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26 agosto 2012

IN DIFESA DEGLI HIPSTER - UNA REPLICA DALL'ITALIA

DI ANNINA

Ho trovato il precedente post di Lajules, “IN DIFESA DEGLI HIPSTER” parecchio stimolante, a cominciare dalla sensazione di ignoranza che mi ha instillato. “Di cosa sta parlando la mia amica?" – mi sono chiesta - "Hipster? Non c’entravano qualcosa con Jack Kerouac, esistono ancora? Ci sarà anche da noi una polemica diffusa e codificata nei loro confronti di cui non mi ero accorta?”.
Mi scuso in anticipo con lei e con altri lettori se ripeterò le sue riflessioni senza accorgermene ma, capite, ho dovuto fare il percorso da capo.

Innanzitutto, per diradare un po’ le tenebre ho consultato la salvifica pagina di Wikipedia. Dopo un’introduzione sugli hipster degli anni Quaranta, la cosa si fa interessante. Al paragrafo “Evoluzione del termine negli anni novanta e duemila” la pagina avverte: “Il paragrafo è tremendamente non neutrale e necessita di un esteso lavoro di riscrittura, in primis eliminando totalmente il senso di ironia che appare fin troppo palese”. A quel punto, mi appare chiaro che la polemica sugli hipster esiste anche in Italia e precisamente in questi termini: “spesso non sono così anti-mainstream come vogliono far credere, finendo per omologarsi”. Chissà perché, penso, questa riflessione mi suona familiare.
Mi resta comunque il dubbio su chi diamine siano, se per caso non abitino al piano di sotto senza che io me ne sia accorta o siedano sui banchi di scuola in seconda fila, mentre interrogo. Continuo a leggere la partigiana descrizione di Wiki: “Il termine designa giovani, di classe medio-alta, istruiti e abitanti dei grandi centri urbani, che si interessano alla cultura alternativa […]. Amano appropriarsi dei codici delle generazioni precedenti, ammantandosi di un caratteristico stile rétro. Si servono in negozi di abiti usati, mangiano preferibilmente cibo biologico, meglio se coltivato localmente, sono vegetariani o vegani, preferiscono bere birra locale (o prodotta in proprio) e amano girare in bicicletta. Spesso lavorano nel mondo dell'arte, della musica e della moda…”
Distolgo gli occhi dallo schermo, sgomenta… Se è così, allora sono hipster la maggior parte dei miei amici, dei ragazzi che ammiro a scuola, della gente che ieri sera beveva con me la birra alla sagra di San Giacomo a Venezia! Orrore: forse sono un hipster anch’io, e i “norms” mi deridono da anni! Classe medio-alta a parte, si intende.

Un attimo prima che mi consegni al ridicolo, scrivendo fischi per fiaschi, Annucci mi viene in soccorso. Tecnologicamente limitata da un esilio in Sardegna, ella mi spiega pazientemente attraverso facebook che a Milano ne è pieno. Sono “figli di papà”, riccastri con gli occhiali spessi che girano in bici con il Mac sotto il braccio, tanto se gli cade i genitori glielo ricomprano, ultratrentenni dal look studiato e l’aria scostante, buoni solo a sentenziare sui gusti degli altri dall’alto dei loro costosissimi studi di designer. Insomma, una bella differenza con i miei amici che girano con il PC in bicicletta perché l’auto non se la possono permettere e alle soglie dei quaranta vivono in cinque in un appartamento. Poco a che vedere, forse, anche con i ventenni americani, accostabili piuttosto agli hippy delle generazioni precedenti, altrettanto benestanti, altrettanto inquieti nei confronti della società e, per molti, altrettanto irritanti ed oggetto di ironia. Scusabili in ogni caso, come osserva la Jules, dalla loro stessa giovinezza.

Secondo Annucci, se ho ben capito, i sedicenti liberi pensatori di sua conoscenza avrebbero invece due limiti che l’età della ragione non può scusare: la ricchezza ed il conformismo. D’accordo, forse sono degli insopportabili “nuovi fighetti”, ma sono dubbiosa su un giudizio così severo. Se fosse solo il conformismo a guidarli, inteso come l’accettazione fideistica di canoni estetici, morali e culturali in contrapposizione con quelli di altri gruppi sociali, sarebbe l’esatto contrario del libero pensiero. Io però un po’ di credito glielo darei. Dopo tutto, potrebbero spendere il denaro in auto di lusso e vestiti firmati, anziché nell’acquisto di cibi biologici e abiti usati. Inoltre, non è un merito utilizzare la libertà data dalla mancanza di pensieri sul modo di pagare le bollette, per compiere la scelta di vita di diventare vegani o di non usare l’auto in città? Si tratta di decisioni che richiedono un’attenzione, una fatica ed una consapevolezza che vanno bel oltre l’accettazione di un trend. Se un analogo sforzo di consapevolezza li portasse a concludere che possono condividere parecchi dei loro gusti ed idee con me, benché io non mi possa permettere il loro look costosissimo e i loro occhiali dalla montatura pesante (anche perché mi starebbe malissimo), sarebbe auspicabile.

Una vignetta tratta dal sito www.hipsterjokes.com, un nome un programma.

26 ottobre 2008

I BISCOTTI DELL'AMORE

Di Annina
L’aggeggio che vedete nella foto è uno “stampatore di toast”, un romantico regalino che mi ha portato mio marito dal suo ultimo viaggio in Inghilterra, assecondando la mia passione per le colazioni a base di pane tostato e marmellata, adottate proprio in seguito ad alcune vacanze nel Regno Unito. Chi conosce l’Inghilterra, probabilmente il Paese più tradizionalista del mondo, sa che i toast la mattina sono irrinunciabili, che le marmellate devono essere rigorosamente di arance e fragole, e che esiste un apposito porta-toast di metallo dove si ripongono le fette calde, per evitare che, poggiate su un piattino, si bagnino con il vapore della loro condensa (cosa che mi succede regolarmente ogni mattina, perché curiosamente questo utensile non è reperibile in Italia). L’immissione sul mercato di disparati strumenti dedicati a questo alimento è dunque giustificata dalla sua importanza per l’alimentazione quotidiana delle famiglie inglesi. Tuttavia, anche un’anglofila come me, al cospetto dello stampatore di toast, è stata percorsa da un sentimento di scetticismo, che si è rivelato pienamente giustificato dai miei primi tentativi di utilizzarlo. Non solo esso è uno dei più inutili attrezzi da cucina mai concepiti, ma nemmeno funziona, e la cosa è abbastanza ovvia. Il principio su cui si basa è simile a quello delle tecniche di incisione in cavo: l’immagine in rilievo viene impressa sulla fetta di toast con una leggera pressione; successivamente, il calore del tostapane abbrustolirà le parti in rilievo in maniera differenziata rispetto ai solchi, creando così il disegno. L’ovvio motivo per cui non può funzionare è che il pane è per definizione elastico, pertanto ogni volta che si imprime un solco sulla mollica, esso scompare immediatamente. Per non deludere mio marito, ho provato pressioni forti e pressioni deboli, ho regolato il calore del tostapane su tutte le posizioni e ho distrutto mezza confezione di Pan Bauletto; alla fine mi sono arresa, e lo stampatore è stato riposto in un angolo della credenza, inutile e dimenticato sino all’altro giorno. Trovandomi a corto di biscotti, ho deciso di farne un po’ in casa, pur essendo un’esordiente totale in materia, affidandomi all’infallibile ricettario di dolci (guarda caso, anch’esso made in UK) di cui già ho parlato nelle pagine di DeadChef e che ho soprannominato “Cakes for dummies”. I biscotti sono venuti benissimo, e il tocco finale è stato stampigliarli con il cuoricino dello stampatore da toast, per ottenere il risultato della foto sotto.
Il regalo di mio marito ha trovato un riscatto, e i dolcetti sono stati battezzati immediatamente “i biscotti dell’amore”: perché in tempi di marketing esasperato, nemmeno noi abbiamo saputo resistere.

10 ottobre 2008

BOMBONIERE DEI TEMPI NUOVI

Di Annina

Ecco un’idea che avrei voluto avere io. Quella che vedete nella foto è una delle bomboniere che i miei amici Angela e Paolo, novelli sposi dal 13 settembre scorso, hanno offerto agli ospiti per ricordare il loro matrimonio, per altro reso indimenticabile da una delle peggiori giornate di pioggia di quest’anno bisestile. Che le bomboniere a guisa di cigno di porcellana o di cuore trafitto in cristallo simil-Swarovski fossero in netto calo di popolarità mi era già chiaro da qualche matrimonio a questa parte, e sono sicura che anche voi, negli ultimi tempi, avete accumulato confetti abbinati a sobri pacchettini di stoffa o a bomboniere eque e solidali, anziché a vassoi in vetro con decorazioni in silver plated (per altro, uno dei materiali più orripilanti che l’uomo abbia mai fabbricato).
La cesta delle bomboniere di Angela e Paolo, come avrete capito, era invece ricolma di libri, scelti da loro e accompagnati uno per uno da una dedica. Se vi state immaginando una coppia di intellettuali circondati dai loro amici del Club del Bibliofilo, vi sbagliate: pensate piuttosto a due laureati in materie tecniche che hanno invitato allo sposalizio l’amico d’infanzia e la cugina che fa la commessa a Treviso; il che, secondo me, rende l’iniziativa ed il suo esito ancora più degni di nota. Purtroppo, non ho avuto modo di interpellare gli sposi stremati in merito ai criteri della scelta dei titoli, che, letti uno di seguito all’altro, facevano un effetto eterogeneo: il libretto rosso di Mao accanto ad “Orgoglio e Pregiudizio”, la “Storia delle ville venete” e l’antologia di Spoon River, un ricettario di dolci tra una tragedia di Shakespeare e un giallo di Lucarelli. Gli ospiti hanno dimostrato un tale entusiasmo che, dimentichi di ogni principio del bon-ton, hanno iniziato a pescare il loro pacchetto dalla cesta senza aspettare che la sposa glielo offrisse a fine serata. Del resto, una delle caratteristiche dei libri è di essere un bene di consumo soggetto a regole particolari: è noto, ad esempio, che i libri prestati non tornano indietro, e conosco persone che non ruberebbero una caramella da un vassoio, ma praticano senza alcun rimorso il furto sistematico (per altro reciproco) dei libri degli amici. Io non mi sono tirata indietro, e prima che fosse troppo tardi ho agguantato una copia de “L’isola del Tesoro” di Stevenson. Perché, come ha recentemente detto una mia collega durante un consiglio di classe, ovviamente riferendosi agli studenti: “non si può arrivare a trent’anni senza aver letto l’Isola del Tesoro”; ed io, pensando al mio segnalibro in quel momento a pagina 58, le ho annuito complice.

08 ottobre 2007

Regalo di compleanno


DI ANNINA
Sebbene LaJules sia una cuoca morta, il 5 ottobre ha regolarmente compiuto gli anni, ricevendo un regalo degno di una vera DeadChef: l’attrezzo per fare gli Spatzln, gli gnocchetti tirolesi di spinaci. Del resto, l’autrice del regalo è la fortunata proprietaria di molti tra i più inusuali utensili da cucina mai concepiti, tra i quali si ricorda l’incidi-castagne-affinchè-non-esplodano-durante-la-cottura manuale e il distributore di aperitivo alla spina, e le sue scelte in materia sono indiscutibili.
Alla Jules, appena tornata negli States, regalo perciò la ricetta degli Spatzln, tratta da “Una montagna di sapori” di A. Kompatscher e T. Schmalzl (Folio Editore), con un avvertimento. Ho provato le ricette dei canederli tratte da questo libro, e non funzionano. Inizialmente pensavo che fosse un boicottaggio studiato dagli autori per scoraggiare gli aspiranti cuochi e favorire la frequentazione di ristoranti dell’Alto Adige, ma poi ho capito: si tratta di una lezione molto semplice, e cioè che non esistono le giuste proporzioni di ingredienti per ottenere dei buoni canederli, se non quelle dettate dall’esperienza e dallo sguardo della cuoca. Forte di questa scoperta, ho fatto degli Knödel al formaggio buonissimi. Auguro comunque alla Jules che questa ricetta le riesca al primo tentativo.

“Ricetta per gli Spatzln di spinaci.
Ingredienti:

250 g di farina
250 g di spinaci in foglia (o surgelati)
Sale, pepe e noce moscata
4 uova

Pulite e lavate gli spinaci, lessateli in acqua salata per 2-3 minuti; raffreddateli brevemente nell’acqua fredda, strizzateli bene e frullateli al mixer con le uova. Setacciate la farina in una ciotola, unite gli spinaci e insaporite con sale, pepe e noce moscata. Mescolate il tutto con un cucchiaio da cucina (oppure con la frusta a spirale dell’impastatrice) fino ad ottenere una pastella densa che farete riposare per 15 minuti. In una pentola portate ad ebollizione l’acqua salata e fatevi scivolare una porzione di Spatzln alla volta, formandoli con l’apposito attrezzo (come vedi, cara Jules, il libro non contempla un sistema alternativo per la produzione degli gnocchi, come erroneamente avevamo supposto fosse possibile N.d.R.). Appena vengono a galla estraeteli con una schiumarola, passateli brevemente sotto l’acqua fredda e trasferiteli in una terrina. Mescolateli con un sugo alla panna e prosciutto o con prosciutto a listarelle e burro fuso.”

foto httpwww.hblakematen.atkochbuchersteskochen.php

03 giugno 2007

POLLO CHIMICO


DI ANNINA


Credo che l’ultimo dilemma di Annucci (“un anno a base di affettato di tacchino avrà prodotto danni irreversibili al mio organismo?”) meriti una breve riposta a parte. Quello che vedete nella foto è il vecchio Red, detto anche “il salame con le zampe”: assieme a sua sorella, miss Kalimba, detta “il cervello che cammina”(e a questo punto dovreste aver capito come si è distribuita l’intelligenza al momento della gestazione) arrivò a casa mia nel dicembre dell’anno scorso. Che sia stato il destino oppure lo stress del trasloco, sta di fatto che il vecchio Red iniziò sin da subito a manifestare grossi problemi al pancino: dopo qualche mese di tentativi di cura e di allarmi lanciati dalla mia veterinaria fresca di laurea tramite minacciose sigle che i proprietari di felini ben conoscono (FIP! FIV! etc etc.), scoprimmo finalmente il problema e, con esso, la soluzione: il nostro era affetto da allergia alla carne avicola, pertanto avrebbe dovuto essere nutrito per il resto della vita con crocchini al pesce e filettini di tonno. Il vecchio Red non manifestò particolare rammarico alla notizia, e noi scoprimmo un mondo nuovo ed in costante crescita: il mondo dei quadrupedi domestici colpiti da intolleranza alla carne da allevamento intensivo, o meglio, da intolleranza agli antibiotici ed ai farmaci che vengono utilizzati per crescere pollame ed affini. Ora, io mi sono fatta due conti: il vecchio Red stava violentemente male, ma noi umani non siamo così lontani da lui nella scala evolutiva da poterci ritenere immuni dalle porcherie accumulate in queste carni. Invito pertanto Annucci alla riflessione e tutti voi a chiedersi se non sia il caso di consorziarci in una bella fattoria biologica, che dia da vivere a noi ed alla nostra discendenza: nel caso, io mi offro volontaria per i prodotti dell’orto.

05 marzo 2007

FORZA PANINO!

Di Annina
Lajules mi ha fatto notare che un commento così lungo e, soprattutto, il suo protagonista, meritava un'altra posizione, così riprenderò qui lo spinoso argomento della pausa pranzo sul lavoro.

Per me, abituata da studentessa a rifornirmi nei bacareti di Venezia, ritrovarmi a mangiare nei bar che gravitano attorno alla stazione di Padova è stata un’esperienza sconfortante. Questi locali sono quanto di più triste si possa immaginare, ed il meglio che possono offrire è costituito da risotti e primi precotti, seguiti da panini composti da pane surgelato, affettati di dubbia qualità, verdure avvizzite, mozzarelle “di bufala” fatte pagare a peso d’oro. In mezzo a questa miseria gastronomica, è doveroso che io vi segnali un locale eccezionale, rispondente al criptico nome di Maximilien Bar. Nessuno sa chi sia il Maximilien in questione, perché il proprietario si chiama Giovanni ed è un anziano signore di Modica. Giovanni è un artigiano del panino imbottito, una sollecita nutrice dei nostri stomaci scontenti, scrupolosissimo nell’esercizio della sua professione: i panini vengono preparati su richiesta utilizzando pane fresco, affettati e formaggi di marca verificabile dalla sua vetrina frigo, verdure preparate con cura e qualche concessione agli ingredienti tradizionali delle sue terre, come le melanzane sott’olio ed il finocchietto selvatico; per i toast, che tutti gli altri esercenti preparano con orribile pane da tramezzino, Giovanni usa dell’ottimo pane in cassetta e ci mette sopra, come marchio di fabbrica, una fetta di formaggio che si abbrustolisce all’esterno mentre lo riscalda in forno. La vetrina del pane di Giovanni ha inoltre una caratteristica peculiare: credo sia fatta di vetro rimpicciolente, perché dopo aver scelto un panino di dimensioni che paiono normali, misteriosamente ci si ritrova a mangiarne uno grande il doppio, naturalmente per lo stesso prezzo, tra i più bassi in circolazione. Bisogna dire che il locale un difetto ce l’ha, anzi due: è piccolo, privo di posti a sedere, e occorre andarci se non si ha troppa fretta, perché il proprietario prepara i suoi magnifici panini con orientale lentezza. La cosa commovente è che questo bar potrebbe vivere tranquillamente al pari di tutti gli altri, imbrogliando, preparando il cibo con disprezzo della materia prima, caricando sui prezzi, perché il numero di disgraziati affamati ed intrappolati negli uffici dei dintorni è molto alto. Ma questo al signor Giovanni non interessa: non c’è nessuno a giudicarlo, solo la propria coscienza e l’amore di chi sa che non ha nessuno senso tradire il lavoro che si è scelto. Per questo gliela dovevo, una lode pubblica su Deadchef.
p.s. il panino della foto non è di Giovanni, ma del solito sito di giapponesi che conoscono la cucina italiana meglio di noi!

08 gennaio 2007

LA BEFANA VIEN DI NOTTE...




…e non si sa bene che cosa debba portare. La bizzarra vecchietta ha infatti l’abitudine di cambiare genere e abbondanza di doni a seconda delle zone visitate e delle famiglie ospitanti. Priva di una precisa identità, si ritrova spesso a fare la parente povera di Babbo Natale, la vecchia zia che regala la bambola trovatella delle bancarelle o il giochino rimasto ad impolverare tutto l’anno nelle vetrine di una tabaccheria. In pochissime famiglie tradizionaliste ha il suo momento di gloria, portando un dono solenne in coincidenza dell’arrivo dei re Magi con le loro offerte: oro, incenso e mirra, come a dire due regali su tre di utilità sconosciuta e il terzo decisamente inelegante. In altri paesi non la aspettano affatto, si limitano ad accoglierla con un bicchiere di vino brulè e con una falò che potrebbe pure suonarle sinistro, sostenendo che la Befana arriva non soltanto dopo Babbo Natale e il Bambin Gesù, ma persino dopo San Nicolò, e che tra i tre c’è già una bella lotta, e che insomma non ci si metta pure lei che è arrivata per ultima chissà da dove. Quando ero bambina, comunque, a casa mia la Befana portava sempre i dolci, il che mi sembrava un ruolo piuttosto soddisfacente, che le conferiva uno status preciso e non interscambiabile con quello di Babbo Natale e altri similari giocattolai. E che dolci c’erano! La sua calza era qualcosa di spettacolare, perché conteneva prodotti vietatissimi dalla mamma in altri periodi dell’anno, tra i quali le caramelle spugnose bianche e rosa e le sigarette di cioccolato costituivano certamente gli elementi più trasgressivi. Per anni però non si era più fatta vedere, soffrendo per la ribellione di adolescenti che trovavano amabile infastidirsi in occasione di tutte le feste gioiose e comandate, per studentesse che scambiavano la loro casa per un trattamento mezza pensione e per familiari che facevano le vacanze irrimediabilmente separati. Da un paio di stagioni, la Befana ha ritrovato la strada di casa Annina, presentandosi alla mia porta con una calza di iuta formato cornucopia; col tempo, però, il suo gusto si è fatto più raffinato, ha sostituito le caramelle colorate con il cioccolato extra-fondente e le sigarette con un sigaro cubano al doppio strato di cacao ed arancia. Ma non ha dimenticato fino in fondo di essere una eccentrica vecchietta. L’eccentricità, quest’anno, si chiama polenta dolce e formaggio dolce, e vi assicuro che la loro vista mi ha fatto il preciso effetto della celebre madeleine del vecchio Proust. Questi due dolci, accompagnati dall’inquietante carbone dolce, non mancavano mai nella mia calza d’infanzia, e avevano lo stesso ruolo dello zampone di fine anno: non piacevano a nessuno, ma erano una tradizione obbligatoria, benché non si sapesse bene come mangiarli, dato che in sostanza si tratta di blocchi di zucchero granulosi e durissimi, dall’aroma imprecisato. Per la verità, pensavo che si fossero estinti o che fossero stati vietati da severissime norme europee. Interrogata al proposito, la mia Befana afferma di non sapersi spiegare questa scelta, che lei è inesperta perché proviene da un paese in cui il 6 gennaio si mangia la pinza (dolce veneto fatto con le uvette e la farina di polenta, N.d.R.) cantando “el pan, el vin” attorno ad un fuoco, e che di una bambina coi codini che fumava sigarette di cioccolato proprio non si ricorda.

31 ottobre 2006

LA RICETTA DEL GIORNO: LA TORTA ALL'ACIDO CITRICO

DI ANNINA

Mettiamola così. La mia presenza in questo blog si giustifica in una sola maniera: se voi siete quelle che realizzano le ricette, io sono quella che aspetta con gratitudine di assaggiare i vostri piatti. In cucina mi manca la passione, sono troppo impaziente e irascibile verso le cose, e la sproporzione tra il tempo che si impiega per preparare una pietanza e quello necessario a mangiarla non manca mai di impressionarmi. Però trovo un piccolo riscatto preparando qualche torta, con la nobile motivazione di portarne metà a casa dei miei e vedere gli occhi di mio padre brillare di gioia e la sua voce professare tenerezza eterna per la sua adorata figlia; non che il risultato tra i fornelli lo meriti più di tanto, ma i dolci casalinghi sono la sua debolezza.
Fare impasti per torte è un mestiere da chimico, richiede precisione nell’alchimia degli ingredienti e non lascia molto spazio alle improvvisazioni. Conosco individui dotati che riescono a preparare torte inventandole di sana pianta, ma non sono certo tra questi. L’unico modo per essere sicura della loro riuscita è seguire alla lettera un ricettario. Non tutti i ricettari, però, sono ugualmente affidabili. Basandomi sulla mia pur scarsa esperienza in materia, li dividerei in due tipologie: quelli che contengono ricette realmente preparate dagli autori seguendo la procedura descritta, e quelli con ricette che invece sembrano non essere mai state collaudate. Tornando alle mie torte. Sino a ieri per farle mi ero basata su un libretto acquistato a poco prezzo, “Delizie al forno”, di una casa editrice inglese. Molte delle ricette proposte, dagli scones ai biscotti di avena ai pandolci, sono chiaramente pensate per i gusti anglosassoni, tuttavia hanno il pregio della chiarezza e di riuscire infallibilmente, per quanto principianti si possa essere nell’arte pasticciera. Però mi dispiaceva non poter cucinare la classica torta margherita o la crostata, magari in versione sfiziosa, sicché apprezzai molto il libro di torte di un’autrice italiana che la mia amica Valentina mi regalò a luglio per il compleanno. Arrivata la stagione in cui accendere il forno diventa gradevole, decido di scegliere una ricetta tra le più semplici del libro: la crostata alla crema di limone. Già l’impasto per la pasta frolla mi lascia perplessa, contenendo meno burro di quel che mi sembra il necessario. Ma è la crema di limone che suscita i maggiori dubbi: richiede il succo filtrato di quattro limoni per 100 g. di zucchero, e nessun addensante; al terzo agrume sono stanca di spremere, ma la ricetta così dice e io non mi sogno certo di metterci del mio: il risultato è una crema molto liquida, che l’autrice pretenderebbe decorassi con formine di pasta frolla. Io mi ribello a quest’ultima bizzarria ed inforno, in preda a foschi presentimenti, meditando di gettare il tutto ai piccioni come dessert al risotto di fave e cumino della Jules. Una volta tolta la crostata dal forno, invece, io e la mia metà ci facciamo coraggio e decidiamo di assaggiarla (lui, del resto, ha giurato di starmi vicino nella buona come nella cattiva sorte).
Il risultato è quello che mio marito definisce “un gusto adulto”. Non è malvagio, ma ogni volta che si deglutisce ci si chiede se il nostro esofago non stia riportando danni permanenti, e come eventualmente spiegheremo al pronto soccorso le ustioni di secondo grado alla faringe provocate dall’acido citrico.
Conclusione: sono troppo maldestra per permettermi un ricettario che richieda correzioni al volo. Gli darò un’altra possibilità: se fallisco la ciambella al caffè, lo classificherò come ricettario del secondo tipo e tornerò ad impastare scones alle ciliegie…

25 settembre 2006

MINT JELLY

DI ANNINA


Cari fioi, non ho mai desiderato tanto una macchina fotografica come venerdì sera, per immortalare quello che non credevo di vedere mai in vita: una torta di compleanno aliena! Ebbene sì: alla festa a sorpresa di un mio amico, la famiglia gli ha preparato un budino di gelatina verde alla menta, a forma di cupoletta, circondato da pezzettini d’ananas. La foto che vi allego, purtroppo, ne è solo un simulacro informe. Dovevate vedere come tremolava la candelina sopra il cupolone semovente! I suoi figli erano entusiasti, per cui avevo attribuito a loro la responsabilità di una simile scelta, ma il festeggiato mi ha rivelato che in realtà è sua madre, una spiccia signora milanese, a propinare da decenni questo dolce alla famiglia. In effetti, dopo aver levato urla di giubilo alla presentazione del dolce, i bambini si sono defilati, millantando odio secolare per la menta e misteriose allergie. Noi, invece, per non dispiacere ai padroni di casa, abbiamo assaggiato. Non si può dire che fosse cattiva, solo che l’effetto gustativo non era molto diverso da quello che si prova ingurgitando un dentifricio in gel (marca AZ, per capirsi). A parte il mio uomo, la cui alimentazione è tuttora oggetto di studio per gli scienziati e che ha caritatevolmente mangiato anche la mia porzione, nessuno è andato al di là del secondo cucchiaino. Quanto al gusto dell’ananas, che avrebbe dovuto costituire una sorta di risarcimento per i nostri palati, si è completamente alterato, come chiunque si lavi i denti può facilmente immaginare (e penso si tratti della maggioranza). Ma a che serve raccontarvi tutto questo, senza una foto? Non ci credereste mai, queste cose non possono succedere, non in Italia, almeno.