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lunedì 30 marzo 2009

Specchio delle mie brame (2)




Specchio delle mie brame (2)

di Solimano



Così Giorgio Vasari nella Vita di Francesco Mazzuoli pittore parmigiano:

" ... per investigare le sottigliezze dell'arte, si mise un giorno a ritrarre se stesso, guardandosi in uno specchio da barbieri, di que' mezzo tondi. Nel che fare, vedendo quelle bizzarrie che fa la ritondità dello specchio... gli venne voglia di contrafare per suo capriccio ogni cosa. Laonde, fatta fare una palla di legno al tornio, e quella divisa per farla mezza tonda e di grandezza simile allo specchio, in quella si mise con grande arte a contrafare tutto quello che vedeva nello specchio e particolarmente se stesso... E perché tutte le cose che s'appressano allo specchio crescono, e quelle che si allontanano diminuiscono, vi fece una mano che disegnava un poco grande, come mostrava lo specchio, tanto bella che pareva verissima; e perché Francesco era di bellissima aria et aveva il volto e l'aspetto grazioso molto e più tosto d'Angelo che d'uomo, pareva la sua effigie in quella palla una cosa divina."

M (1931) di Fritz Lang

Hans Beckert (Peter Lorre): "Quando cammino per le strade ho sempre… la sensazione che qualcuno mi stia seguendo. Ma sono invece io che inseguo me stesso.
Silenzioso... Ma io lo sento. Sì, spesso ho l'impressione di correre dietro a me stesso. Allora, voglio scappare. Scappare! Ma non posso, non posso fuggire! Devo, devo uscire ed essere inseguito! Devo correre, correre!"

Jour de fête (1949) di Jacques Tati

Nel paese di Follainville (Saint-Sévère-sur-Indre), il postinoFrançois (Jacques Tati) si accorge improvvisamente di avere un occhio cerchiato. E' uno scherzo che gli hanno fatto qualche ora prima quelli che gli hanno offerto da bere. Sono sicuramente invidiosi della ventata di modernità che François sta introducendo a Follainville, con l'adozione dei sistemi della posta all'americana.

Stromboli (1950) di Roberto Rossellini

Karin (Ingrid Bergman) è una cittadina lituana che per uscire da un campo di concentramento ha sposato Antonio (Mario Vitale), un soldato di guardia al campo. Antonio proviene da un'isola che lei non ha mai visto. Ma la realtà di Stromboli è molto diversa da quello che lei si aspettava: vita dura, costumi diversi. Un senso totale di estraneità. Il guardarsi nello specchio è un riconoscere la Karin che c'era e che ora vorrebbero che non ci fosse più.

Alraune (1952) di Arthur Maria Rabenalt

Lo scienziato Jacob Ten Brinken (Erich von Stroheim) è riuscito a far nascere una bambina dall'unione artificiale di un condannato a morte e di una prostituta. La malefica mandragora germogliava dalle estreme convulsioni dei condannati. Ten Brinken ha creato una mandragora di carne: Arlaune (Hildegard Knef). A diciotto anni è scappata dal convento e si contempla allo specchio. Sedurrà uno studente, un pittore, un barone, uno stalliere, lo stesso Jacob Ten Brinken e il suo segretario.
La vedono e si innamorano, facendo tutti una brutta fine. Mai fidarsi delle mandragore, specie quelle di carne, perdippiù tedesche! In un film precedente, tratto dallo stesso libro di Hans Heinz Ewers, la parte di Alraune fu di Brigitte Helm...

Les Diaboliques (1955) di Henri-Georges Clouzot

Christina Delassalle (Véra Clouzot) è la proprietaria di una scuola privata, ma è suo marito, il crudele Michel Delassalle (Paul Meurisse) , a decidere tutto. Christina si è fatta amica di una insegnante della scuola, Nicole Horner (Simone Signoret), benché sappia che Nicole è l'amante di Michel. Uno studente vede, attraverso il vetro che lo rispecchia, Nicole che prepara una medicina per Christina.

I dolci inganni (1960) di Alberto Lattuada

E' una giornata importante, per la sedicenne Francesca (Catherine Spaak): ha fatto l'amore per la prima volta con l'architetto Enrico (Christian Marquand) che ha trentasette anni. Francesca non sa se le è piaciuto o no, sa che oggi è cominciata la consapevolezza e finita l'adolescenza.

Zazie dans le métro (1960) di Louis Malle

Zazie (Catherine Demongeot), prima è scappata dalla casa dello zio Gabriel (Philippe Noiret), poi ha incontrato un ambiguo personaggio: Trouscaillon (Vittorio Caprioli), che le ha comprato un paio di blu-jeans, seconda aspirazione di Zazie dopo il viaggio sul metrò (che però oggi non funziona a causa di uno sciopero). Adesso Zazie è fuggita abilmente da Trouscaillon portando con sé i blu-jeans, ma Truscaillon, che è un sagace investigatore, l'insegue. Solo che si trova di fronte improvvisamente ad un triplice specchio e si spaventa tre volte vedendo se stesso.

La viaccia (1961) di Mauro Bolognini

Il contadino Amerigo (Jean-Paul Belmondo), giunto da poco a Firenze, guarda ammirato la prostituta Bianca (Claudia Cardinale), che guarda se stessa. Per lei Amerigo perderà il lavoro e si ridurrà ad essere il guardiano del bordello.

Irma la Douce (1963) di Billy Wilder

La passeggiatrice Irma la Douce (Shirley MacLaine) si sistema un ricciolo sotto gli occhi del suo amato Nestor Patou (Jack Lemmon) che è un po' inquieto. Fatica ad abituarsi al suo salto sociale: da poliziotto a lenone. Inoltre è geloso a causa del lavoro di Irma e sta meditando di trasformarsi da lenone in cliente esclusivo. Ma è solo un lavoro, Nestor!

Judex (1963) di Georges Franjou

Del film Judex non sapevo niente, niente di niente. Ma mi sono imbattuto nell'immagine di una suora cappellona bellissima che si specchia ed ha un pugnale in cintura. Non potevo esimermi dal metterla. Però mi sono informato: non è una vera suora, ma una donna astuta che a volte si fa chiamare Diana Monti a volte Marie Verdier (Francine Bergé). Il titolo italiano del film è L'uomo in nero.

La Sirène du Mississipi (1969) di François Truffaut

Marion Vergano (Catherine Deneuve) ha sposato Louis Mahé (Jean-Paul Belmondo), un ricco possidente nell'isola di Réunion, fingendo di essere Julie Roussel, la donna con cui Louis era in corrispondenza. Dopo il matrimonio Marion è scappata coi soldi tornando in Francia. Ma Louis è tornato, ed ha una pistola. Però a volte l'amore è cieco...

Paper Moon (1973) di Peter Bogdanovich

Stamattina Moses Pray (Ryan O'Neal) e la bimba Addie Loggins (Tatum O'Neal) si guardano insieme nello specchio prima di uscire a vendere Bibbie casa per casa. In genere Addie si specchia poco, ma oggi vuol vedere come le sta il fiocco che ha comprato Moses. Il fiocco è utile perché Addie è stufa di essere scambiata per un maschio, quando porta i blu-jeans. Moses, dal suo punto di vista, cerca di tener buona Addie perché si è innamorato di Trixie Delight (Madeline Kahn) e sta vendendo meno Bibbie, con grande dispetto di Addie, sua socia in affari.

La nuit américaine (1973) di François Truffaut

Il regista Ferrand (François Truffaut) sta girando a Nizza il film Je vous présent Pamela. Questa immagine è un fuori scena del film: Julie (Jacqueline Bisset) sta cercando di mettersi a posto davanti ad uno specchio che le presenta una assistente, ma lo specchio è double-face e noi vediamo la faccia dell'assistente. In fondo, si scorge Ferrand. Come si vede, la situazione è ingarbugliata, ma se si tiene presente che il fuori scena riguarda il film Je vous présent Pamela e non il film La nuit américaine, si capisce tutto (o quasi...)

Romanzo popolare (1974) di Mario Monicelli

Giulio Basletti (Ugo Tognazzi) è un metalmeccanico milanese che ha sposato Vincenzina Rotunno (Ornella Muti) una ragazza meridionale molto più giovane di lui ( Vincenzina ha meno di vent'anni). Però il Basletti comincia ad avere l'impressione che la differenza di età si senta, perché attorno a casa ronza un giovane poliziotto meridionale, Giovanni Pizzullo (Michele Placido). Davanti allo specchio, con le mani si stira la faccia come per far sparire le rughe.

Nosferatu (1979) di Werner Herzog

Il Conte Dracula (Klaus Kinski) è riuscito a seguire Jonathan Harker (Bruno Ganz) nel suo viaggio di ritorno dai Carpazi in Germania. Insidierà Lucy Harker (Isabelle Adjani) che lo vede atterrita nello specchio, come se fosse un'ombra.

Madame Bovary (1991) di Claude Chabrol

Emma Bovary (Isabelle Huppert) al ballo non guarda il grande specchio che le sta dietro e che la riflette di schiena. Guarda la sala, le persone, fra cui c'è Rodolphe Boulanger (Christophe Malavoy) che diverrà il suo amante. Emma impara a disprezzare suo marito Charles (Jean-François Balmer), che vede completamente fuori posto, meschino, imbarazzato e imbarazzante.

Basic Instinct (1992) di Paul Verhoeven

Catherine Trammel (Sharon Stone) non si guarda negli specchi: sono gli specchi che guardano lei, triplicandone il fascino dominante. Tempi duri per Nick Curran (Michael Douglas) e Beth Garner (Jeanne Tripplehorn). Il vizio di accavallare le gambe è palese, quello del rompighiaccio è nascosto.

Merci pour le chocolat (2000) di Claude Chabrol

Jeanne Pollet (Anna Mouglalis) non si guarda in uno specchio, ma guarda un ritratto in cui c'è un viso quasi identico al suo. Un ritratto che è come uno specchio. Jeanne comincerà a caprire che cosa c'è dietro il rapporto fra il grande pianista André Polonski (Jacques Dutronc), che l'ha presa a benvolere, e la sua seconda moglie Mika Muller (Isabelle Huppert) che era la migliore amica della prima moglie, morta in un incidente d'auto, di cui Mika sa forse il motivo.

The Dreamers (2003) di Bernardo Bertolucci

Nel 1968 Isabelle (Eva Green), si è chiusa in casa insieme al fratello Theo (Louis Garrel) e al loro amico americano Matthew (Michael Pitt), che hanno conosciuto alla Cinèmateque per la comune passione filmica. Isabelle usa lo specchio per truccarsi, fra un gioco erotico e l'altro col fratello e con l'amico. Usciranno insieme solo per le manifestazioni di maggio.

Van Helsing (2004) di Stephen Sommers

Ancora il Conte Dracula, che stavolta si chiama Vladislaus (Richard Roxburgh). La sua preda in questo film si chiama Anna Valerious (Kate Beckinsale), ma stavolta, nello specchio Dracula sparisce, da buon vampiro che di attiene alle regole vampiresche. E Anna Valerious non sembra più una vittima, ma una danzatrice.

Così ancora Giorgio Vasari, sempre nella Vita di Francesco Mazzuoli pittore parmigiano:

"Francesco, finalmente, avendo sempre l'animo a quella sua alchimia, come gli altri che le impazzano dietro, ed essendo da delicato e gentile, fatto con la barba e chiome lunghe e malconce, quasi un uomo selvatico e un altro da quello che era stato, fu assalito, essendo mal condotto e fatto malinconico e strano, da una febbre grave e da un flusso crudele che in pochi giorni lo fecero passare a miglior vita. Volle essere sepolto nella Chiesa de' Frati dei Servi, chiamata la Fontana, lontana un miglio da Casalmaggiore e, come lasciò, fu sepolto nudo, con una croce d'arcipresso sul petto."

L'autoritratto del Parmigianino con lo specchio concavo è a Vienna, ed è stato eseguito attorno al 1524, mentre l'autoritratto col cappelluccio a sghimbescio (nella Galleria Nazionale di Parma) è dell'ultimo periodo di vita: il Parmigianino, che era nato nel 1503, muore nel 1540, quindi fra i due autoritratti ci sono meno di sedici anni.



venerdì 29 agosto 2008

Un agosto a Bologna (1)

Bologna: Giardino interno in via Braina,
la città e San Michele in Bosco sulla collina


Un agosto a Bologna (1)

di Solimano



Nell'agosto 1969 a Bologna fecero una cosa che non si era mai fatta. Ma lascio la parola al fotografo Paolo Monti, nel capitolo "La scoperta della città vuota" del libro "Bologna Centro Storico" (Edizioni ALFA, 1970), così scoprirete passo passo quello che successe:

"Quando se ne parlò la prima volta, continuava a sembrarmi un progetto quasi impossibile. E anche dopo il saggio di rilevamento, eseguito fra marzo ed aprile dello scorso anno su via Santo Stefano, via Fondazza, via Solferino e il minore ambiente adiacente, e persino dopo la Mostra campione a Palazzo d'Accursio, questa possibilità di lavoro non prendeva dentro di me il peso delle cose concrete, da farsi.
Poi venne la mattina dell'8 agosto quando finalmente si passò al programma preciso di fotografare tutta via Galliera e qualche strada attigua in sei ore filate -dalle otto alle quattordici- ora di riapertura del traffico. Devo dire che la prima ora non fu senza un certo sgomento, lentamente combattuto da quella specie di furore visivo che prende il fotografo quando gli si spalancano davanti le più innumerevoli possibilità di ripresa, quasi tutte ugualmente valide".


Credo che abbiate capito quello che successe in quel felice agosto, lo specifica bene una scritta nella controcopertina del libro:
"La città riscoperta da un grande servizio fotografico a strade sgombre dal traffico"
Semplice, no?
Metto alcune delle immagini di quel libro, corredandole di meraviglie (a volte quasi sconosciute) che si annidano nei palazzi e nelle chiese di quelle strade.


Questa fotografia fu scattata dall'alto di una torre vicina a via Indipendenza. Si vede il Palazzo Re Enzo, più lontano la grezza parte superiore dalla facciata della chiesa di San Petronio, sulla sinistra il portico del Pavaglione, sulla destra Palazzo d'Accursio. Poca gente, qualche filobus, quasi nessuna macchina.
Così, nel libro, Andrea Emiliani:

"Entrare da turisti in città, un mattino dell'agosto scorso era perfino semplice. L'aria delle vacanze era dovunque, e all'ingresso della cerchia storica delle mura quasi assente il traffico dei giorni normali. Bologna, rossa di mattoni e calda di arenarie, una delle più belle e forse più sconosciute città italiane, viveva una giornata rarefatta, quasi antica, come tante altre del suo torrido passato".


All'interno di Palazzo d'Accursio (che è il Palazzo Comunale), ci sono anche le Collezioni Comunali d'Arte.
Nel 1744 furono donate al Senato Cittadino sedici opere del pittore Donato Creti (1671-1749), l'unico del Settecento bolognese paragonabile a Giuseppe Maria Crespi. Scelgo una delle quattro storie di Achille: la ninfa marina Teti affida suo figlio Achille al saggio centauro Chirone. Come si vede, Chirone è un centauro giovane e pezzato, proprio come il cane sulla sinistra, che vedrete quando riuscirete a staccare gli occhi dalla ninfa amica di Teti, a sinistra in primo piano.


Via delle Belle Arti. Sulla destra si vede l'ingresso della Pinacoteca nazionale, che un tempo era il noviziato gesuitico di Sant'Ignazio.
Ancora Andrea Emiliani:

"Un altro elemento assai tipico della città, forse quello che più la gente giustamente ricorda, è il portico. Chiunque conosca anche un poco soltanto Bologna, conosce anche l'utilità di questi passaggi coperti, preziosi in una città di caratteri climatici decisamente continentali, con inverni assai aspri, estati lunghe e calorose.
...
"Ad una recente inchiesta, nata sempre dagli studi in corso per il centro storico, metà degli interpellati ha risposto che una città senza portici non sembra neanche una città".



Il quadro del Parmigianino è nella Pinacoteca.
Nozze mistiche di Santa Margherita, questo è il vero significato del quadro. Alle nozze di Margherita col Gesù bambino assistono la Madonna, San Petronio, San Gerolamo, un angelo e una specie di drago sconfitto in basso a destra.
Il quadro è degli anni 1527-28, quando il Parmigianino stava a Bologna.
Così racconta il Vasari:

"Fece il medesimo alle monache di Santa Margherita in Bologna, in una tavola una Nostra Donna, Santa Margherita, San Petronio, San Girolamo e San Michele, tenuta in somma venerazione, sì come merita, per essere nell'aria delle teste e in tutte l'altre parti, come le cose di questo pittore sono tutte quante".


Ancora via delle Belle Arti, un po' più avanti. In fondo si vede Palazzo Bentivoglio, con le decorazioni in arenaria molto deteriorate.
Così scrive Raffaella Rossi Manaresi:

"I documenti e più tardi le fotografie testimoniano che già in passato, e perlomeno fin dal secolo scorso, i capitelli, le lesene, i cornicioni in arenaria dei palazzi e delle chiese bolognesi presentano gravi alterazioni. Il deterioramento è però progredito con velocità spaventosamente accelerata negli ultimi decenni".


Un particolare della Santa Cecilia di Raffaello, quadro che è conservato nella Pinacoteca nazionale. Nel particolare c'è Santa Maria Maddalena. Raffaello eseguì la Santa Cecilia a Roma nel 1514, per la chiesa di Bologna di San Giovanni in Monte; l'opera era stata commissionata da una gentildonna di Bologna: Elena Duglioli dall'Olio. E' quasi sicuro che nel 1515 Raffaello accompagnasse a Bologna il Papa Leone X per incontrare il Re di Francia Francesco I. Così a Bologna si trovarono contemporaneamente Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Una leggenda probabilmente fondata dice che il pittore Francesco Francia, allora il più reputato a Bologna, morisse poco tempo dopo aver visto la Santa Cecilia, tale era stata l'emozione e lo sconforto per il Francia, un buon pittore rimasto al Perugino.


Strada Maggiore, all'altezza del portico dei Servi, che si chiama così perché sulla sinistra c'è la chiesa di Santa Maria dei Servi. Questo portico è uno dei più belli e più antichi di Bologna, la parte che fiancheggia la chiesa fu edificata nel 1393. Nel 1492 fu costruito il proseguimento lungo strada Maggiore e all'inizio del Cinquecento il portico nella facciata della chiesa, che divenne poi un quadriportico, come una piazzetta attorniata da portici. Proprio sotto il portico che si vede nella fotografia, cominciò a camminare da sola, a circa un anno d'età, una bimba che ventiquattro anni dopo sarebbe diventata mia moglie.

All'interno della chiesa c'è un'opera su cui si continua a discutere da decenni. Si tratta di una Maestà, cioè una Madonna in trono con il Bambino e due angeli. La qualità è elevata, anche se è un'opera che ha sofferto i danni del tempo. E' di Cimabue, non è di Cimabue. Oggi la maggioranza dei critici si orienta per una collaborazione fra Cimabue e Duccio da Buoninsegna.
Nella chiesa di Santa Maria dei Servi ebbi una soddisfazione di amor proprio. Imparavo a guardare i quadri, ed entrai nella sacrestia della chiesa. Avevo la guida, ma decisi di non leggerla e di non guardare neppure i cartellini dei quadri. Dopo un quarto d'ora di sguardo attento e faticoso, dissi a me stesso: "Quelli sono del Mastelletta e gli altri del Bigari!". Guardai la guida rossa del Touring ed i cartellini e fu come nelle battaglie navali quando puoi dire "colpito ed affondato".
Ripensandoci oggi, sorrido di me stesso, perché il Mastelletta ed il Bigari (due pittori non notissimi ma notevoli) hanno entrambi un loro stile personalissimo, quindi, a posteriori, non era un test difficile. Ma quando si è lungo una strada lunga in cui non si finisce mai di imparare, c'è bisogno di qualche incoraggiamento...
(continua)

P.S. Tutte le immagini in bianco e nero derivano da fotografie fatte nell'agosto 1969 da Paolo Monti ed inserite nel libro "Bologna Centro Storico" di cui ho scritto all'inizio del post. Anche l'immagine in apertura ha la stessa origine: di fotografie a colori ce ne sono solo due e l'altra la inserirò nel secondo post. Nelle immagini di chiusura c'è la rappresentazione di Bologna: due dei santi, Petronio e Floriano, sono fra i patroni della città. La seconda immagine, quella in bianco e nero, è un particolare della prima. L'ho tratta dal libro e permette di vedere meglio com'era Bologna nel primo Seicento.


Guido Reni: Pala dei mendicanti (part)
1614-16 Pinacoteca Nazionale, Bologna

martedì 25 dicembre 2007

Il Maestro di Tolentino


La Madonna e una sua amica fanno il bagno al Bambino
che non sembra fidarsi molto



La Natività del Maestro di Tolentino

di Primo Casalini



Il 30 giugno 2004 pubblicavo su Arengario il Bel Momento dedicato al Maestro di Tolentino ed in questi giorni mi è venuta l' idea di approfittare di due novità tecnologiche per pubblicare oggi, che è il giorno di Natale, parte del mio testo di allora. Lo corredo di alcune immagini realizzate per l’occasione, che credo non siano ancora in rete. Adopero uno scanner migliore di quello che avevo ed utilizzo la possibilità di poter mostrare le immagini grandi, come si fa con Blogger. Si tratta di particolari appartenenti all’affresco della Natività, che è uno degli affreschi di Tolentino. Mi sembra di ricordare che una volta il Natale era la festa della nascita di Gesù, non il giorno di Babbo Natale!
Gli affreschi sono nel Santuario di San Nicola da Tolentino, ed è bene sapere qualcosa di questo santo, del Santuario, degli affreschi e del misterioso pittore che li dipinse. Riporto qui sotto il il mio testo, lievemente rivisto.

San Nicola da Tolentino non va confuso con San Nicola di Bari, anche se un legame c'è: Compagnone ed Amata Guarutti (o Guarinti), due sposi ormai avanti negli anni, avevano chiesto la grazia di avere un figlio durante un pellegrinaggio al santuario di Bari, e chiamarono Nicola il figlio che nacque nel 1245.
Nicola divenne frate agostiniano nel 1261, sacerdote nel 1273 e per trent'anni, dal 1275 al 1305, visse nel convento degli Agostiniani di Tolentino. Nel 1325 si celebrò il Processo di Canonizzazione ma l'Ordine Agostiniano dovette attendere ben 120 anni per vederlo ufficialmente canonizzato (da papa Eugenio IV nel 1446). Questo non impedì agli artisti ed ai fedeli di venerarlo come santo, e papa Bonifacio IX nel 1400 non attese la canonizzazione per concedere l'indulgenza plenaria a chi visitava la sua tomba. E' un santo taumaturgo e protettore in specie delle Sante Anime del Purgatorio. La Vita del Santo, scritta dal suo contemporaneo Pietro da Monterubbiano, divenne rapidamente assai nota. Il Santuario fu costruito dagli Agostiniani presso la già esistente chiesa di San Giorgio e fu intitolato dapprima a Sant'Agostino, solo più tardi a San Nicola.

Un angelo mostra la Natività ad un altro angelo

A Tolentino un ampio locale a volta ogivale, il Cappellone, fu interamente rivestito da affreschi: un'opera vasta ed impegnativa, di alto valore artistico e giunta a noi in ottimo stato di conservazione, almeno in gran parte. Gli affreschi del Cappellone forse furono eseguiti negli anni 1335-45 - ma recenti ricerche li anticipano agli anni 1320-25 - quindi proprio nel primo sviluppo del culto del santo.
Esiste un documento dell'agosto 1348 che attesta che la cappella era officiata da un cappellano ad essa assegnato, quindi a quella data la decorazione era già stata eseguita. Non esistono invece documenti riguardanti gli affreschi, e su chi ne sia stato l'autore, il che, dal nostro punto di vista, è assai singolare.
Non si tratta infatti di un'opera attribuibile a maestranze provinciali, è del tutto evidente l'elevato livello artistico, anche se oltre al maestro opera anche la sua bottega, come era d'uso, ma la guida e l'impronta del maestro si vede ovunque, anche nelle parti eseguite dagli allievi.
Un maestro chiamato da fuori, e già ben noto, visto l'investimento finanziario che era richiesto, e l'importanza che l'iconografia degli affreschi avrebbe avuto nella vita del Santuario, allora in piena crescita. E nessun documento che lo attesti, per cui i critici si accapigliano per secoli per capire chi fosse il Maestro di Tolentino, giungendo solo recentemente ad una conclusione generalmente condivisa (o quasi, visto che i documenti continuano a mancare).

Di fronte all'arte medievale gli appassionati d'arte hanno due difficoltà.
La prima sorge dal fatto che i programmi iconografici, pur nella loro complessità, sono quasi sempre simili in tutta l'Europa cristiana.
La seconda è che facciamo fatica a distinguere gli artisti fra di loro perché nella nostra percezione le somiglianze stilistiche e rappresentative prevalgono sulle differenze.
In genere il programma iconografico è talmente vasto da lasciare uno spazio ridotto alla personalizzazione anche stilistica del singolo artista. Fin dall'inizio venivano definiti addirittura i quantitativi di oro o di blu cobalto che sarebbero stati impiegati. Ecco cosa dice un celebre critico:

"Ma veramente non è esatto parlare di copia e di modello; sarebbe più giusto pensare all'opera dell'artista medievale come oggi pensiamo alle interpretazioni di un musicista o di un attore. Il testo è lì: è il modo in cui viene presentato – la carica di significato che vi è immessa – che costituisce il traguardo estetico. Chi interpreta un testo senza intelligenza non meno di chi lo storpia arbitrariamente, non è un artista".
(Ernst H. Gombrich A cavallo di una manico di scopa Einaudi 1971
).

Le nostre difficoltà si attenuano con le opere del gotico internazionale e scompaiono del tutto nel Quattrocento, da Masaccio in poi. Non a caso, è nel Quattrocento che si sviluppa l'arte del ritratto individuale; anche prima c'erano dei ritratti, ma si trattava sempre di personaggi in mezzo ad un gruppo di fedeli o di donatori, rappresentati in ginocchio e su scala ridotta. Il ritratto individuale, come lo pensiamo noi, non faceva parte del mondo artistico medievale, ancor prima, del loro mondo spirituale: poteva essere un dettaglio curioso, non il centro della rappresentazione.

La meraviglia dei pastori all'annuncio angelico

Negli anni in cui a Tolentino si decise di affrescare il Cappellone, in cui si scelse il programma iconografico e si cercò la bottega che potesse realizzarlo al meglio, il punto di riferimento artistico, ben noto in tutta Italia, era Giotto: la sua bottega, i suoi allievi e le altre botteghe che dai suoi esempi avevano imparato.
E' usuale citare ciò che scrive il Vasari all'inizio della vita di Giotto da Bondone:

"Essendo stati sotterrati tanti anni dalle rovine delle guerre i modi delle buone pitture et i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, per dono di Dio quella che era per mala via risuscitò et a tale forma ridusse che si potette chiamar buona. E veramente fu miracolo grandissimo che quella età e grossa et inetta avesse forza d'operare in Giotto sì dottamente, che il disegno, del quale poca o niuna cognizione avevano gli uomini di quei tempi, mediante lui ritornasse del tutto in vita".

Ma il Vasari scrive a cose fatte, attorno alla metà del Cinquecento, e si ispira probabilmente a ciò che aveva scritto il Boccaccio quasi negli stessi anni in cui veniva affrescato il Cappellone:

"Ebbe un ingenio di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose ed operatrice col continuo girar de' cieli, che egli con lo stile e con la penna e col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo essere vero che era dipinto. e per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni che più a dilettar gli occhi degl'ignoranti che a compiacere allo intelletto de' savi dipigneano, era stata sepulta, meritatamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote".(Quinta novella della Sesta giornata del Decamerone)

Giotto ed il Boccaccio non vivevano certo in una età grossa et inetta, come riteneva più di duecento anni dopo il superbo Vasari. Si è detto che Giotto e Boccaccio sono l'espressione di classi in ascesa, le classi mercantili e popolari, quelle delle Arti, che stavano prendendo il posto delle famiglie magnatizie. Il vigore di Giotto e dei giotteschi (di cui fa parte il Maestro di Tolentino) è sostanza di nuova civiltà, più che accidente di nuova rappresentazione.
I critici sono concordi nel ritenere che il Maestro di Tolentino appartenesse alla scuola giottesca riminese, in pieno fulgore negli anni degli affreschi da Tolentino e che era sorta al tempo in cui Giotto aveva eseguito a Rimini opere nella chiesa di San Francesco, che a noi oggi è nota come Tempio Malatestiano.
Di queste opere ci è rimasto solo il magnifico Crocifisso ancora conservato nel Tempio, il resto è stato distrutto al tempo dei grandi lavori che Sigismondo Pandolfo Malatesta fece eseguire attorno al 1450. Il Vasari, più di un secolo dopo, se la prende ancora con queste distruzioni .
I maestri riminesi irradiano la loro influenza, oltre che a Tolentino, anche a Pomposa, ed in genere nelle località della costa adriatica romagnola e marchigiana. La scuola riminese scompare quasi del tutto attorno al 1350, probabilmente per la scomparsa degli artisti più insigni nella peste nera del 1348. Prevarrà allora la scuola bolognese, aperta anche alle influenze del gotico francese.

L'ariete del gregge, dietro di lui una pecora

Il Maestro di Tolentino, secondo gran parte dei critici, è da identificare in Pietro da Rimini, che è il più noto dei maestri riminesi, e gli affreschi di Tolentino sono la sua opera più importante che ci sia pervenuta. Conosce bene l'arte di Giotto, da cui deriva l'espressività potente, la solidità corporea delle figure e dei panneggi. E' meno interessato di Giotto ad una organizzazione razionale degli spazi, sia quelli dei singoli riquadri sia quelli che hanno una funzione di raccordo, di telaio prospettico ante litteram.
L'impressione è quella di una narrazione paratattica, in cui l'emozione e la vivacità dei singoli episodi costituiscono i punti focali, esaltati da un cromatismo che richiama gli antichi mosaici di Ravenna, ai riminesi ben noti. Renato Roli scrive, un po' riduttivamente, di bellissimi frammenti soltanto accostati, ma quella del Maestro di Tolentino non è una reazione passatista alla pittura di Giotto: si guardi ad esempio la rappresentazione delle mani, grandi e potenti, ma non grossolane, con una eleganza da artiglio, e la teatralità originale di tanti riquadri.
Le nozze di Cana, con i commensali disposti su tre tavoli, la sposa e lo sposo con l'aureola, gli inservienti alle prese con le anfore, il personaggio seduto, quasi accosciato, che beve in punta di labbra, o l'annuncio ai pastori ed il bagno al bambino nel riquadro della Natività.
Nella fascia inferiore, quella dedicata alla vita di San Nicola, si vede l'intervento esecutivo degli aiutanti del Maestro, e ci sono vaste perdite di affresco, sino a portare a vista il sottostante muro di mattoni. Ma la vestizione del santo, il miracolo della donna resuscitata e la morte del santo - col Cristo che ne tiene in braccio l'anima e col concerto angelico - mostrano con chiarezza che il Maestro di Tolentino (fosse o non fosse Pietro da Rimini) seguiva tutto il lavoro della bottega, che si svolgeva sulla base di suoi disegni e cartoni.
Richiese anni, l'impresa così vasta e così ben curata, così rispettosa del programma stabilito e così vigorosa e fresca, condotta con tranquilla costanza dal maestro e dalla sua bottega.
Gli Agostiniani onoravano gli impegni presi e la bottega venuta da Rimini era soddisfatta: perché firmare gli affreschi o compilare documenti? C'erano altre priorità: accogliere i pellegrini, assicurare il necessario flusso di denaro, documentare i miracoli del santo, ormai noto e venerato al di là dei confini locali. Proprio per questo, al di là delle auspicabili ricerche negli archivi, possiamo benissimo continuare a chiamarlo il Maestro di Tolentino, chiunque sia stato nella sua vita reale.

Anche il bue e l'asinello guardano la Natività

venerdì 21 settembre 2007

L'Allegoria dell'Amore e del Tempo

Solimano


Il quadro più celebre di Agnolo Bronzino è "L'Allegoria dell'Amore e del Tempo", attualmente esposto alla National Gallery di Londra. Fu eseguito attorno al 1546, ed immediatamente mandato da Cosimo, duca di Firenze, a Francesco, re di Francia. E' certamente una allegoria, il titolo che ho riportato è quello più diffuso.
Così ne narra il Vasari: "Fece un quadro di singolare bellezza, che fu mandato in Francia al re Francesco, dentro il quale era una Venere ignuda con Cupido che la baciava, ed il Piacere da un lato e il Giuoco con altri Amori, e dall'altro la Fraude, la Gelosia et altre passioni d'amore". C'è qualche inesattezza, ma è comprensibile, il Vasari scriveva a memoria, il quadro era già in Francia da diverso tempo.
Se si dovesse scegliere l'emblema del manierismo maturo non c'è alcun dubbio, sarebbe questo quadro, considerato da molti un'opera di sensualità affascinante, ed il re di Francia lo gradì soprattutto per questo motivo, come ben sapeva quella volpe di Cosimo de' Medici.
Ma è proprio così? O, per meglio dire, è solo così? Nel particolare che inserisco si vede un putto bellissimo che va spargendo petali di rose: è il simbolo del Piacere, su questo sono tutti d'accordo, fin dal Vasari, ma chi è la fanciulla assai bella – di una bellezza diversa - il cui volto si vede a fianco del putto?
Il grande Erwin Panofsky ha dedicato alcune delle sue pagine più belle a quest'opera. Racconto quale è la sua interpretazione, oggi universalmente condivisa.


La fanciulla il cui bel volto sbuca dietro il putto, è piuttosto strana, se si cerca di guardarne il corpo, che in parte si nasconde sempre dietro il putto, e non è un caso. Perché la bella veste verde che indossa è in parte sollevata, ed appare un corpo squamoso, da pesce o da rettile. Più in basso, compariranno delle zampe con artigli ed anche una lunga coda. In una mano tiene un favo di miele, nell'altra cerca di nascondere un piccolo animale venefico. Non solo, a ben guardare le due mani sono scambiate: la destra è una sinistra, e la sinistra una destra.
Qualche critico, fermandosi alla pelle squamosa, ha ritenuto che fosse una Arpia, ma sono le mani, a svelare l'identità: la mano cattiva che offre il dono, la mano buona che nasconde il veleno: una duplicità vertiginosa.
E' la Frode (anche l'Inganno o l'Ipocrisia, secondo gli iconologi del '500), la cui caratteristica fondamentale è proprio la duplicità: per questo il viso è bellissimo ed il corpo orribile, per questo le mani sono scambiate, per questo non sta in primo piano, ma si nasconde dietro al putto, che è il simbolo del Piacere e del Gioco.
Proprio negli anni in cui opera il Bronzino si diffonde il gusto dei labirinti: grafici, scolpiti, realizzati nei giardini, quasi a significare la perdita di senso, la difficoltà di trovare una risposta univoca: la Frode è una moderna Sfinge, più insidiosa di quella che incontrò Edipo.


Se si esamina il particolare in basso a destra del quadro del Bronzino, si scoprono altri aspetti di cui alcuni inattesi. Non lo è il pomo nella mano (splendida!) di Venere, un dono che la dea intende offrire ad Amore o Cupido (si badi, è suo figlio, in quasi tutti i miti, e quindi c'è pure il coté incestuoso); tiene il pomo in modo che Cupido lo veda - però con l'altra mano tiene una freccia, che Cupido non può vedere, ma di ciò poi. Si intravedono anche parte delle gambe della dea, che è di una bellezza non so dire se divina o diabolica, ed il Bronzino a questo voleva portarci, ad una ammirazione tanto forte quanto turbata.

Si vede che il putto ha una cavigliera ornata con campanelli, un motivo dell'antichità ellenistica che rimanda al Piacere ed al Gioco. Si intravedono anche le zampe con gli artigli della bella fanciulla, la Frode, e la sua lunga coda, simile, diremmo noi, a quella di un enorme serpente a sonagli, che presumibilmente il Bronzino non conosceva (ma che strano, sonagli-campanelli!).
Ma soprattutto si vedono due maschere, una giovane donna ed un uomo anziano che ha l'aria trista (triste+cattiva). Le maschere, dice Erwin Panofsky, da sempre simboleggiano “la mondanità, l'insincerità e la falsità”. Un raccordo con la Frode (la fanciulla), ma anche con il Piacere ed il Gioco (il putto).
Tutto continua ad essere chiaro ed ambiguo, duplice.


Nel particolare qui sotto del quadro del Bronzino, si vedono in parte i corpi bellissimi dei due amanti, Venere e Cupido, e continuano a comparire dei simboli, dei sublimi feticci. Ambiguamente, il voyerismo si nasconde dietro il significato morale e viceversa.
Proprio nell'angolo in basso si vede una colomba, ma se si guarda bene, si vede anche spuntare il becco e la testa di una altra colomba. “Tubare come colombi” si dice ancor oggi, ed Erwin Panofsky scrive che era un simbolo usuale di “tenera sollecitudine”, a cui è da aggiungere che le coppie di colombi sono note per la monogamia. Il contesto non sembra quello, considerando il cuscino evidentemente morbidissimo sotto le ginocchia di Cupido, oggetto piuttosto raro allora. Ancora oggi parliamo dei cuscini in “piumino d'oca” proprio per intendere che la morbidezza è il primo requisito del cuscino, che è un simbolo di lascivia e di mollezza. “I Racconti del Cuscino” è il titolo di un film pregevole ed originale di Peter Greenaway, l'autore de “I misteri dei Giardini di Compton House”. Il tema ricorrente di Greenaway è una acuta indagine sull'erotismo, un po' quello che fa il Bronzino qui. Dietro Cupido, si intravedono le foglie di un mirto, simbolo classico dell'amore. Ma il corpo di Cupido, è maschile o femminile? Ci tornerò alla fine.


In alto c'è un vecchio assai vigoroso, attento e lucidamente iracondo, la testa pelata ed una strana barba assai folta, dove c'è. I baffi spioventi gli coprono le labbra. Ancora più in alto si vede un'ala biancastra e, vicino alla testa del vecchio, si intravede parte di una clessidra. Corrisponde con la colomba nell'angolo opposto, quella di cui si vede solo il becco e la testa - il Bronzino era assai lucido nell'organizzare, nel pesare la rappresentazione, ed in questo caso si tratta musicalmente di due note in minore, ma indispensabili.
Questo vecchio è il simbolo del tempo, lo comprendono tutti, ma è bene porsi due domande, una particolare, ed una generale. Che cosa sta facendo il tempo, anzi il Tempo? Sta tirando in alto un drappo, una specie di grande tenda, sta svelando il quadro, con tutti i suoi significati e la loro ambiguità che, per il fatto stesso che ce ne accorgiamo, non c'è più, perché “Veritas filia Temporis”.
Perché il Tempo è vecchio? Una domanda ovvia, ma solo in apparenza. Parrà strano, ma nella antichità classica il Tempo non era rappresentato come un vecchio, non c'era questa attenzione all'età del Tempo, anzi, spesso era rappresentato come un giovane con le ali ai piedi: Kairòs, l'Opportunità, che passa veloce e la devi cogliere subito, difatti aveva un gran ciuffo davanti e la nuca rasata.
Il Tempo è rappresentato come un vecchio per l'equivoco tardo-antico fra due parole greche che hanno significato diverso: Chronos, il tempo e Kronos, il padre di Zeus, vecchio e cattivissimo, un mangiabambini, alla lettera. Lascio a voi la riflessione su quanto questa identificazione negativa del Tempo abbia pesato sulla visione di vita di tutto l'Occidente. Per gli antichi Greci, Chronos era una cosa e Kronos tutta un'altra cosa. Kronos, il nostro Saturno, si è mangiato pure Chronos... ed è un bel guaio.


Sono rappresentate due donne, nella parte del dipinto in alto a sinistra. La simbologia di una delle due, la donna che piange ed urla strappandosi i capelli, è stata sempre chiara, dal Vasari ad oggi, anzi ben prima del Vasari e del Bronzino: è il simbolo della Gelosia disperata, altro inconveniente dell'amore, forse quello che più fa soffrire.
Riguardo la donna più in alto ci sono state molte discussioni; Erwin Panofsky credette di essere arrivato nel giusto definendola come Verità che aiuta il Tempo ad alzare il velo: Veritas filia Temporis, appunto. Quindi ritenne che il titolo più appropriato del quadro era: "La lussuria smascherata". Ma ebbe la correttezza di cambiare idea quando osservò che nel quadro c'è una contrapposizione fra questa donna ed il Tempo: si scambiano sguardi irosi e sembra che la donna cerchi più di continuare a coprire col drappo piuttosto che alzarlo. Oggi l'interpretazione più diffusa ritiene che questa donna rappresenti la Notte, colei che cela gli amanti ed in cui sembra che il tempo si fermi.
Al centro del quadro Cupido e Venere si baciano e si carezzano lascivamente, ma le forme di Cupido hanno ben poco di maschile, sembra un androgino. Qui c'è tutta la cultura neoplatonica di Firenze che tendeva ad una rappresentazione molto simile dei corpi maschili e femminili, lo si vede benissimo dai disegni di Leonardo, Michelangelo e Raffaello. L'aspetto più sorprendente è la gestualità dei due amanti: Venere ha in mano una freccia, Cupido tiene una mano sui capelli di Venere, sino ad arrivare al diadema. Non possono essere gesti vacui, e l'interpretazione è singolare: entrambi stanno perseguendo la stessa finalità, che è quella di sottrarre qualcosa senza che l'altro se ne accorga. Venere disarma Cupido privandolo della freccia, e Cupido disarma Venere privandola del suo diadema. Entrambi operano in modo nascosto, difatti i loro gesti non possono essere reciprocamente visti. Trovo convincente questa interpretazione, perché dopo che la si è sentita la prima volta non si può fare a meno di vedere la specularità dei due gesti, che sono fra di loro in corrispondenza fraudolenta.


Rivediamolo tutto intero, il quadro, dopo gli spezzettamenti faticosi della spiegazione.
Un altro titolo, forse vicino alle intenzioni dell'artista, è “L'Allegoria del Trionfo di Venere”. Il quadro è stato eseguito attorno al 1546 e segna la fine del periodo dei manieristi eroici e furiosi : il Parmigianino, il Rosso fiorentino, il Pontormo, i pittori della crisi politica italiana. Due poteri politici assoluti, il Vaticano e la Spagna, hanno vinto, e “la lucida intenzionalità con cui il Bronzino dà forma incorrotta alla materia pittorica, fissando le immagini in una statica e aulica preziosità, si pone come superamento delle inquietudini della precedente generazione manieristica”. E' “un emblematico riflesso della volontà assolutistica della politica”. Nel tempo succederà altre volte, ancora con grandi artisti: Guido Reni, dopo la tempesta sublime e terrestre del Caravaggio, e Jean Dominique Ingres, dopo la Rivoluzione francese, in piena Restaurazione.
Ma se seguiamo Erwin Panofsky, ci accorgiamo di quanta duplicità, ambiguità, insicurezza, ci sia dietro questo trionfo allegorico, ed il Bronzino ne era consapevole, solo che i tempi erano quelli. La scialuppa di salvataggio non è il trionfo, è la consapevolezza, ed il sorriso che ne scaturisce, non ironico né grottesco, è il sorriso di chi ha capito, e va bene così, perché chi se ne accorge già è fuori dal gioco fraudolento della ipocrisia fatta sistema, dei disvalori elevati a valori. Questo può essere il senso catartico del capolavoro del Bronzino.

6-26 settembre 2004, ma rivisto per l'occasione