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venerdì 23 aprile 2010

Messaggi d'amore

Primo Casalini

Fragonard: L'altalena (part) 1767 - Wallace Collection, Londra

Una mia amica asseriva che le lettere d'amore si scrivono alla sera e si imbucano subito, perché se si aspetta la mattina e le si rilegge, ci si vergogna di quello che si è scritto e non le si spedisce più. Facendo male, fra l'altro, perché l'amata lontana non è interessata ad una analisi psico-linguistica, ma proprio a quelle frasette zoppicanti e scoppiettanti, come un legno verde in un camino di buon tiraggio.
Ma oggi, la disponibilità della rete permette delle indagini approfondite. Una delle fonti più importanti è la collazione dei messaggi dei Baci Perugina. Esistono diversi siti che contengono abstracts o addirittura l'opera omnia, con varianti, lectio facilior, nuove proposte ed il doveroso armamentario critico.
Per i miei scopi, è bastato estrarre alcune decine di questi messaggi, perché la ripetitività e la ridondanza sono notevoli, ma anche perché ho grigliato del tutto (o quasi) gli anonimi.
Mi viene infatti il sospetto che molti dei messaggi cosiddetti anonimi siano stati lì per lì inventati dal grafico o dall'imballatore in funzione della particolare situazione di quel loro giorno d'amore.
Io, almeno, avrei fatto così: una specie di messaggio nella bottiglia che da qualche parte comunque arriva, ed arriva a segno: è più probabile che venga letto il messaggio che mangiato il cioccolatino. Difatti, tutti li leggiamo.

Fragonard: La lettera d'amore (part)
1770 - Metropolitan, New York


Una prima categoria è quella del sublime generico:

Nulla è difficile per chi ama. (Cicerone)
Il tuo amore è per me come le stelle del mattino e della sera, tramonta dopo il sole e prima del sole risorge. (Goethe)
Un mondo senz'amore, che sarebbe per il nostro cuore? La stessa cosa che una lanterna magica senza luce. (Goethe)
Amore! Ecco un volume in una parola, un oceano in una lacrima, un turbine in un sospiro, un millennio in un secondo. (Tupper)
Ma vederla fu amarla, amare solo lei, e amare per sempre. (R.Burns)
Non esiste rimedio all'amore se non amare di più. (Henry D.Thoreau)
Coloro che vivono d'amore vivono d'eterno. (Emile Verhaeren)


Chi sia Tupper, non lo so, forse un finanziere della Nuova Scozia; certamente, dal tono, era uno che coi soldi aveva a che fare.
Il sublime generico trova però la sua migliore espressione in Victor Hugo, che, esule a Guernesey, scriveva tre lettere al giorno all'amata Juliette, che abitava al piano di sopra o, più probabilmente, al piano di sotto. Forse Juliette lo chiamava ogni tanto nella tromba delle scale, e Victor rispondeva: “Non posso! Ti sto scrivendo”. Ma le frasi di Hugo hanno un'ampiezza che si presta meglio alla scatola intera che al singolo cioccolatino.
Nei “Demoni” di Dostoevskij, c'è lo strano rapporto fra Varvara Petrovna e Stepàn Trofimovic in cui succede qualcosa di analogo, raccontato per molte pagine da Dostoevskij con la finezza umoristica (sì, proprio umoristica) di cui ci si è finalmente accorti, e che non manca neppure in “Delitto e Castigo” e nei “Fratelli Karamazow”. Solo che Stepàn scrive per timore: non osa affrontare Varvara, che “era una donna classica, una donna-mecenate, che agiva unicamente in vista di considerazioni superiori”. Succede anche negli affari, questo nascondersi dietro lo scritto per evitare l'orale. Il sublime generico è la scorciatoia verso l'assoluto, che sta dalle parti dell'eterno, del più e dell'alto, senza pagare dazio alla persona concreta ed alla quotidianità dei fatterelli. Non esistono giorni comuni: sono tutti anniversari. Questa categoria è largamente presente nella collazione dei baci: piace genericamente a tutti e non crea grattacapi.

Fragonard: L'amante incoronato (part)
1771 - Frick Collection, New York


Poi c'è la categoria che si potrebbe chiamare l'amour, mode d'emploi:

Amore è credula creatura. (Ovidio)
Amore e tosse non si possono nascondere. (Ovidio)
Che diano o che rifiutino, godono tuttavia d'esser richieste. (Ovidio)
Giove, dall'alto, ride dei falsi giuramenti degli amanti. (Ovidio)
Sii amabile, se vuoi essere amato. (Ovidio)
Amare è scegliere, baciare è la sigla della scelta. (Anonimo)
L'amore è un potere troppo forte perché lo si possa vincere altrimenti che con la fuga. (Cervantes)
Il colpo di fulmine è la cosa che fa guadagnare più tempo. (Arnoul)
La felicità in amore è come una palla che noi rincorriamo quando rotola, e che spingiamo via col piede quando si ferma. (Madame de Puissieux)
Bisogna scegliere tra amare le donne e conoscerle: non c'è via di mezzo. (Chamfort)
La luna e l'amore, quando non crescono calano. (Proverbio cinese)
Un bacio è come bere acqua salata: bevi e la tua sete aumenterà. (Proverbio cinese)
Noi mettiamo l'infinito nell'amore: le donne non fanno questo sbaglio. (Anatole France)
Un bacio legittimo non vale mai un bacio rubato. (Maupassant)


Ovidio, il suo mode d'emploi, l'ha pagato caro, ed anche Cervantes e Maupassant. Di Madame de Puissieux so che compare abbastanza in Google, sempre al seguito della sua geniale metafora calcistica. I cinesi confermano la praticità confuciana: sembra che parlino dell'andamento dei titoli in borsa. Anatole France dà voce aforistica ad un millenario luogo comune.

Fragonard: Il chiavistello (part) 1776-79, Louvre Parigi


Seguono i permissivi:

Ama e fai quel che vuoi. (Sant' Agostino)
Amate, amate, tutto il resto è nulla. (La Fontaine)
I ragazzi che si amano si baciano in piedi...nell'abbagliante chiarezza del loro primo amore. (Prevert)
Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l'ho scordato. (Walt Whitman)

Sono pochissimi, i permissivi, nei messaggi dei baci. E sia su Agostino che su Whitman si può osservare che è un permissivisimo che tende al sublime generico. Ma se riusciamo a stare coi piedi per terra senza involarci verso il di più, l'alto e l'eterno, il fai quello che vuoi ci soddisfa. Però devi amare, se no nisba. Perché così poca permissività, nei baci? Forse è l'occasione in cui vengono regalati che li rende così poco propensi ad una sia pur vaga istigazione a delinquere. Sono baci generalmente non adulterini, dati davanti a Dio ed alle donne.

Gli statistici:

Tutti gli amori dell'uomo, ancorchè diversi, hanno lo stesso motore. (Vittorio Alfieri)
Vorrei sapere quanti baci fur dati dal dì che i baci furono inventati. (Iginio Ugo Tarchetti)
"Che cosa sarebbe l'umanità, signore, senza la donna?" "Sarebbe scarsa, signore, terribilmente scarsa". (Mark Twain)
Non c'è amore sprecato. (Cervantes)

Vittorio Alfieri era piemontese, per chi l'avesse scordato. Mentre Tarchetti soffre di curiosità impropria. Me lo vedo, proprio sul più bello, uscirsene con una frase del genere. Cervantes, nella frase precedente tentava la fuga, ma evidentemente si faceva riacchiappare. Il catalogo di Don Giovanni che Leporello mostra alla affranta Donna Elvira è il risvolto contabile di questo approccio: 640 in Italia, 231 in Lamagna, 100 in Francia, 91 in Turchia, 1003 in Ispagna. Ma perché così poche in Francia? Rispetto anche alla Lamagna, ma persino rispetto alle 91 in Turchia, considerato il viaggio ed il rischio. Che si tratti del vasto harem di un pascià compiacente?

Fragonard: Il bacio rubato (part)
1787-89 Ermitage, San Pietroburgo


I narcisisti, anzi, il narcisista:

Amare se stessi è l'inizio di un idillio che dura una vita. (Oscar Wilde)
Oh... Tutti abbiamo bisogno di amici, alle volte. (Oscar Wilde)

Ma le frasi più stuzzicose di Wilde non ci sono, per il solito motivo. Occorrerebbe mutare brand: profumi al posto di cioccolatini, ad esempio.

Quelli delle gloriose cicatrici:

Amare è gioire, mentre crediamo di gioire solo se siamo amati. (Aristotele)
Il cuore non ha rughe. (Madame de Sevignè)
L'amore è lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore. (M.Proust)
Lasciarsi, è tutto quanto sappiamo del paradiso, e quanto ci basta dell'inferno. (Emily Dickinson)
Amore, amore, che schiavitù l'amore. (La Fontaine)
Amore non è guardarsi a vicenda; è guardare insieme nella stessa direzione. (Antoine de Saint-Exupery)


A differenza di quelli del sublime generico, in questi si avverte che non dimenticano la persona, che la ritengono più importante dei loro pensamenti, che hanno accettato il rischio di essere feriti perché ne valeva la pena, comunque andasse. La Fontaine si tiene bene strette le catene della sua schiavitù, perché tutto il resto è nulla. Posso dirlo? Questi mi piacciono, e tanto. Anche Aristotele che si porta a spasso sulla schiena la trionfante e nuda Phyllis con briglia e pungolo, come in una xilografia di Hans Baldung Grien del 1513.

Fragonard: La lezione di musica (part) 1769 - Louvre, Parigi


I golosi:

Che faccenda maledettamente pazza è l'amore. (Schikaneder)
Vogliamo godere l'amore: senza di lui non possiamo vivere. (Schikaneder)
Con te conversando, dimentico ogni tempo e le stagioni e i loro mutamenti: tutte mi piacciono allo stesso modo. (Milton)

Schikaneder è l'impresario teatrale, autore del libretto del Flauto magico. Parla attraverso Papageno, che ha di fronte Papagena. Milton, anglosassone, è di una golosità più in punta di forchetta, ma che dura nel tempo. Pochini anche i golosi, come si vede. Qualche Cerbero li ha tenuti lontano. E continuerà a mancare, malgrado il diffondersi della conoscenza dell'inglese, la bandiera della golosità in amore , quella alzata all'inizio del '600 dal Reverendo John Donne:

Licence my roavings hands, and let them go,
Behind, before, above, between, below.


Fragonard: Ragazze al bagno (part) 1677 - Louvre, Parigi


Quelli della tranquilla passione:

Perché l'amavo? Perché era lei; perché ero io (Montaigne)
Molti uomini vivono felici senza saperlo. (Luc de Clapiers de Vauvenargues)
Il vero amore è come l'apparizione degli spiriti: tutti ne parlano, quasi nessuno li ha visti. (Rochefoucauld)
Si perdona finchè si ama. (Rochefoucauld)
Un uomo onesto può essere innamorato come un pazzo, ma non come uno sciocco. (Rochefoucauld)
Nulla rende così amabili come il credersi amati. (Pierre Marivaux)
L'amore è la saggezza dello sciocco e la follia del saggio. (Samuel Johnson)
Le persone felici in amore hanno l'aria profondamente intenta. (Stendhal)


Sono disattaccati, non distaccati. Hanno preso le loro contromisure. Sanno sorridere, perché conoscono la follia e la sciocchezza. Ci sono passati attraverso, e forse rimpiangono l'inconsapevolezza originaria, ma non al punto da ricadere negli stessi errori. Poi c'è uno, uno solo, che ammette di non capirci niente, con uno strano tono trionfante:

Amore, impossibile a definirsi!

E' Giacomo Casanova, veneziano.

Fragonard: La mosca cieca (part) 1760 - Toledo, Ohio


Conclusione
Una persona che conosco aveva un innamorato facondo che abitava in un'altra città. Quasi ogni giorno, quindi, perveniva una letterona. La persona aveva il suo daffare sul lavoro, e leggere quelle quattro facciate al giorno non aveva più il gusto della sorpresa e della novità. Però, l'amore era ricambiato, anche se con minore facondia. Ed allora, si metteva la lettera appena giunta e non ancora aperta in una tasca (esistono ancora, le tasche?).
Ogni tanto, muovendosi durante il suo lavoro, avvertiva fisicamente il lieve ingombro della letterona, e le veniva da sorridere dalla contentezza. Poi, la sera, adempiva al giusto dovere di un'attenta lettura. Ma per lei il mezzo era divenuto il vero messaggio, ed in quella petite perception trovava ogni giorno la conferma di essere amata. Come il Monsieur Jourdain di Molière scriveva in prosa senza saperlo, così quella persona condivideva i "Frammenti di un discorso amoroso" di Roland Barthes prima che fossero scritti. L'episodio che racconto è del 1966.

(30 maggio 2003)

Fragonard: Ragazza che gioca col cagnolino (part)
1765-72, Fondazione Cailleux, Parigi


P.S. Questo post è già stato pubblicato sul Nonblog, da Solimano, il 5 novembre 2007, con il titolo L'amore nei Baci Perugina.
Lo ripropongo nella versione che aveva voluto dargli ultimamente, appassionandosi a scegliere le immagini con una cura tutta particolare.

E' uno scritto a cui era molto affezionato; penso che gli farebbe piacere rivederlo, nella nuova veste, in questo blog che lui considerava un "piccolo tesoro della rete" e che tante soddisfazioni gli aveva dato e continuerà a dargli.
(Habanera)

mercoledì 20 febbraio 2008

La Cappella Sansevero a Napoli


Antonio Corradini: La Pudicizia (part)


La Cappella Sansevero a Napoli

di Primo Casalini



L'anno da cui partire è il 1590. A Palazzo Sangro succedono due cose. La prima è che nel palazzo avviene un terribile delitto: Gesualdo, principe di Venosa uccide la moglie Maria d'Avalos con l'amante Fabrizio Carafa. Maria era famosa per la bellezza, ed aveva sposato Gesualdo dopo essere rimasta vedova due volte. Gesualdo era anche un geniale madrigalista, oggi paragonato a Claudio Monteverdi ed a Luca Marenzio. Stette lontano da Napoli per diverso tempo, ma non perché temesse la giustizia pubblica; temeva piuttosto la vendetta delle famiglie degli assassinati. La seconda cosa accadde poco dopo: Giovan Francesco di Sangro, ristabilitosi da una malattia quasi mortale, decide di erigere "una picciola cappella" dedicata alla Vergine come adempimento di un voto fatto durante la malattia, ma forse anche come espiazione del fatto di sangue avvenuto nel suo palazzo. Più di centocinquanta anni dopo, Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, inizia grandi lavori di restauro e di ampliamento della Cappella. Raimondo era al tempo stesso Gentiluomo di Camera di Carlo di Borbone, Membro dell'Ordine dei Cavalieri di San Gennaro, Accademico della Crusca e Gran Maestro della Loggia Massonica. Inoltre giravano voci di sue propensioni per l'alchimia e l'esoterismo. Ed entra in scena Antonio Corradini, scultore veneto ultraottantenne, molto apprezzato in Italia e fuori, amico di Raimondo e massone pure lui. Attorno al 1750, nel poco tempo che gli resta, Corradini realizza i modelli in terracotta delle statue e degli apparati, tutto il progetto insomma, d'accordo con Raimondo. E qui c'è una cosa singolare: Raimondo vuole dedicare le prime sculture ai suoi genitori, che per ragioni diverse praticamente non aveva conosciuto. La madre, perchè morta giovanissima, ed il padre perché era partito per lunghi viaggi affidando il bambino ai familiari, ne aveva combinato tante, e si era poi ritirato in un monastero negli ultimi anni.

Così sono nate la Pudicizia, eseguita dal Corradini, ed il Disinganno, eseguito dal genovese Queirolo, su idea del Corradini, come tutto il resto. Il programma iconografico di Raimondo contempla anche la Sincerità, il Decoro e... la Soavità del giogo maritale! La Pudicizia ed il Disinganno sono opere straordinarie; l'una per come è reso nel marmo il velo che svela, l'altra per la rete degli inganni che avvolge il personaggio e da cui un genio alato lo sta liberando. Le due statue sono affiancate da lapidi: una, quella della madre, è volutamente spezzata. Ma la statua in assoluto più esaltata è quella del Cristo disteso e velato, eseguito da uno scultore napoletano: Giuseppe Sanmartino. Raimondo preferiva rivolgersi a scultori estranei a Napoli, e ciò dava fastidio all'ambiente artistico locale, sempre molto geloso: già nel '600 Guido Reni ed il Domenichino dovettero scappare da Napoli per le minacce ricevute per la commissione degli affreschi nella cappella di San Gennaro. Ma in quegli anni, a Palazzo Sangro lavorava anche un medico palermitano: le due Macchine Anatomiche complete di vasi sanguigni e di dettagli di cui tacere è bello, sono conservate in una stanza non lontana: il popolo diceva che erano i corpi di due servitori trucidati da Raimondo. Viene in mente il delitto iniziale, quello del 1590. Dopo il 1766, in cui la Cappella fu aperta ai visitatori, qui capitò il Marchese de Sade, curioso di tutto ciò che avesse in sè qualcosa di diabolico.

Antonio Corradini: La Pudicizia

Torniamo alla Pudicizia ed al Disinganno, che è meglio. E' raro trovare un programma iconografico al tempo stesso così semplice e così acuto, e guardare solo le statue è limitativo: tutto l'apparato scenografico (che è una parola piccola), è da gran teatro del mondo, a partire dalle lapidi sino al commesso dei marmi nei pavimenti, negli altari e nei basamenti. Al di là del valore degli artisti, specie del Corradini, è Raimondo che fa un monumento a sè stesso, devoto di San Gennaro e massone, appassionato di scienza, ma anche di alchimia, illuminista ed oscurantista. Il contratto stipulato col Queirolo è una specie di plagio, in cui l'artista non ha nessun diritto: "a tutto piacimento, genio e gusto d'esso Signor Principe, di non poter lavorare per nessun'altra persona, e collo stretto ligame di non potersi licenziare...". Una schiavitù, praticamente. Va aggiunto, riguardo al Cristo velato, che fin da quando le opere furono esposte per la prima volta si diffuse la dicerìa che l'effetto velo che svela fosse stato ottenuto non con una finissima lavorazione del marmo, ma mediante procedimenti alchemici (in realtà chimici) che avevano marmorizzato della stoffa precedentemente disposta in modo appropriato sulla statua sottostante. Ed in alcuni siti sono riportate le intese fra Raimondo e lo scultore Sanmartino, comprese precise disposizioni tecniche, ritrovate da Clara Miccinelli in un documento dell'Archivio Notarile di Napoli, rogato in data 25 novembre 1752 dal notaro Liborio Scala, e confermate in altri documenti di collezioni private. Riporto qui la ricetta:
"Calcina viva nuova 10 libbre, acqua barilli 4, carbone di frassino. Covri la grata della fornace co' carboni accesi a fiamma di brace; con ausilio di mantici a basso vento. Cala il Modello da covrire in una vasca ammattonata; indi covrilo con velo sottilissimo di spezial tessuto bagnato con acqua e Calcina. Modella le forme e gitta lentamente l'acqua e la Calcina Misturate. Per l'esecuzione: soffia leve co' mantici i vapori esalati dalla brace nella vasca sotto il liquido composito. Per quattro dì ripeti l'Opera rinnovando l'acqua e la Calcina. Con Macchina preparata alla bisogna Leva il Modello e deponilo sul piano di lavoro, acciocché il rifinitore Lavori d'acconcia Arte. Sarà il velo come di marmo divenuto al Naturale e il Sembiante del modello Trasparire".
Il Sanmartino, inoltre, si impegnava a non rivelare il procedimento, e Raimondo, bontà sua, gli concedeva di attribuirsi l'esecuzione dell'intera opera. Se così fosse, presumibilmente il procedimento sarebbe stato usato anche per la Pudicizia ed il Disinganno. Che dire? Sembra impossibile, ma da Raimondo di Sangro ci si poteva aspettare anche questo. Forse una analisi chimica approfondita (ma non distruttiva...) dei materiali potrebbe dirci una parola quasi definitiva su ciò che è realmente accaduto. Ma anche senza appoggiarsi ad ipotesi e ad illazioni più o meno fondate, è certo che nella Napoli del '700 era possibile giungere ad una sintesi improbabile ma definitiva: quella della Pudicizia, del Disinganno e del Cristo velato.

Giuseppe Sanmartino: Il Cristo velato


P.S. Ho pubblicato per la prima volta questo testo nei Bei Momenti il 25 ottobre 2003. Qui l'ho rivisto in parte. Le immagini a fianco del testo sono un particolare della Pudicizia e la statua del Disinganno del Queirolo. Consiglio di cliccare tutte le immagini per apprezzarne meglio i particolari.

martedì 25 dicembre 2007

Il Maestro di Tolentino


La Madonna e una sua amica fanno il bagno al Bambino
che non sembra fidarsi molto



La Natività del Maestro di Tolentino

di Primo Casalini



Il 30 giugno 2004 pubblicavo su Arengario il Bel Momento dedicato al Maestro di Tolentino ed in questi giorni mi è venuta l' idea di approfittare di due novità tecnologiche per pubblicare oggi, che è il giorno di Natale, parte del mio testo di allora. Lo corredo di alcune immagini realizzate per l’occasione, che credo non siano ancora in rete. Adopero uno scanner migliore di quello che avevo ed utilizzo la possibilità di poter mostrare le immagini grandi, come si fa con Blogger. Si tratta di particolari appartenenti all’affresco della Natività, che è uno degli affreschi di Tolentino. Mi sembra di ricordare che una volta il Natale era la festa della nascita di Gesù, non il giorno di Babbo Natale!
Gli affreschi sono nel Santuario di San Nicola da Tolentino, ed è bene sapere qualcosa di questo santo, del Santuario, degli affreschi e del misterioso pittore che li dipinse. Riporto qui sotto il il mio testo, lievemente rivisto.

San Nicola da Tolentino non va confuso con San Nicola di Bari, anche se un legame c'è: Compagnone ed Amata Guarutti (o Guarinti), due sposi ormai avanti negli anni, avevano chiesto la grazia di avere un figlio durante un pellegrinaggio al santuario di Bari, e chiamarono Nicola il figlio che nacque nel 1245.
Nicola divenne frate agostiniano nel 1261, sacerdote nel 1273 e per trent'anni, dal 1275 al 1305, visse nel convento degli Agostiniani di Tolentino. Nel 1325 si celebrò il Processo di Canonizzazione ma l'Ordine Agostiniano dovette attendere ben 120 anni per vederlo ufficialmente canonizzato (da papa Eugenio IV nel 1446). Questo non impedì agli artisti ed ai fedeli di venerarlo come santo, e papa Bonifacio IX nel 1400 non attese la canonizzazione per concedere l'indulgenza plenaria a chi visitava la sua tomba. E' un santo taumaturgo e protettore in specie delle Sante Anime del Purgatorio. La Vita del Santo, scritta dal suo contemporaneo Pietro da Monterubbiano, divenne rapidamente assai nota. Il Santuario fu costruito dagli Agostiniani presso la già esistente chiesa di San Giorgio e fu intitolato dapprima a Sant'Agostino, solo più tardi a San Nicola.

Un angelo mostra la Natività ad un altro angelo

A Tolentino un ampio locale a volta ogivale, il Cappellone, fu interamente rivestito da affreschi: un'opera vasta ed impegnativa, di alto valore artistico e giunta a noi in ottimo stato di conservazione, almeno in gran parte. Gli affreschi del Cappellone forse furono eseguiti negli anni 1335-45 - ma recenti ricerche li anticipano agli anni 1320-25 - quindi proprio nel primo sviluppo del culto del santo.
Esiste un documento dell'agosto 1348 che attesta che la cappella era officiata da un cappellano ad essa assegnato, quindi a quella data la decorazione era già stata eseguita. Non esistono invece documenti riguardanti gli affreschi, e su chi ne sia stato l'autore, il che, dal nostro punto di vista, è assai singolare.
Non si tratta infatti di un'opera attribuibile a maestranze provinciali, è del tutto evidente l'elevato livello artistico, anche se oltre al maestro opera anche la sua bottega, come era d'uso, ma la guida e l'impronta del maestro si vede ovunque, anche nelle parti eseguite dagli allievi.
Un maestro chiamato da fuori, e già ben noto, visto l'investimento finanziario che era richiesto, e l'importanza che l'iconografia degli affreschi avrebbe avuto nella vita del Santuario, allora in piena crescita. E nessun documento che lo attesti, per cui i critici si accapigliano per secoli per capire chi fosse il Maestro di Tolentino, giungendo solo recentemente ad una conclusione generalmente condivisa (o quasi, visto che i documenti continuano a mancare).

Di fronte all'arte medievale gli appassionati d'arte hanno due difficoltà.
La prima sorge dal fatto che i programmi iconografici, pur nella loro complessità, sono quasi sempre simili in tutta l'Europa cristiana.
La seconda è che facciamo fatica a distinguere gli artisti fra di loro perché nella nostra percezione le somiglianze stilistiche e rappresentative prevalgono sulle differenze.
In genere il programma iconografico è talmente vasto da lasciare uno spazio ridotto alla personalizzazione anche stilistica del singolo artista. Fin dall'inizio venivano definiti addirittura i quantitativi di oro o di blu cobalto che sarebbero stati impiegati. Ecco cosa dice un celebre critico:

"Ma veramente non è esatto parlare di copia e di modello; sarebbe più giusto pensare all'opera dell'artista medievale come oggi pensiamo alle interpretazioni di un musicista o di un attore. Il testo è lì: è il modo in cui viene presentato – la carica di significato che vi è immessa – che costituisce il traguardo estetico. Chi interpreta un testo senza intelligenza non meno di chi lo storpia arbitrariamente, non è un artista".
(Ernst H. Gombrich A cavallo di una manico di scopa Einaudi 1971
).

Le nostre difficoltà si attenuano con le opere del gotico internazionale e scompaiono del tutto nel Quattrocento, da Masaccio in poi. Non a caso, è nel Quattrocento che si sviluppa l'arte del ritratto individuale; anche prima c'erano dei ritratti, ma si trattava sempre di personaggi in mezzo ad un gruppo di fedeli o di donatori, rappresentati in ginocchio e su scala ridotta. Il ritratto individuale, come lo pensiamo noi, non faceva parte del mondo artistico medievale, ancor prima, del loro mondo spirituale: poteva essere un dettaglio curioso, non il centro della rappresentazione.

La meraviglia dei pastori all'annuncio angelico

Negli anni in cui a Tolentino si decise di affrescare il Cappellone, in cui si scelse il programma iconografico e si cercò la bottega che potesse realizzarlo al meglio, il punto di riferimento artistico, ben noto in tutta Italia, era Giotto: la sua bottega, i suoi allievi e le altre botteghe che dai suoi esempi avevano imparato.
E' usuale citare ciò che scrive il Vasari all'inizio della vita di Giotto da Bondone:

"Essendo stati sotterrati tanti anni dalle rovine delle guerre i modi delle buone pitture et i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, per dono di Dio quella che era per mala via risuscitò et a tale forma ridusse che si potette chiamar buona. E veramente fu miracolo grandissimo che quella età e grossa et inetta avesse forza d'operare in Giotto sì dottamente, che il disegno, del quale poca o niuna cognizione avevano gli uomini di quei tempi, mediante lui ritornasse del tutto in vita".

Ma il Vasari scrive a cose fatte, attorno alla metà del Cinquecento, e si ispira probabilmente a ciò che aveva scritto il Boccaccio quasi negli stessi anni in cui veniva affrescato il Cappellone:

"Ebbe un ingenio di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose ed operatrice col continuo girar de' cieli, che egli con lo stile e con la penna e col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo essere vero che era dipinto. e per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni che più a dilettar gli occhi degl'ignoranti che a compiacere allo intelletto de' savi dipigneano, era stata sepulta, meritatamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote".(Quinta novella della Sesta giornata del Decamerone)

Giotto ed il Boccaccio non vivevano certo in una età grossa et inetta, come riteneva più di duecento anni dopo il superbo Vasari. Si è detto che Giotto e Boccaccio sono l'espressione di classi in ascesa, le classi mercantili e popolari, quelle delle Arti, che stavano prendendo il posto delle famiglie magnatizie. Il vigore di Giotto e dei giotteschi (di cui fa parte il Maestro di Tolentino) è sostanza di nuova civiltà, più che accidente di nuova rappresentazione.
I critici sono concordi nel ritenere che il Maestro di Tolentino appartenesse alla scuola giottesca riminese, in pieno fulgore negli anni degli affreschi da Tolentino e che era sorta al tempo in cui Giotto aveva eseguito a Rimini opere nella chiesa di San Francesco, che a noi oggi è nota come Tempio Malatestiano.
Di queste opere ci è rimasto solo il magnifico Crocifisso ancora conservato nel Tempio, il resto è stato distrutto al tempo dei grandi lavori che Sigismondo Pandolfo Malatesta fece eseguire attorno al 1450. Il Vasari, più di un secolo dopo, se la prende ancora con queste distruzioni .
I maestri riminesi irradiano la loro influenza, oltre che a Tolentino, anche a Pomposa, ed in genere nelle località della costa adriatica romagnola e marchigiana. La scuola riminese scompare quasi del tutto attorno al 1350, probabilmente per la scomparsa degli artisti più insigni nella peste nera del 1348. Prevarrà allora la scuola bolognese, aperta anche alle influenze del gotico francese.

L'ariete del gregge, dietro di lui una pecora

Il Maestro di Tolentino, secondo gran parte dei critici, è da identificare in Pietro da Rimini, che è il più noto dei maestri riminesi, e gli affreschi di Tolentino sono la sua opera più importante che ci sia pervenuta. Conosce bene l'arte di Giotto, da cui deriva l'espressività potente, la solidità corporea delle figure e dei panneggi. E' meno interessato di Giotto ad una organizzazione razionale degli spazi, sia quelli dei singoli riquadri sia quelli che hanno una funzione di raccordo, di telaio prospettico ante litteram.
L'impressione è quella di una narrazione paratattica, in cui l'emozione e la vivacità dei singoli episodi costituiscono i punti focali, esaltati da un cromatismo che richiama gli antichi mosaici di Ravenna, ai riminesi ben noti. Renato Roli scrive, un po' riduttivamente, di bellissimi frammenti soltanto accostati, ma quella del Maestro di Tolentino non è una reazione passatista alla pittura di Giotto: si guardi ad esempio la rappresentazione delle mani, grandi e potenti, ma non grossolane, con una eleganza da artiglio, e la teatralità originale di tanti riquadri.
Le nozze di Cana, con i commensali disposti su tre tavoli, la sposa e lo sposo con l'aureola, gli inservienti alle prese con le anfore, il personaggio seduto, quasi accosciato, che beve in punta di labbra, o l'annuncio ai pastori ed il bagno al bambino nel riquadro della Natività.
Nella fascia inferiore, quella dedicata alla vita di San Nicola, si vede l'intervento esecutivo degli aiutanti del Maestro, e ci sono vaste perdite di affresco, sino a portare a vista il sottostante muro di mattoni. Ma la vestizione del santo, il miracolo della donna resuscitata e la morte del santo - col Cristo che ne tiene in braccio l'anima e col concerto angelico - mostrano con chiarezza che il Maestro di Tolentino (fosse o non fosse Pietro da Rimini) seguiva tutto il lavoro della bottega, che si svolgeva sulla base di suoi disegni e cartoni.
Richiese anni, l'impresa così vasta e così ben curata, così rispettosa del programma stabilito e così vigorosa e fresca, condotta con tranquilla costanza dal maestro e dalla sua bottega.
Gli Agostiniani onoravano gli impegni presi e la bottega venuta da Rimini era soddisfatta: perché firmare gli affreschi o compilare documenti? C'erano altre priorità: accogliere i pellegrini, assicurare il necessario flusso di denaro, documentare i miracoli del santo, ormai noto e venerato al di là dei confini locali. Proprio per questo, al di là delle auspicabili ricerche negli archivi, possiamo benissimo continuare a chiamarlo il Maestro di Tolentino, chiunque sia stato nella sua vita reale.

Anche il bue e l'asinello guardano la Natività

sabato 10 novembre 2007

Lettere d'amore


Fragonard: La lettera d'amore


Lettere d’amore

di Primo Casalini



Las cinco de la tarde.
Nella caserma di Roma, alle cinque del pomeriggio, il sergente maggiore distribuiva la posta. Eravamo in venti, quasi tutti ingegneri. Cinque di noi erano romani, quindi niente posta per loro, salvo eccezioni.
Le lettere erano delle morose lontane: Milano, Torino, Padova, Mantova, Bologna, Firenze, Palermo. Ogni ragazza aveva una sua scelta di formato e di colore, e qualcuno già riconosceva la busta, qualcuno no, e gestiva l’ansia meglio che poteva.
Il mio personale metodo era semplice, molto da ingegnere: scrivevo io, la lettera arrivava a lei, mi scriveva, arrivava la lettera sua, riscrivevo io. Logico, ma non tutti facevano così, Donato, ad esempio, scriveva tutti i giorni, e ogni giorno riceveva, altri seguivano l’onda degli alti e bassi del rapporto, potevano arrivare due lettere di fila, potevano passare dieci giorni fra l’una e l’altra. Nei casi di puntiglio orgoglioso, dopo una licenza di quarantotto ore andata male, le lettere si incontravano a metà strada, sei, sette giorni dopo la litigata, credo si somigliassero anche nel contenuto, metà amore eterno metà risentimento indomito.
A Guido, che non aveva la morosa, cominciarono ad arrivare lettere, una, due, tre, fra la meraviglia di tutti. Al quarto giorno aprì la busta e mostrò la lettera, un foglio bianco. Se le era spedite da solo per sfotterci, ed aveva ragione lui: competition is competition, anche nella quantità di lettere.
Le calligrafie delle ragazze erano quasi tutte tondeggianti, gli accenti volavano. Dopo la distribuzione restavamo in cortile e ognuno, in una sua area di rispetto, apriva la lettera e se la leggeva.
Le ragazze usavano la stilografica, le lettere di molte erano lievemente profumate, un di più sull’odore d’inchiostro, già gradevole di suo.
Era l’estremo opposto rispetto alla grevità odorosa degli scostumati calendarietti da barbiere, che oggi parrebbero casti. Dimenticavamo il prevalente odoraccio delle uniformi, generatrici indefesse di pruriti di ogni tipo, e il berretto, appiccicoso di sudore e di forfora.
La lettura della lettera era come lo struscio nel corso, mano nella mano, ognuno nella sua città.
La sera, alcuni di noi rinunciavano alla libera uscita e si appartavano su un tavolinuccio poco illuminato, per rispondere all’amata, l’unico rumore era quello del pennino della stilografica sulla carta, a odore d’inchiostro freschissimo.
Quelle lettere le ho conservate. Anni fa, in un raptus tecnologico, le ho inserite nelle cartelline trasparenti di un raccoglitore, mischiate nella giusta sequenza di date.
Non le leggo mai, so dove stanno.

P.S. E' la Novelletta degli Odori numero 9 delle 54 che ho scritto.

Federico Andreotti: La lettera d'amore

lunedì 5 novembre 2007

L'amore nei Baci Perugina


Baldung Grien: Aristotele e Fillide (1513)


L'amore nei Baci Perugina

di Primo Casalini


Una mia amica asseriva che le lettere d'amore si scrivono alla sera e si imbucano subito, perché se si aspetta la mattina e le si rilegge, ci si vergogna di quello che si è scritto e non le si spedisce più. Facendo male, fra l'altro, perché l'amata lontana non è interessata ad una analisi psico-linguistica, ma proprio a quelle frasette zoppicanti e scoppiettanti, come un legno verde in un camino di buon tiraggio.
Ma oggi, la disponibilità della rete permette delle indagini approfondite. Una delle fonti più importanti è la collazione dei messaggi dei Baci Perugina. Esistono diversi siti che contengono abstracts o addirittura l'opera omnia, con varianti, lectio facilior, nuove proposte ed il doveroso armamentario critico.Per i miei scopi, è bastato estrarre alcune decine di questi messaggi, perché la ripetitività e la ridondanza sono notevoli, ma anche perché ho grigliato del tutto (o quasi) gli anonimi. Mi viene infatti il sospetto che molti dei messaggi cosiddetti anonimi siano stati lì per lì inventati dal grafico o dall'imballatore in funzione della particolare situazione di quel loro giorno d'amore. Io, almeno, avrei fatto così: una specie di messaggio nella bottiglia che da qualche parte comunque arriva, ed arriva a segno: è più probabile che venga letto il messaggio che mangiato il cioccolatino. Difatti, tutti li leggiamo.


Una prima categoria è quella del sublime generico:

Nulla è difficile per chi ama. (Cicerone)
Il tuo amore è per me come le stelle del mattino e della sera, tramonta dopo il sole e prima del sole risorge. (Goethe)
Un mondo senz'amore, che sarebbe per il nostro cuore? La stessa cosa che una lanterna magica senza luce. (Goethe)
Amore! Ecco un volume in una parola, un oceano in una lacrima, un turbine in un sospiro, un millennio in un secondo. (Tupper)
Ma vederla fu amarla, amare solo lei, e amare per sempre. (R.Burns)
Non esiste rimedio all'amore se non amare di più. (Henry D.Thoreau)
Coloro che vivono d'amore vivono d'eterno. (Emile Verhaeren)

Chi sia Tupper, non lo so, forse un finanziere della Nuova Scozia; certamente, dal tono, era uno che coi soldi aveva a che fare. Il sublime generico trova però la sua migliore espressione in Victor Hugo, che, esule a Guernesey, scriveva tre lettere al giorno all'amata Juliette, che abitava al piano di sopra o, più probabilmente, al piano di sotto. Forse Juliette lo chiamava ogni tanto nella tromba delle scale, e Victor rispondeva: “Non posso! Ti sto scrivendo”. Ma le frasi di Hugo hanno un'ampiezza che si presta meglio alla scatola intera che al singolo cioccolatino. Nei “Demoni” di Dostoevskij, c'è lo strano rapporto fra Varvara Petrovna e Stepàn Trofimovic in cui succede qualcosa di analogo, raccontato per molte pagine da Dostoevskij con la finezza umoristica (sì, proprio umoristica) di cui ci si è finalmente accorti, e che non manca neppure in “Delitto e Castigo” e nei “Fratelli Karamazow”. Solo che Stepàn scrive per timore: non osa affrontare Varvara, che “era una donna classica, una donna-mecenate, che agiva unicamente in vista di considerazioni superiori”. Succede anche negli affari, questo nascondersi dietro lo scritto per evitare l'orale. Il sublime generico è la scorciatoia verso l'assoluto, che sta dalle parti dell'eterno, del più e dell'alto, senza pagare dazio alla persona concreta ed alla quotidianità dei fatterelli. Non esistono giorni comuni: sono tutti anniversari. Questa categoria è largamente presente nella collazione dei baci: piace genericamente a tutti e non crea grattacapi.


Poi c'è la categoria che si potrebbe chiamare l'amour, mode d'emploi:

Amore è credula creatura. (Ovidio)
Amore e tosse non si possono nascondere. (Ovidio)
Che diano o che rifiutino, godono tuttavia d'esser richieste. (Ovidio)
Giove, dall'alto, ride dei falsi giuramenti degli amanti. (Ovidio)
Sii amabile, se vuoi essere amato. (Ovidio)
Amare è scegliere, baciare è la sigla della scelta. (Anonimo)
L'amore è un potere troppo forte perché lo si possa vincere altrimenti che con la fuga. (Cervantes)
Il colpo di fulmine è la cosa che fa guadagnare più tempo. (Arnoul)
La felicità in amore è come una palla che noi rincorriamo quando rotola, e che spingiamo via col piede quando si ferma. (Madame de Puissieux)
Bisogna scegliere tra amare le donne e conoscerle: non c'è via di mezzo. (Chamfort)
La luna e l'amore, quando non crescono calano. (Proverbio cinese)
Un bacio è come bere acqua salata: bevi e la tua sete aumenterà. (Proverbio cinese)
Noi mettiamo l'infinito nell'amore: le donne non fanno questo sbaglio. (Anatole France)
Un bacio legittimo non vale mai un bacio rubato. (Maupassant)

Ovidio, il suo mode d'emploi, l'ha pagato caro, ed anche Cervantes e Maupassant. Di Madame de Puissieux so che compare abbastanza in Google, sempre al seguito della sua geniale metafora calcistica. I cinesi confermano la praticità confuciana: sembra che parlino dell'andamento dei titoli in borsa. Anatole France dà voce aforistica ad un millenario luogo comune.

Durer: Il sogno del dottore (1498)


Seguono i permissivi:

Ama e fai quel che vuoi. (Sant' Agostino)
Amate, amate, tutto il resto è nulla. (La Fontaine)
I ragazzi che si amano si baciano in piedi...nell'abbagliante chiarezza del loro primo amore. (Prevert)
Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l'ho scordato. (Walt Whitman)


Sono pochissimi, i permissivi, nei messaggi dei baci. E sia su Agostino che su Whitman si può osservare che è un permissivisimo che tende al sublime generico. Ma se riusciamo a stare coi piedi per terra senza involarci verso il di più, l'alto e l'eterno, il fai quello che vuoi ci soddisfa. Però devi amare, se no nisba. Perché così poca permissività, nei baci? Forse è l'occasione in cui vengono regalati che li rende così poco propensi ad una sia pur vaga istigazione a delinquere. Sono baci generalmente non adulterini, dati davanti a Dio ed alle donne.


Gli statistici:

Tutti gli amori dell'uomo, ancorchè diversi, hanno lo stesso motore. (Vittorio Alfieri)
Vorrei sapere quanti baci fur dati dal dì che i baci furono inventati. (Iginio Ugo Tarchetti)
"Che cosa sarebbe l'umanità, signore, senza la donna?" "Sarebbe scarsa, signore, terribilmente scarsa". (Mark Twain)
Non c'è amore sprecato. (Cervantes)

Vittorio Alfieri era piemontese, per chi l'avesse scordato. Mentre Tarchetti soffre di curiosità impropria. Me lo vedo, proprio sul più bello, uscirsene con una frase del genere. Cervantes, nella frase precedente tentava la fuga, ma evidentemente si faceva riacchiappare. Il catalogo di Don Giovanni che Leporello mostra alla affranta Donna Elvira è il risvolto contabile di questo approccio: 640 in Italia, 231 in Lamagna, 100 in Francia, 91 in Turchia, 1003 in Ispagna. Ma perché così poche in Francia? Rispetto anche alla Lamagna, ma persino rispetto alle 91 in Turchia, considerato il viaggio ed il rischio. Che si tratti del vasto harem di un pascià compiacente?


I narcisisti, anzi, il narcisista:

Amare se stessi è l'inizio di un idillio che dura una vita. (Oscar Wilde)
Oh... Tutti abbiamo bisogno di amici, alle volte. (Oscar Wilde)

Ma le frasi più stuzzicose di Wilde non ci sono, per il solito motivo. Occorrerebbe mutare brand: profumi al posto di cioccolatini, ad esempio.

Schongauer: Vergine folle (circa 1480)


Quelli delle gloriose cicatrici:

Amare è gioire, mentre crediamo di gioire solo se siamo amati. (Aristotele)
Il cuore non ha rughe. (Madame de Sevignè)
L'amore è lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore. (M.Proust)
Lasciarsi, è tutto quanto sappiamo del paradiso, e quanto ci basta dell'inferno. (Emily Dickinson)
Amore, amore, che schiavitù l'amore. (La Fontaine)
Amore non è guardarsi a vicenda; è guardare insieme nella stessa direzione. (Antoine de Saint-Exupery)

A differenza di quelli del sublime generico, in questi si avverte che non dimenticano la persona, che la ritengono più importante dei loro pensamenti, che hanno accettato il rischio di essere feriti perché ne valeva la pena, comunque andasse. La Fontaine si tiene bene strette le catene della sua schiavitù, perché tutto il resto è nulla. Posso dirlo? Questi mi piacciono, e tanto. Anche Aristotele che si porta a spasso sulla schiena la trionfante e nuda Phyllis con briglia e pungolo, come in una xilografia di Hans Baldung Grien del 1513.


I golosi:

Che faccenda maledettamente pazza è l'amore. (Schikaneder)
Vogliamo godere l'amore: senza di lui non possiamo vivere. (Schikaneder)
Con te conversando, dimentico ogni tempo e le stagioni e i loro mutamenti: tutte mi piacciono allo stesso modo. (Milton)

Schikaneder è l'impresario teatrale, autore del libretto del Flauto magico. Parla attraverso Papageno, che ha di fronte Papagena. Milton, anglosassone, è di una golosità più in punta di forchetta, ma che dura nel tempo. Pochini anche i golosi, come si vede. Qualche Cerbero li ha tenuti lontano. E continuerà a mancare, malgrado il diffondersi della conoscenza dell'inglese, la bandiera della golosità in amore , quella alzata all'inizio del '600 dal Reverendo John Donne:

Licence my roavings hands, and let them go,
Behind, before, above, between, below.


Quelli della tranquilla passione:

Perché l'amavo? Perché era lei; perché ero io (Montaigne)
Molti uomini vivono felici senza saperlo. (Luc de Clapiers de Vauvenargues)
Il vero amore è come l'apparizione degli spiriti: tutti ne parlano, quasi nessuno li ha visti. (Rochefoucauld)
Si perdona finchè si ama. (Rochefoucauld)
Un uomo onesto può essere innamorato come un pazzo, ma non come uno sciocco. (Rochefoucauld)
Nulla rende così amabili come il credersi amati. (Pierre Marivaux)
L'amore è la saggezza dello sciocco e la follia del saggio. (Samuel Johnson)
Le persone felici in amore hanno l'aria profondamente intenta. (Stendhal)

Sono disattaccati, non distaccati. Hanno preso le loro contromisure. Sanno sorridere, perché conoscono la follia e la sciocchezza. Ci sono passati attraverso, e forse rimpiangono l'inconsapevolezza originaria, ma non al punto da ricadere negli stessi errori. Poi c'è uno, uno solo, che ammette di non capirci niente, con uno strano tono trionfante:

Amore, impossibile a definirsi!

E' Giacomo Casanova, veneziano.


Conclusione. Una persona che conosco aveva un innamorato facondo che abitava in un'altra città. Quasi ogni giorno, quindi, perveniva una letterona. La persona aveva il suo daffare sul lavoro, e leggere quelle quattro facciate al giorno non aveva più il gusto della sorpresa e della novità. Però, l'amore era ricambiato, anche se con minore facondia. Ed allora, si metteva la lettera appena giunta e non ancora aperta in una tasca (esistono ancora, le tasche?). Ogni tanto, muovendosi durante il suo lavoro, avvertiva fisicamente il lieve ingombro della letterona, e le veniva da sorridere dalla contentezza. Poi, la sera, adempiva al giusto dovere di un'attenta lettura. Ma per lei il mezzo era divenuto il vero messaggio, ed in quella petite perception trovava ogni giorno la conferma di essere amata. Come il Monsieur Jourdain di Molière scriveva in prosa senza saperlo, così quella persona condivideva i "Frammenti di un discorso amoroso" di Roland Barthes prima che fossero scritti. L'episodio che racconto è del 1966.

P.S. Di siti con la collazione dei Baci Perugina ce ne sono millanta, proprio come i baci di Catullo. Le immagini è bene vederle grandi, serve un click sopra.

Pubblicato su Arengario il 30 maggio 2003, rivisto per l'occasione

Durer: La passeggiata d'amore (1498)

domenica 12 agosto 2007

Trentadue buone ragioni


Faye Dunaway nel film Network di Sidney Lumet (1976)


Trentadue buone ragioni
(per guardare la televisione)

di Primo Casalini



1. Pinocchio e Cuore di Comencini. Pinocchio lo sanno tutti, ma anche Cuore, che ebbe in sé qualcosa di molto democratico (Garrone fa il macchinista del treno dove Enrico viaggia in prima classe), ma fecero finta di niente e Comencini, a cui la narrazione fluviale stile sceneggiato andava benissimo, non fu più utilizzato, ed oggi siamo alle elisadirivombrosa. Il minuscolo è di Giuliano, ma mi associo.

2. Il Mulino del Po di Bolchi. Ma in questo punto metto le tante cose buone di Bolchi, che ti dava sempre più di quello che ti aspettassi. Nel Mulino del Po Lazzarini, Vallone, Carraro, Moschin , Sanipoli, Ottavia Piccolo, Corrado Pani, Elsa Merlini, Piero Mazzarella, Ave Ninchi...

3. L'Idiota, quello con Albertazzi, Volontè, Proclemer, Guarnieri. E Santuccio, Volonghi, Tofano, Pierfederici, De Ceresa, Pina Cei, Franca Nuti...

4. Mastro Don Gesualdo di Vaccari. Vaccari è durato meno di dieci anni...

5. Roberto Benigni in Televacca e nelle critiche ai film che non aveva visto. Le vorrei avere tutte, queste critiche, e le terrei perennemente nella Home page di "Abbracci e pop corn".

6. Deaglio e Lerner (insieme). Da soli annoiano, finiscono per farti la lezioncina.

7. Carmelo Bene nei poeti russi. Majakovski ed Esenin, ma anche degli altri ce n'erano, se avesse recitato Chlebnikov che allora non conoscevo, ci sarebbe da mordersi le mani.

8. Blob, praticamente sempre. Con l'aggiunta dei film nottetempo di Fuori Orario.

9. Ferrini, Frassica e la Marchini. Forse hanno ballato una sola estate, ma i documentari su "come si costruiscono i cancelli" e "l'amore istruisce e diverte al tempo stesso" (verissimo!) sono come les neiges d'antan.

10. Mina. E basta. Da Tintarella di luna tintarella color latte in poi. Non sono molto selettivo, con Mina.

11. Manfredi, Panelli e Valori. Ho il sospetto, credo fondato, che il meglio fosse proprio Bice Valori.

12. Corrado e Sabina Guzzanti. Anche Marcorè. Corrado in Quelo, Scafroglia e Fascisti su Marte non è che faccia molto ridere, è che ci lascia a bocca aperta come i modenesi, che non bisogna raccontargli una barzelletta il sabato sera se no ridono la domenica alla messa di mezzogiorno. Ma è decisamente troppo, per la televisione.

13. Walter Chiari, qualche volta ho rischiato di slogarmi la mascella. E non solo per il Sarchiapone: le mille espressioni di Warner Bentivegna (che poi erano una sola) o Marlon Brando modello Un tram che si chiama desiderio, che faceva l'assorto ricordandosi però di mettere in mostra i bicipiti.

14. Chiambretti, quando faceva il postino. Dopo non più. Una volta con Cossiga andarono avanti mezz'ora sull'orlo della risata, ma riuscendo a non ridere. Cossiga è uno che ha sbagliato mestiere, per la parte dello zio indegno o per qualsiasi ruolo in Feydeau sarebbe adattissimo. Unisce un senso dell'umorismo incredibile (specie in un politico) ad una colossale permalosità.

15. Carlo Lucarelli. A parte che le prime volte viene voglia di fare gli scongiuri, dopo si capisce che gli piace scavare e lo fa bene.

16. Luca Zingaretti, fa il Commissario Montalbano con una facilità irritante. Secondo me arriva cinque minuti prima, gli spiegano la situazione e lui la veste di battute lì per lì. Comodo, troppo comodo.

17. Isabella Biagini e Gabriella Ferri. Due maledette sprecone, purtroppo! Per me, è colpa degli uomini sbagliati.

18. Domenico De Masi. L'unico che dice qualcosa di sensato sul futuro del lavoro e sul tempo libero come cuore della civiltà umana. Lo guardano ghignando, ma non hanno vere argomentazioni in contrario, salvo i cattolici, per cui il lavoro è una condanna biblica, che è comunque più sensato del lavoro come autorealizzazione. Essere attivi è autorealizzazione, non continuare ad andare a bottega sempre e comunque. Poi De Masi ha una gran bella aria, lo vedrei bene nel primo Guerre Stellari al posto di Alec Guiness.

19. La squadra di Sciuscià, Santoro escluso. Peccato, perché a sentirlo parlare in cento persone è uno intelligente, strutturato, organizzato come cose da dire. Ma l'audience gli dà alla testa.

20. Dario Fo, quando non fa il guru. C'è stata una commedia in cui entrava in scena con una scala di quelle che abbiamo tutti nel ripostiglio, saliva tre gradini, guardava in alto e diceva: "No, di qui si va in cielo". E scendeva, convinto.

21. Enzo Jannacci. Sono quarant'anni che gli voglio bene, anche se ne ha scritte troppe.

22. Romano Prodi. Sempre goffo, mai volgare. Il suo avversario, è esattamente il contrario.

23. Nancy Brilli, ai primi tempi. Poi la consueta e stolida cosmesi l'ha guastata, mannaggia!

24. Riondino e Vacca. Fazio meno, ha del pretino furbetto, Ferrara ha ragione.

25. Teocoli: Cossutta, Prisco, Confalonieri, Cuccia!!! Però quando cade, cade di brutto.

26. Iacchetti, malgrado Striscia. E' al tempo stesso lunare e formicolone, come un Pierrot che allunga le mani con la ragazza delle sigarette.

27. Giuliano Ferrara. Bravissimo, ahimè. E' l'unico talk show che vale la pena di vedere. Ferrara è la curiosità intellettuale fatta persona, salvo quando si innamora di qualche idea balzana e per quindici giorni salta fuori il suo imprinting di leninista, e non intende ragioni, peggio dell'architetto Melandri. Basta aspettare, poi gli passa.

28. Paolo Cevoli. Fatti, non pugnette! A leggerlo però non rende, ma come Assessore di Roncofritto lo voterei alle primarie del Partito Democratico.

29. Federico Zeri. Sgarbi se lo sogna ancora tutte le notti: lo odia, lo ama, lo invidia, soprattutto.

30. Gassman, ma solo nel Mattatore. Una volta, non ricordo se dopo aver recitato un canto di Dante o dopo un collegamento col Moulin Rouge con le ballerine a gambe nude (sob!), si fece riprendere in pigiama, coperto in un lettuccio e con la berretta in testa: ciò in chiusura di trasmissione. Un'altra volta asserì che gli attori maschi - tutti, lui compreso - in camerino fanno la pipì nel lavandino, e difese questa scelta di libertà. Ma la televisione è uno scatolotto, lui era troppo grande e grosso. E bello, cosa che trovavo antipaticissima.

31. Philippe Daverio. Conosce bene molte piccole cose che aprono la porta alle grandi. Se la tira, ma a me piacciono, quelli che se la tirano avendone motivo: gente sincera. Invita anche persone gradevoli, specie le donne che non rompono col secondo sesso ma dicono la loro tranquille.

32. Gigliola Cinquetti e Sabina Ciuffini, per motivi diversi ma congruenti. Sì, Cinquetti e Ciuffini! Embè?


P.S. Non è una classifica, le ragioni le ho scritte man mano che mi sono venute in mente.
Ma mi faccio la domanda vera: è tutta nostalgia, la mia, o lo è solo in parte? Come mi piacerebbe che la mia fosse tutta nostalgia e che la televisione di oggi in realtà fosse più o meno come quella di ieri o dell'altro ieri! Ma non credo.

martedì 7 agosto 2007

Moratti, Vespa, Tremonti




Moratti, Vespa, Tremonti

di Primo Casalini


Per lungo tempo, fra il blog di Sabelli Fioretti e Stile Libero, ho scritto dei post riguardanti la politica. Molti erano legati all'avvenimento del giorno prima, e quindi sono privi di durata, ma ad alcuni sono ancora affezionato, e ne inserisco tre, con la data in cui li ho scritti. Al solito, approfitto della occasione del Nonblog per rivederli, aggiustandoli un po'.

Quel comunista di Omero (19 settembre 2002)

Blob ha giustamente immortalato il "Credo che è..." al posto del "Credo che sia..." pronunziato da Letizia Moratti davanti alle massime cariche istituzionali e ad adoranti scolaresche, scelte con cura fra le migliori scuole libere di Roma. La Moratti ha già diramato una precisazione a tutte le scuole del Regno: "Credo che l'uso del congiuntivo è obbligatorio".

Ma Letizia ne ha fatto un'altra: ha consigliato la lettura dell'Odissea, esaltando il viaggiatore Ulisse e la tenace Penelope. Proprio così, "tenace". E' inevitabile che uno, con la moglie tenace, stia lontano da casa per dieci anni, anzi venti, facendo le somme giuste. E la maga Circe? La ninfa Calipso? La fanciulla Nausicaa? Letizia non le ha citate, salvando il presepe. Le tenaci perdonano la maga, possono dimenticare la ninfa, ma la fanciulla no. "Ma non abbiamo fatto niente..." "Appunto, stronzo!!!". Non resta che segnare nell'agenda elettronica un penoso dovere da adempiere ogni sabato sera. Oppure assentarsi per vent'anni, come ha fatto Ulisse.

Il presepe di Letizia ha dimenticato anche i Proci, quei vicini sgavazzoni che chissà da dove vengono. E' ora che si faccia chiarezza su Omero, e non solo sull'Odissea, ma anche sull'Iliade. Il rapporto fra Achille e Patroclo, ad esempio... ed Elena di Troia... ed Era e Zeus sul monte Ida... ed Enea, figlio della colpa... Difficile fare un presepe sull'Iliade... per quanto... Ettore ed Andromaca... Ecco! Letizia, fra qualche giorno lo dirà: "Credo che l'amore coniugale fra Ettore ed Andromaca è un esempio per tutte le famiglie".

Ipertrofia del Lego (23 aprile 2004)

Non ci si può chiamare fuori da Bruno Vespa. Come Dio, è dappertutto. Quasi ogni giorno sui giornali c'è una sua lettera, un trafiletto, una precisazione, una minaccia di querela. A volte la lettera è una vera e propria circolare: ho visto quella sui suoi compensi pubblicata tale e quale da diverse parti.

Se a ciò si aggiunge che ci sono discussioni pro e contro, articoli di giornalisti verdi di invidia o rossi di rabbia, pubblicità dei suoi libercoloni, ormai si può dire che la foliazione dei giornali prevede ogni giorno uno spazio Vespa più grande dello spazio Necrologi. Ogni anno una piccola foresta viene trasformata in carta per ospitare le parole di Bruno Vespa.

Poi ci sono i modellini, i plastici, le costruzioni scoperte (come al conclave di Viterbo) per vedere come l'assassino può essere passato dalla toilette allo sgabuzzino senza essere visto dalla cognata della vittima, e il raccordo fra il ponte sullo stretto e il mercato ortofrutta di Cefalù.

Il produttore di Lego, dopo anni di crisi, intravede un futuro non più fatto di bambini svegli ma di anziani a bocca spalancata: kit ad personam vengono predisposti con le istruzioni di montaggio firmate da Taormina e da Crepet ed una benedizionaccia lesta lesta del cardinal Tonini. Non basta: c'è il risiko dei campi di battaglia, le sofisticate telecamere protuberanti, atte a riprendere prezzemoline alto-sgabellate, i tarocchi per le chiromanti, i mazzi di carte per andare in Iraq alla ricerca del sette di fiori o del fante di picche, visto che i marines non li hanno ancora trovati. Eppure, nelle lettere di Vespa ai giornali intravedo la sua sfiga segreta, il "come sono andato?" che colpisce dovunque, dalla balera al consiglio di amministrazione: dipendere dall'opinione altrui per alimentare la propria autostima.

La guartassa (6 luglio 2004)

Tremonti è un tipo da guartassa.

Nelle bande dei ragazzi, prima o poi uno come Tremonti capitava. Uno che suo padre lo portava a scuola in macchina, che aveva i calzoni lunghi già in seconda media, che non ti lasciava copiare, che giocava col suo pallone contro il muro pur di non far giocare anche te, che la madre quando veniva dalla professoressa non salutava nessuno, che voleva sempre essere l'ultimo a parlare, che era il cocco dei professori, fiero di esserlo, che il preside diceva “è la classe dove c'è Tremonti”.

Allora, senza neanche bisogno di mettersi d'accordo, gli si faceva la guartassa, tipico sport invernale, difatti serve il paltò, che quelli come Tremonti sanno che si scrive paletot. Uno del gruppo gli arrivava di dietro, e nel pieno della tremontitudine, gli gettava un paltò in testa. E tutti, come un sol uomo, a dare pacche sul paltò, sotto cui Tremonti si dimenava, come Laocoonte contro i due serpenti, mi sono fatto una cultura a forza di tremontitudine. Ma la guartassa (che lui, pedante ad sanguinem, chiamava guartaccia) non gliela si faceva tutti i giorni, anche perché per almeno una settimana Tremonti si dava una calmata: la notizia della guartassa si diffondeva e gli ridevano dietro per strada.

La molletta, invece era quotidiana o quasi, una specie di terapia di mantenimento. I Tremonti erano dei bambini vestiti da vecchini, giravano in giacche con gli spacchetti dietro. Ci si procurava un po' di mollette, quelle per stendere, che allora erano di legno. Sempre nel pieno della tremontitudine, gli si attaccava la molletta ad uno degli spacchetti, senza che lui se ne accorgesse, e continuava a camminare per strada con la molletta a seguito. Quando se ne accorgeva, perché sentiva ridere, non è che togliesse la molletta per portarsela a casa e regalarla alla mamma, no, la buttava per terra e la calpestava. La molletta gli dava ancor più fastidio della guartassa, e quando, presi da altre cose, smettevamo di attaccargliela, continuava per un mese almeno a passarsi la mano dietro, sul cocò ogni dieci minuti, facendo finta di niente.

P.S. Sono un ammiratore di Sabina e Corrado Guzzanti, che non vedo da un po' di tempo. Li metto qui, sperando di rivederli presto.



venerdì 3 agosto 2007

Armi pari




Armi pari
Divagazioni su due piedi

di Primo Casalini




La prima cosa che notai trasferendomi da Parma a Monza vent'anni fa furono i marciapiedi, ripulitissimi a Parma, ingombri di erbacce spesso fiorite a Monza; in compenso per i giardini condominiali era l'inverso: curati a Monza, trascurati a Parma, e c'era il suo razionale. La seconda cosa furono i ciabattini, quasi inesistenti a Parma, ben presenti a Monza e non negli angoletti suburbani, in centro città. Ci sono tuttora, ma un po' meno. La paradossale conseguenza è che le persone sono meglio calzate a Monza che a Parma, perché si è imparato che, visto che i ciabattini ci sono, tanto vale comprarsi scarpe belle quindi care, il ciabattino ne raddoppia la durata. Il dato di partenza era che i monzesi sono gricci mentre i parmigiani sono spanizzi, ma alla fine la spesa è la stessa, perché l'avvocato monzese non si vergogna di portare le sue scarpe dal ciabattino, mentre l'operaio parmigiano sì, e finisce per comprare scarpacce che rinnova ad ogni cambio di stagione, ma sempre scarpacce sono, come tali si appalesano allo sguardo dei passanti e all'umore del proprietario, perché un buon paio di scarpe deve essere il Grande Sconosciuto - come i teologi riguardo lo Spirito Santo - non si devono sentire quando le si porta, tu sei a piedi nudi pur senza esserlo. Difatti una mia amica di Milano centro, quando passeggiamo nel grande prato dei giardini della Villa Reale, come prima cosa si toglie le sue rifinitissime scarpette - 36 di piede - e se ne sta ferma alcuni minuti ad occhi chiusi, con l'erbetta che le formicola fra un ditino e l'altro. Io ho il mio ciabattino di fiducia, prodigo di risuolature, di buoni consigli, di lucidi e ingrassanti, di tenditori utilissimi, perché le scarpe si imbarcano, quale alla vikinga quale alla samoana, e il tenditore le mantiene in forma, oltre a presentare il vantaggio di ampliare la zona di attrito della scarpa col suolo, così il consumo si distribuisce e la suola dura di più - sempre lì si finisce coi brianzoli! Aggiungo che la figlia di un calzolaio fra i più reputati mi confidò che il guadagno loro è maggiore nelle scarpe a basso prezzo che in quelle care, ragione di più per trattarsi bene e dimenticare infine tristi vocaboli: calli, vesciche, duroni. Lo si nota nel passaggio serotino da scarpe a ciabatte, pantofole, babbucce, non c'è più quell'ah! di ristoro dei fruitori di scarpacce, noi rischiamo di portarcele a letto, le nostre scarpe, così belle, così discrete.

Con le scarpe si comunica, altroché, e al solito le donne sono più sveglie, più attente a segnali che deboli non sono. Noi difatti le scarpe delle donne le guardiamo poco, distratti dalle adiacenze. Loro invece ci badano, anche a quelle degli uomini. Un direttore amministrativo mi cantò le lodi di un creativo che aveva appena ricevuto, di quelli con più ricci che capelli, occhi vividi, parlante con brio. Io ero perplesso, avevo qualche mia informazione disturbante, tipo una finta ingessatura al polso destro per non consegnare un lavoro - idea sommamente creativa, di per sé - ma non sapevo che dire, non mi andava di turbare un peana così convinto. Intervenne la segretaria, in genere silente: "Mah! Gli avete guardato le scarpe, a quello? Non mi sono piaciute". Un discorso terra terra che tenemmo in debito conto, lo volle il cielo.
Perfino i pentolai sanno che il tenere le braccia alzate con le mani giunte dietro la nuca è un segno di dominio territoriale, di uso frequentissimo in tutti gli incontri di lavoro - e non solo - ma esistono anche dei rinforzi ulteriori, all'americana. Il direttore commerciale della multinazionale aveva naturalmente un assistente, giovane ambizioso su cui la società puntava per il futuro, ma che doveva sudarsi la carriera reggendo per un anno gli umori del dirigente. Se resisteva bene, se no, avanti un altro, ce n'erano di bravi giovani. Il benvenuto era tipico. Il direttore, con le mani dietro la nuca, ça va sans dire, parlava, seduto di fronte ad un tavolinetto di vetro, e l'assistente prendeva appunti in un suo notes. D'un tratto, il direttore alzava le gambe, e poggiava i piedi sul tavolino, abbassando il tono di voce, il giovane chinava il capo per ascoltare meglio e si trovava a sfiorare con le narici i mocassini del boss. Niente di pianificato, facevano così; la comunicazione non verbale è in presa diretta con l'animale che è in noi. La disinvoltura anglosassone nel praticare simili inghippi è ammirevole nella sua naturalezza. Noi latini, più contorti, ci dedichiamo alle dimensioni della scrivania, alla presenza della pianta, al pieghino nel nodo della cravatta.

Le scarpe delle donne, a cui, come dicevo, troppo poco badiamo, presentano un inconveniente, hanno una loro linea di frattura: si spezza il tacco, per meglio dire si disincolla dalla suola. Lo sanno ed anche per questo - anche, non solo - gli sgabuzzini si empiono di scarpe femminili. In una riunione capitò ad una mia collega, che mi trascelse immediatamente fra gli altri come accompagnatore andata-ritorno in albergo per il necessitato cambio-scarpe. Fu un giorno di appagato narcisismo, compresi che da un piccolo inconveniente poteva sbocciare una amicizia vera. A volte, nella furia dei tempi stretti per una uscita serale, alle donne succede di incrociare le paia di scarpe: la sinistra di un paio, la destra dell'altro, inconveniente non rarissimo che nasce dal disordinato ingombro delle scarpe proliferanti nel tempo, perché le scarpe non si buttano. Quelle dei bimbi che crescono, ad esempio, si mettono di costa nella biblioteca dei libri piccoli. Noi dell'incrocio fra scarpe diverse non ce ne accorgiamo, le donne lo notano immediatamente, a cose fatte ahimè, e ci ridono su se sono amiche - fra di loro però - altrimenti fanno finta di niente, lo serbano a futura memoria.
In ogni caso nelle scarpe, anche le più belle, si annida sempre un po' di posticcio, di indebita aggiunta, perché sono un portato inevitabile della acculturazione. Lo sa chi ha avuto la gioia di correre a piedi nudi per chilometri sulla spiaggia bagnata dal mare, una gioia colma di naturalezza, sconosciuta a tutte le scarpe sportive, anche le migliori. Così è bello camminare a piedi nudi sulla moquette rinfrescata da poco; anche gli asana yoga richiedono, al massimo, calzini di cotone spesso.

La naturalezza dei piedi nudi e l'artificiosità delle calzature erano ben presenti a mia mamma bambina. Andava a scuola a Ganzanigo, frazione di Medicina. Frequentò due volte la quarta elementare - non c'era la quinta - perché la maestra convinse mio nonno a mandarla ancora rinviando di un anno l'aiuto nella cascina e nei campi. Doveva percorrere qualche chilometro per andare e tornare, usciva di casa con le scarpe non ai piedi, ma in mano e camminava a piedi nudi fra fossati e straducce. Prima di entrare in classe, si metteva le scarpe per poi togliersele al ritorno. Lo stesso accadeva in chiesa: andare a scuola nei giorni feriali era come andare a messa la domenica.

Davanti ai rifugi di montagna, al sole, gli escursionisti si distendono sulle sdraio, ognuno coi suoi privati piedi in alto e con gli scarponi o pedule poggiati a terra davanti a lui, e nascono interessati confronti in cui prevalgono gli scarponi di lungo corso, unti a inizio e fine stagione e segnati dai sassi dei più impervi sentieri. Gli scarponi nuovi sanno di città e di vesciche, non parliamo delle scarpe ginniche, gente da seggiovia, non da sentieri o ferrate. Scendendo a valle, gli stivali di gomma andrebbero lasciati ai soli pescatori, che è meglio; i fungaioli inesperti rischiano scivolate quasi fatali, e i loro piedi sono in un bagno maleolente per ore e ore: occorrono pediluvi prolungati con saponi e sali per ripristinare la decenza e l'armonia familiare.

Nelle ultime sere di Carnevale i felici gaudenti si pongono una domanda: "Come fare, per le scarpe?" Esistono infatti quasi ovunque dei trovarobati dove rovistando si possono trovare costumi appropriati, riducendo ad unità di senso brache, giustacuori, cappelli piumati, calze coloratissime - una gamba rossa ed una blu - guanti e lucenti bigiotterie. Tranne le scarpe, a meno che non ci sia un qualche Manrico, Mustafà o Sparafucile nel Teatro Storico, che allora le scarpe ci sono, fra una recita e l'altra. Decidemmo una festicciola in maschera a casa mia, a me fu assegnato un ruolo carbonaro, e provvidi con berretto napoleonico, cravattone a fiocco, tre/quarti blu. Mia moglie doveva essere Madonna Primavera, gioco facile: una vestaglia lunghissima e colma di vezzi presa in Grecia - le copriva i piedi - e mazzetti di fiori freschi appuntati qua e là; ma le scarpe per me non riuscii a trovarle, fui quindi carbonaro con scarpe a coda di rondine, invidiando la coppia Bacco e Arianna, a piedi nudi entrambi, beati loro. Lo stesso successe a Palinuro, dove un animatore turistico cinquantenne, fantasioso e timido, mi battezzò per Enrico VIII, ricoprendomi di ogni sorta di vesti - perfino un catenone d'oro matto sul davanti - e mi sentivo in parte, barba, cipiglio, sopracciglia, avevo anche lo scettro, ma non volendo zoccolare la mia maestà mi toccò star seduto al tavolo delle cibarie - piedi celati dalla tovaglia - e lì ricevetti il dovuto ossequio dei vacanzieri, Annebolene comprese. Ancora addietro nel tempo, avevamo otto anni e le Suore Cappellone ci vestirono da paggi per scortare in processione la statua della Vergine. Lavorarono in letizia con risultati mirabili, di noi paggi bianconeri conservo una foto assai bella, tutti coi sandali ai piedi, chissà se dispiacque alle brave suore il non essere riuscite a provvedere. Una persecuzione che dura da una vita, le scarpe vanno meglio in Quaresima.

Le scarpe costituirono un problema anche nell'arte della Controriforma. Si trattava di rappresentare i santi moderni: Ignazio di Loyola, Filippo Neri, Carlo Borromeo, il Nepomuceno, il Calasanzio. Che fare? Non gli puoi mettere gli stivaloni dei regnanti o dei duchi, men che meno gli scarpini di chi danza, non li puoi lasciare scalzi come i santi antichi, qualcosa devi mettere a questi santi piedi che esistono e non sempre riesci a nasconderli. E allora li vedi, i santi travolti in estasi, contornati da angeli in alto - scalzi, gli angeli sono sempre scalzi - e da fedeli in basso, che a questi vanno bene anche gli zoccoli, e loro, i santi, dotati di improbabili mocassini, di stivaletti ante litteram. Con le sante è più facile: un bel paio di sandali, magari di quelli coi nastri che risalgono il polpaccio per quelle più appassionate, ma ve lo vedete, San Carlo Borromeo in sandali? Lo aiuta invece la predica da un pulpito o il cavalcare fra gli appestati, di tanto in tanto, o andare in estasi: però seduto ad un tavolo, a celar le calzature, perché altrimenti si rischia di condurre i devoti ad un sermo humilis, anche troppo: guardate i quadroni di San Carlo esposti nel Duomo di Milano, per convincervene.

E invece, alle ladies di Gainsborough le punte delle scarpe fuoriescono dalle gonne come pugnali, colpo di grazia per gli innamorati.



P.S. "Armi pari" è stato pubblicato anche su Golem l'Indispensabile e su Arengario. Le due immagini sono di due quadri di Thomas Gainsborough: Mary, Countess Howe in alto e Lady Ligonier in basso.

giovedì 26 luglio 2007

Carolina, Francesco, Giorgia




Carolina, Francesco, Giorgia
Tre nomi non scritti sull'acqua

di Primo Casalini



Carolina

La mia professoressa di italiano in terza media si chiamava Carolina Grandinetti. Non era sposata, cosa allora abbastanza frequente fra le insegnanti, anche perché alla Facoltà di Lettere c'era una quasi totalitaria presenza femminile e non esistevano le occasioni di frequentazione che ci sono oggi. Allora aveva circa quaranta anni. Mi prese in simpatia, le piaceva come scrivevo e come rispondevo quando mi interrogava. Non sono mai stato il primo della classe, andavo bene, ma non c'era in me quella regolare pulsione, quella assiduità e anche, perché negarlo, quella piccola ruffianeria che un primo della classe deve avere. Allora vivevo in un casello ferroviario, che esiste ancora, e credevo che la nostra fosse una famiglia borghese! Non sapevo nulla di come andavano le cose nel mondo, mio padre ferroviere una volta che dissi che noi eravamo borghesi mi guardò sbalordito e rimase a bocca aperta per tutta la settimana. Bene, Carolina, oltre a darmi ottimi voti, volle che nella pagella ci fosse scritto "si consiglia il liceo classico". E mio padre mi mandò al liceo classico... cosa rara allora, per un borghese (!) come me. Non solo, Carolina mi disse di andare a casa sua accompagnato da mio padre e saccheggiò, sì saccheggiò la sua biblioteca per darmi tanti libri scolastici e non che avrebbero potuto servirmi al Liceo. Dopo un'ora ce ne andammo carichi come muli: mio padre me lo ricordo, era metà contento metà imbarazzato da quel dono del tutto inatteso.

Finì lì, quello che fece Carolina per me (o meglio, cominciò di lì). Molti anni dopo, già laureato e sposato, un giorno la riconobbi sullo scalone di accesso alla Galleria Palatina di Parma: si era fermata a prendere fiato perché con l'età non riusciva a procedere. Lei non mi riconobbe, ed io non mi fermai a salutarla. Perché? L'avrei fatta felice, a raccontarle come avevo proseguito gli studi e tante altre cose... ma non l'ho fatto. Da tanti anni, quando ci ripenso, il suo ricordo è offuscato dalla mia mancanza di sensibilità, che forse era il corollario del rampantismo di quel periodo in cui sembrava che tutto ci fosse dovuto.



Francesco

Al Liceo Classico fra le materie c'era anche Storia dell'Arte, un'ora alla settimana, del tutto ridicolo, perché capire e studiare bene la storia dell'arte è più difficile che capire e studiare il latino, che già non è uno scherzo. Ogni anno cambiava il professore, chissà perché in seconda liceo ci toccò uno che veniva su da Bologna. Si chiamava Francesco Arcangeli, aveva poco meno di quarant'anni e già allora era un critico d'arte piuttosto noto, ma noi non lo sapevamo. Ci accorgemmo subito che tirava un'altra aria, che Francesco sapeva le cose, capiva e amava. Una ragazza si comprò un temperino ed incise il suo nome - anche il cognome - sul banco di legno, che da qualche parte sarà finito, in un falò magari col nome e tutto - non è una brutta fine. Alla terza ora di lezione, Francesco arrivò in classe con un quadro sottobraccio, e lo appoggiò sulla cattedra in modo che tutti lo vedessimo bene. Era una natura morta di Giorgio Morandi, sconosciuto a tutti noi, e Francesco pazientemente per tutta l'ora di lezione ci raccontò perché era importante quel quadro e perché era bello. Lo fece un'altra volta con una piccola tavola a fondo oro del '300. Poco mi ricordo delle sue parole e dei suoi argomenti di allora, ma Francesco in quel modo ha cambiato la mia vita, e in una parte non secondaria. Cominciò così la mia passione per l'arte, con tutta la fatica e la gratificazione conseguenti, e che ancor oggi permangono: per me Amico Aspertini o Francesco del Cossa, Donato Creti o Bartolomeo Schedoni non sono nomi di strade secondarie, ma emozioni che soccorrono anche nei momenti più difficili.

Oggi Francesco Arcangeli è un nome finalmente di moda. Si è riconosciuta la sua grandezza, il valore dei suoi libri, si tengono mostre, congressi e celebrazioni a lui dedicate. Ma quasi nessuno racconta le difficoltà che ebbe durante la sua vita, in primis il difficile rapporto col suo maestro, Roberto Longhi, grande critico e grande scrittore, ma uomo terribile, che trattava gli allievi come fossero camerieri o sguatteri, e che rallentava la loro carriera accademica per farsi servire più a lungo. E Giorgio Morandi che fece, quando Francesco gli dedicò un corposo libro monografico pieno di competenza e di amore? Lo stroncò, con una dichiarazione di tre righe, simile in questo alla cattiveria, sì cattiveria, di tanti grandi artisti, Picasso e Stravinskij per fare solo due esempi. Gli ultimi anni della vita di Francesco furono segnati dolorosamente da tutto questo, aveva la pelle troppo sottile. Che oggi lo si esalti va bene, ma si abbia il coraggio di dire la verità, la cruda verità.



Giorgia

Prima liceo: 26 ragazze 9 ragazzi. Entrò in classe la professoressa di italiano, Giorgia Melchiorri, in fama di terribilità. Tutti in piedi, le ragazze col grembiule nero, i ragazzi variamente vestiti, dal Capannelle ante litteram ai pantaloni lunghi del figlio del farmacista - che li portava lunghi dal giorno della nascita. Giorgia arriva alla cattedra, sta in piedi pure lei, ci scruta tutti e si fa un segno di croce. Con una imbarazzata sfasatura, tutti replichiamo, le ragazze prima, poi i ragazzi - si sa che sono più lenti. "Se io faccio il segno di croce, non vuol dire che voi siete tenuti a farlo", fa Giorgia, prima di sedersi.

Era una donna piccola di statura, col grembiule nero pure lei, i capelli bianchi e gli occhi azzurrissimi, non dolci però. Occhi decisi, era difficile sostenere il suo sguardo. Io credevo di non avere problemi, sull'onda del successo dei miei temi alle medie ed al ginnasio. Da sempre, non facevo la brutta, scrivevo direttamente in bella copia. Al primo tema dato dalla Giorgia, così, tanto per gradire, scrissi otto rapide colonne di foglio protocollo. Giorgia mi diede 6= (sei meno meno). Intorno a me fioccavano i 6+, anche qualche 7. Desolato, nel pomeriggio pensai e ripensai - perché 'sta zitella ce l'aveva su con me? Le mie otto colonne erano divenute un profluvio di correzioni, tutte in rosso: cambiati gli aggettivi, i verbi, gli avverbi, la punteggiatura, frasi intere cancellate. Ci aveva messo quasi un'ora a correggermi, a rifarmi il tema, in pratica: sadismo allo stato puro, pensai. O no? Rilessi il tema, quello fatto da Giorgia, che era lungo sei colonne scarse... e mi piacque più del mio. Da lì in poi tutto fu facile, capii il motivo di ogni singolo cambiamento... e capii (ma ce ne volle) che il suo voto sarebbe stato 5, non 6=, e che aveva deciso di gettarmi la lenza con l'amo. Il pesciolone abboccò volentieri. Dal secondo tema in poi, per tre anni, il voto di Giorgia fu 8, che per lei era il massimo, fra l'indignazione della lobby delle tre prime della classe, abbonate al 7+. Chi veniva rimandato da Giorgia, sapeva che non c'era remissione: rimandava con 5 per poi bocciare con 4, non credeva all'esame di riparazione. Le scuole private erano piene di allievi che cercavano di recuperare l'anno perso per poi tornare al nostro liceo, ma non nelle classi della Giorgia, per carità! Di lei si diceva che non si fosse sposata perché il fidanzato era morto in guerra: possibile, mai l'ho vista sorridere. A parità, va detto, preferiva i temi dei maschi rispetto a quelli delle femmine, con lei noi nove non ci sentivamo emarginati, come invece succedeva con quasi tutti gli altri professori.

Per Giorgia the heart of the matter, il nocciolo della questione era Dante. Dopo il consueto segno di croce - lo facevamo tutti, infine, per rispetto a lei - si sedeva, apriva il testo del Grabher e diceva il numero del canto, mancava solo il pronti via. Poi leggeva il canto - leggeva, non recitava - e si sentiva in aula solo il fruscìo delle pagine quando tutti insieme le voltavamo. Dopo dieci minuti o poco più, a lettura finita, cominciava la spiega verso per verso. Tutto ciò, decenni prima del Sermonti et similia. A fine ora, "A memoria per lunedì prossimo", diceva Giorgia con un ghignetto tutto suo, come a dire mo' son cavoli vostri. Sì', toccò studiare Dante a memoria! Inventai un mio metodo: leggere, rileggere, trileggere il canto a voce alta, e poi brancarlo nella memoria a colpi di quindici versi alla volta. Lì giunto, Dante rimaneva per la vita, ascondendosi fra gangli di neuroni, pronto ad uscire quarant'anni dopo, fresco qual verdolina lattuga. La sezione sopra la nostra, la seconda liceo, tutta maschile, fece un suo sciopero all'ennesimo canto da imparare. Giorgia fronteggiò con fermezza irata, rossa - anzi scarlatta - sulle guance, sempre pallide in lei. Il suo privato e castissimo harem di trenta maschi diciassettenni, come osava ribellarsi! Transarono, infine, perché non potevano fare a meno l'una dell'altra, Giorgia e la sua classe, a cui insegnava, beati loro! anche latino.

Per le versioni dal latino, Giorgia vietava l'uso del vocabolario. Anche qui aveva ragione: fino a due anni fa mi sono fatto la versione della maturità secondo il "Giorgia style": leggere, rileggere, trileggere il brano e sentire che il significato totale appare quasi esplosivamente. Che vuoi che sia una paroletta misteriosa qui e là? Gli dai tu il senso e in genere non sbagli. Cristiana eppur laicissima, era. Mi interrogò sul Machiavelli, ed io impastocchiai eloquenti frasette sul fatto che Niccolò ce l'aveva con la gerarchia della Chiesa. Mi guardò, un po' delusa: "Eh no! E' proprio con la religione che ce l'ha, i preti sono un dettaglio". Si farà secoli di Purgatorio, Giorgia: superba, iraconda, persino intellettualmente lussuriosa ed eretica, da stilnovista. Ma quando ascenderà al Paradiso, finiran le canzoncine di Angeli ed Arcangeli, di Cherubini e Serafini, di Troni e Dominazioni: 7+ per tutti, e che non si lagnassero! Dante, per i fatti suoi, riderà con lietezza feroce, a veder cosa combina la sua amica Giorgia.

P.S. Come immagini ho scelto la Libreria del Crespi - pittore amatissimo da Francesco, e gli Eletti del Signorelli a Orvieto.