Ci sono vite che non vengono vissute, altre troncate troppo presto o cavalcate con un'intensità stordente. Alexander Spence è tutto questo. Eroe della controcultura (fu nei primi Quicksilver Messenger Service e Jefferson Airplane; fondò i Moby Grape), partorì, da solista, un unico disco, questo Oar, che era e rimane un capolavoro del folk psichedelico. L'unica sua opera.
Travolto dalla dipendenza dalle droghe e dalla malattia mentale, Spence troncò la propria carriera artistica, di fatto, a ventitré anni; il resto dell'esistenza naufragò progressivamente, come solo possono fare le esistenze in America: egli divenne indifferente al mondo, al quotidiano; randagio, esiliato da se stesso, straniero nella propria terra.
Travolto dalla dipendenza dalle droghe e dalla malattia mentale, Spence troncò la propria carriera artistica, di fatto, a ventitré anni; il resto dell'esistenza naufragò progressivamente, come solo possono fare le esistenze in America: egli divenne indifferente al mondo, al quotidiano; randagio, esiliato da se stesso, straniero nella propria terra.
Il disco è una miscela (ancora oggi sorprendente) di temi folk, accenni blues e dilatazioni psichedeliche, che trovano nei dieci minuti di Grey/Afro la propria sublimazione sonora.
Occorre scivolare nel disco lentamente e farsi avviluppare dalla voce e dalla strumentazione (specialmente dalle percussioni) che egli suona autarchicamente. Si avrà, allora, nei pezzi migliori (This time he has come, ad esempio), un magnifico sfasamento, come se le varie parti recitate dal musicista Spence, pur concorrendo alla melodia, tendano a un impercettibile fuori sincrono.
Tale impressione conferma e accresce il fascino psych di un'opera capace di mostrare, inoltre, se ce ne fosse ancora bisogno, che la qualità artistica duratura proviene, oltre che dalla preparazione, da una potente predisposizione dell'anima: quella che altri cercano invano, a posteriori, di definire o ricostruire a tavolino chiamandola estetica o scuola.