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mercoledì 10 marzo 2010

Sorelle

Sandra Mastore

Emile Vernon: Tre Sorelle (1912)

Milano svela marciapiedi larghissimi a fine agosto, gli stessi dei viali dai nomi geografici solitamente foderati di auto.
Romagna, Marche, Umbria, Abruzzi… un gioco da bambine, quando si veniva a Milano, trovare capoluogo e province della regione che dava il nome al viale.
Ci si può camminare in tre accordando il passo, senza bisogno di cederlo, di interrompere il discorso. Baristi sfaccendati sulla porta.
Strano avanzare, sotto un sole che non accetta di non esser più leone, guardando le foglie già secche ai piedi degli alberi, fenomeno di questa perfida estate 2009.
Milano regala anche parcheggi facili e liberi per ferie, interni freschi, ventilati solo dalle finestre aperte. Ancora sferraglia e stride poco Milano.
E’ sommessa, anche a quest’ora. Sta con le mani in mano, pensa una delle sorelle sedute nella stanza.
La via Gluck non è lontana.

Le due sul divano rigido ascoltano l’altra sulla poltroncina di fronte. Profili tesi e labbra da mordere.
Si versano acqua da una brocca di cristallo rosato sul tavolino in mezzo. Se la offrono a turno, contendendosi il riempire quei bicchieri eleganti e delicati.
Tre signorine Felicite in pantaloni e sandali.
Un’occasione le ha riunite, sole, in tre come una volta. Tanto cambiate da una volta, dopo ere glaciali e mai definitivi disgeli.
- Non dello stesso padre!- osservò qualcuno, anni prima, sbalordito da tanta diversità.
Diversissime, infatti.
Quante belle figlie madama Dorè: dal biondo cenere, al castano chiaro, al nero. Il mondo si era gloriato di poter essere visto in azzurro, blu, nocciola e profumato da pelle scura o dorata o chiarissima. Le belle figlie non gli avevano badato, rinfacciandogli il nido sdrucciolevole che era toccato loro: sconosciuti calore e armonia, negato il riconoscimento.
Angustiata e senza armi Madama Dorè.
Ognuna aveva cercato il suo modo di spiccare il volo, rughe e lacrime avevano disegnato poi solchi diversi. Su misura e di alta sartoria.
Ora erano insieme nella stanza.
- C’è troppa corrente?
- No. Prendi ancora un po’ d’acqua.
Un assortimento che non capitava da parecchio di rivedere al completo. Più facile a due a due, con accoppiata a sorpresa.
Diversissime davvero, al primo sguardo.
Di cosa parlano, mentre bevono acqua e ravviano capelli biondo cenere, scostano ricci ramati, sistemano fermagli tra ciocche brune? L’argomento porta a toccare i capelli, nessuna di loro ha bisogno di tintura e i gesti per domarli sono ancora adolescenti, le dita si muovono in modo simile, spontaneo, con riguardo e lentezza.
Il gesticolare delle altre ricorda a ciascuna che è si è formato sotto lo stesso tetto.
Così come è comune il modo di impugnare la penna, da dove ancora oggi esce un tratto rotondo, generoso, che non bada a spazio e lascia il segno sulla pagina sotto. Una concessione di barocco a pochissime maiuscole, forse le preferite, per poi irrigidire geometricamente le altre. I genitori stessi faticavano a distinguere le scritture.
A guardar meglio anche i capelli, colore e acconciatura a parte, sono dello stesso tipo. Folti, grossi. Appariscenti, volendo.
Sono figlie dello stesso padre, invece. Eccome.

Edward Atkinson Hornel: Catturando farfalle

Una guarda oltre i fili del tram, verso la Stazione Centrale che da bambine significava l’inizio delle vacanze, con le sue altissime volte e l’emozione del primo movimento del treno.
Si guardavano, in quell’attimo di fremito e la complicità di quel nocciola-azzurro-blu faceva battere i loro cuori dietro il finestrino. A due passi dalla via Gluck e dal tempo delle sedie di plastica intrecciata dei bar dove i padri regalavano, con le loro incontenibili risate di giovanotti, gioiosi sussulti alle bambine quasi addormentate che tenevano in braccio.
Il padre giovanotto che le accompagnava, portando le loro valige come fossero piume a quadri scozzesi, ora rimpiccioliva: ancora il braccio muscoloso mosso nel saluto, ma ormai lontano lo sguardo imperioso.

Parlano proprio di lui oggi, in questa stanza, bevendo acqua mentre l’azzurro-blu-nocciola si ridesta.
Non si assenterà come per venire qui a Milano ogni giovedì, quand’era gigante e la sua assenza a tavola significava risate e allegria e desiderio che il prossimo giovedì arrivasse presto.
Non lo perderanno. Non si spegnerà. Non le lascerà. Tantomeno mancherà.
Morirà. E forse di lui nessuno l’avrebbe mai pensato.
Morirà come tutti, per sempre. A breve.
La malattia sarà più forte di lui che a loro pareva invincibile.
La sta combattendo da poco, è entrata subdolamente, togliendosi i tacchi a spillo per non farsi sentire, come facevano loro quando rincasavano tardi. Al buio, silenziose, rapide. Vigliacche.
Forse non c’era ancora al primo allungarsi delle giornate, quest’anno. Lo si vedeva sfrecciare sulla bicicletta come a voler impolverare invisibili inseguitori, lampo velocissimo in giacca a vento che seminava il tempo e le auto ai semafori. Dimostrazione che un uomo solo può avere la meglio e concepire sogni di granito mentre pedala tenacemente.
Avrebbe per sempre fatto così. E se qualcuno rimaneva schiacciato o diventava invidioso, pazienza.
La bici, un grande amore.
La preferisce “di gran lunga” alla sua auto tedesca.
Tedeschi erano i detenuti che doveva sorvegliare durante il servizio militare nel carcere di Gaeta; criminali nazisti, in realtà, che la cella umida con l’inferriata sul mare nobilitava a prigionieri di guerra.

La Fortezza di Gaeta

Lunghi mesi a osservare dita delicate muovere le pedine nelle interminabili partite a dama. La tattica, il rispetto dell’avversario. Che si ritrovava ad esser lui, la guardia carceraria, il ragazzo che non aveva mai visto mondo se non al cinema di fronte a casa, dove fin da bambino - permesso o meno – entrava ad ogni costo, anche di straforo fra i cappotti pieni di pioggia degli adulti. Al cinema sarebbe rimasto fedele sempre. Pure adesso, ai titoli di coda. Innamorato della regia di quel suo coetaneo già ispettore, evaso, anticamente cavaliere pallido.
Pur con la pellicola che s’inceppava, quel cinema scalcinato, da niente, faceva diventare piccole le punizioni terribili di casa.
Cinghiate. Digiuno. Sottoscala.
Cominciò a notare la benevolenza del prigioniero di guerra, ad apprezzarne la conversazione filosofica. Sbarre e isolamento fecero il resto. Aveva vent’anni e le Fosse Ardeatine potevano essere state davvero un ordine indiscutibile dei superiori. I mostri veri parlavano in un altro modo: cinghiate, sottoscala buio, digiuno, interruzione degli studi, dodici ore nei campi come se non fosse il figlio del padrone.
E lui per professione avrebbe voluto volare. Assolutamente no? Solo terra rossa per lui? Se non in cielo, nella cabina di pilotaggio, nemmeno con i piedi in quella terra. Addio, avrebbero sentito parlare di lui.
Mai lagnarsi del proprio passato, parlare di cose vecchie. Mai allentare la disciplina del lavoro, guardare avanti, non porre limiti. Specie se il passato non passa mai.

Dove metteranno la bicicletta, chi di loro toccherà il manubrio, i freni, la sella?
Escono ora, liberando la stanza dai ricordi taciuti e dall’imbrunire.
I gesti, il passo, le pause: si vede a un miglio che sono sorelle, mentre sfilano per raggiungere una pizzeria da marciapiede, estranea. Ciò che ora tutte e tre sanno fonde il nocciola con l’azzurro e il blu, in un colore indefinibile, uguale.
Anche il cameriere vedrà che sono sorelle.
In un soffio questo millennio raggiungerà la prima decina - il pensiero di una, il pensiero di tutte - chissà se avranno finito il loro angoscioso conto alla rovescia. Sperano di no. Di essere al completo per mangiare il panettone, come dicono a Milano. Temono di no.
Una delle cartacce sul marciapiede svolazza con l’impronta di una scarpa da tennis, come un timbro. E’ quasi buio, neanche una bici.
Milano mostra la sciatteria di chi si annoia in casa tutto il giorno.
Lontanissima da lì la via Gluck.

Agosto a Milano


lunedì 10 agosto 2009

Il mio Naviglio

Habanera

Milano mia, dove le case si specchiano nell'acqua
ed il Naviglio ruba i colori al cielo

Milano romantica e segreta, intima e silenziosa.
Quanto diversa dall'idea che ne ha chi la conosce solo di passaggio.

Lo storico Vicolo dei Lavandai, in origine detto
Vicol di bugandee (da bugada=bucato), prende il nome da un antico lavatoio tutt'ora esistente

Inginocchiate sul brellin di legno le donne strofinavano i panni sugli stalli di pietra ancora visibili

Passeggiando lungo “el Navili”, amato da tutti i milanesi come parte integrante della loro storia,

si incontrano affascinanti ateliers di artisti

negozietti sfiziosi ed invitanti

cortili allegri e colorati

romantici ponticelli che uniscono dolcemente le due rive

antiche osterie dall'atmosfera intima e accogliente

E l'ultima domenica di ogni mese

una folla divertita di visitatori

si raccoglie attorno ai banchetti del “Mercatone dell'antiquariato”, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo.

Naviglio mio, ancora più magico a Natale

e sotto la neve

oggi come ieri...

giovedì 18 settembre 2008

Alla fermata del tram


Milano nell'ottocento
Giuseppe Canella: La Corsia dei Servi nel 1836


Alla fermata del tram

di Rossella Vita


Per chi non lo sapesse vivo a Milano.
Vado coi mezzi pubblici.

Al ritorno dalle vacanze ho trovato un cambiamento alle banchine delle fermate. Hanno sostituito la mappa dell’intera città, sotto la quale era stampato un dettagliato stradario, assai facile da consultare, con due piccole mappe con la sola indicazione del percorso della linea che passa di lì. Schemi simili a quelli che sono sulle carrozze del metro, per intenderci, che mostrano le fermate e i collegamenti con le altre linee. Ma questa funzione, in superficie, era già svolta dalla segnalazione verticale, e sulla mappa c'erano comunque indicate anche tutte le linee tranviarie, filobus, autobus… non era difficile trovarle e seguirle, col dito.

Ora che non c'è più mi hanno tolto il passatempo che ero solita prendermi in attesa dell’autobus: vedere dove abita quel mio amico, mia zia, mia sorella; controllare i nomi delle strade che devo raggiungere, verificare se l'idea che ho dell'itinerario è giusta; oppure misurare la distanza che c’è dalla Bovisa a Rogoredo, da San Donato a Lambrate, dal Castello alla Abbazia di Morimondo e dal Naviglio grande a via Manzoni…

Quella mappa aiutava a trovare da sé le proprie destinazioni e il percorso, e dava bene l’idea di una città che benché si atteggi a metropoli, è ancora un posto che si può attraversare in bicicletta, da un capo all’altro, in meno di un'ora e mezza!
Mi piaceva poi ipotizzare sulla carta piccole deviazioni, fantasticare un piccolo allungamento del percorso per andare a vedere, che so, una cosa bella come San Satiro o Sant'Ambrogio o casa Campanini.

Milano nell'ottocento
I campanili di Sant'Ambrogio
visti dal vicolo Sant'Agostino verso il 1830

La basilica di Sant'Ambrogio
con il portico del nartece

Sgretolare la città in tanti piccoli micropercorsi non mi sembra una grande idea. Anzi mi sembra una di quelle piccole iniziative che danno l'idea della novità un poco inutile e invece sono anche dannose; quella specie di novità che quando sono di cattivo umore tendo a considerare gesti sinistri di un disegno coerente e diabolico nella sua apparente irrilevanza. L’ho già scritto qui; non dico il diavolo, ma sento in azione un’aria che tira diffusa e coerente, che si potrebbe, dovrebbe piuttosto, volgere con qualche vela appropriata a favore di miglior vento.
Lo so, sembra un discorso dei matti.

Milano nell'ottocento
Angelo Inganni: Il Naviglio presso la chiesa di San Marco, 1830

Milano nell'ottocento
Angelo Inganni: Naviglio sotto la neve, 1845

Fatte salve le porzioni di giardini pubblici colonizzate la domenica o il sabato dalle comunità di stranieri siamo sempre, tutti, più estranei alla città nel suo complesso.
Lei ci soffre, e si vede, e noi di conseguenza.
Il genius loci è veramente rintanato in certi angolini e solo tante amorevoli cure potrebbero convincerlo a mostrarsi. Inutile inventare per questo benedetto posto delle identità a tavolino, che suonano facili da ripetere, ma inconsistenti. Dietro la maschera di uno slogan nuovo continuano a vivere le stesse esistenze dolenti, che faticano a respirare, a riconoscersi, a sentire anche solo che si va da qualche parte insieme alle altre persone e non nonostante o contro di loro… Questa è una città, per intederci, dove ha vinto solo qualche anno fa l’idea che una panchina in piazza Duomo poteva dar adito a sinistre forme di bivacco - e sarei io la matta?!

Insieme alla mappa di Milano ho perso qualcosa, e così chi aspetta con me. Non abbiamo più quel disegno al quale appoggiare l'idea della città comune, la sua realistica praticabilità materiale e mentale – perchè Milano non è un labirinto.
E abbiamo un'occasione in meno di scambiare, che so, una parola, e di incoraggiare una domanda gentile «Scusi, sa mica dov'è la via Morigi?».
La mappa avrebbe reso possibile quel percorso in una competenza reale e non astratta, e sarebbe stato facile ricostruire lo spazio comune che appartiene a noi due che parliamo, soprattutto se non parliamo la stessa lingua– cosa che capita spesso, alle fermate.
E per la soddisfazione di quel piccolo ma utile scambio, ci sarebbe scappato perfino un «Grazie»/«Prego» o, addirittura, un sorriso.

(31 agosto 2008)


Da Golem l'Indispensabile

Milano nell'ottocento
Angelo Inganni: Piazza del Duomo
con angolo del Coperto del Figini, 1838

P.S. Le immagini sono tratte dal libro Milano Sparita
Luciano Zeppegno - Edizioni Newton Compton -
Terza edizione: novembre 2001

Si consiglia di cliccarle per vederle ingrandite
(Habanera)

giovedì 20 dicembre 2007

San Gerolamo e il leone


Lo studiolo di Gian Giacomo Poldi Pezzoli


San Gerolamo e il leone

di Giuliano


Scricchiola sotto le mie scarpe, il parquet del Poldi Pezzoli. L'antica casa del signor Poldi Pezzoli, in via Manzoni a Milano, oggi trasformata in Museo, ha questa caratteristica: sembra davvero ancora una casa d'abitazione, e ho sempre un po' di timore reverenziale ogni volta che ci entro. Mi verrebbe da chiedere permesso, e mi sento un intruso: ma ho tra le dita il biglietto appena fatto, giù all'ingresso della Casa (pardon, del Museo), e quindi la mia parte razionale mi incoraggia ad andare avanti. Una gran bella casa, la casa di un vero signore: con la fontana all'ingresso, sotto la bella scala che porta ai piani superiori. E il Museo è bellissimo, forse il più bello di Milano. Non è un museo tematico, si vede che è il frutto della raccolta di un appassionato; ma un appassionato davvero competente. Per esempio rimango sempre un po' sconcertato quando arrivo davanti al ritratto di Martin Lutero del Cranach (come sarà arrivato fin qui?), ma tutto quanto è da guardare e da ricordare, compresi i mobili e gli arredi residui della casa. Si ha l'idea di un'altra Milano, di un'altra civiltà, di qualcosa che si è perduto forse definitivamente. Del resto, siamo in via Manzoni, nel cuore della Milano ottocentesca, a due passi dalla Scala: ed è inevitabile il confronto di questo cortile e di questa casa con il lavoro degli architetti e dei politici del nostro tempo, che non sanno rinunciare a lasciare la loro firma indelebile (proprio come gli aborriti writers) invece di restaurare, e magari anche ammodernare, ma con rispetto e "sottotraccia", senza farsi notare troppo. Operazioni che non portano voti né pubblicità, ma solo il rispetto degli appassionati veri; e quindi del tutto fuori moda.

Lucas Cranach the Elder : Ritratto di Lutero e sua moglie
Museo Poldi Pezzoli, Milano


Ma intanto sono arrivato davanti ai quadri del Luini, e ormai sapete quanto ci tenga, a questo pittore. Davanti a me c'è il suo San Gerolamo: il vecchio santo nel deserto, intento a scrivere la Vulgata, con un leone al suo fianco. Il leone è domestico, sembra un grosso gatto ed è abbastanza ridicolo. Ma non credo che sia un caso: di certo Luini avrà avuto voglia di giocare, magari di divertire i suoi figli (futuri pittori anch'essi); e poi, via, il leone terribile che diventa un grosso gatto sorridente è una bella metafora sulle nostre collere e sulle nostre preoccupazioni. Magari andasse sempre così, magari si potessero trasformare le nostre rabbie in questo modo... Per queste operazioni, è bene rivolgersi ai santi, sembra dirci Bernardino Luini: e dunque, eccomi raccolto, meglio che posso, in orazione davanti a San Gerolamo.

Il leone del Luini in San Gerolamo
che sembra un gatto ma incute anche terrore
è un grosso gatto ma è ugualmente splendido
nell'opera buffa ma bella del Pittore.
Egli è un Leone ma per il Santo è gatto:
e così accade col nostro malumore
che ci perseguita e non se ne vuole andare -
ci vuole un Santo, tramite d'amore.

(6 gennaio 2005)


P.S.
Il San Gerolamo del Poldi Pezzoli è qui ma non me lo lasciano portare via. Guardare e non toccare.
(Habanera)

Antonio Colantonio: San Gerolamo nello studio
(ca. 1445-1446) - San Lorenzo Maggiore - Napoli

martedì 20 novembre 2007

La sala XXVIII di Brera, a Milano


La sala XXVIII di Brera negli anni '50


La sala XXVIII di Brera, a Milano

di Oyrad


Come se fosse una casella disegnata sul tabellone di un gioco dell’ oca, dove si continua a ritornare, per premio o penitenza, nel bel mezzo di una partita, la sala XXVIII della Pinacoteca di Brera è là, a Milano, ad aspettare paziente il mio ritorno. Il visitatore che arriva sulla soglia della sala ha dovuto lasciare dietro di sè, forse a malincuore, sulle pareti dove giacciono immobili, come ali di farfalle inchiodate ai muri, molti capolavori del Quattrocento e del Cinquecento: e attraversando la sala a grandi passi, quasi di corsa, per raggiungere il prima possibile “La cena in Emmaus” di Caravaggio, se non si guarda indietro, può facilmente non accorgersi del “Martirio di San Vitale” di Federico Barocci, che splende, pallido e lunare, alle sue spalle.

Il Barocci è un pittore manierista che amo, e che pur amando, conosco poco: non ho mai neppure sfogliato un buon libro a lui dedicato, non ho mai incontrato un programma d’ esame che mi abbia costretto a conoscerlo meglio, come ho invece fatto per Foppa o per Mantegna. Di lui mi resta in mente solo qualche ricucitura di trafiletti da manuale, sui quali ripassavo più volte per ripristinare, come nell’ hard-disk bacato di un PC obsoleto, il ricordo della sua biografia, vita, morte e opere, poco prima degli esami di storia dell’arte.

Al di là di queste poce cose, nient’ altro. Invano potrei provare a domare quelle brutte bestie di cataloghi e libri d’ arte che tengo in feroce cattività, uno addosso all’ altro, sugli scaffali del corridoio, fra la letteratura e la polvere, per cercare qualcosa da dirvi su Federico Barocci.
Qui in casa c’ è solo la buona Garzantina Arte, che docile pascola libera nella mia stanza, a venirmi in aiuto. Da lei prendo un po’ di cose che possono essere utili per mettere al suo posto, nel tempo e nello spazio, questo delizioso pittore. Ecco qua:

“Barocci Federico o F. Fiori detto il Baroccio (Urbino 1535-1612) pittore italiano. A Roma dal 1561 al 1563 partecipò al rinnovamento della tradizione raffaellesca che faceva capo ai marchigiani attivi nella capitale, in particolare a T. Zuccari, come dimostra la brillante decorazione del casino di Pio IV. A Urbino, dove si ritirò nel 1563, lasciò varie opere che (probabilmente in seguito a un viaggio a Parma tra il 1555 e il 1557) risentono della pittura del Correggio."

"Fra il 1568 e il 1569, a Perugia, avviò un manierismo fatto di effetti evanescenti, di colori sfumati e di composizioni affollate e movimentate, che per molti versi prelude al barocco e presenta analogie con la pittura riformata dei toscani. […] Di lì a poco eseguì la fondamentale «Madonna del Popolo»(1575-1579), già ad Arezzo e ora agli Uffizi…”

E la “Madonna del Popolo” quanto mi piace, mentre, allargando le braccia, si rivolge a Gesù per dirgli “Figlio mio, cosa faccio con tutta questa gente che vuol salire ?”.
“Massì, Madre mia, lasciali venir su… tanto c’è posto…” bonariamente bofonchia Gesù nel bel mezzo di tutto quel giallo canarino che cinguetta nel cielo.

Federico Barocci "La Madonna del Popolo"Firenze Uffizi

Al centro della sala XXVIII giacciono aperte, come vecchie sedie pieghevoli da star del cinema, alcune savonarole, dove spesso corro a sedermi, appena entrato, per ritrovarmi davanti al “Martirio di San Vitale”: e ogni volta, lì seduto, mi par di assistere, nel dipinto, a un’ eclissi lattea che screma sui tizzoni, ancora ardenti di rosso, di giallo e d'azzurro, dei colori. Improvvisamente non c’è più luce, non c’è più ombra, e nel dipinto restano, ormai sole, solo trasparenze e opacità. E come se fosse l’ ultimo orlo d’ acqua di un mare calmo che si spinge, fino a me, a inumidirmi i piedi, ogni volta che sono seduto lì, il mondo, chiuso fuori dalla sala, arriva appena a sfiorarmi.

La grande sala diventa un bozzolo ovattato di seta, e il dipinto di Barocci è una immobile crisalide, con le pallide ali ancora ripiegate, l’ una sull’ altra. Forse un giorno potrei entrare nella sala, e nel voltarmi, non trovarlo più : al suo posto ci potrebbe essere un cartellino spiegazzato, infilzato al muro con uno spillo, sul quale poter leggere “Il Martirio di San Vitale è in mostra”. E allora, sulla parete, al suo posto, resterà un rettangolo di parete chiara, dai bordi orlati di un alone nero, a ricordare la sua presenza, con al centro il piccolo cartellino bianco, spiegazzato, e forse scritto a penna : e io, in quel momento, saprò che di certo ritornerà, ma nonostante questo mi piacerà sedermi ancora sulla solita savonarola, chiudere gli occhi, e poter immaginare che una volta altrove, fuori dalle pareti di quella sala ovattata, il dipinto di Barocci avrà finalmente spalancato le sue ali, irrorandole di colore nella luce, per volare via, per non tornare mai più. Per non tornare e per non morire, nel pallore di quella sala, sulle crude pareti di Brera, come è accaduto a tanti altri capolavori.
(giovedì, 15 febbraio 2007)

Federico Barocci "Il Martirio di San Vitale",
Milano, Pinacoteca di Brera

Da Il blog di Oyrad

sabato 30 giugno 2007

Via Col di Lana 12


Daumier: Interno di vagone di terza classe


Via Col di Lana 12

di Primo Casalini


Le alternative erano tre: o andare in macchina, o andare con i mezzi pubblici, o un mix delle prime due alternative. Ho scelto la quarta: andare in bicicletta alla stazione di Monza e poi con mezzi pubblici fino alla meta. In realtà ho praticato una quinta alternativa, come vedrete, ma ogni cosa a suo tempo. La ragione vera della scelta dei mezzi pubblici è stata la possibilità di leggere, nel lungo viaggio in metrò, ben due quotidiani: la Repubblica e l'Unità.
Sono uscito di casa alle ore 11,41 AM - come dite voi, che avete uso di mondo. Avevo dismesso i comodissimi Birkenstock per un paio di Reebock bianche da jogging. I giornali erano contenuti in una busta di similpelle che a dieci metri di distanza sembrava quasi bella. La busta era appoggiata sul portapacchi personalizzato realizzato, su mio disegno, dal ciclista (così a Monza chiamano il meccanico delle bici). Il mio portapacchi ha solo un inconveniente: per salire sulla bicicletta occorre che la gamba destra faccia un girotondo molto ampio, altrimenti ci si sfracella il ginocchio, destro pure lui, contro il portapacchi. L'alta statura mi facilita in tale bisogna. Montato in sella, si tratta di percorrere i due chilometri che separano (o congiungono?) casa mia dalla stazione. E' un tratto insidioso, in quanto solo 173 metri sono di pista ciclabile; il resto è on the road peggio di Kerouac. E' andata bene, infatti sono qui a raccontarvela.
Nei pressi della stazione, dopo essere sceso dalla bici previo il solito ampio girotondo, ho chiuso la catena antifurto che protegge il velocipede dai malintenzionati, notando che si stanno diffondendo catene sempre più massicce e pesanti: fra un po' i brianzoli giungeranno alle trappole per lupi. Tramite la catena, la bici è stata abbinata ad un palo in ferro di un cartellone stradale adibito a messaggi pubblicitari: c'era una scritta SHIATSU nera su fondo verdolino, ma vado di fretta e vi risparmio i dettagli. Sono entrato nell'atrio della stazione, ho guardato il video con i treni in partenza, e tramite sottopassaggio, sono giunto alla pensilina del binario 6, non dimenticando di convalidare il biglietto con la macchina obliteratrice. Nelle tasche dei calzoni, infatti, oltre alle chiavi di casa ed ad un fazzoletto fresco di bucato, c'erano biglietti per treni e per metrò a volontà. Ah, dimenticavo: indossavo calzoni di tela blu: avevo scelto la configurazione da ingegnere-operaio, da magut, insomma, come dicono qui. Pochi minuti dopo è arrivata la littorina (da Littoria, termine pre-resistenziale), sono salito, mi sono seduto. E la littorina è partita verso il Sud. Ho dimenticato una cosa: appena salito sulla littorina, prima di sedermi, ho fatto la consueta verifica, mi sono cioè rivolto ad una giovane donna dicendo: "Mi scusi, va a Milano questo treno?". Lo faccio sempre da quella volta che sono sceso a Bergamo, mentre credevo di essere a Novara. Eppoi... è piacevole avvertire quel frisson di terrore nella giovine interpellata ex abrupto, frisson che si placa appena il suo sguardo incontra il mio, abarthizzato per l'occasione.
La partenza della littorina è avvenuta alle 12,23 AM (o PM... boh... quand'è che si cambia?). Dopo pochi minuti, ero a Sesto FS, senza aver potuto dare neppure una scorsa ai due quotidiani custoditi nella busta in similpelle etc etc. Un magut con la busta... in genere pensano che io sia un odontotecnico, per questo sorridono. Sono quindi disceso negli anfratti del metrò, disinteressandomi delle edicole ricche di videocassette suddivise in due tipi: cartoni animati e video porno; sta sorgendo una terza categoria che è la miscela delle prime due. Pochi, a quell'ora, 12,31 AM, i venditori di articoli con autentica falsa griffe del vero produttore che usa la sua griffe vera come fosse falsa.
Linea 1 del metrò da Sesto FS a Cadorna: venti stazioni in mezzo. Mi sono spazzolato la Repubblica da Massimo Bucchi a Michele Serra. Ho detto di no alla zingarella sollecitatrice che il padre (?) conduce a Milano dalle montagne dell'Erzegovina. Il mio no tranquillo a simili questue non è deprecato dal popolo zingaro: sembra quasi che spregino chi li soccorre. Il metrò è un ambiente culturalmente elevato: per le tratte lunghe in ogni carrozza ci sono almeno cinque o sei persone che leggono libri non banali, filosofia e poesia in primis, ma anche musica. Edizioni Einaudi ed Adelphi prevalenti. Anche Feltrinelli, per qualche ragazza con le trecce.
Avevo appena iniziato a scorrere i titoli dell'Unità quando siamo giunti a Cadorna. Lì occorreva scendere e passare alla linea 2, sino alla stazione di Porta Genova. Questa è la quarta e penultima tratta del mio viaggio: la più breve, solo tre stazioni del metrò, verso una zona di Milano per me quasi sconosciuta, anche se contigua alla zona dei Navigli, nota a tutti. Ma di ciò poi.
A Porta Genova sono uscito da anfratti e meandri del metrò alla luce abbagliante del sole. Milano si avvia a diventare una città tropicale, come Giacarta o Bombay. Il giorno prima era piovuto tantissimo: ho ormai raccolto acqua piovana bastevole per i gerani di tutto il condominio; addirittura prima di partire per il viaggio ero incerto se prendere con me un golf di cotone, da indossare sulla camiciola, ovviamente da magut, azzurro stoviglia. E invece, in piazza di Porta Genova, tutti sudavano, compresi i tanti bambini. Si, è una zona con grande presenza di bambini, che è come dire che è una zona di extracomunitari, piena di bar-trattoria con fuori la lavagna con i prezzi. E mi sono sentito subito bene, benissimo. Poi ho capito perché: le tante passeggiate al Quartiere Latino fatte quando ero studente. Le lavagne, i bistrot, i tre menù diversi, le amicizie improvvise. Chi non c'è stato allora non conosce del tutto che cosa significa il piacere di essere vivo.
Ma sulla cartina, prima di partire da casa, non avevo guardato bene: credevo di essere a 300 metri dalla meta ed invece ero a due chilometri. Anche se ci sono le lavagne, non è bello camminare per chilometri alle 13,14 col sole cocente e la borsa in similpelle che ti si attacca alla mano. Per fortuna, ecco la darsena del Naviglio, le anatre e le oche: funzionano come le lavagne. Mi rassereno e mi accorgo delle cose. Perché le cose succedono, solo che non ce ne accorgiamo.
E finalmente, alle 13,27 ecco la meta: via Col di Lana numero 12. Si entra dal portone in un grande cortile su cui si affacciano una decina di condomini. Hai voglia, a trovare il seminterrato giusto! Perché in un seminterrato dovevo andare; finché un portinaio assai sgradevole mi ha indicato un foglio dentro una cartelletta trasparente attaccata con lo scotch al muro.
Giù per le scale, entro dall'unica porta: tre stanzoni disadorni con mobili spaiati; in fondo, due scrivanie affiancate a simularne una sola molto grande, tre personal computer, cinque donne con età variabile dai venti ai cinquanta, ed un portacenere - per fortuna. Le Girandole: questa è la sede fantasmagorica di una delle più note organizzazioni dei girotondini, quella in particolare che ha "fatto" il Palavobis. Facce appassionate e stanche. Dio, come possono essere belle le donne, quando non ci pensano proprio ad essere belle, quando hanno altro da fare che essere belle. Baudelaire l'aveva capito, centocinquant'anni fa.
Ho tirato fuori i miei 36 euro, ho avuto il mio tagliando per il treno speciale per Roma, ed abbiamo parlato un po'. Avevano avuto già mille prenotazioni, e gli ho detto che era il caso di pensare al secondo treno. Mi hanno risposto: "Aspettiamo che chi ha prenotato venga a pagare, non possiamo basarci solo sulle prenotazioni". Loro non me l'hanno detto, ma io lo so, perché non dormo all'umido: aiuto finanziario da parte dei partiti zero; aiuto organizzativo da parte dei partiti zero ( e questo sarebbe ancora più importante dei soldi).
Ognuno può pensarla come gli pare, ma se in questi giorni trovo qualcuno che mi blatera di radical-chic e di cachemire, lo prendo letteralmente a calci: noi magut, ogni tanto, possiamo anche venire a vie di fatto. A S.Giovanni, non più a piazza del Popolo, ci sarò, e passerò due notti in treno. Certo, potrei pagarmi l'aereo, ma persone così le trovo solo nei treni che viaggiano di notte.
Al ritorno, sentivo di meritarmi un premio. In via Col di Lana ho trovato un grande bar: toast, birra piccola e caffè. Di fronte al bar c'era la fermata del tram che portava alla stazione di Porta Genova. Ecco la quinta alternativa. L'ho scelta, felice di sceglierla.
7 settembre 2002 (rivisto per l'occasione)

Daumier: Interno di un vagone di prima classe