caro soprattutto per la collaborazione con Roberto Rossellini; con il Rossellini televisivo, magnifico e tardo, in cui la ricostruzione storica accurata, l’ansia divulgativa e la calda empatia delle immagini vanno di pari passo. Di tale collaborazione è rintracciabile, per ora, solo la presente testimonianza ove si ritrovano parte dei dialoghi dello sceneggiato, a detrimento della musica vera e propria. Ma non è un ostacolo all’apprezzamento, anzi: il delicato tema iniziale, sottolineato in modo indimenticabile dal flauto di Severino Gazzelloni, si costituisce subito quale sfondo sonoro e morale del disco (ricco di eccellenti spunti etnici), e va a fondersi perfettamente al testo; in tal modo Nascimbene rende alla perfezione la Stimmung del quinto Vangelo: qui lo smarrimento per la morte del Cristo e la mestizia convivono con un fervore spirituale incrollabile e la viva speranza per un mondo ulteriore che renda giustizia all’iniquità di questo. Da sentire il disco, da vedere lo sceneggiato; bruti astenersi.

Mauro Bortolotti/Walter Branchi - Paesaggi intravisti (1987). Walter Branchi è una delle colonne del Gruppo Improvvisazione Nuova Consonanza; Bortolotti fu allievo di Pietro Grossi, pioniere dell’elettronica italiana, co-fondatore di Nuova Consonanza (l’associazione, non il gruppo) e scheggia ideologica dei Corsi Estivi di Darmstadt (Internationale Ferienkurse für Neue Musik, Darmstadt), untori primi della scena sperimentale europea. Paesaggi intravisti consta di due lunghe tracce: inserti dialogati, concretismi, ambient, elettronica convivono in un flusso sonoro accattivante, felicissimo. Lo consiglio, ovviamente. In più, sotto i video dei primi due dischi (su youtube non esistono video dei Paesaggi), aggiungo un imperdibile documentario tedesco (di Theo Gallehr) sul Gruppo Improvvisazione Nuova Consonanza.

Per il download: basta cliccare sul titolo, spuntare la casella e cliccare nuovamente, stavolta sul simbolo universale del download (下載 in cinese) e il tutto si avvierà automaticamente.

mercoledì 18 novembre 2015

Hard rock in Bremen - Black Sabbath/MC5/Led Zeppelin/Jeff Beck


Tutte session per un programma radio tedesco, di Brema, il Beat Club.
Ho scelto quelle hard rock. 
Roba vecchio stampo, che è girata sul piatto mille volte ... eppure, ogni tanto, vien voglia di risentirla.
MC5 sopra tutti.

Black Sabbath, 1970

01 - Iron man
02 - Paranoid
03 - Black sabbath
04 - Blue suede shoes

MC5, 1972

01 - Kick out the jams
02 - Ramblin' Rose
03 - Motor City's burning
04 - Tonite
05 - Black to comm #2

Led Zeppelin, 1969

01 - Babe I’m gonna leave you
02 - Whole lotta love
03 - You shook me

Jeff Beck 25 marzo 1972

01 - Got the feeling
02 - Situation 
03 - Morning dew
04 - Tonight I'll be staying here with you
05 - Going down
06 - Definitely maybe

giovedì 22 ottobre 2015

Nurse With Wound list vol. 43 (Third Ear Band/Thirsty Moon/This Heat/Jacques Thollot/Thrice Mice/Throbbing Gristle/Paolo Tofani/Tokyo Kid Brothers)

NWW list vol. 43. Paolo Tofani

Third Ear Band (Gran Bretagna) - Alchemy (1969). Già recensito qui.

Thirsty Moon (Germania) - You'll never come back (1973). Già recensito qui.

This Heat (Gran Bretagna) - This Heat (1979). Webbaticy: "Ciò che lo rende comunque all'altezza del secondo [Deceit] è la formidabile ecletticità della proposta: il noise-rock dissonante di Horizontal hold, la cantilena pastorale dell'orrido di Not waving, la desolazione spoglia di Twilight forniture, l'ottusa danza industriale di 24 track loop. Tutto il resto è sperimentazione brada e senza possibilità di controllo. Essenziale". Un capolavoro essenziale. Charles Bullen, voce, chitarra, clarinetto, viola; Gareth Williams, voce, chitarra,  tastiere, basso: Charles Hayward, voce, tastiere, percussioni.

Jacques Thollot (Francia) - Quand le son devient aigu, jeter la girafe à la mer (1971).

Thrice Mice (Germania) - Thrice Mice (1971). Karl-Heinz Blumenberg, voce; Werner von Gosen, chitarra; Wolfram Minnemann, tastiere; Wolfgang Buhre, sassofono; Rainer von Gosen, basso; Arno Bredehöft, batteria.

Throbbing Gristle (Gran Bretagna) - The second annual report (1977). Webbaticy again: "... questo debutto terrificante finì per diventare l'atto primo della musica industriale ... Da qui è partito più o meno tutto il filone (e anche la dark-ambient, con i 20 minuti catacombali di After cease to exist) di menti deviate, di rifiuto totale della standardizzazione musicale, di sperimentazioni ardite ... la vocalità angosciante e manipolata di Orridge, le spirali corrosivo-convulsive della Fanny-Tutti e i lavori terroristico-elettronici di Carter e Christopherson, qui colti quasi esclusivamente in sede live, furono veramente protagonisti di una rottura indicibile, un passaggio di frontiera irreversibile". Capolavoro definitivo. Genesis P-Orridge, voce, chitarra, violino, clarinetto; Chris Carter, tastiere, programmazioni; Cosey Fanni Tutti, voce, chitarra; Peter Christopherson, tromba, programmazioni.

Paolo Tofani (Italia) - Indicazioni (1977).

Tokyo Kid Brothers (Giappone) - Golden bat (1971).

domenica 11 ottobre 2015

Krautrock party vol. 9 (Thirsty Moon/Grobschnitt/Xhol Caravan)


Indice generale/General index

Thirsty Moon - You'll never come back (1973). Siegfried Pisalla, voce, chitarra, percussioni; Jürgen Drogies, chitarra, percussioni; Michael Kobs, tastiere; Harald Konietzko, voce, basso, violoncello, percussioni; Willi Pape, sassofono, flauto percussioni; Norbert Drogies, batteria; Erwin Noack, percussioni;

Grobschnitt - Solar music live (1978). Lupo (Gerd-Otto Kühn), chitarra; Wildschwein, voce, chitarra; Mist (Volker Kahrs), tastiere; Popo (Wolfgang Jäger), basso;  Eroc (Joachim Heinz Ehrig), batteria.

Xhol Caravan - Electrip (1969). Öcki, tastiere, tuba; Tim Belbe, tastiere; Hansi Fischer, flauto, sassofono; Klaus Briest, basso; Skip, batteria.

domenica 12 luglio 2015

Nurse With Wound list vol. 42 (Demetrio Stratos/Supersister/Taj Mahal Travellers/Tamia/Tangerine Dream/Ghédalia Tazartès/Technical Space Composer's Crew/'Mama' Béa Tekielski)

NWW vol. 42. Tamia Valmont

248. Demetrio Stratos (Italia) - Cantare la voce (1978). Le investigazioni sullo strumento musicale più negletto: la voce. Demetrio Stratos, artista cosmopolita (nacque in Egitto da genitori greci, di fede ortodossa), recupera all’ascolto occidentale alcune tradizioni vocali popolari (siberiane e mongole) in funzione di rottura proprio con l’ordine borghese. L’operazione, assolutamente eversiva dal punto di vista antropologico e politico, mostra inoltre una tecnica stupefacente (basta dare un orecchio a Flautofonie e altro nonché a Investigazioni. Diplofonie e triplofonie [in cui Stratos raddoppia e triplica la voce alterandone il timbro]); il limite del disco risiede in una persistente aria d’incompiutezza, come se ogni traccia fosse un torso per sperimentazioni e studi piuttosto che una scultura finita e polita. Scartafaccio e non libro. Da confrontare, per la comprensione di tali appunti, al lavoro affine di Tamia Valmont.

249. Sweet Okay Supersister (Olanda) - Spiral staircase sass (1974). Abbiamo già presentato i primi due album della formazione olandese, Present from Nancy e To the highest bidder. Il presente Spiral staircase conferma il loro “eclettismo lodevole eppur forzato”, fra episodi di progressive colto, inserti concreti e lazzi di buona lega. Vanno riconosciuti ai Supersister, tuttavia, sia l’originalità d’ispirazione che la perizia nell’esecuzione. Robert Jan Stips, voce, tastiere; Sacha van Geest, voce, flauto, percussioni; Martin Van Wijk, chitarra; Dick De Jong, cornamuse; Anneke Van Der Stee, mandolino; Mien Van Den Heuvel, mandolino; Bertus Borgers, sassofono; Jan Hollestelle, basso; Ron Van Eck, basso; Louis Debij, batteria; Los Alegras Band, batterie; Dorien Van Der Valk, cori; Inge Van Iersel, cori; Josee Van Iersel, cori.

250. Taj Mahal Travellers (Giappone) - August 1974 (1975). Giàpresentato qui, JPR37.

251. Tamia (Francia) - Senza tempo (1981). La cantante francese (Tamia Valmont) recupera e reinterpreta vocalmente la tradizione popolare (medio)-orientale: in Shakuhachi song, ad esempio, una melodia nipponica per flauto di bambù, in First poliphony le polifonie tibetane, e così via. Le punte del disco (Narcissa solis) attingono davvero a un’esperienza atemporale, fuori d’ogni canone occidentale. Da ascoltare.

252. Tangerine Dream (Germania) - Electronic meditation (1970). Il debutto dei Tangerine Dream, formati da tre colonne della musica germanica dei Settanta, è già un capolavoro. Sono passati quarantacinque anni: Electronic meditation non solo non è invecchiato, ma, a tutt’oggi, fa appassire, al confronto, parecchia avanguardia arrivata subito dopo. Essenziale. Edgar Froese, chitarra, tastiere; Conrad Schnitzler, chitarra, violoncello, violino; Klaus Schultze, batteria; Jimmy Jackson, tastiere; Thomas Keyserling, flauto.

253. Ghédalia Tazartès (Francia) - Tazartès' transports (1980). Francese di nascita, ma di ascendenza ebraica (in terra turca), Tazartès fonde con sorprendente fluidità concretismi, loop, effetti elettronici, spezzoni parlati (anche in italiano) e suggestioni di musica popolare nord-africana e medio-orientale: il pout-pourri si snoda sicuro, segno inconfutabile di una sensibilità superiore. Forse è world music, forse no. Eccellente, in ogni caso.

254. Technical Space Composer's Crew (Germania) - Canaxis V (1969). Il capolavoro diHolger Czukay, già recensito qui.

255. 'Mama' Béa Tekielski (Francia) - La folle (1977). Di padre polacco e madre italiana, Béatrice Tekielski si inscrive, per sua stessa ammissione, nella riconoscibile tradizione della canzone francese propria a Brel, Brassens e Léo Ferré. La forza appassionata e ruggente delle interpretazioni, a volte fluviali (La mort, 16’30’’) e dilatate, la pongono ben al di là del semplice manierismo. Da ascoltare.

giovedì 4 giugno 2015

Fabio Celi e Gli Infermieri - Follia (1969) ovvero: Io chiedo il capestro. Voglio vederli morti.


Mafia capitale: 44 nuovi arresti. Anche consiglieri centrodestra e centrosinistra. Pd sotto accusa replica: "Marino baluardo di legalità"
Blitz nel Lazio, Sicilia, Abruzzo ed Emilia Romagna. Anche 21 indagati a piede libero. Al centro dell'inchiesta il business dei migranti. Coinvolti Gramazio, Tredicine, Ozzimo, Coratti, Caprari e Tassone. Nelle carte anche il nome di Alemanno. Il sindaco: "Dimissioni? No, vado avanti".

Va avanti, lui. Ma dove vai, coglione!
Tutto questo nel giorno in cui si annuncia l'IMU sugli impianti industriali.

Basta, rinunciamo infine.
Alla libertà, ai diritti.
In cambio d'un capestro.
No, non è uno scambio doloroso. Neanche un mercimonio. È puro guadagno.
E poi quale libertà? Quella di votare? Stiamo scherzando? Quale libertà? Quella di parola? Stiamo scherzando di nuovo? La libertà di scegliere cosa? Cosa scegliamo?
E quale diritto? Quello di essere sopravanzato nella vita reale da perfetti inetti e corrotti? Il diritto alla felicità? A essere lasciato in pace? A essere libero in casa propria? Il diritto alla proprietà? Ad avere un lavoro? I figli a scuola? La vacanzuola?
Basta, per carità.
La libertà in Occidente è solo un tratto superstizioso, un cascame di antiche età. Non ha più senso.
Dare indietro il simulacro del diritto e il fantasma della libertà in cambio d'un giusto capestro, ecco, questo è un buon affare.
L'unico inciampo è quell'aggettivo: giusto. Dipende da noi.
Necessita un dictator rei gerendae causa.
La Patria è ingovernabile. Tutti i meccanismi sono saltati, è in polvere quella delicata e necessaria gerarchia intermedia fra cittadino e Stato.
E lo Stato è ormai flatus vocis; di fatto rileva esclusivamente quale congrega di burocrati e aguzzini, di protervi contabili usurai. Cos'è questo Stato se non un groviglio di interessi privati che usa l'esoscheletro democratico (oh, quanto rispettabile!) per sostentarsi con avidità parassitaria?
Ai miei diritti-burla rinuncio volentieri, con una risata.
Di questa armatura inservibile, che solo opprime chi la porta e manda ridicoli clangori di ferraglia, come il cimiero e la cotta del pezzente Don Chisciotte, posso fare a meno.
I diritti!
Non voglio diritti, né democrazia, né libertà.
Me ne sbatto.
Se li prenda il mio nuovo signore.
Rinuncio per un Michele Kohlhaas o un Marco Furio Camillo; va bene anche un lurido Pugacev, un pugnace Ned Ludd o un rapace Ivan.
Bello morire per tali uomini.
Moriturus te salutat.
Ma esigo il capestro.
Li voglio vedere impiccati, dal primo all'ultimo. Mille, diecimila, centomila patiboli, lungo la via Appia. Mi voglio beare a tale vista, le facce scure di sangue cagliato, braccia e gambe appese come stracci, le palle degli occhi ciondolanti fuor dell'orbita, beccate dai corvi, a segnare traiettorie di sguardi allucinati. Voglio ridere forte a guardare chi piange ai piedi d'ogni minuscolo Golgota, voglio frustare le loro mogli e i loro mariti, le madri e i padri, e voglio prendere a calci nei denti pure i figli, dileggiarli mentre quei papponi oscillano lenti contro un sole tiepido e luminoso.
Ridete, ora?
E voglio ghignare mentre penzolano pure i sacerdoti della bontà, e le diafane pitonesse della correttezza, cogli arti disarticolati dalle slogature, le trippe schiantate, strette dai nodi mortali, le budella che se ne vogliono scappare per uno qualsiasi dei loro beneducati orifizi, per le scintillanti tubature dell'anima - un'autoclave di fratellanza.
Uno degli arrestati annunciava sul proprio sito:



5 PASSI PER LA RIGENERAZIONE

Rigenerazione: è questa l'azione principale che abbiamo scelto per caratterizzare la nostra politica guardando al futuro di Roma Capitale. Rigenerazione è cambiamento. Rigenerazione è crescita. Rigenerazione è nuova vita.

Ben detto, vecchia talpa!
Questa è giusta. Rigenerazione. Traverso il fuoco e il sangue.

sabato 21 marzo 2015

Mutant Sounds reborn - The Italian posts of Mutant Sounds vol. 17 (N/Roberto Donnini/Oronzo De Filippi)



N - Hospital murders (2004). N. is the sick death industrial/noise project of one called Davide Tozzoli. No much infos on him, except that he is Italian. Musically he owes much to early MB sound, combined with Atrax Morgue noisy sick soundtracks. This release differs from all his others and it's possibly his best (well for me at least). No noise here. Just ambient soundscapes created by analog sources, creepy voices creating really morbid atmosphere of psychosis, disease and death. It could be perfect soundtrack for a giallo movie about a sick serial killer addicted to sexual murders in hospitals. The tape comes in vinyl box with two nice inserts and it's limited to 100 copies. The tape itself is white with "blood" splashes and Skeletone sticker on A side. Perfect deluxe packaging from Skeletone label! Highly recommended release!

Roberto Donnini - Tunedless (1980). Architect, visual artist and musician, Roberto Donnini has realized some great avantgarde LPs back in the 80s and 90s, pure droning soundscapes with a complex blending of a rich instrumentations played by an enviable cast of guest musicians (including Albert Mayr, Giancarlo Cardini, Donella Del Monaco, Giancarlo Schiaffini, Andrea Centazzo, Lino Capra Vaccina). This LP was released through Lynx label in 1980, as Galerie Schema edition, of course limited (I heard about 100 copies only). Tunedless is contemporary music for synthesiser and electric and acoustic instruments, composed by Roberto Donnini and performed by Roberto Donnini, Stefano Fiuzzi, Jaqueline Darby, Roberto Buoni, Aldo de Bono, Mino Vismara, Albert Mayr. It can be performed by any kind and number of instruments or voices. Only one instruments must play ad libitum the series with the last three or four notes (right) at random, but returning always to a flat. All other instruments and voices can be well tuned or fluctuate within a very small interval above and below the notes frequency of the instrument playng ad libitum: they can't play more then five notes of the series for each performance.

Oronzo De Filippi - Meccanizzazione (1969?). This fabulous Morricone-esque library rarity (issued on the Leo label) is plainly the template for the turn Stereolab would take circa Dots And Loops, its atmosphere of pointillistic op-art modernist cool enacted via percolating cadences, dancing patterned harpsichord hits, stray dissonances, elegantly odd organ elaborations and jaunty period orchestrations.

venerdì 19 dicembre 2014

John Lennon & Yoko Ono - Unfinished music vol. 1. Two virgins (1968)/Wedding album (1969)

Narra Albert Goldman che, in tournée col marito John, Yoko sedesse al piano elettrico, quale membro effettivo della band; l'impegnato tramestio manuale, tuttavia, pare avvenisse a vuoto: fonti oculari, e fededegne, testimoniarono, infatti, come la spina dello strumento fosse incautamente disinserita. Chissà se riferirono alla signora Lennon l'incresciosa scoperta ... in tal caso, ne sono sicuro, lei avrebbe opposto a tali rivelazioni la propria, consueta impassibilità da insetto predatore ... 
Nell'episodio (pettegolezzo più o meno vero) c'è tutta Yoko: arrivista, nichilista, velleitaria, anticonformista, artista da fuffa (come solo gli americani della modern art sanno essere), decisamente vuota, ma attuale, attualissima, sempre in linea coi tempi ... e che tempi: gli anni dell'amore libero, della free form, della contestazione ... un mondo in sommovimento in cui tutto era possibile ... persino che un immigrato slovacco, un semplice grafico, armato di epocale faccia bronzea, inaugurasse (con una contraddizione che la dice lunga sul personaggio) la milionaria popular art ...
Yoko (già moglie di Toshi Ichiyanagi, cfr. JPR46 e JPR36) ebbe il merito di liberare definitivamente John Lennon dalle pastoie della melodia piccolo borghese, seppur gravida di talento e gloria; in un certo senso ne allungò la carriera, destinata altrimenti, come per gli altri Beatles, a un doratissimo e irresistibile tramonto.
Unfinished music vol. 1 è il primo episodio della trilogia sperimentale di Lennon (abbiamo già esaminato il secondo, Unfinished music vol. 2. Life with the lions, NWW194), conclusasi con il Wedding album.
Se Life with the lions è, come ho scritto, uno dei migliori dischi dei Bitolz (secondo altri, il migliore), Two virgins propone già quelle provocazioni, seppur in tono più acerbo e incompiuto: concretismi, disarmonie, gorgheggi da menade giapponese, giustapposizioni sonore - un universo che assume valenza storica non in sé (altri osarono molto di più e ben prima), ma in relazione alla pregressa avventura pop di Lennon, decorosa e controllatissima anche negli episodi apparentemente più arditi.
Il terzo capitolo, Wedding album, appare, invece, esteticamente irrecuperabile: è di fatto il resoconto del loro matrimonio: una bomboniera sonora, insomma, sospesa tra registrazioni dalla camera d'albergo del bed-in e gridolini orgasmici da lune de miel ... for fanatics only. 

domenica 9 novembre 2014

Fleetwood Mac - Blues jam at Chess (1969)

Non credo d'aver mai menato scandalo nella mia vita. Qualche sparata ogni tanto. Soprattutto negli ultimi tempi.
Negli ultimi tempi molte cose che in passato mi regalavano piacere (o meglio: eran piacevoli abitudini) sono scadute, ai miei occhi (o meglio: ai miei sensi) a noiosissime incombenze; tanto da averle cassate dall'esperienza quotidiana. Son diventato, insomma, insofferente; a tratti oltremisura. Dei libri non parliamo; più ne leggo meno mi piacciono. Ho fucilato parecchi autori, dismesso interi settori della biblioteca. Col tempo si diviene essenziali, forse. Fatto sta che ormai sopporto poco e se un disco, uno scritto, un quadro devono appesantire il mio piatto, i miei scaffali o le mie pareti devono essere il risultato di un vaglio spietato.
Ma dicevamo delle sparate. Sparate per delle questioni musicali ne ricordo poche, ma buone. Una volta tentai di strappare una EKO dalle mani importune di un tizio che tentava i primi accordi di Hey Jude. Ancora: mi torna in mente un battibecco a proposito dei Led Zeppelin. Uno screzio a causa di Elton John e Lou Reed. E ricordo gli inevitabili scontri con i cultori delle Corporazioni, ovvero coloro che ammettono dignità solo al genere preferito: i melomani classici (da cui discendono gli odiosissimi audiofili), i proggaroli, i metallari (forse i più fanatici), i jazzaroli (alcuni sono irritanti), e i bluesaroli. Con un bluesarolo ebbi un amabile diverbio qualche centinaio d'anni fa. Sostenevo, in buon ordine e accettabile italiano, questa tesi: l'unico blues degno di rilievo è quello che promana necessariamente dalla sofferenza e dal disagio (sentimento che, infatti, contraddistingue i  bluesmen radicali - nati alle radici del blues - oppure personalità d'eccezionale rilievo). Ed è necessario che sia così, poiché tale musica, a causa della propria stessa struttura, risulta chiusa e devota a uno schematismo ben riconoscibile; quindi, se manca tale elemento, essa si risolve o nella prevedibile maniera o nel virtuosismo più stucchevole. Ne concludevo che Blues jam at Chess era un buon album, piacevole e caldo, ma anche datato, ripetitivo, manieristico, e tutt'altro che entusiasmante - un disco il cui alone leggendario (gli inglesi di Mayall a Chicago! C'è Peter Green! E Buddy Guy e Willie Dixon!) riposava sull'eredità di recensioni e considerazioni d'alto conformismo.
Lo sventurato rispose.
E ci attaccammo con foga. 
Erano bei tempi. Pensate un poco: due ventenni che si accapigliano per i Fleetwood Mac prima maniera!
Erano bei tempi.
Ma dove sono le nevi dell'altr'anno?

giovedì 23 ottobre 2014

Nurse With Wound list vol. 38 (Boyd Rice/Terry Riley/Rocky's Filj/Claudio Rocchi/Ron 'Pate's Debonaire/Dieter Roth-Gerhard Rühm-Oswald Wiener)

NWW list vol. 38. Boyd Rice
Indice Generale/General index

222. Boyd Rice (Stati Uniti) - Boyd Rice (1977). Il disco, noto anche come The black album, è composto da nove tracce: ognuna consta d’un brevissimo segmento sonoro ripetuto indefinitamente (ovvero: mandato in loop). Come classificarlo esteticamente? Ho rigirato il problema come un cubo di Rubik e sono arrivato a due (misere) conclusioni: o si considera tale musica quale sonorizzazione propedeutica a una catarsi sciamanica (quale alienazione che allontana dal quotidiano e invita a superiori stati di coscienza); oppure come musica il cui apprezzamento si regge su un contratto concettuale con l’ascoltatore. Mi spiego: noi guardiamo Boyd Rice che occhieggia dalla copertina, armato di martello, sopra un tappeto di vinili spezzati, e diciamo: “Bene, il pop ha avuto la sua nemesi. Questo è un disco antipop, antisistema, antimelodico, anticapitalista et cetera. Mi piace”. È l’antitesi brutale alla tradizione a suggellare un patto fra lui e noi e a eccitare il consenso. Quando tale patto verrà meno il disco si derubricherà a quello che è: una serie di loop inascoltabili. Lo stesso avviene in altri ambiti: pensiamo (ma è un esempio fra i moltissimi) alle scatole di cornflakes firmate da Andy Warhol, e vendute per centinaia di dollari; grazie al contratto emozionale/concettuale tra il carisma dell’artista creatore e il fruitore (debitamente gonfiato dalla propaganda dei mercanti e dalle elucubrazioni dei critici), ogni scatola di cartone sublima(va) in oggetto artistico ambitissimo. Una volta rotto il contratto (morte di Warhol, disinteresse all’avanguardia americana, calo delle vendite), ogni collezionista o galleria d’arte si ritroverà fra le mani il prodotto nella sua nuda e indubitabile oggettività: nient'altro che una vecchia scatola di cereali. Curioso fenomeno che non avviene, ne converrete, con la Quinta di Beethoven, Blonde on blonde o La tempesta di Giorgione. Da ascoltare, comunque. Melodici, astenersi come d’uso.

223. Terry Riley (Stati Uniti) - A rainbow in a curved air (1969). Uno dei capolavori della musica elettronica moderna. In esso rileva la ripetizione (può ascriversi alla corrente minimalista del tempo, propria dei connazionali Philip Glass e Steve Reich), seppur complicata dalle stratificazioni sonore (Riley suona tutti gli strumenti, dalle tastiere alle percussioni ai fiati) e da sicure derivazioni world, tratte, in particolare, dalla musica indiana. Da quest’ultima il californiano deriva la struttura ritmica (propria dei raga, di cui fu attento studioso) e, non meno importante, l’afflato concettuale (basato sulla eternità dei cicli temporali) – inderogabile concetto metafisico e religioso che informa di sé, necessariamente, anche le epifanie musicali. Da non mancare.

224. Claudio Rocchi (Italia) - Rocchi (1975). L’album che segnò l’inizio di una sperimentazione più ardita per il cantautore milanese. Rocchi rimesta un ciceone di concretismi, space, inserzioni sonore, riecheggiamenti world (che sostanziano integralmente l’iniziale Zen session, 12’59’’) su cui galleggiano, fascinose, le blande sopravvivenze della forma canzone: un folk psichedelico dilatato (Zero, Certa Puglia) e imbevuto di quella siderale lontananza proprio del sogno. Notevole. 

225. Rocky's Filj (Italia) - Storie di uomini e non (1973). Il disco inizia con uno dei capolavori della stagione progressive italiana, L’ultima spiaggia (12’54’’); così lo presenta un competente estremo di quel periodo, John, amministratore del blog John’s Classic Rock: “Dopo un micro-attacco orchestrale e un breve innesto melodico, scatta di colpo un break rock dalle sonorità conturbanti che spiana il terreno ad una sorta di improvvisazione free basata principalmente sul sax, sul flauto e su di una autorevole linea di basso che detta legge sino al finale”. Con l’eccezione di Il soldato, brano più sbilanciato verso un topico melodismo italiano, il resto dell’album (suonato impeccabilmente) conferma un empito jazz rock che richiama, a tratti, i primissimi King Crimson. A distanza di anni li trovo sorprendenti. Da ascoltare, ovvio. Rocky Rossi, voce, sassofono, clarinetto; Roby Grablovitz, chitarra, flauto; Luigi Ventura, basso, trombone; Rubino Colasante, basso, batteria.

226. Ron 'Pate's Debonaire (Stati Uniti) - Raudelunas pataphysical revue (1977). Occhio … l’apostrofo prima di Pate’s indica l’appartenenza alla ‘Patafisica, corrente fondata letterariamente e ideologicamente da Alfred Jarry. Cosa sia la patafisica è discutibile: la scienza dell’identità dei contrari, delle eccezioni, del relativismo fenomenologico … a distanza di anni non l’ho capito … posso dire che i patafisici sono provocatori, ricercatori del futile, sobillatori del buon senso. E così i Nostri: guidati dal reverendo Fred Lane (nome d’arte di Tim Reed) aprono e chiudono il disco con due pericolanti versioni da big band, My kind of town (Chicago is) e una sguaiata Volare; nel mezzo, patafisicamente incongrui, abbiamo un concerto per gracidii di rane, noise puro, avanguardia free jazz, musica spettrale da giostrina, monologhi. Indefinibile e da ascoltare. Fred Lane, voce; Adrian Dye, voce, tastiere; Nolan Hatcher, voce, corno; Cyd Cerise, chitarra, sassofono; Omar Bagh-dad-a, tastiere; Ron 'Pate, trombone; Bob "Cheapskate" Cashion, trombone; Mitchell Cashion, tromba, trombone, sassofono, corno, percussioni; Craig Nutt, voce, sassofono, trombone, corno, percussioni; Johnny Williams, sassofono; Davey Williams, sassofono; Johnny Fent-Lister, sassofono; Nolan Hatcher, corno; Dick Foote, oboe, sassofono; Fred McGann, sassofono; Roger Hagerty, oboe, sassofono; Don "Pretty Boy" Smith, tromba; Dick Foote, oboe, sassofono; Don "Pretty Boy" Smith, tromba; Theodore Bowen, cembalo; Cathy Mehler, violoncello; Abdul "Ben" Camel, basso; Theodore Bowen, basso; "Bill" The Kid Dap, batteria; Anne LeBaron, percussioni; arpa; LaDonna Smith, tromba, viola; Davey Williams, corno; Nips "Napes" Newton, arpa, percussioni; Mark Lanter, batteria; percussioni; Charles Ogden, batteria.

227. Dieter Roth-Gerhard Rühm-Oswald Wiener (Austria/Svizzera) - 3. Berliner Dichterworkshop 12./13.7.73 (1973). Gli austriaci Gerhard Rühm e Oswald Wiener militavano nel Wiener Gruppe, sorta di cenacolo letterario d’avanguardia devoto alle correnti più radicali sorte nei primi decenni del secolo breve (Surrealismo, Dadaismo …). L’inizio (i primi dieci minuti) si stabilizzano su un pianismo d’avanguardia piuttosto prevedibile (per chi è avvezzo alla lista NWW), quindi si spalancano le celle imbottite: un coro intona in ordine sparso la vocalità della propria follia dannata, quasi una parodia del Ligeti lunare di Kubrick; segue la quiete, rotta quasi subito da giustapposizioni di fischi e fischietti malandrini: la voliera del disagio mentale. Ci si ferma di nuovo, si riprende, ci si trastulla con bizzarrie assortite, e poi via così, sino allo sfinimento della ragionevolezza. Ognuno lo definisca a modo suo. Da ascoltare, ma con cautela.


mercoledì 23 luglio 2014

Early psychedelia vol. 17 (It's a Beautiful Day/Hapshash & The Coloured Coats/Tomorrow)

It's a Beautiful Day

It's a Beautiful Day (USA, San Francisco, California) - It's a Beautiful Day (1969). L’unico vero gruppo in grado di competere (solo con questo disco) con la mirabile psichedelia melodica dei Jefferson Airplane (e Patti Santos, la ragazza che potete ammirare sopra, regge visivamente e vocalmente il ring con Grace Slick). Un album che unisce l’ingenuità e la potenza delle illusioni propria dei moti californiani del periodo (libertà, terzomondismo, influenze orientali) a una costruzione cristallina delle canzoni, impreziosite dagli intarsi vocali e strumentali dei Laflamme e della Santos. Bellissime White bird e Hot summer day; notevole Time is; storica Bombay calling, a cui i Deep Purple, con perizia manigolda, applicarono l’espianto fatale buono per rendere immortale Child in time. Se non siete dei bruti l’avrete già ascoltato. In caso contrario civilizzatevi alla svelta. David Laflamme, voce, violino; Hal Wagenet, chitarra; Pattie Santos, voce, percussioni; Linda Laflamme, tastiere; Mitchell Holman, basso; Val Fuentes, batteria; Bruce Steinberg, armonica.

Hapshash & The Coloured Coat (Gran Bretagna, Londra) ‎- Featuring the human host and the heavy metal kids (1967). Michael English e Nigel Waymouth furono soprattutto grafici e designer: i loro manifesti per concerti (Pink Floyd, Incredible String Band e altri gruppi underground dell’Ufo Club), dagli accesi cromatismi propri della cultura psych del tempo, sono dei piccoli capolavori; il critico Federico Zeri che, negli ultimi anni di vita, era sempre più attratto dalle copertine degli LP quale ulteriore manifestazione dell’animo artistico, li approverebbe in pieno. Nel 1967 i due ordirono questo eccentrico tour de force sospeso fra tribalità e reiterazione mantra (Aoum, infatti, figura fra i cinque brani). L’entrata (H-O-P-P-Why?) e l’uscita (i quindici minuti di Empire of the sun) bastano a guadagnargli uno scranno indiscusso nell’Accademia dei Lincei degli spostati, magari accanto a Help I’m a rock di Zappa. Da ascoltare subito. Mike Harrison, voce; Luther Grosvenor, chitarra; Greg Ridley, basso; Mike Kellie, batteria, percussioni; Guy Stevens, Michael English, Nigel Waymouth.

Tomorrow (Gran Bretagna) - Tomorrow (1968). Steve Howe, pre-Yes, e il genialoide Twink dei Pink Fairies, innervano il sottovalutato gruppo britannico. White bicycle e Revolution sono già classici della psichedelia anglosassone, ma il fascino dell’album risiede, oltre che nell’atmosfera sottilmente sfasata, in una commistione paradossale fra allure antiborghese e inflessioni sonore da vecchia Inghilterra: un melange che, con forzatura paradigmatica, potremmo definire beatlesiano; d’altra parte gli Oltremanici, musicisti bistrattati rispetto alla tradizione germanica, slava e mediterranea, non eccellono in marcette e fanfare? Non sarà forse la pompa, derubricata dall'ironia da teatranti, la cifra del beat-pop inglese? Stanley Kubrick, in Arancia meccanica, colse pienamente tale sentire alternando all’elettronica di Walter Carlos (che neutralizzava, nichilista, la cultura alta continentale, da Rossini e Beethoven) il formalismo di Sir Edward Elgar e il funebre incedere di Henry Purcell. Da ascoltare. Keith Alan Hopkins, voce; Steve Howe, chitarra; Mark P. Wirtz, tastiere; John Junior Wood, basso; John Twink Alder, batteria.

Poster di Waymouth per i Pink Floyd

martedì 6 maggio 2014

Virgin Forest vol. 3 - A touch of Norway Oriental Sunshine - Dedicated to the bird we love (1969)/Junipher Greene - Friendship (1971)/Ruphus - Ranshart (1974)/Høst - Hardt mot hardt (1976)

Junipher Greene

Un altro carotaggio ... stavolta la Norvegia. Quattro dischi che provengono dal decennio magico 1967-1977 della musica europea: si parte con le delicate atmosfere hippie/orientali di Oriental Sunshine (un piccolo gioiello; bella la voce della Johansen); quindi abbiamo il disco più celebrato dei Settanta norvegesi, Friendship, dei Junipher Greene (celebrato giustamente occorre dire e ben noto agli appassionati di genere; ero, infatti, indeciso se inserirlo o meno); poi il sottovalutato Ranshart dei Ruphus, sospeso fra i Genesis di Lamb e gli Yes (con la voce di Jahren à la Jon Anderson); infine Høst, Hardt mot hardt, un tardo, ma robusto cascame di heavy prog ... tardo per i tempi a esso coevi eppur anticipatore delle nuove, pletoriche, leve nordiche devote alle costruzioni lambiccate del progressive metal. 

Oriental Sunshine - Dedicated to the bird we love (1969). Nina Johansen, voce, chitarra; Rune Walle, voce, chitarra, sitar; Satnam Singh, voce, flauto, table; Helge Grøslie, tastiere; Sture Jansen, basso; Espen Rud, batteria

Junipher Greene - Friendship (1971). Freddy Dahl, voce, chitarra; Bent Åserud, voce, chitarra, flauto, armonica; Helge Grøslie, voce, tastiere; Øyvind Vilbo, voce, basso; Geir Bøhren, voce, batteria.

Ruphus - Ranshart (1974). Rune Østdahl, voce; Kjell Larsen, chitarra; Hakon Graf, tastiere; Asle Nilsen, flauto, basso; Thor Bendiksen, batteria.

Høst - Hardt mot hardt (1976). Geir Jahren, voce, chitarra; Fezza Ellingsen, chitarra, flauto; Halvdan Nedrejord, tastiere; Bernt Bodahl, basso; Willy Bendiksen, batteria.

martedì 15 aprile 2014

Randy Holden collection - Blue Cheer - New! Improved! Blue Cheer (1969)/Randy Holden - Population II (1970)


Quando, nei dialoghi finali de Il mucchio selvaggio, un omonimo di Randy, William Holden, esclama, rivolto ai fratelli Oates: "Andiamo!", uno dei due si limita a rispondere: "Sì, andiamo". Borgnine, che li aspetta fuori, si limita ridacchiare e si unisce a loro.
Senza parole. E che bisogno c'è di parole?
I quattro vanno a morire, ovviamente, e non in nome di un ideale; in nome di qualcosa d'inesprimibile che li lega intimamente (idee senza parole) e senza cui non sarebbero ciò che sono.
Sapeste quante volte mi hanno detto di scegliere il meglio o l'utile per il mio bene. E ho fatto il contrario. Questo accadeva tanti anni fa. Ora non è più questione di scelta. Devi fare il contrario. Un indizio di salute: fare il contrario.
Una cosa voglio dirvi: vivendo in tal modo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, non si campa granché bene. Diventa tutto difficile. Scorrere in senso favorevole alla corrente, scivolare lungo un declivio prestabilito rende, invece, un senso di pienezza inimitabile, inutile negarlo. Eppure, alla lunga, giunti a un certo grado della propria esistenza, se non si è degli imbecilli a tutto tondo (moralmente inespugnabili, quindi), lisciare il pelo alla vita provoca dei rimorsi profondi e inconsapevoli e insinua l'infelicità più amara: quella di cui non si riesce a scoprire l'origine; viceversa, risalire le pietraie e le strade meno battute della montagna, può farti sbucciare le ginocchia e le mani, e imprecare contro chiunque, e rimpiangere coloro che scendono comodamente a valle, ma quando, seppur laceri, si arriva alla vetta ... sì, da lì si può dominare tutta la pianura, col cuore libero dai pesi dell'utile e del vantaggio, e scorgere la forma definitiva delle cose; e tutti quelli che prima schernivano, ora, al massimo, possono alzare il naso verso di te (anche se, spesso, si limitano a fissare le scarpe).
Non hai desideri di rivalsa, però: a te basta la vetta.
Quindi: che fare? Semplice, si va. Attenti! Non sempre è necessario fare il contrario. Ci sono età felici, chi lo nega. Questa, tuttavia, è un'epoca grigia, stupida, autistica, schizoide, immobile. Bisogna muoversi, andare in alto. Non c'è alternativa. Non mi oppongo: non serve più. Nessuno sta a sentire i ragionamenti, le prediche, gli insegnamenti, i sermoni. Occorre incamminarsi e salire. E sperare. Sperare che, una volta giunti in cima, ci sia qualcuno ad aspettarti o che altri ti abbiano seguito. Ma se anche su quella cima non ci fosse nessuno, né un albero né un sasso e neanche il diavolo, bisogna andarci lo stesso.
"Andiamo". "Sì, andiamo".

martedì 14 gennaio 2014

Alexander Skip Spence - Oar (1969)



Ci sono vite che non vengono vissute, altre troncate troppo presto o cavalcate con un'intensità stordente. Alexander Spence è tutto questo. Eroe della controcultura (fu nei primi Quicksilver Messenger Service e Jefferson Airplane; fondò i Moby Grape), partorì, da solista, un unico disco, questo Oar, che era e rimane un capolavoro del folk psichedelico. L'unica sua opera.
Travolto dalla dipendenza dalle droghe e dalla malattia mentale, Spence troncò la propria carriera artistica, di fatto, a ventitré anni; il resto dell'esistenza naufragò progressivamente, come solo possono fare le esistenze in America: egli divenne indifferente al mondo, al quotidiano; randagio, esiliato da se stesso, straniero nella propria terra.
Il disco è una miscela (ancora oggi sorprendente) di temi folk, accenni blues e dilatazioni psichedeliche, che trovano nei dieci minuti di Grey/Afro la propria sublimazione sonora. 
Occorre scivolare nel disco lentamente e farsi avviluppare dalla voce e dalla strumentazione (specialmente dalle percussioni) che egli suona autarchicamente. Si avrà, allora, nei pezzi migliori (This time he has come, ad esempio), un magnifico sfasamento, come se le varie parti recitate dal musicista Spence, pur concorrendo alla melodia, tendano a un impercettibile fuori sincrono.
Tale impressione conferma e accresce il fascino psych di un'opera capace di mostrare, inoltre, se ce ne fosse ancora bisogno, che la qualità artistica duratura proviene, oltre che dalla preparazione, da una potente predisposizione dell'anima: quella che altri cercano invano, a posteriori, di definire o ricostruire a tavolino chiamandola estetica o scuola.

giovedì 21 novembre 2013

Nurse With Wound vol. 32 (Nine Days' Wonder/Nosferatu/Nu Creative Methods/Oktober/John Lennon & Yoko Ono/Opération Rhino)

NWW vol. 32. John Lennon & Yoko Ono

190. Nine Days’ Wonder (Germania) - Nine Days’ Wonder (1971). Piccolo capolavoro che schizza, mercuriale, fra progressive colto (Henry Cow, Soft Machine, Jethro Tull), accensioni rock e tonalità acustiche più rilassate. Inclassificabile. Grande John Earle, ma una menzione va alla sezione ritmica che bracca sassofono e flauto senza tregua imprimendo un ritmo impetuoso, seppur controllato, all’intera vicenda. Da sentire, ovvio. Rolf Henning, chitarra, tastiere; John Earle, voce, chitarra, flauto, sassofono; Karl Mutschlechner, basso; Walter Seyffer, voce, batteria, percussioni; Martin Roscoe, batteria.

191. Nosferatu (Germania) - Nosferatu (1970). Disco bifronte sospeso fra una psichedelia manierata e derivativa e brani dal ritmo rallentato e dilatato (Willie the fox, 10’49’’) o meritoriamente inacidito (No. 4, 8’48’’), che meritano il prezzo del biglietto: ovvero l’ascolto. Michael "Mick" Thierfelder, voce; Michael "Xner" Meixner, chitarra; Reinhard "Tommy" Grohé, tastiere; Christian Felke, sassofono, flauto; Michael "Mike" Kessler, basso; Byally Braumann, batteria.

192. Nu Creative Methods (Francia) - Nu jungle dances (1978). Improvvisazioni jazz con tocchi esotici che donano un (retro)gusto malfermo e squilibrato all’intera opera. Free macerato al punto giusto. Ottima la seconda parte di No jungle folies (19’50’’). Attenzione: è per orecchie allenate. Pierre Bastien, chitarra, basso, tastiere, sassofono, flauto, clarinetto, corno, cembalo, nastri, percussioni; Bernard Pruvost, voce, chitarra, basso, tastiere, sassofono, flauto, oboe, clarinetto, corno, cembalo, nastri, shenai, percussioni.

193. Oktober (Germania) - Die Pariser Commune (1977). Rock politico (celebra la Comune parigina del 1871 in polemica contro eventi storici più prossimi, come il Vietnam), seppur immemore della vena sarcastica, virulenta e funebre di Brecht e degli espressionisti, e orientata ai Genesis di The battle of Epping Forest. Quattro lunghe suite (venti minuti circa), a tratti piacevoli; già si avverte, però, la graveolenza del declino ideologico e musicale del fiume germanico, avviato verso il grossolano oceano sonoro degli Ottanta. Carl-F. Dörwald, voce, flauto; Kalla Wefel, voce, chitarra, basso; Hans-Werner Schwarz, chitarra; Pierre Meyn, chitarra, basso; Michael Iven, voce, chitarra, tastiere; Peter Robert, tastiere; Klaus-Peter Harbort, percussioni.

194. John Lennon & Yoko Ono (Gran Bretagna/Giappone) - Unfinished music vol. 2. Life with the lions (1969). Yoko Ono, la mente della coppia, volto da strega e strega a tutto tondo; artista i cui meriti, di sabotatrice goliarda, dell’accademia e delle trite e irresistibili canzonette del marito, assumono, già da oggi, un rilievo non banale. Scrittrice, regista (celebre il film sulle natiche) e pesce a suo completo agio in quel demi-monde sperimentale americano in cui tutti fanno qualcosa anche se non hanno nulla da dire. Ma a Yoko va riconosciuto un coraggio sfacciato: i 26’33’’ di Cambridge 1969 coi suoi vocalizzi etnici da sciroccata giustapposti ai feedback di Lennon; il silenzio à la John Cage di Two minutes of silence; il battito cardiaco del figlio mai nato (Baby’s heartbeat); i folli concretismi radio di Radio play; le intonazioni infantili e malate di Mulberry: tutta farina dell’ottuagenaria di Tokyo. Da sentire. Uno dei migliori dischi dei Beatles. Yoko Ono, voce; John Lennon, voce, chitarra.

195. Opération Rhino (Francia) - Fête de politique hebdo Lyon 76 (1976). Claude Bernard e Raymond Boni (NWW40), Gilbert Artman (NWW23), Pierre Berrocal (NWW35), Pierre Bastien (NWW192) uniscono le forze per un album sospeso fra jazz e sperimentazione: se Improvisation 1 (18’56’’), e la coda di Improvisation 1. Suite, ricreano le inquiete atmosfere da grande orchestra come in Urban Sax di Artman, la Improvisation 2 cede a un free jazz paradossalmente più rassicurante. Opera obliqua, notturna, da sentire assolutamente. Mallot Vallois, chitarra; Patrice Raux, chitarra; Raymond Boni, chitarra; François Tusques, tastiere; Evan Chandlee, flauto, clarinetto; Dominique Christian, basso; Harald Kenietzo, basso; Pierre Bastien, basso; Claude Bernard, sassofono; Richard Raux, sassofono; Daniel Deshays, tromba; Itaru Oki, tromba; Tonia Munuera, trombone; Philippe Pochan, violoncello; Alain Pinsolle, vibrafono; Jacques Berrocal, corno, trombone, oboe; Gilbert Artman, batteria; Mion Cinellu, percussioni.