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mercoledì 3 giugno 2009

La valigia di Irène Némirovsky




La valigia di Irène Némirovsky

di Giulia


Una valigia può contenere molte cose. Ma la valigia che le figlie di Irène Némirovsky, Denise ed Elisabeth, si porteranno dietro dopo la deportazione dei loro genitori in un campo di concentramento, conteneva qualcosa di molto prezioso: un manoscritto e gli appunti della mamma.
Era la valigia che il marito disperato aveva consegnato alla figlia maggiore, Denise, perché la conservasse gelosamente quando era stato anche lui arrestato.

Denise ed Elisabeth sopravviveranno alla guerra grazie alla nutrice. Nell’ultimo periodo della guerra saranno sempre in fuga, inseguite dalla polizia francese più che dai nazisti e verranno sempre protette da persone che si prenderanno cura di loro: due bambine ebree, orfane e malate, nascoste in cantine e soffitte e convitti. Per tutto questo periodo non abbandoneranno mai la valigia e la custodiranno con amore e dedizione, senza avere, però, il coraggio di leggere nulla: “Aspettavo – racconta Denise - che la proprietaria della valigia (mia mamma) tornasse a leggere il suo manoscritto di persona. Non sapevo ancora che non sarebbe sopravvissuta. E’ un po’ come quando non si apre la posta il cui destinatario è assente, non ti appartiene e non la leggi. Così per me era la valigia. Il mio compito era solo conservarla”.

La mamma Iréne aveva ben chiaro cosa sarebbe successo, nel suo diario si legge: "Mio Dio, cosa mi combina questo paese? Dal momento che mi respinge, osserviamolo freddamente, guardiamolo mentre perde l'onore e la vita".

Parigi 1942, parco giochi interdetto ai bambini ebrei

Il 3 giugno fa testamento, e chiede alla tutrice delle sue figlie, di prendersi cura di loro quando lei e il marito non ci saranno più. Impartisce direttive precise, elenca tutti i beni che ha potuto salvare e che costituiranno i fondi per pagare l'affitto, il riscaldamento, l'acquisto di un fornello, l'assunzione di un giardiniere che si occuperà dell'orto da cui ricavare le verdure in quel periodo di razionamenti; fornisce l'indirizzo dei dottori che seguono le bambine, dà istruzioni puntuali sulla loro dieta. Non una parola di ribellione. Si limita a prendere atto della situazione quale si presenta. Vale a dire disperata.

Irene con il marito e le figlie

In quel periodo così difficile, la Némirovsky si rifugia nella lettura e nella scrittura, esce di casa per cercare il luogo adatto al suo lavoro. Lì scriverà il suo diario e il suo romanzo.
"Bosco della Maie, 11 luglio.
I pini intorno a me, Sono seduta sul mio maglione blu come su una zattera in mezzo ad un oceano di foglie putride inzuppate dal temporale della notte scorsa, con le gambe ripiegate su di me! Ho messo nella borsa il secondo volume di Anna Karenina, il Diario di K.M. e un’arancia. I miei amici calabroni, insetti deliziosi, sembrano contenti di sé e il loro ronzio ha note gravi e profonde. Mi piacciono i toni bassi e gravi nelle voci e nella natura. Lo stridulo ”cip cip” degli uccellini sui rami mi irrita… Tra poco cercherò di ritrovare quello stagno isolato”.
Quello stesso giorno scrive al direttore letterario della casa editrice Albin Michel una lettera che non lascia dubbi sulla sua certezza di non sopravvivere alla guerra che i tedeschi e i loro alleati hanno dichiarato agli ebrei:
"Caro amico... non mi dimentichi. Ho scritto molto. Saranno opere postume, temo, ma scrivere fa passare il tempo”.


E’ il 13 luglio 1942, una mattina di sole. Alle 10, si sente il rumore di una macchina che si ferma vicino alla casa della scrittrice. Bussano alla porta: due gendarmi francesi si presentano con un foglio in mano. Cercano Irène: non c’è neanche tempo per i saluti, la figlia maggiore Denise ricorda solo le poche parole rassicuranti della madre, il pallore sconvolto del padre e la portiera della macchina che si chiude, il motore che si avvia, e poi il silenzio.
II 16 luglio la Némirovsky viene internata nel campo di concentramento di Pithiviers, nel Loiret. Da lì manderà il suo ultimo messaggio:
"Mio amato, mie piccole adorate, credo che partiamo oggi. Coraggio e speranza. Siete nel mio cuore, miei diletti. Che Dio ci aiuti”

Il giorno dopo la fanno salire con altri deportati sul convoglio numero 6 diretto ad Auschwitz. Viene registrata nel campo di sterminio di Birkenau, ma troppo debole e ammalata com'è passa per il Revier, l’infermeria di Auschwitz da cui, periodicamente, le SS ammassavano i prigionieri non adatti al lavoro sui camion e li trasportavano nelle camere a gas.



Per molto tempo, anche dopo la liberazione, le due sorelle sperano nel ritorno dei genitori.
Quando la guerra finisce, continuano a recarsi sui marciapiedi dei treni con un cartello in mano con il loro nome, ma da quei treni vedono scendere uomini e donne solo più ombre di se stessi: “è stata un’esperienza terribile” dice Denise “pian piano abbiamo capito che i nostri genitori non sarebbero mai scesi da quei convogli”.

Denise per molto tempo ancora non legge il manoscritto e trova solo il coraggio di prendere tra le mani il quaderno per accarezzarlo perché le ricorda la madre, e poi lo ripone: quelle pagine lasciate sono l'eredità più preziosa, il dono più grande che sua madre potesse farle. Tiene le pagine sul suo comodino per molto tempo, quasi quaranta anni. Poi finalmente si sente pronta e inizia a leggerlo.
Lo feci - ha detto Denise- solo quando i miei figli furono abbastanza grandi da reggere la vista di una madre che affrontava il suo dolore più grande".
La scrittura della madre è fitta e minuscola, questo per risparmiare spazio, perchè carta e inchiostro scarseggiavano. Doveva fare in fretta a scrivere, perché tempo non ce n'era quasi più e prevedeva che presto tutto sarebbe precipitato.
Denise, per decifrare la scrittura della mamma, deve utilizzare una lente d'ingrandimento.

Manoscritto di Suite francese

Trascrive a mano il contenuto del quaderno, in un’intervista a Farenheit rivela che non si era resa conto che fosse un romanzo: “Avevo letto delle frasi e parlava di persone che conoscevo, parlava di paesaggi e parlava di luoghi che avevo conosciuto. Per me erano ricordi, un libro affettivo”.
Dedica, però, a questo lavoro ben due anni, due anni di intensa emozione. Spesso chiude il quaderno e lo ripone nell'armadio: luoghi e gente che la madre descrive sono conosciuti e la maggior parte delle persone è morta.
Poi si rende conto che non si tratta di un diario intimo, ma di un’opera straordinaria in cui la Francia viene raccontata così come appariva agli occhi della mamma in quei giorni terribili dell’invasione tedesca.

Sessanta anni dopo, finalmente, le pagine trascritte della madre verranno pubblicate.


La stessa Denise racconta in un'intervista:
"Nel manoscritto di mia mamma non ho ritrovato mia madre, ma credo di poter dire che ho ritrovato la sua epoca, tutte le persone che le stavano intorno. Forse il suo romanzo non mi dice nulla di lei che non avessi già conosciuto da bambina, ma certo mi racconta della sua voglia di vivere ad ogni costo, malgrado il momento terribile in cui lei stava scrivendo quelle pagine... della sua incredibile passione per la scrittura, al punto di non preoccuparsi di quanto le stava per accadere, e di cui era però pienamente cosciente, per portare a termine il suo romanzo (…) Ora che il libro è uscito, mi sento più leggera, ma la coscienza universale è più pesante. Quando si parla di guerra, si mette l’accento sugli eroi. Ma non ci sono eroi, nella guerra c’è tanta gente comune, tanta vigliaccheria e tanto egoismo. La Francia di quel periodo mi appare come una persiana chiusa dietro la quale si guarda fuori cosa succede senza avere il coraggio di intervenire".


Suite francese è uno dei libri più belli che abbia letto.
Irène Némirovsky lo aveva progettato pensando a una sinfonia in cinque movimenti. Riuscì a scriverne solo i primi due "Temporale di giugno" e "Dolce", nel periodo che ha preceduto il suo arresto. Una sinfonia ricca e varia (riunita in un unico testo per la pubblicazione postuma) in cui la scrittrice racconta la Francia durante il periodo dell'occupazione nazista. Nelle pagine di questo libro la scrittrice narra la fuga in massa, disordinata e movimentata, dei parigini dalla loro città alla ricerca di una sopravvivenza possibile."La cosa più importante, qui, e la più interessante - scrive la Némirovsky due giorni prima di essere arrestata - è che gli eventi storici, rivoluzionari sono appena sfiorati mentre viene investigata la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto la commedia che questa mette in scena.
“Ci abitua a tutto, a tutto quello che succede nella zona occupata: i massacri, la persecuzione, il saccheggio organizzato sono come frecce che si configgono nel fango!... nel fango dei cuori.Vogliono farci credere che siamo in un’epoca comunitaria in cui l’individuo deve soccombere affinché viva la società e non vogliono vedere che quella che soccombe è la società affinché vivano i tiranni”.

Non possiamo che essere grati a Denise per essersi sempre portata dietro questa valigia e averci regalato un libro straordinario.

Irène Némirovsky con la figlia Denise


venerdì 14 settembre 2007

Il silenzio del mare. Ma non solo




Il silenzio del mare. Ma non solo

di Gabriella Alù



A volte, le storie della nascita di un libro e di un film sono altrettanto avvincenti di quelle da essi raccontati e si intrecciano o vanno in parallelo con altre storie. Di altri libri ed altri autori.

Seconda Guerra mondiale. 1942. Nella Francia occupata dai nazisti viene stampato e diffuso clandestinamente dalla Resistenza un lungo racconto intitolato Le silence de la mer (Il silenzio del mare). Il racconto è firmato Vercors e narra di un ufficiale tedesco di nome Werner von Ebrennac che si insedia nella casa di un anziano signore francese e della sua giovane nipote.
Von Ebrennac, che nella sua vita "normale" è un musicista e parla perfettamente il francese, è un grande conoscitore ed ammiratore della Francia, della sua cultura e della sua arte e tenta in ogni modo -- ma invano -- di conquistarsi la simpatia di zio e nipote i quali, durante i sei mesi di permanenza dell'ufficiale in casa loro non rispondono mai nemmeno con una parola ai suoi lunghi monologhi.

Da parte sua, von Ebrennac non cerca mai di forzare la situazione, è addolorato dal loro silenzio ma non pretende risposte ai suoi discorsi.

Attraverso una scrittura fatta di pause ed uno stile sommesso, il lettore a poco a poco comprende che nel gioco di silenzi, di sguardi, di non detto qualcosa sta avvenendo, nella relazione fra i tre personaggi, e che al di là dei ruoli e della drammatica situazione storica in cui si trovano (occupanti e occupati, dominatori e dominati) che non consente loro un avvicinamento, si fa strada la complessità di una relazione tra "persone".

La giovane nipote e suo zio però non cederanno e quando von Ebrennac comunicherà loro, sconvolto, di essere venuto a conoscenza delle reali intenzioni del Governo tedesco nei confronti della Francia e avere per questo domandato e ottenuto di essere inviato sul fronte russo lo lasceranno partire senza -- nemmeno in quel tragico momento -- pronunciare una sola parola.
Terminata la guerra, i francesi scoprono che dietro lo pseudonimo di Vercors si nascondeva il noto ingegnere-disegnatore-illustratore Jean Bruller, nato nel 1902 da padre ungherese e madre francese che allo scoppio della guerra, entrato in contatto con la Resistenza aveva fondato la casa editrice clandestina Les Editions de Minuit per promuovere la resistenza civile.

Vercors-Bruller scopre, da parte sua, di essere diventato talmente famoso da essere ormai considerato un vero e proprio simbolo della Resistenza intellettuale e vede pioversi addosso molte richieste di autorizzazione a trasporre Le silence de la mer in teatro, al cinema e di farne persino un balletto.
Tra coloro che chiedono a Vercors l'autorizzazione per la realizzazione di un film c'è anche il trentenne Jean-Pierre Melville, alla sua prima esperienza cinematografica. Ha letto il racconto a Londra e ne è rimasto sconvolto. Vercors non dà l'autorizzazione ma Melville comincia egualmente a girare il film clandestinamente e con un budget modestissimo.

Per convincere Vercors, ad un certo punto va a trovarlo e stipula con lui un accordo. Si impegna cioè a mostrare il suo film ad un gruppo di ex membri della Resistenza scelti da Vercors e a distruggere la pellicola se la maggioranza di essi esprimerà un giudizio sfavorevole. Il film viene girato in appena 27 giorni. Il gruppo designato da Vercors ne è entusiasta. Soltanto allora Vercors si decide a concedere i diritti.

Il racconto di Vercors fu pubblicato in Italia da Einaudi nel 1945. La traduzione, affidata a Natalia Ginzburg riesce a rendere magnificamente lo stile rarefatto eppure fiero del testo originale. Il libro è tuttora in catalogo Einaudi.

Andiamo adesso al film di Melville, secondo me uno di quei rarissimi miracoli che qualche volta avvengono di perfetta empatia-sintonia tra film e testo originario. Non a caso Jean Cocteau se ne entusiasmò al punto tale che dopo averlo visto chiese a Melville di dirigere un film tratto dal suo romanzo Les enfants terribles in cui la bravissima Nicole Stéphane -- che ne Le silence de la mer interpretava la nipote -- ricoprirà il ruolo di Elisabeth.

Ho avuto la fortuna di poter vedere questo film in televisione (la televisione di una volta, prima che venisse ridotta alla discarica di immondizia che è oggi) per ben due volte e ne ho un ricordo vivissimo. Un film molto difficile da realizzare ed interpretare; tutto fatto di sfumature, di particolari, di sguardi, di quasi impercettibili mutamenti nell'espressione dei volti.

Un film in cui la musica gioca un ruolo fondamentale. Perchè tutta la musica che si ascolta nel film (molto Brahms, molto Beethoven), questa musica amata e capita da tutti e tre i personaggi è... tedesca.

La musica
viene utilizzata da Melville non solo come linguaggio al posto delle parole che non vengono pronunciate (non è stato Thomas Mann a dire che la musica "Tutto dice, senza mai nulla nominare"?), ma rappresenta anche e soprattutto un legame che unisce i due francesi e il tedesco, una allegoria della migliore Germania, di quella Germania dolorosamente rimpianta ed esaltata in alcune delle più belle pagine del Doktor Faustus di Thomas Mann.

Ma questa storia fatta di intrecci di storie e di coincidenze non finisce qui.

Il racconto di Vercors venne scritto nella clandestinità nel 1941.

Proprio nel 1941 nel piccolo paesino francese di Issy-l'Évêque, una giovane scrittrice, ebrea francese di origini russe e madre di due figlie scriveva -- con la frenesia di chi sa di avere i giorni contati -- la seconda parte di quello splendido libro che oggi noi conosciamo con il titolo di Suite francese.
Questa giovane donna, che nel 1942 verrà deportata e morirà ad Auschwitz si chiamava Irène Némirovsky.

Le analogie del suo racconto Dolce con Le silence de la mer di Vercors mi hanno molto impressionata.

Anche qui, un ufficiale tedesco, il tenente Bruno von Falk ("giovane, magro, con belle mani") va ad alloggiare in una casa francese abitata da due persone: le signore Angellier -- madre e moglie di Gaston Angellier prigioniero in Germania --. Anche il tenente Von Falk è un musicista (nella vita civile è un pianista professionista). Anche qui la musica che viene suonata e di cui si parla è musica tedesca. Anche qui, alla gentilezza, alla cultura, all'amore per la Francia professato dal tedesco le due donne oppongono il silenzio. Anche qui, una giovane donna comincia piano piano a vedere nell'ufficiale non solo il nemico in divisa ma anche l'uomo.
Anche qui, il racconto si chiude con la partenza di Von Falk per il fronte russo.

Vercors e Irène Némirovsky non si sono mai conosciuti, mai incontrati. Eppure, e praticamente in contemporanea, hanno scritto lo stesso racconto.
Venerdì, 13 luglio 2007

Da NonSoloProust



martedì 15 maggio 2007

JEZABEL




JEZABEL

Irène Némirovsky

di baotzebao




Quando il romanzo comincia, a pagina 47, è già tutto finito. Sappiamo dove passerà i suoi prossimi anni Gladys, sappiamo che al suo collo non gorgoglieranno più le perle, né ci sarà una premurosa cameriera, né amanti, né balli. Eppure.

“JEZABEL” comincia, come ogni romanzo, a pagina uno, ma fateci caso: il capitolo non ha numero. Come fosse un ouverture da melodramma, ( dopotutto è un personaggio tragico di Racine a dare il soprannome alla protagonista, e il titolo al romanzo ), nell’aula di tribunale parigino quel che si consuma è un dettaglio, l’esito scontato di un processo con troppe prove a carico, troppe ammissioni dell’imputata, troppe circostanze aggravanti per poter finire in modo diverso. Eppure.

La vita di Gladys è quella di una donna che, una volta sperimentato il potere della sua bellezza, e la bellezza del suo potere, non accetterà più di rinunciare a gustarne il piacere, l’ebbrezza, la voluttà. Via via meno dolce e più effimero, man mano che gli anni tolgono lucentezza ad occhi e pelle, il fantasma del potere che Gladys - sin dal quel primo giovanile ballo a Londra - ha assaporato, non l’abbandonerà, vera e propria scimmia sulla spalla, fino alla sentenza, e oltre, forse.

Gli uomini, quelli che dice di rimpiangere, come Dick, il secondo marito, o tutti gli altri, sposi o amanti, le cui vite lei riesce comunque a determinare, (alla lettera, nel caso di Martin), gli uomini sono pedoni, alfieri, a volte rare torri, e mai re nel gioco che Gladys gioca e interpreta, da regina che può muoversi in ogni direzione, mossa solo dal proprio desiderio.

Le donne: paggette o damigelle. Ammiratrici, nemiche, serve. Nemmeno Marie-Thérèse, sua figlia, durerà più dello spazio di un mattino, quando la sua femminilità a lungo negata darà inequivocabili prove di sé.

La famiglia: cespuglio di rovi, scena della battaglia, rifugio nella disfatta, ma solo fino al momento della vendetta.

Il ‘Gran Mondo’ europeo e Parigi-centrico del primo novecento, con i suoi oltremodo ricchi, oltremodo ignari, oltremodo scintillanti e vani personaggi da operetta sulla scena tragica della vita, sono lo sfondo sociale di un romanzo che, ritratti femminili a parte ( qui più riusciti ) si sarebbe potuto chiamare “Tenera è la notte”, se lo avesse scritto un americano infatuato della vecchia Europa, o meglio: della sua parodia, come il povero-ricco Francis Scott Fitzgerald. Chissà, se lo avesse davvero scritto Zelda…

Anche la trama - a tratti un po’ prevedibile ( ma non è detto non sia un piacere per il lettore avveduto ) -, e il linguaggio - talvolta un po’ sopra le righe ( ma adeguato alle parole dei personaggi) - servono a Irene Nemirowsky a dare luce ai punti oscuri, a sollevare gli angoli dei pesanti tappeti e scoprirvi il non detto, la sporcizia e la polvere. Nessuna meraviglia: la scrittrice che Adelphi ha portato all’attenzione del pubblico italiano è infatti anche l’autrice del “BALLO”, fulminante racconto di crudeltà reciproche ( ma con vittoria finale dell’adolescente ); di “SUITE FRANCESE”, affresco potente di storie che si intrecciano e confondono, come si confuse la storia in Francia ai tempi di Vichy; di “DAVID GOLDER”, romanzo di scontri e debolezze, di uomini violenti e indifesi, di tradizioni e tradimenti, di parole taglienti come lame e di soldi, soldi, soldi; del proto femminista, inesorabile racconto “LA MOGLIE DI DON GIOVANNI”, stretto parente di questo “Jezabel”.

Chi avesse scoperto la Nemirowsky solo adesso, accetti il mio consiglio: legga una seconda volta tutto “Jezabel”, prima di affrontare le altre opere. Chi, invece, deve ancora cominciarlo, si legga due volte le pagine fino alla 46. In entrambi i casi, servendo da ouverture, tali letture consentiranno loro di entrare nelle pagine e fra le righe: proprio come a teatro, - prima che si levi il sipario, e l’azione cominci - la buona musica avrà già “detto tutto”, avrà già indicato al buon ascoltatore ( come al buon lettore ) i temi e le variazioni, il clima e l’aura, il tono e il registro dell’opera. Si potranno così abbandonare a quell’ “eppure!” che illumina, rovescia e alimenta di sorprese e rivelazioni ogni vita, e ogni buon romanzo. Si gusteranno dunque lo svolgimento della trama ( o le diverse storie raccontate in ogni opera ) con il palato del buongustaio che sa di che sapore è il frutto, o quanto dovrà solleticargli le papille lo champagne, prima di morderlo, prima di levare la flùte. Lo sa perché già lo conosce, sa a cosa paragonarlo, sa dunque misurarne la qualità il piacere il gusto. E, credetemi, la Nemirowsky è un grappolo d’uva regina, è un millesimato. Buone letture.

Dal blog a vànvera