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giovedì 7 maggio 2009

Dialogo di un funzionario e di una rondine




Dialogo di un funzionario e di una rondine
(Su un balcone di viale Mazzini)

di Rossella Vita



Alle dieci e trenta di un martedì, il Funzionario cerca un po' di conforto sul balcone piccolo del suo ufficio: meglio una sigaretta all'aria aperta che un simulacro di caffè all'aria condizionata dalle chiacchiere altrui.
Con gli occhi chiusi, al sole benevolo di aprile, il funzionario interroga un inaspettato senso di benessere. Apre gli occhi.
"Cosa ci fai, rondinella, in un palazzo così ?"

"Ci faccio la casa, signore; e lei cosa ci fa sul balcone, che non ce l'ho mai visto?"

"Mi rilasso, ci provo.
Pensavo che le rondini scegliessero delle case diverse, più accoglienti."

"Qui non è affatto male, signore. È piuttosto pulito, ci batte sempre il sole, e di solito non c'è nessuno. Con rispetto parlando."

"Grazie."

"Poi c'è una vista interessante, balconi , finestre, persone nelle case, bambini nel cortile, cani, panni stesi..."

Il funzionario esamina l'affermazione al cospetto della realtà aspirando con calma la sua sigaretta.
"A me non sembra granché . Io non guardo mai dal balcone; ho sempre molto da fare. La sera tardi, quando arrivo a casa è buio. D'inverno è buio. D'estate no."

La rondine non si interrompe: va e viene e porta in bocca un rametto, un brandello di stoffa, delle foglie secche. Si ferma appena per ascoltare (sempre guardandosi intorno) e poi, ripassando, replica.
"Eppure lei dovrebbe essere uno che vede, uno che sa vedere, intendo. Non è il suo mestiere decidere cosa far vedere agli altri? Dovrà ben vedere lei, prima."

"Già , è proprio il mio mestiere. Adesso usa la radio. È più chic."

"Ironico?"

"No, solo che è così, è la moda; e scoprono quanto siamo stupidi noi e quanto sono intelligenti loro."

"E hanno ragione?"

"Certo che ne hanno, ma è sempre stato così. Solo che adesso il pubblico lo sa.
Come se non bastasse hanno ricominciato a fare le cose piacevoli che si facevano una volta: racconti, commedie, letture. Tanto di cappello. Comunque li stanno infarcendo di pubblicità anche lì. Però gli è piaciuta la fama della televisione, in tutti questi anni, a tutte le belle menti..."


"Io non so. La radio mi sembra semplicemente più discreta, dico a parte quella che urla parole o musiche. Anche un programma non troppo riuscito, se condotto con garbo, è gradevole; invece alla televisione sembra tutto stupido, perché è eccessivo, tutto deve diventare un evento.
E però anche le cose importanti si perdono, in mezzo alle altre.
Ho visto un servizio in quel notiziario su una mostra delle corone delle regine inglesi, il giorno che vennero qui a Roma, tanta di quella gente che non s'era mai vista... Tutto uguale. Però poi si parla sempre di voi, no? C'è da chiedersi di cosa parlerebbero le persone se non avesse da parlottare e scrivere sulla televisione."

"Grazie della clemenza; qualche volta la penso anch'io così. Ma, scusa, tu cosa ne sai?"

"Io guardo, signore, giro per le case e non posso fare a meno di tirare un'occhiata, sentire le voci e farmi una idea."

"E allora che idea ti sei fatta? "

"Prima di tutto mi ha colpito che c'è sempre il pubblico. Dico , allora che ve ne fate del pubblico, a casa? È un modo per dirgli che non serve a niente."

"Bè, ma si fa così, per scaldare l'ambiente, per simulare una situazione di dialogo, come a teatro..."

"Guarda che anche quello è cambiato; l'anno scorso avevo fatto il nido in un teatro. C'era un gruppo che accettava solo quindici spettatori, e un'altra compagnia che recitava per uno spettatore solo per volta. Avete paura voi? Paura di stare faccia a faccia con la telecamera, di essere guardati dalle persone vere?"
"Non credo, non mi sembra. Forse sì."

"Il pubblico della televisione è una copia del pubblico che voi desiderate, numeri (magari molti numeri) che facciano sì e no con la testa. Una specie di vostra creatura, che assecondi le emozioni che credete di suscitare. In un certo senso fate tutto da soli."
"Però quei programmi lì, col pubblico, piacciono sempre, la gente ha bisogno di rispecchiarsi."



"Questo è vero; di specchi nelle case, quanti ne ho visti!
Di programmi che funzionassero davvero come specchi, mai."

"Sempre così, nessuno guarda più la televisione, ma tutti la criticano. È un paradosso, qualcuno bara."

"Secondo me tutti ci provano ad accendere il televisore, ma poi lo spengono, perché non c'è niente da vedere, neanche i film."

"No, qui ti sbagli, dalla seconda serata in su la fiction è di qualità. Io guardo solo quella televisione lì, dalle undici... al mattino: mi consola, ne traggo beneficio."

"Se posso permettermi, la sua mi sembra una consolazione malinconica; nostalgia dei varietà di una volta, dei film di una volta, della qualità semplice dei bei tempi andati. Non ho niente contro i vampiri, ma dopo un po' non le manca l'aria e la luce dei giorni nostri?"

"Sai cos'è rondinella? Che persino le cose stupide di una volta erano molto meglio delle cose stupide di adesso. Dev'essere la distanza storica."

"E io invece, signore, devo confessarle che nutro una certa tenerezza per questi varietà ruspanti della prima serata, mi ricordano il circo: tutti troppo truccati, troppo entusiasti. Tra qualche anno li guarderete in modo diverso, i conduttori, le conduttrici, le ballerine, vi sembreranno più ingenui, più mascherati. Comunque siete stati furbi a mettere la fiction migliore in seconda serata. Così il mercato pubblicitario si è interessato di più alle fasce serali e notturne."

"Mi sembri un po' troppo informata, questo non ti fa onore...potresti pensare ad altro, volare alto e invece sei invischiata in meschine ed umane questioni. Che te ne importa?"

"Ho pur scelto di vivere qui e non nella palazzina di fianco, agli uffici della radio, che pure erano abitati da persone molto perbene, colte, e amanti degli animali...troppo amanti degli animali."

"Come sarebbe a dire?"

"Ho a cuore l'amicizia degli umani, ma non la loro tendenza a prendersi confidenze non richieste. Devo far nascere i miei bambini, allevarli qui e non potrei sopportare le improvvisate di impiegati, redattori, amici dei redattori, ospiti...Lei invece, saranno più di dieci giorni che tengo d'occhio questo balcone, e lei è uscito solo oggi, e per una conversazione di tutto interesse, non per sorridermi o disturbarmi e basta."

"Onorato. E quanto vi fermate ?"

"Non lo so, dipende dalla stagione e anche da quel che c'è da vedere, qui."

"In che senso?"

"Vede, noi non ci spostiamo solo per problemi di temperatura, ma anche per il piacere di volare."

"Posso capirlo. Noi sono secoli che ci proviamo, ma ci serve sempre qualcosa, un'attrezzatura, una macchina, e dobbiamo stare attenti e vigili. La leggerezza è un dono della natura."


"Volare è bello perché si vede; si immagina lei cosa sarebbe volare senza vedere? Volare vuol dire vedere colori, forme linee che si muovono, e portare la mente a quelle forme e giocarci , cambiando prospettive. Vedere è, come dite? "sublime": un nutrimento dell'anima e del pensiero. Voi ci state rinunciando alla vostra bella macchina visionaria.. La prima volta che ci buttai un'occhiata mi aveva colpito, dietro una finestra, questa luce incredibile che sgorgava da una scatola. Davvero stupefacente, persino quando si vedevano solo delle righe, che io trovavo piuttosto belle; ma nessuno le guardava, solo il cane e un bambino piccolo. Gli altri sembravano arrabbiati, dicevano che c'era un disturbo. Quello dovreste far vedere: colori, suoni, forme che si muovono. C'è bisogno di questo."

"Video arte, si chiama, forse."

"Non lo sapevo."

"Fate parlare gli altri, in attesa che i tempi migliorino e che abbiate qualcosa da dire, e ospitate un po' di visioni"

"Prove tecniche di trasmissione?"

"Come?"

"Niente, un ricordo. Ma chi le guarderebbe delle cose così?"

"Non lo so. Lei, io. "

"E la pubblicità?"

"Non si preoccupi, è gente brillante, piena di iniziative. Sa quanto valgono le visioni, anzi in quello oggi sono i migliori. Si inventeranno qualcosa; non può mica occuparsi di tutto, lei."

"Dici?"

"Dico."

Il funzionario e la rondine sentono il cielo cambiare. Una melodia maestosa e imponente si fa spazio con grazia grave nell'aria. Cos'è questa musica? La luce prende una tonalità accesa, grigia, ma abbagliante, che disegna le curve candide e morbide delle nuvole. Una struttura lucente ed elicoidale appare e lentamente si innalza: ambiziosa, lenta, interminabile .
Il funzionario conosce questa visione, l'ha già incontrata, ma non saprebbe dire quando né dove era stato sorpreso da lei, così, come adesso. Era qualcosa che aveva a che fare con l'Inizio o la Fine di qualcosa.

Quando la musica sfuma e i colori riprendono una tonalità familiare e terrena, il funzionario cerca la rondine, compagna di una simile luminosa visione. La trova addormentata, nel nido appena sistemato; non può disturbarla. Piacevolmente turbato, torna al tavolo del suo lavoro. Il cielo turchese e uniforme dello schermo del computer gli appare quale esso è: niente più che uno sfondo, immobile, finto. Clicca qui, apri questa finestra, chiudi quell'altra, apprezzabili competenze di un calcolatore che misura le tendenze attuali dell'immaginazione. Finalmente nessuna soggezione.
(01 aprile 2002)


Golem l'Indispensabile

lunedì 23 marzo 2009

Potenza dell'immagine


Tiziano: Venere di Urbino, 1538
Galleria degli Uffizi, Firenze

Potenza dell'immagine

di Rossella Vita


"Entrate agli Uffizi e procedete verso la piccola galleria più visitata che esista al mondo - la Tribuna - e lì, contro la parete, senza uno straccio o una foglia che la nasconda, potete guardare a sazietà il quadro più sporco, spregevole, e osceno che esista al mondo - la Venere di Tiziano. Non è per il fatto che è nuda e stesa sul letto, no, è l'atteggiamento di una delle sue braccia e della mano. Se mi avventurassi a descrivere quell'atteggiamento, ci sarebbe proprio un bell'urlo di addolorata indignazione - ma ecco lì la Venere a giacere, che tutti possano divorarsela con gli occhi a loro piacimento - e ha diritto di starci, perché è un'opera d'arte, e l'arte si sa, ha i suoi privilegi. Ho visto una ragazzina lanciarle occhiate furtive,; ho visto dei giovanotti fissarla a lungo e assortamente, ho visto vecchi infermi afferrarsi alle sue grazie con un interesse patetico. Come mi piacerebbe descriverla - solo per vedere quanta sacrosanta indignazione potrei sollevare nel mondo - e tuttavia il mondo è disposto a lasciar guardare ai suoi figli e alle sue figlie la bestia di Tiziano, ma non ne accetterà una descrizione verbale [...]. Ci sono dipinti di donne nude che non suggeriscono pensieri impuri - ne sono ben consapevole. Non sto inveendo contro di loro. Quello che sto cercando di mettere in rilievo è il fatto che la Venere di Tiziano è assai lungi dall'essere una di quelle. Non c'è dubbio che fu dipinta per un bagno e forse venne rifiutata perché era un tantino troppo piccante. A dire il vero, è un tantino troppo piccante per qualsiasi posto che non sia una pubblica galleria d'arte."
(Mark Twain, A Trump Abroad 1880)

Un lungo e sorprendente commento, questo di Mark Twain. Veramente difficile oggi considerare questo dipinto osceno, o pensare, per descriverlo, l'aggettivo "piccante". Siamo abituati a ben altro.
Twain introduce però nel suo caustico giudizio tutti gli ingredienti che servono ad una riflessione sulla censura riservata alle immagini, o meglio, su quelle ragioni che hanno portato nei contesti più disparati a invocare la necessità di un controllo su quello che rappresentano, su come lo rappresentano e sulla diffusione delle immagini.
La sensazione generale è che il nostro tempo non sia un contesto di proibizione o di censura delle immagini. Signore e signori di una certa età (ma forse di tutte le età) hanno modo di scandalizzarsi quotidianamente, come per una soglia che sembra continuamente essere violata, e che pure si presenta, sempre quotidianamente, come tale. È una soglia che Twain esprime con grande chiarezza: solo un museo può legittimare questa presenza conturbante, solo l'appartenenza all'ambito dell'arte (alla sua epoca questa autonomia non doveva, forse, essere più messa in discussione, ma vedremo quanto questa libertà debba essere considerata il risultato di una dura contrattazione, mai definitivamente acquisita) può giustificarne la sopravvivenza. Perché se pure Twain era evidentemente lontano anni luce dalla sensibilità di Tiziano o di Pietro Aretino, e dalla cultura di cortigiane che potevano farsi degne modelle di Veneri pagane o cristiane, pare subirne tutta la potenza, proprio come quegli spettatori che descrive, al punto da non potere / volere tentare nessuna descrizione verbale.

Di cosa hai paura?

"Chi aggredisce le immagini, lo fa per provare di non averne paura, e dà così prova della propria paura.
Non è solo paura di ciò che viene rappresentato, ma anche paura dell'oggetto in sé"

(D. Freedberg, Il potere delle immagini, op. cit. p.606)

(01 novembre 2004)

Tiziano: Danae, 1553-1554

Da un articolo su Golem l'Indispensabile

giovedì 18 settembre 2008

Alla fermata del tram


Milano nell'ottocento
Giuseppe Canella: La Corsia dei Servi nel 1836


Alla fermata del tram

di Rossella Vita


Per chi non lo sapesse vivo a Milano.
Vado coi mezzi pubblici.

Al ritorno dalle vacanze ho trovato un cambiamento alle banchine delle fermate. Hanno sostituito la mappa dell’intera città, sotto la quale era stampato un dettagliato stradario, assai facile da consultare, con due piccole mappe con la sola indicazione del percorso della linea che passa di lì. Schemi simili a quelli che sono sulle carrozze del metro, per intenderci, che mostrano le fermate e i collegamenti con le altre linee. Ma questa funzione, in superficie, era già svolta dalla segnalazione verticale, e sulla mappa c'erano comunque indicate anche tutte le linee tranviarie, filobus, autobus… non era difficile trovarle e seguirle, col dito.

Ora che non c'è più mi hanno tolto il passatempo che ero solita prendermi in attesa dell’autobus: vedere dove abita quel mio amico, mia zia, mia sorella; controllare i nomi delle strade che devo raggiungere, verificare se l'idea che ho dell'itinerario è giusta; oppure misurare la distanza che c’è dalla Bovisa a Rogoredo, da San Donato a Lambrate, dal Castello alla Abbazia di Morimondo e dal Naviglio grande a via Manzoni…

Quella mappa aiutava a trovare da sé le proprie destinazioni e il percorso, e dava bene l’idea di una città che benché si atteggi a metropoli, è ancora un posto che si può attraversare in bicicletta, da un capo all’altro, in meno di un'ora e mezza!
Mi piaceva poi ipotizzare sulla carta piccole deviazioni, fantasticare un piccolo allungamento del percorso per andare a vedere, che so, una cosa bella come San Satiro o Sant'Ambrogio o casa Campanini.

Milano nell'ottocento
I campanili di Sant'Ambrogio
visti dal vicolo Sant'Agostino verso il 1830

La basilica di Sant'Ambrogio
con il portico del nartece

Sgretolare la città in tanti piccoli micropercorsi non mi sembra una grande idea. Anzi mi sembra una di quelle piccole iniziative che danno l'idea della novità un poco inutile e invece sono anche dannose; quella specie di novità che quando sono di cattivo umore tendo a considerare gesti sinistri di un disegno coerente e diabolico nella sua apparente irrilevanza. L’ho già scritto qui; non dico il diavolo, ma sento in azione un’aria che tira diffusa e coerente, che si potrebbe, dovrebbe piuttosto, volgere con qualche vela appropriata a favore di miglior vento.
Lo so, sembra un discorso dei matti.

Milano nell'ottocento
Angelo Inganni: Il Naviglio presso la chiesa di San Marco, 1830

Milano nell'ottocento
Angelo Inganni: Naviglio sotto la neve, 1845

Fatte salve le porzioni di giardini pubblici colonizzate la domenica o il sabato dalle comunità di stranieri siamo sempre, tutti, più estranei alla città nel suo complesso.
Lei ci soffre, e si vede, e noi di conseguenza.
Il genius loci è veramente rintanato in certi angolini e solo tante amorevoli cure potrebbero convincerlo a mostrarsi. Inutile inventare per questo benedetto posto delle identità a tavolino, che suonano facili da ripetere, ma inconsistenti. Dietro la maschera di uno slogan nuovo continuano a vivere le stesse esistenze dolenti, che faticano a respirare, a riconoscersi, a sentire anche solo che si va da qualche parte insieme alle altre persone e non nonostante o contro di loro… Questa è una città, per intederci, dove ha vinto solo qualche anno fa l’idea che una panchina in piazza Duomo poteva dar adito a sinistre forme di bivacco - e sarei io la matta?!

Insieme alla mappa di Milano ho perso qualcosa, e così chi aspetta con me. Non abbiamo più quel disegno al quale appoggiare l'idea della città comune, la sua realistica praticabilità materiale e mentale – perchè Milano non è un labirinto.
E abbiamo un'occasione in meno di scambiare, che so, una parola, e di incoraggiare una domanda gentile «Scusi, sa mica dov'è la via Morigi?».
La mappa avrebbe reso possibile quel percorso in una competenza reale e non astratta, e sarebbe stato facile ricostruire lo spazio comune che appartiene a noi due che parliamo, soprattutto se non parliamo la stessa lingua– cosa che capita spesso, alle fermate.
E per la soddisfazione di quel piccolo ma utile scambio, ci sarebbe scappato perfino un «Grazie»/«Prego» o, addirittura, un sorriso.

(31 agosto 2008)


Da Golem l'Indispensabile

Milano nell'ottocento
Angelo Inganni: Piazza del Duomo
con angolo del Coperto del Figini, 1838

P.S. Le immagini sono tratte dal libro Milano Sparita
Luciano Zeppegno - Edizioni Newton Compton -
Terza edizione: novembre 2001

Si consiglia di cliccarle per vederle ingrandite
(Habanera)

domenica 30 settembre 2007

Ci vuole il suo tempo


Filippo Brunelleschi: Sacrificio di Isacco
Museo Nazionale del Bargello, Firenze


Ci vuole il suo tempo
Sicumera di gioventù

di Rossella Vita


Anni, anni, anni. È il titolo di una canzone di Paolo Conte.
Dice che a diventare quel che si è non basta un attimo.
E io voglio qui tessere l’elogio della maturità e persino della vecchiaia, e il necessario recupero dei suoi valori all’orizzonte dei nostri valori.
Mi è capitato di dover rileggere tanti scritti di “giovani” studiosi, ricercatori, aspiranti professori, tutti patentati dall’università.
Posso dire di aver registrato una tale quantità di prosopopea, di semplicismo e saccenteria da risultarmi, tutta questa gioventù, con poche felici eccezioni, quasi stomachevole.
E parlavano – e scrivevano – con l’idea di mangiarne sempre nei giorni feriali, di Luchino Visconti, di Paul Klee, di Fritz Lang … Persone e opere davvero troppo più grandi di loro.
È il rischio della divulgazione e della scolarizzazione sclerotizzata nella ricerca di sintesi e certezze commestibili: Mi parli di Raffaello… Difficile non sembrare cretini, nelle risposte. Ma è l’ingresso nella parte dell’intellettuale, l’infilarsi nei modi del conoscitore che dà fastidio, quell’ostentare familiarità e possessione della materia attraverso facili resumé, quanto di più lontano dall’amore, che è attenzione, circospezione e dubbio. Forse la sicumera premia nel mondo accademico di oggi, e quel vezzo di apparire sprezzanti e sicuri di sé dà veramente sicurezza anche a chi le cose non le ha capite nemmeno tanto bene.

Mi ricordo di una ragazza ai tempi della mia università, che un mattino di giugno, proprio a ridosso dell’esame del corso di storiografia delle arti tenuto dal bravissimo professor Massimo Ferretti – interamente dedicato alle formelle di Ghiberti e Brunelleschi e al concorso del 1401 per il battistero di Firenze – dichiarò di averli sognati, loro due in persona. Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi, col manto e tutto, davanti a lei, con aria minacciosa e sprezzante le dicevano: “Tu, delle nostra formelle, non hai capito niente!” Che ridere, e che umile inconscio... Un’umiltà che le avrebbe impedito di parlare con quei toni, con quelle frasi fatte che appaiono intelligenti e insopportabili sulla bocca di tanti giovani “brillanti”. Umile è chi rispetta le tappe necessarie di un processo: si impara a tenere in mano la penna, e poi a scrivere il proprio nome e poi persino pensierini e poi una poesia o una storia… Ciascun passo con una sua importanza, necessario a passare ad altro ostacolo con la giusta misura. E i passi sono, in una vita, innumerevoli.
E a incoronarli troppo presto, questi giovani talenti, sin dai primi passi intendo, si fa loro piuttosto del male che del bene. Non conoscono che raramente l’energia dell’errore e della critica che spinge a spostarsi, a rivoltare se stesso come un calzino con una certa disinvoltura, senza curarsi dei lividi; e a studiare, ad ascoltare quello che gli altri hanno da dire e da dirti.
A questo stupendo senso del relativo, divenuto così raro in mezzo alla gara delle firme, pensavo davanti ai Sei brillanti di Paolo Poli, classe 1929, felice di essere lì. C’è qualcuno che sappia essere così sapiente e spiritoso, ampio negli orizzonti e rapido nelle associazioni fra testi, visioni, canzoni? C’è qualcuno che abbia espresso con altrettanta chiarezza le secolari vessazioni della chiesa sulle donne, attraverso le sue eroine e le sue innumerevoli invenzioni ? C’è qualcuno che sappia essere più attuale e graffiante o meno retorico di lui o di Monicelli che di anni ne ha Novanta? E allora sarà vero che questi anni, fatti di attimi, ore e settimane di ascolto e di attenzione, perché possiamo cavarci qualcosa di buono, a noi comuni mortali, ci servono proprio tutti, e tanti.
01.03.2007

Anche su Golem l'Indispensabile


Lorenzo Ghiberti: Sacrificio di Isacco
Museo Nazionale del Bargello, Firenze