Un doveroso omaggio a RICK BUCKLER, batterista dei Jam, scomparso qualche giorno fa.
Una carriera da “loser”, partita con l’incredibile fiammata dei JAM, durata lo spazio di cinque anni, da “In the city” del 1977 a “The gift” del 1982 e finita sostanzialmente subito, con una caduta (che poteva probabilmente essere evitata) nell’oblìo e in avventure artistiche mai significative.
Non è mai stato un batterista particolarmente esuberante ma d’altronde nemmeno Weller e Foxton eccellevano nel loro strumento, comunque sempre funzionali al carattere delle canzoni.
Buckler è riuscito solo parzialmente ad adattarsi alla maggiore complessità ritmica che aveva acquisito nel corso degli anni la scrittura di Weller anche se ascoltando la discografia dei Jam è evidente la sua crescita, dai tempi essenziali dei primi due album alla raffinatezza richiesta in “Sound affects” e “The gift”.
Ma Weller non è più contento di come sta andando la band, soprattutto di come la sua svolta artistica verso soul e funk non trovi due musicisti all’altezza (ritiene Paul).
Non sono il miglior batterista del mondo, ma ho preso spunto da Ringo Starr. Lui si è reso conto che la star è la canzone, giusto? Non altro.
Non è qualcuno che cerca di essere il miglior batterista del mondo, o il miglior bassista del mondo, o il miglior chitarrista del mondo, e Paul non è certamente il miglior chitarrista del mondo, nonostante tutte le sue capacità di autore di canzoni.
Nessuno di noi era un musicista eccezionale sotto molti aspetti, ma penso che stessimo cercando di essere il più creativi possibile, in modo da lavorare bene insieme come band.
I Jam avevano fatto un passo avanti e si erano evoluti in ogni modo possibile, musicalmente e nella scrittura delle canzoni e abbiamo provato un sacco di cose diverse. Abbiamo portato dentro la sezione fiati. Eravamo probabilmente una delle band più flessibili al mondo all'epoca, per essere in grado di passare a diverse aree e stili. Io e Bruce come sezione ritmica, abbiamo contribuito molto al sound della band.
Purtroppo la storia finisce malamente, Weller se ne va per fondare gli Style Council, Bruce e Rick fanno causa a lui e al padre manager John Weller per diritti non pagati.
Penso che molto di ciò avesse a che fare con il modo in cui la band era gestita, perché c'erano molte domande sul perché John e Paul avevano tutti questi soldi, e io e Bruce non ne avevamo molti. C'era questa cosa da cittadini di prima e seconda classe che stava accadendo all'interno della nostra stessa band. Stavamo iniziando a farci delle domande.
La dichiarazione è suscettibile di contraddittorio, considerando che Weller è sempre stato l’esclusivo autore di tutti i successi e del 95% del repertorio dei Jam, conseguentemente economicamente ben più retribuito dei due compagni.
C’era uno slancio che si è accumulato durante l'evoluzione della band e il modo in cui abbiamo lavorato e così via, che una volta che si è rotto, non penso che si possa mai più ricucire insieme. Se la band dovesse mai riunirsi e fare qualcosa, cosa che non vedo possa accadere mai, sarebbe semplicemente tornare su vecchi terreni. Ed è un vero peccato che quella connessione, quel tipo di spinta, sia stata letteralmente abbandonata, il che è stato un vero peccato. È stato quasi un atto di vandalismo musicale dividere la band a quel tempo.
La carriera successiva allo scioglimento dei Jam è piuttosto oscura.
Sorprende, considerando che un musicista così conosciuto non abbia saputo trovare posto in contesti più prestigiosi.
Bruce Foxton cercò una (infelice) carriera solista ma poi si accasò per 15 anni con gli Stiff Little Fingers e poi nei Casbah Club di Simon Townshend, fratello di Pete.
L’esperienza con i TIME UK produce tra il 1983 e il 1985 tre singoli, non particolarmente interessanti, con un pop rock piuttosto anonimo.
Sciolta la band tornò a fianco di Bruce Foxton (e Jimmy Edwards) con gli SHARP con cui realizzò il 45 giri “Entertain me” / “So say Hurrah”, anche in questo caso scialbo e dimenticabile.
Compare saltuariamente in altri lavori, come “Fourth wall” album accreditato a lui, Brian Viner, Noel Jones, con gli Highliners, band tra rock e psychobilly (con cui andrà in tour nel 1990), produce “Tell 'Em We're Surfin” dei Family Cat per poi abbandonare la carriera musicale per una quindicina di anni.
Tornerà prima con i The Gift, cover band dei Jam a cui segue l’avventura con i From The Jam, di nuovo a fianco di Bruce Foxton, altra tribute band ai Jam (criticata aspramente da Weller) e un breve periodo . Lascia polemicamente il gruppo qualche anno dopo, volendo incominciare a comporre brani originali, contro il volere dei restanti componenti, risoluti a proseguire il loro status di tributo.
Svolge il lavoro da manager per oscuri artisti come Sarah Jane e Brompton Six, pubblica l’autobiografia “That's Entertainment: My Life in the Jam” e lo ritroviamo spesso in talk e incontri nelle serate mod.
“Quando Paul disse che avrebbe lasciato la band, io e Bruce sentivamo che c'era ancora molto da fare. Forse un altro paio d'anni o un altro paio di album. C'erano ancora cose che potevamo realizzare. Non so cosa provasse Paul quando lo fece. Penso che segretamente sappia di aver fatto un errore."
Le dichiarazioni di Rick Buckler sono tratte da queste interviste:
https://thestrangebrew.co.uk/interviews/rick-buckler-the-jam-1982/
https://writewyattuk.com/2018/02/15/getting-by-in-time-back-in-touch-with-rick-buckler/
giovedì, febbraio 20, 2025
mercoledì, febbraio 19, 2025
Hannah Rothschild - La baronessa
Fulminante e splendida biografia della prozia dell'autrice (scrittrice e redattrice per The Times, New York Times, Vogue, Bazaar e Vanity Fair), Pannonica Rothschild de Koenigswarter.
La formidabile vita di Nica, "la baronessa del jazz", rampolla della famiglia Rothschild, tra le più ricche e influenti della storia recente.
Ricchissima, madre di cinque figli, combatte durante la seconda guerra mondiale contro i nazisti a cui sfugge dal monumentale castello in cui vive in Francia, va al fronte in Nord Africa, guida aerei, ambulanze, decodifica codici, organizza rifornimenti alle truppe.
Nel 1948 abbandona tutto, famiglia inclusa e si trasferisce a New York dove scopre il mondo del jazz lasciando una vita agiata ma che l'avrebbe portata all'infelicità.
"Non si limitò ad ascoltare il jazz: lo visse. Si alzava nel cuore della notte, trascurando la luce del giorno e trattandola con assoluto disprezzo...vide nei musicisti l'incarnazione della vita e della libertà".
Ne diventa protagonista, aiutando alcuni esponenti di spicco della scena, da John Coltrane a Bud Powell, Art Blakey ma soprattutto Thelonious Monk di cui diventa sodale, amante, protettrice, a fianco del quale resterà fino alla fine, quando sarà distrutto da malattie e dai problemi di varie dipendenze.
Il suo nome, la sua disponibilità economica, il suo rango e prestigio saranno sempre a disposizione di chi aveva bisogno, in un'epoca in cui negli States una donna bianca che frequentava la comunità nera non era particolarmente gradita.
Archie Shepp:
"Era una donna in anticipo sui tempi. Prese posizione quando farlo non era affatto comodo. E' un modello, una delle prime femministe.
Non soltanto affermò il proprio diritto di essere sé stessa ma si considerò una persona che contribuiva al cambiamento sociale e quindi pensava che anche chi apparteneva alla sua classe poteva partecipare a questo cambiamento."
A lei sono dedicati più di venti brani, in particolare "Pannonica" di Thelonious Monk ma anche "Nica" di Sonny Clark, "Poor butterfly" di Sonny Rollinbs, "Theolonica" di Tony Flanagan.
Non ebbe vita facile, nonostante la fortuna economica su cui poteva sempre contare, osteggiata dalla società bianca, guardata con diffidenza dalla comunità nera.
Un libro consigliatissimo, stupendo e appassionante, che racconta anche con dovizia di dettagli la nascita della fortuna della famiglia Rothschild.
I jazz club della Cinquantaduesima Strada erano piccoli e avevano la medesima clientela notte dopo notte.
Nica si sedette ai tavolini con Kerouac, William Burroughs, Allen Ginsberg e i pittori espressionisti astratti Jackson Pollock, Willem de Kooning, Franz Kline e Frank Stella ad ascoltare Charlie Parker, Dizzy Gillespie, John Coltrane e Miles Davis.
Hannah Rothschild
La baronessa
Neri PozzaPagine 288
19 euro
Traduzione di Alessandro Zabini
La formidabile vita di Nica, "la baronessa del jazz", rampolla della famiglia Rothschild, tra le più ricche e influenti della storia recente.
Ricchissima, madre di cinque figli, combatte durante la seconda guerra mondiale contro i nazisti a cui sfugge dal monumentale castello in cui vive in Francia, va al fronte in Nord Africa, guida aerei, ambulanze, decodifica codici, organizza rifornimenti alle truppe.
Nel 1948 abbandona tutto, famiglia inclusa e si trasferisce a New York dove scopre il mondo del jazz lasciando una vita agiata ma che l'avrebbe portata all'infelicità.
"Non si limitò ad ascoltare il jazz: lo visse. Si alzava nel cuore della notte, trascurando la luce del giorno e trattandola con assoluto disprezzo...vide nei musicisti l'incarnazione della vita e della libertà".
Ne diventa protagonista, aiutando alcuni esponenti di spicco della scena, da John Coltrane a Bud Powell, Art Blakey ma soprattutto Thelonious Monk di cui diventa sodale, amante, protettrice, a fianco del quale resterà fino alla fine, quando sarà distrutto da malattie e dai problemi di varie dipendenze.
Il suo nome, la sua disponibilità economica, il suo rango e prestigio saranno sempre a disposizione di chi aveva bisogno, in un'epoca in cui negli States una donna bianca che frequentava la comunità nera non era particolarmente gradita.
Archie Shepp:
"Era una donna in anticipo sui tempi. Prese posizione quando farlo non era affatto comodo. E' un modello, una delle prime femministe.
Non soltanto affermò il proprio diritto di essere sé stessa ma si considerò una persona che contribuiva al cambiamento sociale e quindi pensava che anche chi apparteneva alla sua classe poteva partecipare a questo cambiamento."
A lei sono dedicati più di venti brani, in particolare "Pannonica" di Thelonious Monk ma anche "Nica" di Sonny Clark, "Poor butterfly" di Sonny Rollinbs, "Theolonica" di Tony Flanagan.
Non ebbe vita facile, nonostante la fortuna economica su cui poteva sempre contare, osteggiata dalla società bianca, guardata con diffidenza dalla comunità nera.
Un libro consigliatissimo, stupendo e appassionante, che racconta anche con dovizia di dettagli la nascita della fortuna della famiglia Rothschild.
I jazz club della Cinquantaduesima Strada erano piccoli e avevano la medesima clientela notte dopo notte.
Nica si sedette ai tavolini con Kerouac, William Burroughs, Allen Ginsberg e i pittori espressionisti astratti Jackson Pollock, Willem de Kooning, Franz Kline e Frank Stella ad ascoltare Charlie Parker, Dizzy Gillespie, John Coltrane e Miles Davis.
Hannah Rothschild
La baronessa
Neri PozzaPagine 288
19 euro
Traduzione di Alessandro Zabini
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Libri
martedì, febbraio 18, 2025
Ska e 2Tone Records
Riprendo l'articolo che ho scritto sabato scorso per l'inserto "Alias" de "Il Manifesto".
La storia dell’etichetta discografica 2Tone, fondata da Jerry Dammers, tastierista degli Specials nel 1979, è una delle più appassionanti e significative nell’ambito delle realtà autoprodotte e autogestite.
Attraverso minuziosi dettagli la vicenda è raccontata nel libro “Too Much Too Young” di Daniel Rachel, recentemente pubblicato da HellNation con la traduzione italiana di Flavio Frezza.
“Nell’esatto momento in cui si instaurava il nuovo governo conservatore, la 2 Tone veniva alla ribalta presentandosi come una sorta di cooperativa socialista. In un periodo caratterizzato da forti ambizioni monetarie, l’etichetta seppe promuovere il collettivismo e la solidarietà nei confronti dei propri simili, utilizzando questi valori come antidoto ai mali provocati dalla dottrina dominante dell’individualismo e della sola affermazione di sé stessi. Al centro di tutto ciò c’era un pensatore marxista, umanitario e fortemente antirazzista, Jerry Dammers.”
Gruppi come Specials, Selecter, Madness, Bodysnatchers rivitalizzarono lo ska e i ritmi giamaicani, filtrandoli attraverso la nuova energia e sensibilità punk e portando ai vertici delle classifiche istanze socio politiche, integrazione (in ogni band, eccetto i Madness, c’erano elementi bianchi e neri), caratteristica ancora rara a i tempi, soprattutto quando poi le stesse band finirono in televisione e sui giornali.
Si trattava di una situazione in tutto e per tutto inclusiva, e ciò costituiva di per sé una presa di posizione politica. Giovani bianchi e neri venivano messi nelle condizioni di sentirsi uguali. Una cosa straordinaria, mai vista prima.
Anche se per i giovani giamaicani lo ska era qualcosa che apparteneva ai propri genitori.
Si trattava della musica di un’altra era, di anni lontani, con poco appeal per i gusti moderni, che anche nel Regno Unito era passata completamente di moda. Per comprendere le origini del fenomeno bisogna tornare al primo Dopoguerra.
Nel 1947, le navi SS Ormonde e SS Almanzora, provenienti dalla Giamaica, attraccarono nei porti di Liverpool e Southampton, facendo sbarcare un piccolo numero di cittadini britannici d’oltremare sulle coste del Regno Unito. Un anno più tardi la HMT Windrush trasportò fino al porto di Tilbury quattrocentoventi passeggeri giamaicani, molti dei quali avevano combattuto con gli alleati, che erano stati attirati dalla promessa di una vita prospera nella madrepatria.
Nel 1962, il numero di indo-occidentali giunti in Gran Bretagna ammontava a oltre 300.000 unità, e metà di loro erano giamaicani. L’impatto fu, per la maggior parte di loro, molto violento.
A partire dal cambiamento logistico.
Ricorda il toaster/cantante degli Specials, Neville Staple, che rimase a bocca aperta vedendo, appena arrivato, che le strade e le città erano illuminate anche di notte, abituato a villaggi in cui l’elettricità non era ancora arrivata o rigidamente razionata.
Il clima piovoso e freddo era l’antitesi di quello che avevano lasciato ma l’aspetto più devastante fu constatare che venivano considerati cittadini (formalmente ancora britannici, almeno fino all’indipendenza della Giamaica, nel 1962) di serie B, emarginati nelle periferie in case spesso fatiscenti e poco ben voluti dalla popolazione locale.
Lo stupore proseguì nel riscontrare che anche i bianchi facevano i lavori più duri e “umili” (contrariamente alla situazione nelle colonie caraibiche e asiatiche) e constatare di conseguenza che la loro presenza avrebbe costituito una concorrenza diretta agli autoctoni.
I progressivi ricongiungimenti famigliari portarono da Oltre Oceano anche i figli piccoli e altri ne nacquero durante la permanenza.
Gli adulti affrontavano problematiche come disoccupazione e impieghi a bassa retribuzione che facevano allontanare l’idea di un futuro ritorno nelle terre natìe.
I loro figli stringevano rapporti di amicizia a scuola, diventavano parte integrante della società inglese e vedevano le West Indies come luoghi esotici e lontani.
I ragazzi bianchi entrarono in contatto con generi come lo ska e il calypso, i neri scoprivano Beatles, Who, Rolling Stones.
Pauline Black, voce dei Selecter:
“Si stava verificando una sorta di ibridazione. Molti ragazzi neri, figli di immigrati, ascoltavano il pop bianco. Questi intuirono che esisteva la possibilità di far evolvere il dialogo già in corso tra musica bianca e musica nera”.
Negli anni Sessanta lo ska entrò nelle classifiche, veniva ballato nei club, molti artisti ne furono influenzati.
Perfino i Beatles lo citarono nell'assolo di “I Call Your Name”, già nel 1964 (il brano è di John Lennon, ai tempi grande appassionato del genere), mentre con “Ob-La-Di Ob-La-Da” del 1968, di Paul, fecero un vero e proprio brano ska.
Allo scadere del decennio, psichedelia, hard rock e prog e l’arrivo di soul e funk fecero cadere nel dimenticatoio il genere, che pur era stato la colonna sonora durante la cerimonia per il passaggio da colonia all’indipendenza della Giamaica nel 1962.
Ci volle il punk a riportare in auge queste sonorità.
Partendo dall’ibridazione con il reggae che band come Clash, Stiff Little Fingers, Police, Ruts, Members inserirono nel loro sound e che avvicinò sempre di più bianchi e neri nel contrasto al rinascente neo fascismo in Inghilterra, guidato dal National Front che reclutava sempre più giovani, in un periodo sociale oscuro e dal futuro incerto, in cui il governo di Tatcher si scagliava contro la classe lavoratrice, i poveri, le frange sociali disagiate e faceva forza sulla discriminazione razziale per dividere le masse.
Sotto le bandiere del Rock Against Racism si unirono gruppi punk e new wave con neo nate band reggae (dagli Aswad agli Steel Pulse).
Gruppi come gli Specials si accorsero che il reggae era troppo lento e rilassato per potere essere accostato a brani punk.
“Pensavamo che proporre un tipo di musica integrata e britannica fosse più salutare che vedere dei bianchi che suonavano il rock e dei neri dediti ai propri generi musicali: lo ska rappresentava l’integrazione tra queste due tendenze”. (Jerry Dammers).
Convinto marxista, Dammers decise di creare una struttura che si autoproducesse, in cui ogni componente delle band decidesse comunitariamente, senza imposizioni dall’alto di una casa discografica, costruendo un movimento orbitante intorno all’etichetta, incentrato su ideali di eguaglianza ed equità.
Dammers aveva in mente un equivalente britannico della Motown, caratterizzato da una musica ben identificabile che poi, nel tempo, si sarebbe gradualmente evoluta.
“Non c’erano contratti formalizzati. Gli accordi venivano siglati da una stretta di mano, più che una casa discografica, era una presa per il culo delle stesse”.
Ci provò, quasi contemporaneamente, ma con scarso successo, anche Paul Weller, con la sua Respond Records a costruire una realtà simile.
I musicisti provenivano spesso da situazioni di grande disagio, con lavori precari, alloggiati in monolocali al limite della vivibilità, senza un soldo in tasca.
La musica e l’idea della 2Tone diede loro speranze, energia e alla fine il meritato successo. Anche i testi erano peculiari e affini all’aspetto politico dell’operazione.
Si parlava della quotidianità più dura, di disoccupazione, violenza nelle strade, razzismo, abusi sessuali, gravidanze adolescenziali, arroganza di polizia e potere.
Il tutto cantato su ritmi ballabili, melodie divertenti, soprattutto quando dal vivo si scatenava un’energia che colloca le band come una prosecuzione del punk, sia nell’attitudine che nell’atteggiamento antisistema, contro le autorità e l’autoritarismo.
L'etichetta ebbe un enorme successo, vendette milioni di dischi, sostenne l'antirazzismo, combatté sessismo e incoraggiò persone di idee differenti a sposare il multiculturalismo.
Diede un concreto esempio di unione tra razze e culture, spesso ancora considerate conflittuali.
Il successo e la popolarità dei gruppi usciti dalla 2Tone (purtroppo finita malamente qualche anno dopo, tra scioglimenti, litigi, debiti), riportò in auge molti protagonisti della scena originale giamaicana.
Personaggi come Laurel Aitken, Desmond Dekker, Skatalites, tornarono in tour, trovando in Europa e Stati Uniti platee colme di nuovi fan.
Il figlio di John Mayall, Gaz Mayall, oltre a divertirsi con la ska band dei Trojans, incominciò a passare parecchie volte oscuri brani giamaicani nelle sue serate londinesi da DJ nel suo Gaz' Rockin Blues Club, “inventando” l'improbabile “celtic ska”, combinazione di ritmi in levare e cornamuse.
Il nuovo ska si espanse in America con band come Toasters, Untouchables (meno rigidi e più aperti ad altre sonorità), Bim Skala Bim, e in Europa, arrivando anche in Italia.
Dopo alcuni goffi tentativi puramente commerciali di Alberto Camerini, Donatella Rettore, Edoardo Bennato, furono band come Statuto e Casino Royale, in particolare, a proporne una versione fedele allo stile originale, mettendo i semi per una nuova generazione di amanti del ritmo in levare, dai Persiana Jones, agli Strike, Arpioni e Vallanzaska, tra i tanti.
Questi ultimi si sposteranno anche verso lidi affini, come swing, jive e pop, costruendo una carriera di buon successo, anche in virtù di un nome quanto mai suggestivo e accattivante.
Gli Statuto hanno cambiato spesso pelle artistica, rimanendo sempre ancorati però all'universo mod ma conservando in ogni concerto ampio spazio alle origini, a cui frequentemente tornano, anche discograficamente.
Diverso il discorso dei Casino Royale che dopo i primi due album hanno virato, con “Dainamaita”, album del 1993, verso un sound che ha incominciato ad assorbire mille influenze, dall'hip hop al funk, all'elettronica, pur se, occasionalmente, il gusto del tempo in levare è rimasto inevitabile.
Grazie all'esempio della 2Tone lo ska si sparse in tutto il mondo, rivitalizzandolo e portandolo a ibridarsi con una musica e un ambito solo apparentemente sorprendente, il punk. In realtà era già entrato in qualche brano del genere ma trova la inaspettata sublimazione con l'arrivo della cosiddetta “Third Wave Ska”, sviluppatasi soprattutto in America negli anni Novanta. Band che introducono elementi della musica giamaicana in repertori prevalentemente punk rock e hardcore.
Non alternandoli, come fecero Clash e Ruts, ad esempio, ma mischiandoli con una percentuale di punk maggioritaria rispetto allo ska, di cui si mantiene soprattutto il ritmo in levare, velocizzandolo ancora di più rispetto ai gruppi inglesi a cavallo dei Settanta e Ottanta.
A partire dai Rancid (vedi “Time Bomb” da “And Out Come The Wolves” del 1995), passando ai Sublime, che fecero largo uso di ritmi in levare. Ma probabilmente i re del “genere” furono i Bostoniani Mighty Mighty Bosstones con ritmi velocissimi, chitarre distorte e sezione fiati a macinare riff soul. Anche i No Doubt di Gwen Stefani hanno flirtato, in chiave più pop, con lo ska, in varie canzoni.
E ancora Operation Ivy sorta di prime movers del genere, Goldfinger, Voodoo Glow Skulls, gli spagnoli Ska-P, fino ai più recenti californiani The Interrupters, piombati nelle classifiche americane nel 2018 con “She's Kerosene” e i Bad Operation da New Orleans, con testi politicizzati.
Anche in Italia questa contaminazione trova estimatori e seguaci, in particolare nei Punkreas, Shandon, Matrioska e nella prima incarnazione dei liguri Meganoidi che con il brano che porta il loro nome fanno esplodere l'album d'esordio “Into the darkness, into the moda” del 2000.
Anche i romani Banda Bassotti non esitano a lavorare di ska nel loro repertorio aspro e rude.
Meno compromessi con il punk i torinesi Fratelli Di Soledad, indirizzati verso contaminazioni che li avvicinano di più alla patchanka alla Mano Negra, a cui guardano anche i romani Radici nel Cemento, più reggae oriented.
Un'ulteriore contaminazione, non frequentissima, è quella del cosiddetto ska jazz in cui la mistura dei due ambiti dà vita a un sound prevalentemente basato sull'uso dei fiati e che contempla anche l'improvvisazione dei solisti.
Il nome più conosciuto è quello degli americani New York Ska-Jazz Ensemble, nati nel 1994 e tutt'ora in attività con una decina di album nel carniere. In Italia i bergamaschi Orobians, in pista dal 1997, con una mezza dozzina di album ne hanno raccolto la gustosa eredità.
Il mischiare suoni, generi, tendenze, è sinonimo di evoluzione, sperimentazione, volontà di non rimanere attaccati forzatamente alle radici in una costante ripetizione di sonorità del passato.
Allo stesso modo i puristi di un suono, di una cultura e filosofia, cercano spesso di riappropriarsi ciò che ritengono gli appartenga, anche a salvaguardia di fondamenta che rischiano di perdersi e, attraverso le progressive contaminazioni, allontanarsi inesorabilmente dal seme originario.
Ed è così che, spontaneamente, in reazione allo ska punk, tornano band che suonano lo ska originale, ritornando anche a vestire un abbigliamento più consono e affine al contesto, con completi e pork pie hat.
E' quello che fanno Giuliano Palma (ex Casino Royale) & the Bluebeaters, supergruppo con componenti di varie band, dal 1993 in poi, con la particolarità di coverizzare in levare brani più o meno famosi della canzone d'autore italiana.
La formula ha grande successo, soprattutto dal vivo.
Tanto che all'indomani dell'abbandono del cantante la band prosegue con il nome di The Bluebeaters. Lo scorso anno i campani The Officinalis hanno realizzato un ottimo album di ska jazz strumentale, “Back To Sorrento” mentre dalla Svizzera hanno risposto i Cosmic Shuffling con “Cosmic Quest” con anche numerose influenze reggae e rocksteady.
I nomi storici come Specials, Madness, Bad Manners, Selecter proseguono le carriere, sia discograficamente che a livello concertistico, pur avendo spesso svoltato musicalmente verso altre forme sonore ma conservando sempre un forte legame con il Jamaica Sound.
In tutto il mondo nascono e proliferano nuove band ska o che si rifanno comunque a questo suono e ritmo, nato ormai da quasi settanta anni e che continua a trovare adepti, consensi e fan, in virtù di un ritmo irresistibile, che può essere tanto energico e travolgente, quanto rilassante e che culla i sensi.
Che ha sempre portato con sé un significato intrinsecamente politico e sociale, di unità e sorpasso delle differenze.
Proprio come uno dei principali scopi della citata 2Tone Records: educare il pubblico e fargli capire che si trattava di musica inventata dai neri: dovete accettare il fatto che il mondo non è bianco, ma a due colori.
La 2 Tone tentava di infondere nella testa della gente l’idea di uguaglianza e di dare un freno al razzismo.
In qualche modo, pur in un mondo così cupo e oscuro, ce l'ha parzialmente fatta.
La storia dell’etichetta discografica 2Tone, fondata da Jerry Dammers, tastierista degli Specials nel 1979, è una delle più appassionanti e significative nell’ambito delle realtà autoprodotte e autogestite.
Attraverso minuziosi dettagli la vicenda è raccontata nel libro “Too Much Too Young” di Daniel Rachel, recentemente pubblicato da HellNation con la traduzione italiana di Flavio Frezza.
“Nell’esatto momento in cui si instaurava il nuovo governo conservatore, la 2 Tone veniva alla ribalta presentandosi come una sorta di cooperativa socialista. In un periodo caratterizzato da forti ambizioni monetarie, l’etichetta seppe promuovere il collettivismo e la solidarietà nei confronti dei propri simili, utilizzando questi valori come antidoto ai mali provocati dalla dottrina dominante dell’individualismo e della sola affermazione di sé stessi. Al centro di tutto ciò c’era un pensatore marxista, umanitario e fortemente antirazzista, Jerry Dammers.”
Gruppi come Specials, Selecter, Madness, Bodysnatchers rivitalizzarono lo ska e i ritmi giamaicani, filtrandoli attraverso la nuova energia e sensibilità punk e portando ai vertici delle classifiche istanze socio politiche, integrazione (in ogni band, eccetto i Madness, c’erano elementi bianchi e neri), caratteristica ancora rara a i tempi, soprattutto quando poi le stesse band finirono in televisione e sui giornali.
Si trattava di una situazione in tutto e per tutto inclusiva, e ciò costituiva di per sé una presa di posizione politica. Giovani bianchi e neri venivano messi nelle condizioni di sentirsi uguali. Una cosa straordinaria, mai vista prima.
Anche se per i giovani giamaicani lo ska era qualcosa che apparteneva ai propri genitori.
Si trattava della musica di un’altra era, di anni lontani, con poco appeal per i gusti moderni, che anche nel Regno Unito era passata completamente di moda. Per comprendere le origini del fenomeno bisogna tornare al primo Dopoguerra.
Nel 1947, le navi SS Ormonde e SS Almanzora, provenienti dalla Giamaica, attraccarono nei porti di Liverpool e Southampton, facendo sbarcare un piccolo numero di cittadini britannici d’oltremare sulle coste del Regno Unito. Un anno più tardi la HMT Windrush trasportò fino al porto di Tilbury quattrocentoventi passeggeri giamaicani, molti dei quali avevano combattuto con gli alleati, che erano stati attirati dalla promessa di una vita prospera nella madrepatria.
Nel 1962, il numero di indo-occidentali giunti in Gran Bretagna ammontava a oltre 300.000 unità, e metà di loro erano giamaicani. L’impatto fu, per la maggior parte di loro, molto violento.
A partire dal cambiamento logistico.
Ricorda il toaster/cantante degli Specials, Neville Staple, che rimase a bocca aperta vedendo, appena arrivato, che le strade e le città erano illuminate anche di notte, abituato a villaggi in cui l’elettricità non era ancora arrivata o rigidamente razionata.
Il clima piovoso e freddo era l’antitesi di quello che avevano lasciato ma l’aspetto più devastante fu constatare che venivano considerati cittadini (formalmente ancora britannici, almeno fino all’indipendenza della Giamaica, nel 1962) di serie B, emarginati nelle periferie in case spesso fatiscenti e poco ben voluti dalla popolazione locale.
Lo stupore proseguì nel riscontrare che anche i bianchi facevano i lavori più duri e “umili” (contrariamente alla situazione nelle colonie caraibiche e asiatiche) e constatare di conseguenza che la loro presenza avrebbe costituito una concorrenza diretta agli autoctoni.
I progressivi ricongiungimenti famigliari portarono da Oltre Oceano anche i figli piccoli e altri ne nacquero durante la permanenza.
Gli adulti affrontavano problematiche come disoccupazione e impieghi a bassa retribuzione che facevano allontanare l’idea di un futuro ritorno nelle terre natìe.
I loro figli stringevano rapporti di amicizia a scuola, diventavano parte integrante della società inglese e vedevano le West Indies come luoghi esotici e lontani.
I ragazzi bianchi entrarono in contatto con generi come lo ska e il calypso, i neri scoprivano Beatles, Who, Rolling Stones.
Pauline Black, voce dei Selecter:
“Si stava verificando una sorta di ibridazione. Molti ragazzi neri, figli di immigrati, ascoltavano il pop bianco. Questi intuirono che esisteva la possibilità di far evolvere il dialogo già in corso tra musica bianca e musica nera”.
Negli anni Sessanta lo ska entrò nelle classifiche, veniva ballato nei club, molti artisti ne furono influenzati.
Perfino i Beatles lo citarono nell'assolo di “I Call Your Name”, già nel 1964 (il brano è di John Lennon, ai tempi grande appassionato del genere), mentre con “Ob-La-Di Ob-La-Da” del 1968, di Paul, fecero un vero e proprio brano ska.
Allo scadere del decennio, psichedelia, hard rock e prog e l’arrivo di soul e funk fecero cadere nel dimenticatoio il genere, che pur era stato la colonna sonora durante la cerimonia per il passaggio da colonia all’indipendenza della Giamaica nel 1962.
Ci volle il punk a riportare in auge queste sonorità.
Partendo dall’ibridazione con il reggae che band come Clash, Stiff Little Fingers, Police, Ruts, Members inserirono nel loro sound e che avvicinò sempre di più bianchi e neri nel contrasto al rinascente neo fascismo in Inghilterra, guidato dal National Front che reclutava sempre più giovani, in un periodo sociale oscuro e dal futuro incerto, in cui il governo di Tatcher si scagliava contro la classe lavoratrice, i poveri, le frange sociali disagiate e faceva forza sulla discriminazione razziale per dividere le masse.
Sotto le bandiere del Rock Against Racism si unirono gruppi punk e new wave con neo nate band reggae (dagli Aswad agli Steel Pulse).
Gruppi come gli Specials si accorsero che il reggae era troppo lento e rilassato per potere essere accostato a brani punk.
“Pensavamo che proporre un tipo di musica integrata e britannica fosse più salutare che vedere dei bianchi che suonavano il rock e dei neri dediti ai propri generi musicali: lo ska rappresentava l’integrazione tra queste due tendenze”. (Jerry Dammers).
Convinto marxista, Dammers decise di creare una struttura che si autoproducesse, in cui ogni componente delle band decidesse comunitariamente, senza imposizioni dall’alto di una casa discografica, costruendo un movimento orbitante intorno all’etichetta, incentrato su ideali di eguaglianza ed equità.
Dammers aveva in mente un equivalente britannico della Motown, caratterizzato da una musica ben identificabile che poi, nel tempo, si sarebbe gradualmente evoluta.
“Non c’erano contratti formalizzati. Gli accordi venivano siglati da una stretta di mano, più che una casa discografica, era una presa per il culo delle stesse”.
Ci provò, quasi contemporaneamente, ma con scarso successo, anche Paul Weller, con la sua Respond Records a costruire una realtà simile.
I musicisti provenivano spesso da situazioni di grande disagio, con lavori precari, alloggiati in monolocali al limite della vivibilità, senza un soldo in tasca.
La musica e l’idea della 2Tone diede loro speranze, energia e alla fine il meritato successo. Anche i testi erano peculiari e affini all’aspetto politico dell’operazione.
Si parlava della quotidianità più dura, di disoccupazione, violenza nelle strade, razzismo, abusi sessuali, gravidanze adolescenziali, arroganza di polizia e potere.
Il tutto cantato su ritmi ballabili, melodie divertenti, soprattutto quando dal vivo si scatenava un’energia che colloca le band come una prosecuzione del punk, sia nell’attitudine che nell’atteggiamento antisistema, contro le autorità e l’autoritarismo.
L'etichetta ebbe un enorme successo, vendette milioni di dischi, sostenne l'antirazzismo, combatté sessismo e incoraggiò persone di idee differenti a sposare il multiculturalismo.
Diede un concreto esempio di unione tra razze e culture, spesso ancora considerate conflittuali.
Il successo e la popolarità dei gruppi usciti dalla 2Tone (purtroppo finita malamente qualche anno dopo, tra scioglimenti, litigi, debiti), riportò in auge molti protagonisti della scena originale giamaicana.
Personaggi come Laurel Aitken, Desmond Dekker, Skatalites, tornarono in tour, trovando in Europa e Stati Uniti platee colme di nuovi fan.
Il figlio di John Mayall, Gaz Mayall, oltre a divertirsi con la ska band dei Trojans, incominciò a passare parecchie volte oscuri brani giamaicani nelle sue serate londinesi da DJ nel suo Gaz' Rockin Blues Club, “inventando” l'improbabile “celtic ska”, combinazione di ritmi in levare e cornamuse.
Il nuovo ska si espanse in America con band come Toasters, Untouchables (meno rigidi e più aperti ad altre sonorità), Bim Skala Bim, e in Europa, arrivando anche in Italia.
Dopo alcuni goffi tentativi puramente commerciali di Alberto Camerini, Donatella Rettore, Edoardo Bennato, furono band come Statuto e Casino Royale, in particolare, a proporne una versione fedele allo stile originale, mettendo i semi per una nuova generazione di amanti del ritmo in levare, dai Persiana Jones, agli Strike, Arpioni e Vallanzaska, tra i tanti.
Questi ultimi si sposteranno anche verso lidi affini, come swing, jive e pop, costruendo una carriera di buon successo, anche in virtù di un nome quanto mai suggestivo e accattivante.
Gli Statuto hanno cambiato spesso pelle artistica, rimanendo sempre ancorati però all'universo mod ma conservando in ogni concerto ampio spazio alle origini, a cui frequentemente tornano, anche discograficamente.
Diverso il discorso dei Casino Royale che dopo i primi due album hanno virato, con “Dainamaita”, album del 1993, verso un sound che ha incominciato ad assorbire mille influenze, dall'hip hop al funk, all'elettronica, pur se, occasionalmente, il gusto del tempo in levare è rimasto inevitabile.
Grazie all'esempio della 2Tone lo ska si sparse in tutto il mondo, rivitalizzandolo e portandolo a ibridarsi con una musica e un ambito solo apparentemente sorprendente, il punk. In realtà era già entrato in qualche brano del genere ma trova la inaspettata sublimazione con l'arrivo della cosiddetta “Third Wave Ska”, sviluppatasi soprattutto in America negli anni Novanta. Band che introducono elementi della musica giamaicana in repertori prevalentemente punk rock e hardcore.
Non alternandoli, come fecero Clash e Ruts, ad esempio, ma mischiandoli con una percentuale di punk maggioritaria rispetto allo ska, di cui si mantiene soprattutto il ritmo in levare, velocizzandolo ancora di più rispetto ai gruppi inglesi a cavallo dei Settanta e Ottanta.
A partire dai Rancid (vedi “Time Bomb” da “And Out Come The Wolves” del 1995), passando ai Sublime, che fecero largo uso di ritmi in levare. Ma probabilmente i re del “genere” furono i Bostoniani Mighty Mighty Bosstones con ritmi velocissimi, chitarre distorte e sezione fiati a macinare riff soul. Anche i No Doubt di Gwen Stefani hanno flirtato, in chiave più pop, con lo ska, in varie canzoni.
E ancora Operation Ivy sorta di prime movers del genere, Goldfinger, Voodoo Glow Skulls, gli spagnoli Ska-P, fino ai più recenti californiani The Interrupters, piombati nelle classifiche americane nel 2018 con “She's Kerosene” e i Bad Operation da New Orleans, con testi politicizzati.
Anche in Italia questa contaminazione trova estimatori e seguaci, in particolare nei Punkreas, Shandon, Matrioska e nella prima incarnazione dei liguri Meganoidi che con il brano che porta il loro nome fanno esplodere l'album d'esordio “Into the darkness, into the moda” del 2000.
Anche i romani Banda Bassotti non esitano a lavorare di ska nel loro repertorio aspro e rude.
Meno compromessi con il punk i torinesi Fratelli Di Soledad, indirizzati verso contaminazioni che li avvicinano di più alla patchanka alla Mano Negra, a cui guardano anche i romani Radici nel Cemento, più reggae oriented.
Un'ulteriore contaminazione, non frequentissima, è quella del cosiddetto ska jazz in cui la mistura dei due ambiti dà vita a un sound prevalentemente basato sull'uso dei fiati e che contempla anche l'improvvisazione dei solisti.
Il nome più conosciuto è quello degli americani New York Ska-Jazz Ensemble, nati nel 1994 e tutt'ora in attività con una decina di album nel carniere. In Italia i bergamaschi Orobians, in pista dal 1997, con una mezza dozzina di album ne hanno raccolto la gustosa eredità.
Il mischiare suoni, generi, tendenze, è sinonimo di evoluzione, sperimentazione, volontà di non rimanere attaccati forzatamente alle radici in una costante ripetizione di sonorità del passato.
Allo stesso modo i puristi di un suono, di una cultura e filosofia, cercano spesso di riappropriarsi ciò che ritengono gli appartenga, anche a salvaguardia di fondamenta che rischiano di perdersi e, attraverso le progressive contaminazioni, allontanarsi inesorabilmente dal seme originario.
Ed è così che, spontaneamente, in reazione allo ska punk, tornano band che suonano lo ska originale, ritornando anche a vestire un abbigliamento più consono e affine al contesto, con completi e pork pie hat.
E' quello che fanno Giuliano Palma (ex Casino Royale) & the Bluebeaters, supergruppo con componenti di varie band, dal 1993 in poi, con la particolarità di coverizzare in levare brani più o meno famosi della canzone d'autore italiana.
La formula ha grande successo, soprattutto dal vivo.
Tanto che all'indomani dell'abbandono del cantante la band prosegue con il nome di The Bluebeaters. Lo scorso anno i campani The Officinalis hanno realizzato un ottimo album di ska jazz strumentale, “Back To Sorrento” mentre dalla Svizzera hanno risposto i Cosmic Shuffling con “Cosmic Quest” con anche numerose influenze reggae e rocksteady.
I nomi storici come Specials, Madness, Bad Manners, Selecter proseguono le carriere, sia discograficamente che a livello concertistico, pur avendo spesso svoltato musicalmente verso altre forme sonore ma conservando sempre un forte legame con il Jamaica Sound.
In tutto il mondo nascono e proliferano nuove band ska o che si rifanno comunque a questo suono e ritmo, nato ormai da quasi settanta anni e che continua a trovare adepti, consensi e fan, in virtù di un ritmo irresistibile, che può essere tanto energico e travolgente, quanto rilassante e che culla i sensi.
Che ha sempre portato con sé un significato intrinsecamente politico e sociale, di unità e sorpasso delle differenze.
Proprio come uno dei principali scopi della citata 2Tone Records: educare il pubblico e fargli capire che si trattava di musica inventata dai neri: dovete accettare il fatto che il mondo non è bianco, ma a due colori.
La 2 Tone tentava di infondere nella testa della gente l’idea di uguaglianza e di dare un freno al razzismo.
In qualche modo, pur in un mondo così cupo e oscuro, ce l'ha parzialmente fatta.
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lunedì, febbraio 17, 2025
Corrado Rizza - Il Piper Club
Il 17 febbraio 1965 apriva a Roma il Piper Club.
Fu l'epicentro della "dolce vita" beat degli anni Sessanta italiani.
A prevalente appannaggio di una alta società abbiente che amava assistere al nuovo fenomeno dei giovani con i capelli lunghi e le giovani con le gonne molto corte. Ma che fu il catalizzatore di una nuova cultura che attingeva a piene mani dalla Swinging London e dall'America "colorata" e psichedelica.
Passarono sul suo palco Who, i giovanissimi Pink Floyd con Syd Barrett, Family, Procol Harum, Duke Ellington, Joe Tex, Sly and the Family Stone, Genesis e il meglio del giro italiano: Rokes, Equipe 84, Corvi, la "ragazza del Piper, Patty Pravo, Renegades, Rita Pavone, tra i tanti.
Mario Schifano suona lì con la sua creatura "warholiana" Le Stelle di Mario Schifano e Tito Schipa Junior mette in scena la "prima opera rock di sempre" Then An Alley".
Il pregio del libro, oltre a interviste e testimonianze di protagonisti/e (da Mita Medici a Marina Marfoglia), sta nelle oltre 200 fotografie quasi tutte inedite, testimonianza spettacolare di un'epoca incredibile.
Gli amanti dei Sixties impazziranno per queste pagine.
Corrado Rizza
Il Piper Club
Vololibero Edizioni
158 pagine
29.50 euro
Fu l'epicentro della "dolce vita" beat degli anni Sessanta italiani.
A prevalente appannaggio di una alta società abbiente che amava assistere al nuovo fenomeno dei giovani con i capelli lunghi e le giovani con le gonne molto corte. Ma che fu il catalizzatore di una nuova cultura che attingeva a piene mani dalla Swinging London e dall'America "colorata" e psichedelica.
Passarono sul suo palco Who, i giovanissimi Pink Floyd con Syd Barrett, Family, Procol Harum, Duke Ellington, Joe Tex, Sly and the Family Stone, Genesis e il meglio del giro italiano: Rokes, Equipe 84, Corvi, la "ragazza del Piper, Patty Pravo, Renegades, Rita Pavone, tra i tanti.
Mario Schifano suona lì con la sua creatura "warholiana" Le Stelle di Mario Schifano e Tito Schipa Junior mette in scena la "prima opera rock di sempre" Then An Alley".
Il pregio del libro, oltre a interviste e testimonianze di protagonisti/e (da Mita Medici a Marina Marfoglia), sta nelle oltre 200 fotografie quasi tutte inedite, testimonianza spettacolare di un'epoca incredibile.
Gli amanti dei Sixties impazziranno per queste pagine.
Corrado Rizza
Il Piper Club
Vololibero Edizioni
158 pagine
29.50 euro
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Libri
sabato, febbraio 15, 2025
Paul Weller top 50 / Mojo
Come riportato la scorsa settimana la rivista MOJO ha compilato una lista delle migliori canzoni di sempre di PAUL WELLER.
Come sempre discutibile ma la riporto qua sotto.
Non prima di segnalare la MIA Top 10.
1. The Jam - Town called malice
2. Style Council - Party chambers
3. Paul Weller - From the floorboard's up
4. Paul Weller - Broken stones
5. The Jam - Beat surrender
6. Style Council - Speak Like A Child
7. The Jam - Down In The Tube Station At Midnight
9. Paul Weller - On sunset
9. Style Council - My Ever Changing Moods
10.Paul Weller - All On A Misty Morning
Classifica Mojo.
1. The Jam - That's Entertainment (Sound Affects, 1980)
2. The Style Council - My Ever Changing Moods (Café Bleu, 1984)
3. The Jam - Going Underground (Non-Album Single, 1980)
4. The Jam - Town Called Malice (The Gift, 1982)
5. Paul Weller - You Do Something To Me (Stanley Road, 1995)
6. The Jam - The Bitterest Pill (I Ever Had To Swallow) (Non-Album Single, 1982)
7. The Style Council - Shout To The Top! (Non-Album Single, 1984)
8. Paul Weller - Into Tomorrow (Paul Weller, 1992)
9. The Jam - Down In The Tube Station At Midnight (All Mod Cons, 1978)
10. Paul Weller - Wild Wood (Wild Wood, 1993)
11. The Style Council -Long Hot Summer (À Paris Ep, 1984)
12. The Jam - The Eton Rifles (Setting Sons, 1979)
13. The Style Council - Walls Come Tumbling Down! (Our Favourite Shop, 1985)
14. The Jam - Funeral Pyre (Non-Album Single, 1981)
15. Paul Weller - The Changingman (Stanley Road, 1995)
16. The Style Council - Headstart For Happiness (Introducing The Style Council, 1983)
17. The Jam - Strange Town (Non-Album Single, 1979)
18. Paul Weller - Above The Clouds (Paul Weller, 1992)
19. The Jam - Beat Surrender (Non-Album Single, 1982)
20. Paul Weller - Have You Made Up Your Mind (22 Dreams, 2008)
21. The Jam - In The City (In The City, 1977)
22. The Style Council - The Paris Match (Café Bleu, 1984)
23. The Jam - English Rose (All Mod Cons, 1978)
24. Paul Weller - Peacock Suit (Heavy Soul, 1997)
25. The Style Council - You're The Best Thing (Café Bleu, 1984)
26. The Jam - Away From The Numbers (In The City, 1977)
27. Paul Weller - Sunflower (Wild Wood, 1993)
28. The Jam - Ghosts (The Gift, 1982)
29. Paul Weller -From The Floorboards Up (As Is Now, 2005)
30. The Jam - In The Crowd (All Mod Cons, 1978)
31. Paul Weller - Broken Stones (Stanley Road, 1995)
32. The Jam - Start! (Sound Affects, 1980)
33. Paul Weller - Fast Car/Slow Traffic (Wake Up The Nation, 2010)
34. The Jam - The Butterfly Collection (Non-Album B Side, 1979)
35. Paul Weller - Hung Up (Non-Album Single, 1994)
36. The Style Council - Speak Like A Child (Non-Album Single, 1983)
37. Paul Weller - Gravity (True Meanings, 2018)
38. The Style Council - It's A Very Deep Sea (Confessions Of A Pop Group, 1988)
39. The Jam - Dreams Of Children (Non-Album B Side, 1980)
40. Paul Weller - Out Of The Sinking (Stanley Road, 1995)
41. Paul Weller - Rockets (On Sunset, 2020)
42. The Jam - To Be Someone (Didn't We Have A Nice Time) (All Mod Cons, 1978)
43. Paul Weller - Has My Fire Really Gone Out? (Wild Wood, 1993)
44. The Style Council - A Man Of Great Promise (Our Favourite Shop, 1985)
45. The Jam - Tales From The Riverbank (Non-Album B Side, 1981)
46. The Style Council - It Just Came To Pieces In My Hands (Non-Album B Side, 1983)
47. The Jam - Running On The Spot (The Gift, 1982)
48. Paul Weller - I Woke Up (66, 2024)
49. Paul Weller - Song For Alice (22 Dreams, 2008)
50. Paul Weller - Trees (Wake Up The Nation, 2010)
Come sempre discutibile ma la riporto qua sotto.
Non prima di segnalare la MIA Top 10.
1. The Jam - Town called malice
2. Style Council - Party chambers
3. Paul Weller - From the floorboard's up
4. Paul Weller - Broken stones
5. The Jam - Beat surrender
6. Style Council - Speak Like A Child
7. The Jam - Down In The Tube Station At Midnight
9. Paul Weller - On sunset
9. Style Council - My Ever Changing Moods
10.Paul Weller - All On A Misty Morning
Classifica Mojo.
1. The Jam - That's Entertainment (Sound Affects, 1980)
2. The Style Council - My Ever Changing Moods (Café Bleu, 1984)
3. The Jam - Going Underground (Non-Album Single, 1980)
4. The Jam - Town Called Malice (The Gift, 1982)
5. Paul Weller - You Do Something To Me (Stanley Road, 1995)
6. The Jam - The Bitterest Pill (I Ever Had To Swallow) (Non-Album Single, 1982)
7. The Style Council - Shout To The Top! (Non-Album Single, 1984)
8. Paul Weller - Into Tomorrow (Paul Weller, 1992)
9. The Jam - Down In The Tube Station At Midnight (All Mod Cons, 1978)
10. Paul Weller - Wild Wood (Wild Wood, 1993)
11. The Style Council -Long Hot Summer (À Paris Ep, 1984)
12. The Jam - The Eton Rifles (Setting Sons, 1979)
13. The Style Council - Walls Come Tumbling Down! (Our Favourite Shop, 1985)
14. The Jam - Funeral Pyre (Non-Album Single, 1981)
15. Paul Weller - The Changingman (Stanley Road, 1995)
16. The Style Council - Headstart For Happiness (Introducing The Style Council, 1983)
17. The Jam - Strange Town (Non-Album Single, 1979)
18. Paul Weller - Above The Clouds (Paul Weller, 1992)
19. The Jam - Beat Surrender (Non-Album Single, 1982)
20. Paul Weller - Have You Made Up Your Mind (22 Dreams, 2008)
21. The Jam - In The City (In The City, 1977)
22. The Style Council - The Paris Match (Café Bleu, 1984)
23. The Jam - English Rose (All Mod Cons, 1978)
24. Paul Weller - Peacock Suit (Heavy Soul, 1997)
25. The Style Council - You're The Best Thing (Café Bleu, 1984)
26. The Jam - Away From The Numbers (In The City, 1977)
27. Paul Weller - Sunflower (Wild Wood, 1993)
28. The Jam - Ghosts (The Gift, 1982)
29. Paul Weller -From The Floorboards Up (As Is Now, 2005)
30. The Jam - In The Crowd (All Mod Cons, 1978)
31. Paul Weller - Broken Stones (Stanley Road, 1995)
32. The Jam - Start! (Sound Affects, 1980)
33. Paul Weller - Fast Car/Slow Traffic (Wake Up The Nation, 2010)
34. The Jam - The Butterfly Collection (Non-Album B Side, 1979)
35. Paul Weller - Hung Up (Non-Album Single, 1994)
36. The Style Council - Speak Like A Child (Non-Album Single, 1983)
37. Paul Weller - Gravity (True Meanings, 2018)
38. The Style Council - It's A Very Deep Sea (Confessions Of A Pop Group, 1988)
39. The Jam - Dreams Of Children (Non-Album B Side, 1980)
40. Paul Weller - Out Of The Sinking (Stanley Road, 1995)
41. Paul Weller - Rockets (On Sunset, 2020)
42. The Jam - To Be Someone (Didn't We Have A Nice Time) (All Mod Cons, 1978)
43. Paul Weller - Has My Fire Really Gone Out? (Wild Wood, 1993)
44. The Style Council - A Man Of Great Promise (Our Favourite Shop, 1985)
45. The Jam - Tales From The Riverbank (Non-Album B Side, 1981)
46. The Style Council - It Just Came To Pieces In My Hands (Non-Album B Side, 1983)
47. The Jam - Running On The Spot (The Gift, 1982)
48. Paul Weller - I Woke Up (66, 2024)
49. Paul Weller - Song For Alice (22 Dreams, 2008)
50. Paul Weller - Trees (Wake Up The Nation, 2010)
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Wellerism
venerdì, febbraio 14, 2025
Chuck Berry e il punk
Riprendo un post di qualche anno fa, molto divertente.
Nel 1980, durante un'intervista a CHUCK BERRY da parte della fanzine Jet Lag, gli furono fatti ascoltare alcune "nuove" band del circuito punk/new wave per avere il suo parere.
God Save the Queen - Sex Pistols
Perché questo tizio è così incazzato?
Le chitarre e le progressioni di accordi sono come le mie.
Buona sezione ritmica.
Non riesco a capire la maggior parte di quello che dice.
Se proprio vuoi incazzarti almeno assicurati che la gente possa capire perché sei incazzato.
Complete Control - Clash
Assomiglia alla prima.
Il ritmo e gli accordi funzionano bene assieme.
Il tizio aveva mal di gola quando ha registrato le voci?
Sheena is a Punk Rocker - Ramones
Un bel pezzo per fare due salti.
Questi mi ricordano i miei inizi.
Anch'io sapevo solo tre accordi.
What I Like About You - Romantics
Finalmente qualcosa di ballabile.
Sembra una cosa anni Sessanta con un po' di miei riff buttati dentro.
È un pezzo nuovo, davvero?
È roba che ho sentito un sacco di volte.
Non capisco che cosa ci sia da esaltarsi.
Psycho Killer - Talking Heads
Un bel pezzetto funky, non c'è che dire.
Mi piace molto il basso.
Un bel misto, e un flow davvero bello.
Sembra che il cantante abbia paura di stare sul palco.
I Am the Fly - Wire
Unknown Pleasures - Joy Division
E quindi questa è roba nuova!
Niente che non abbia già sentito.
Sembra una vecchia jam blues che BB King e Muddy Waters suonavano sempre nel backstage del vecchio anfiteatro di Chicago.
Gli strumenti saranno anche diversi, ma l'esperimento è lo stesso.
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Rock Tales
giovedì, febbraio 13, 2025
City Pop #4
L'amico LEANDRO GIOVANNINI ci ha aiutati ad esplorare l'ambito dello YACHT ROCK (qui: https://tonyface.blogspot.com/search/label/Yacht%20Rock ) in otto interessantisisme puntate che hanno trovato particolare apprezzamento.
Andiamo oltre approfondendo sempre grazie al suo aiuto un contesto ancora più particolare e "oscuro": il CITY POP.
Quarta e ultima puntata.
I precedenti post sono qui: https://tonyface.blogspot.com/search/label/City%20Pop
HAPPY END
Gli Happy End rappresentano forse il più rivoluzionario esperimento musicale del Giappone moderno. Con un lineup stellare – Haruomi Hosono, Takashi Matsumoto, Shigeru Suzuki ed Eiichi Ohtaki, ossia i futuri architetti del City Pop – la band ridefinì il concetto di popular music nipponica negli albori degli anni ’70, mescolando audacemente tradizione locale e influenze occidentali.
Un vero terremoto culturale per l’epoca, che scatenò accesi dibattiti: era legittimo per artisti giapponesi reinterpretare il rock americano? Tra i loro quattro lavori, spicca l’omonimo Happy End (1973), opera capace di cristallizzare il loro genio nonostante le crepe interne. Già dopo il debutto, le tensioni tra le personalità creative del gruppo preannunciavano una crisi imminente. Fu solo la prospettiva di registrare agli iconici Sunset Sound Studios di Los Angeles a convincerli a un ultimo, folgorante sforzo. L’esperienza californiana si rivelò però un vortice di imprevisti: dai conflitti con i sessionman statunitensi (esasperati dalle barriere linguistiche) all’incontro burrascoso con Van Dyke Parks, reduce dalle sessioni di Discover America. Il leggendario compositore inizialmente snobbò la collaborazione, cedendo solo dopo un… persuasivo incentivo economico (una valigia colma di dollari, come raccontano le cronache).
Il suo contributo fu però tutt’altro che idilliaco: Parks si presentava in studio in stato alterato, trasformando le sedute in prediche surreali su Pearl Harbor e la seconda guerra mondiale. Nonostante ciò, il disco – arricchito da presenze come Lowell George e Bill Payne dei Little Feat e il sassofonista Tom Scott – segnò una svolta artistica. Come ammise lo stesso Hosono: “Prima di Parks, la nostra musica era piatta come un ukiyo-e. Lui ci insegnò a scolpire lo spazio sonoro”. L’album vibra di folk-rock americano, con venature country e quella calda atmosfera West Coast che anticipa il soft rock degli anni ’80. Un distacco netto dai precedenti lavori più aggressivi, e al tempo stesso un commiato perfetto: due mesi prima dell’uscita, gli Happy End si sciolsero, lasciando alle spalle un album senza tempo.
Disco consigliato
Happy End - (1973, Belwood Records)
SHIGERU SUZUKI
Shigeru Suzuki è stato un chitarrista fondamentale per la scena giapponese, contribuendo alla nascita del City Pop. Dopo gli esordi con gli Sky, nel 1969 entrò negli Happy End, band che rivoluzionò il rock nipponico.
Scioltosi il gruppo nel 1972, formò i Caramel Mama, poi divenuti Tin Pan Alley, anticipando le sonorità del City Pop. Nel 1975 debuttò da solista con Band Wagon, registrato in parte a Los Angeles con turnisti di alto livello. L’album, fortemente influenzato dal rock e dal funk americano, è considerato uno dei migliori del genere. Già nel 1976, con Lagoon, si spostò su sonorità più leggere tra bossa, jazz e new age, avvicinandosi allo stile di Michael Franks. Nel 1978 pubblicò tre album: Caution!, che fonde sunshine pop e yacht rock con una sensibilità giapponese; Pacific, progetto collaborativo con Hosono e Yamashita dal sound fusion ed estivo; e Telescope, dove esplorò la disco, integrandola organicamente nel City Pop. Quest’ultimo segna il suo lavoro più coerente e maturo fino a quel momento.
Dischi consigliati:
Band Wagon - (1975, Panam)
Lagoon - (1976, Panam)
Caution! - (1978, Panam)
Telescope - (1978, Panam)
SO NICE
I So Nice nacquero come band amatoriale all’interno del Folk Music Club della Nihon University, dedicandosi alle cover di Sugar Babe e Tatsuro Yamashita. Dopo la laurea, nel 1979 pubblicarono Love, unico album della loro carriera, stampato in sole 200 copie senza il supporto di un’etichetta discografica, diventando così un pezzo da collezione. Fortemente ispirato ai Sugar Babe, Love ne rappresenta una sorta di prosecuzione ideale, con un sound che unisce jazz, pop e soft rock in modo raffinato. La qualità dell’album lo ha reso oggetto di riscoperta tra gli appassionati di City Pop, portando a una ristampa nel 2011. Ancora oggi, i membri della band si esibiscono nei club con brani propri e classici di Yamashita.
Disco Consigliato:
Love - (1979, Private Press) Ristampato da Octave nel 2011
TOMOKO ARAN
Nata nel 1958 a Hirosaki, Tomoko Aran sviluppò presto una passione per la musica, iniziando come paroliera prima di debuttare come solista. Il suo album del 1983, Fuyu Kukan, ha guadagnato fama solo negli ultimi anni, grazie a YouTube e al campionamento di Midnight Pretender da parte di The Weeknd.
Il suo City Pop si distingueva per un mix di yacht rock e sperimentazioni synth-funk che anticipavano la techno, mantenendo sempre un forte appeal melodico. Fuyu Kukan è anche ricordato per la sua copertina generata al computer, tra le prime in Giappone.
Nonostante la carriera discografica di Aran si sia conclusa nel 1990, il suo lavoro è oggi celebrato più di quanto non lo fosse all’epoca. Tra le tracce più memorabili spicca Hannya, brano dalle atmosfere oscure che esplora il tema della gelosia femminile, unendo synth ipnotici, chitarre taglienti e bassi incalzanti in un arrangiamento visionario.
Disco consigliato
Fuyu Kukan - (1983, Warner Bros. Records)
YOSHITAKA MINAMI
Nato a Ota Ward nel 1950, Yoshitaka Minami è un artista raffinato, simbolo di eleganza musicale. Dopo gli esordi in una band scolastica e l’attività da cantautore, debuttò nel 1973 con The Heroine of the Skyscrapers, prodotto da Takashi Matsumoto, e collaborò con Caramel Mama e Moonride.
Tra i suoi lavori più rappresentativi spiccano South of The Border e Seventh Avenue South. Il primo, arrangiato da Ryūichi Sakamoto, fonde bossanova, exotica e City Pop in un’atmosfera estiva sofisticata, con brani come 日付変更線, cantato con Taeko Ohnuki. Il secondo evoca scenari jazz notturni e vanta la partecipazione di musicisti statunitensi di alto livello, tra cui Nick DeCaro agli arrangiamenti, David Sanborn e Tony Levin.
Dischi consigliati:
South of The Border - (1978, CBS/Sony)
Seventh Avenue South - (1982, CBS/Sony)
TETSUI HAYASHI
Tetsuji "Tycoon" Hayashi è una figura cruciale ma spesso sottovalutata del City Pop giapponese. Nonostante il suo scarso successo come solista, è stato un prolifico compositore negli anni '80, creando hit iconiche come Mayonaka no Door/Stay With Me di Miki Matsubara, brani per Kiyotaka Sugiyama e gli Omega Tribe, e collaborando con artisti come Anri e Mariya Takeuchi. Il suo album Back Mirror (1977), sebbene non un trionfo commerciale, segnò una svolta verso un sound che mescolava AOR, Soft Rock e influenze internazionali (Bozz Scaggs, Stevie Wonder), anticipando elementi tipici del City Pop. Nonostante le sue composizioni strumentali raffinate e il ruolo nel definire il genere, Hayashi rimane meno celebrato di nomi come Tatsuro Yamashita, probabilmente a causa della carriera solista meno luminosa. Back Mirror, con brani come Rainy Saturday & Coffee Break, resta un esempio di transizione artistica e un disco rilassante, simbolo del suo contributo fondamentale alla musica giapponese degli anni '80.
Disco consigliato:
Back Mirror - (1977, Kitty Records)
YURIE KOKUBU
Nata nel 1955, Yurie Kokubu debutta nella scena musicale nel 1983 con Relief 72 Hours, un album destinato a diventare un classico del City Pop. Nonostante l’etichetta di genere, il progetto si orienta decisamente verso sonorità yacht rock e sfumature disco, conservando un legame con il Giappone quasi esclusivamente attraverso la voce impeccabile della stessa Kokubu.
Le tracce riflettono l’influenza delle produzioni che Jay Graydon plasmò per artisti come Al Jarreau e i Manhattan Transfer: arrangiamenti curati, ritmi eleganti e una qualità tecnica ineccepibile. Dall’inizio alla fine, Relief 72 Hours dipinge un affresco della vita notturna urbana del Giappone anni ’80, trasformandosi in un inno alla leggerezza e all’edonismo, pur senza negare le ombre di un’epoca complessa. Un disco che, a conti fatti, supera i confini del City Pop per abbracciare lo yacht rock in tutta la sua essenza: sofisticato, senza tempo e perfetto nella sua evasione sonora. Un capolavoro che ancora oggi invita a perdersi tra le luci di una Tokyo mai davvero tramontata.
Disco consigliato:
Relief 72 Hours - (1983, Air Records)
YOICHI TAKIZAWA
La storia di Yoichi Takizawa riflette quel filo sottile che lega talento e circostanze avverse, comune a molti artisti fuori dal mainstream. Nato nel 1950 da un diplomatico, trascorse parte della giovinezza a Portland, dove assorbì il rock e il pop occidentale grazie all’influenza paterna. Affascinato dai Beatles, formò una band scolastica prima di allontanarsi dalla musica per dedicarsi allo sci, attività che lo portò a lavorare come istruttore in montagna. La svolta arrivò negli anni ’70, quando problemi epatici legati all’epatite B lo costrinsero a cambiare vita. Durante la convalescenza, riscoprì la musica: nel 1974 scrisse You’re Alone, lato B per i Chaco and the Hells Angels, iniziando una carriera da autore per altri artisti. Fondò poi la Magical City (1975), collaborò con gli Hi-Fi Set e nel 1978 pubblicò Beyond Leoni’s, album oggi considerato un gioiello di pop sofisticato con venature bossanova. Nonostante l’apporto di musicisti come Hiroshi Sato e Shigeru Suzuki, il disco passò inosservato, guadagnando riconoscimento solo decenni dopo.
Il vero punto di rottura fu nel 1982: Boy, il suo secondo album, venne bloccato dalla Warner Bros. per contrasti interni. Takizawa, deluso, abbandonò quasi completamente la musica, gestendo un’attività di consegna pizza mentre componeva saltuariamente canzoni su richiesta. Le sue condizioni di salute peggiorarono progressivamente fino alla morte nel 2006, a 56 anni, per complicazioni epatiche.
La riscoperta è recente: Beyond Leoni’s è oggi celebrato come esempio di “pop metropolitano” in anticipo sui tempi, mentre Boy – pubblicato nel 2024 dalla Light in The Attic dopo 42 anni di oblio – offre uno sguardo incompiuto sul suo potenziale inespresso.
Dischi consigliati:
Beyond Leoni’s - (1978, Express)
Boy - (2024, Light in the Attic)
Andiamo oltre approfondendo sempre grazie al suo aiuto un contesto ancora più particolare e "oscuro": il CITY POP.
Quarta e ultima puntata.
I precedenti post sono qui: https://tonyface.blogspot.com/search/label/City%20Pop
HAPPY END
Gli Happy End rappresentano forse il più rivoluzionario esperimento musicale del Giappone moderno. Con un lineup stellare – Haruomi Hosono, Takashi Matsumoto, Shigeru Suzuki ed Eiichi Ohtaki, ossia i futuri architetti del City Pop – la band ridefinì il concetto di popular music nipponica negli albori degli anni ’70, mescolando audacemente tradizione locale e influenze occidentali.
Un vero terremoto culturale per l’epoca, che scatenò accesi dibattiti: era legittimo per artisti giapponesi reinterpretare il rock americano? Tra i loro quattro lavori, spicca l’omonimo Happy End (1973), opera capace di cristallizzare il loro genio nonostante le crepe interne. Già dopo il debutto, le tensioni tra le personalità creative del gruppo preannunciavano una crisi imminente. Fu solo la prospettiva di registrare agli iconici Sunset Sound Studios di Los Angeles a convincerli a un ultimo, folgorante sforzo. L’esperienza californiana si rivelò però un vortice di imprevisti: dai conflitti con i sessionman statunitensi (esasperati dalle barriere linguistiche) all’incontro burrascoso con Van Dyke Parks, reduce dalle sessioni di Discover America. Il leggendario compositore inizialmente snobbò la collaborazione, cedendo solo dopo un… persuasivo incentivo economico (una valigia colma di dollari, come raccontano le cronache).
Il suo contributo fu però tutt’altro che idilliaco: Parks si presentava in studio in stato alterato, trasformando le sedute in prediche surreali su Pearl Harbor e la seconda guerra mondiale. Nonostante ciò, il disco – arricchito da presenze come Lowell George e Bill Payne dei Little Feat e il sassofonista Tom Scott – segnò una svolta artistica. Come ammise lo stesso Hosono: “Prima di Parks, la nostra musica era piatta come un ukiyo-e. Lui ci insegnò a scolpire lo spazio sonoro”. L’album vibra di folk-rock americano, con venature country e quella calda atmosfera West Coast che anticipa il soft rock degli anni ’80. Un distacco netto dai precedenti lavori più aggressivi, e al tempo stesso un commiato perfetto: due mesi prima dell’uscita, gli Happy End si sciolsero, lasciando alle spalle un album senza tempo.
Disco consigliato
Happy End - (1973, Belwood Records)
SHIGERU SUZUKI
Shigeru Suzuki è stato un chitarrista fondamentale per la scena giapponese, contribuendo alla nascita del City Pop. Dopo gli esordi con gli Sky, nel 1969 entrò negli Happy End, band che rivoluzionò il rock nipponico.
Scioltosi il gruppo nel 1972, formò i Caramel Mama, poi divenuti Tin Pan Alley, anticipando le sonorità del City Pop. Nel 1975 debuttò da solista con Band Wagon, registrato in parte a Los Angeles con turnisti di alto livello. L’album, fortemente influenzato dal rock e dal funk americano, è considerato uno dei migliori del genere. Già nel 1976, con Lagoon, si spostò su sonorità più leggere tra bossa, jazz e new age, avvicinandosi allo stile di Michael Franks. Nel 1978 pubblicò tre album: Caution!, che fonde sunshine pop e yacht rock con una sensibilità giapponese; Pacific, progetto collaborativo con Hosono e Yamashita dal sound fusion ed estivo; e Telescope, dove esplorò la disco, integrandola organicamente nel City Pop. Quest’ultimo segna il suo lavoro più coerente e maturo fino a quel momento.
Dischi consigliati:
Band Wagon - (1975, Panam)
Lagoon - (1976, Panam)
Caution! - (1978, Panam)
Telescope - (1978, Panam)
SO NICE
I So Nice nacquero come band amatoriale all’interno del Folk Music Club della Nihon University, dedicandosi alle cover di Sugar Babe e Tatsuro Yamashita. Dopo la laurea, nel 1979 pubblicarono Love, unico album della loro carriera, stampato in sole 200 copie senza il supporto di un’etichetta discografica, diventando così un pezzo da collezione. Fortemente ispirato ai Sugar Babe, Love ne rappresenta una sorta di prosecuzione ideale, con un sound che unisce jazz, pop e soft rock in modo raffinato. La qualità dell’album lo ha reso oggetto di riscoperta tra gli appassionati di City Pop, portando a una ristampa nel 2011. Ancora oggi, i membri della band si esibiscono nei club con brani propri e classici di Yamashita.
Disco Consigliato:
Love - (1979, Private Press) Ristampato da Octave nel 2011
TOMOKO ARAN
Nata nel 1958 a Hirosaki, Tomoko Aran sviluppò presto una passione per la musica, iniziando come paroliera prima di debuttare come solista. Il suo album del 1983, Fuyu Kukan, ha guadagnato fama solo negli ultimi anni, grazie a YouTube e al campionamento di Midnight Pretender da parte di The Weeknd.
Il suo City Pop si distingueva per un mix di yacht rock e sperimentazioni synth-funk che anticipavano la techno, mantenendo sempre un forte appeal melodico. Fuyu Kukan è anche ricordato per la sua copertina generata al computer, tra le prime in Giappone.
Nonostante la carriera discografica di Aran si sia conclusa nel 1990, il suo lavoro è oggi celebrato più di quanto non lo fosse all’epoca. Tra le tracce più memorabili spicca Hannya, brano dalle atmosfere oscure che esplora il tema della gelosia femminile, unendo synth ipnotici, chitarre taglienti e bassi incalzanti in un arrangiamento visionario.
Disco consigliato
Fuyu Kukan - (1983, Warner Bros. Records)
YOSHITAKA MINAMI
Nato a Ota Ward nel 1950, Yoshitaka Minami è un artista raffinato, simbolo di eleganza musicale. Dopo gli esordi in una band scolastica e l’attività da cantautore, debuttò nel 1973 con The Heroine of the Skyscrapers, prodotto da Takashi Matsumoto, e collaborò con Caramel Mama e Moonride.
Tra i suoi lavori più rappresentativi spiccano South of The Border e Seventh Avenue South. Il primo, arrangiato da Ryūichi Sakamoto, fonde bossanova, exotica e City Pop in un’atmosfera estiva sofisticata, con brani come 日付変更線, cantato con Taeko Ohnuki. Il secondo evoca scenari jazz notturni e vanta la partecipazione di musicisti statunitensi di alto livello, tra cui Nick DeCaro agli arrangiamenti, David Sanborn e Tony Levin.
Dischi consigliati:
South of The Border - (1978, CBS/Sony)
Seventh Avenue South - (1982, CBS/Sony)
TETSUI HAYASHI
Tetsuji "Tycoon" Hayashi è una figura cruciale ma spesso sottovalutata del City Pop giapponese. Nonostante il suo scarso successo come solista, è stato un prolifico compositore negli anni '80, creando hit iconiche come Mayonaka no Door/Stay With Me di Miki Matsubara, brani per Kiyotaka Sugiyama e gli Omega Tribe, e collaborando con artisti come Anri e Mariya Takeuchi. Il suo album Back Mirror (1977), sebbene non un trionfo commerciale, segnò una svolta verso un sound che mescolava AOR, Soft Rock e influenze internazionali (Bozz Scaggs, Stevie Wonder), anticipando elementi tipici del City Pop. Nonostante le sue composizioni strumentali raffinate e il ruolo nel definire il genere, Hayashi rimane meno celebrato di nomi come Tatsuro Yamashita, probabilmente a causa della carriera solista meno luminosa. Back Mirror, con brani come Rainy Saturday & Coffee Break, resta un esempio di transizione artistica e un disco rilassante, simbolo del suo contributo fondamentale alla musica giapponese degli anni '80.
Disco consigliato:
Back Mirror - (1977, Kitty Records)
YURIE KOKUBU
Nata nel 1955, Yurie Kokubu debutta nella scena musicale nel 1983 con Relief 72 Hours, un album destinato a diventare un classico del City Pop. Nonostante l’etichetta di genere, il progetto si orienta decisamente verso sonorità yacht rock e sfumature disco, conservando un legame con il Giappone quasi esclusivamente attraverso la voce impeccabile della stessa Kokubu.
Le tracce riflettono l’influenza delle produzioni che Jay Graydon plasmò per artisti come Al Jarreau e i Manhattan Transfer: arrangiamenti curati, ritmi eleganti e una qualità tecnica ineccepibile. Dall’inizio alla fine, Relief 72 Hours dipinge un affresco della vita notturna urbana del Giappone anni ’80, trasformandosi in un inno alla leggerezza e all’edonismo, pur senza negare le ombre di un’epoca complessa. Un disco che, a conti fatti, supera i confini del City Pop per abbracciare lo yacht rock in tutta la sua essenza: sofisticato, senza tempo e perfetto nella sua evasione sonora. Un capolavoro che ancora oggi invita a perdersi tra le luci di una Tokyo mai davvero tramontata.
Disco consigliato:
Relief 72 Hours - (1983, Air Records)
YOICHI TAKIZAWA
La storia di Yoichi Takizawa riflette quel filo sottile che lega talento e circostanze avverse, comune a molti artisti fuori dal mainstream. Nato nel 1950 da un diplomatico, trascorse parte della giovinezza a Portland, dove assorbì il rock e il pop occidentale grazie all’influenza paterna. Affascinato dai Beatles, formò una band scolastica prima di allontanarsi dalla musica per dedicarsi allo sci, attività che lo portò a lavorare come istruttore in montagna. La svolta arrivò negli anni ’70, quando problemi epatici legati all’epatite B lo costrinsero a cambiare vita. Durante la convalescenza, riscoprì la musica: nel 1974 scrisse You’re Alone, lato B per i Chaco and the Hells Angels, iniziando una carriera da autore per altri artisti. Fondò poi la Magical City (1975), collaborò con gli Hi-Fi Set e nel 1978 pubblicò Beyond Leoni’s, album oggi considerato un gioiello di pop sofisticato con venature bossanova. Nonostante l’apporto di musicisti come Hiroshi Sato e Shigeru Suzuki, il disco passò inosservato, guadagnando riconoscimento solo decenni dopo.
Il vero punto di rottura fu nel 1982: Boy, il suo secondo album, venne bloccato dalla Warner Bros. per contrasti interni. Takizawa, deluso, abbandonò quasi completamente la musica, gestendo un’attività di consegna pizza mentre componeva saltuariamente canzoni su richiesta. Le sue condizioni di salute peggiorarono progressivamente fino alla morte nel 2006, a 56 anni, per complicazioni epatiche.
La riscoperta è recente: Beyond Leoni’s è oggi celebrato come esempio di “pop metropolitano” in anticipo sui tempi, mentre Boy – pubblicato nel 2024 dalla Light in The Attic dopo 42 anni di oblio – offre uno sguardo incompiuto sul suo potenziale inespresso.
Dischi consigliati:
Beyond Leoni’s - (1978, Express)
Boy - (2024, Light in the Attic)
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City Pop
mercoledì, febbraio 12, 2025
A Complete Unknown di James Mangold
E' in sala il tanto discusso film sui primi anni di carriera di BOB DYLAN.
Ben fatto, molto bene interpretato da Timothée Chalamet, credibile e a suo agio nei panni del novello cantautore, circondato da recitazioni altrettanto riuscite degli attori comprimari, adattamento scenografico perfetto e particolarmente suggestivo nella ricercatezza dei dettagli.
Non si dannino i filologi: trattandosi di un film e non di un documentario, le licenze sono numerose ma non inficiano certo l'andamento della storia.
Non è certo un capolavoro imperdibile ma, abituati a biopic spesso inattendibili e grotteschi, in questo caso il risultato è più che gradevole.
PS: si rassegnino i boomer speranzosi che la visione del film avrebbe portato a un'impennata di interesse per Bob Dylan (magari tra i più giovani).
Nelle classifiche italiane non compare nessun suo album nelle prime cento posizioni...
Ben fatto, molto bene interpretato da Timothée Chalamet, credibile e a suo agio nei panni del novello cantautore, circondato da recitazioni altrettanto riuscite degli attori comprimari, adattamento scenografico perfetto e particolarmente suggestivo nella ricercatezza dei dettagli.
Non si dannino i filologi: trattandosi di un film e non di un documentario, le licenze sono numerose ma non inficiano certo l'andamento della storia.
Non è certo un capolavoro imperdibile ma, abituati a biopic spesso inattendibili e grotteschi, in questo caso il risultato è più che gradevole.
PS: si rassegnino i boomer speranzosi che la visione del film avrebbe portato a un'impennata di interesse per Bob Dylan (magari tra i più giovani).
Nelle classifiche italiane non compare nessun suo album nelle prime cento posizioni...
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Film
martedì, febbraio 11, 2025
Going Underground di Lisa Bosi
L'amico PIER TOSI ci parla del recente doc dedicato ai GAZNEVADA.
Più di tanti altri i bolognesi Gaznevada hanno incarnato lo spirito del post-punk e della new wave nel nostro paese tra gli anni settanta ed ottanta in modo peculiare e senza scimmiottare modelli stranieri, creando capolavori come il loro album del 1980 'Sick Soundtrack'.
A loro è dedicato 'Going Underground', documentario di Lisa Bosi prodotto da Sonne Film e Wanted Cinema che sta iniziando a circolare in questi giorni in proiezioni singole prima della sua distribuzione.
La loro storia rappresenta anche un passaggio fondamentale nella storia dei movimenti giovanili del nostro paese: legati dapprima alle energie del '77 si mettono in luce con il primo brano 'Mamma Dammi La Benza' per poi prendere le distanze dal rock demenziale ed ispirarsi al punk seguendo l'influenza dei Ramones ma anche lo spirito di avanguardia di bands americane come Talking Heads,Tuxedomoon, Devo o i gruppi della No Wave newyorkese.
'Going Underground' racconta come meglio non si potrebbe questa storia evidenziando lo spirito inquieto del gruppo, la sua estetica aggressiva e la tendenza a mescolare arte e vita al limite dell'autodistruzione attraverso l'uso dell'eroina che in quegli anni si diffonde drammaticamente.
Il loro quartier generale a Bologna fino al 1982 è la Traumfabrik, un appartamento occupato in pieno centro condiviso con, tra gli altri, il fumettista Filippo Scozzari e da cui transitano tutti i personaggi di quella stagione creativa bolognese in un grande vortice di energie.
Avanguardia grafica, fumettistica e letteraria sono propellenti della creatività dei Gaznevada ed influenzano necessariamente anche 'Going Underground' nella sua fotografia dalla luce innaturale e dai toni acidi che fa da contrappunto al loro straniante universo sonoro.
Operazioni come questa sono spesso a rischio di eccesso di retorica e celebrazione o di esagerare dell'uso di interviste convenzionali dove le 'teste parlanti' si susseguono uccidendo il ritmo narrativo: in 'Going Underground' tutto ciò è scongiurato dagli stessi Gaznevada odierni che dominano la scena sin dai primi minuti come 'personaggi' raccontando loro stessi la storia attraverso uno stralunato ma efficace narrato-recitato che è una vera e propria narrazione dentro la narrazione, con il contrasto tra i loro visi attuali segnati e il loro aspetto dell'epoca che costituisce una vera e propria cifra stilistica.
I loro volti i cui dettagli 'bucano' lo schermo e le loro gesta sono ovviamente alternati ad una grande ricchezza di materiali d'epoca, spesso inediti, che mostrano la band in azione costituendo un essenziale corpus documentario.
Non è importante in 'Going Underground' una narrazione precisa fatta titoli di singoli o albums quanto invece portare più fedelmente possibile gli spettatori nell'urgenza espressiva e nelle emozioni dell'arte dei Gaznevada.
I membri della band affermano nel film che la loro volontà era di diventare ricchi e famosi: l'ultima parte della loro carriera li vede infatti raggiungere il consistente successo con il singolo 'IC Love Affair' del 1983 in cui i suoni di batterie elettroniche e sequencers prendono il sopravvento sulle chitarre prefigurando l'avvento dell'Italo-Disco, la rivoluzione dell'house music e l'enorme successo mondiale dei Datura, entità creata proprio da Robert Squibb dei Gaznevada dopo lo scioglimento del gruppo.
Sono proprio i suoni elettronici tra cui spiccano tre brani inediti composti appositamente per il progetto, a portare gli spettatori al termine di un'opera riuscitissima anche nel collocare questa avventura all'interno di un quadro più ampio.
Più di tanti altri i bolognesi Gaznevada hanno incarnato lo spirito del post-punk e della new wave nel nostro paese tra gli anni settanta ed ottanta in modo peculiare e senza scimmiottare modelli stranieri, creando capolavori come il loro album del 1980 'Sick Soundtrack'.
A loro è dedicato 'Going Underground', documentario di Lisa Bosi prodotto da Sonne Film e Wanted Cinema che sta iniziando a circolare in questi giorni in proiezioni singole prima della sua distribuzione.
La loro storia rappresenta anche un passaggio fondamentale nella storia dei movimenti giovanili del nostro paese: legati dapprima alle energie del '77 si mettono in luce con il primo brano 'Mamma Dammi La Benza' per poi prendere le distanze dal rock demenziale ed ispirarsi al punk seguendo l'influenza dei Ramones ma anche lo spirito di avanguardia di bands americane come Talking Heads,Tuxedomoon, Devo o i gruppi della No Wave newyorkese.
'Going Underground' racconta come meglio non si potrebbe questa storia evidenziando lo spirito inquieto del gruppo, la sua estetica aggressiva e la tendenza a mescolare arte e vita al limite dell'autodistruzione attraverso l'uso dell'eroina che in quegli anni si diffonde drammaticamente.
Il loro quartier generale a Bologna fino al 1982 è la Traumfabrik, un appartamento occupato in pieno centro condiviso con, tra gli altri, il fumettista Filippo Scozzari e da cui transitano tutti i personaggi di quella stagione creativa bolognese in un grande vortice di energie.
Avanguardia grafica, fumettistica e letteraria sono propellenti della creatività dei Gaznevada ed influenzano necessariamente anche 'Going Underground' nella sua fotografia dalla luce innaturale e dai toni acidi che fa da contrappunto al loro straniante universo sonoro.
Operazioni come questa sono spesso a rischio di eccesso di retorica e celebrazione o di esagerare dell'uso di interviste convenzionali dove le 'teste parlanti' si susseguono uccidendo il ritmo narrativo: in 'Going Underground' tutto ciò è scongiurato dagli stessi Gaznevada odierni che dominano la scena sin dai primi minuti come 'personaggi' raccontando loro stessi la storia attraverso uno stralunato ma efficace narrato-recitato che è una vera e propria narrazione dentro la narrazione, con il contrasto tra i loro visi attuali segnati e il loro aspetto dell'epoca che costituisce una vera e propria cifra stilistica.
I loro volti i cui dettagli 'bucano' lo schermo e le loro gesta sono ovviamente alternati ad una grande ricchezza di materiali d'epoca, spesso inediti, che mostrano la band in azione costituendo un essenziale corpus documentario.
Non è importante in 'Going Underground' una narrazione precisa fatta titoli di singoli o albums quanto invece portare più fedelmente possibile gli spettatori nell'urgenza espressiva e nelle emozioni dell'arte dei Gaznevada.
I membri della band affermano nel film che la loro volontà era di diventare ricchi e famosi: l'ultima parte della loro carriera li vede infatti raggiungere il consistente successo con il singolo 'IC Love Affair' del 1983 in cui i suoni di batterie elettroniche e sequencers prendono il sopravvento sulle chitarre prefigurando l'avvento dell'Italo-Disco, la rivoluzione dell'house music e l'enorme successo mondiale dei Datura, entità creata proprio da Robert Squibb dei Gaznevada dopo lo scioglimento del gruppo.
Sono proprio i suoni elettronici tra cui spiccano tre brani inediti composti appositamente per il progetto, a portare gli spettatori al termine di un'opera riuscitissima anche nel collocare questa avventura all'interno di un quadro più ampio.
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Cultura 70's,
Film
lunedì, febbraio 10, 2025
La carriera solista di Pete Townshend
Riprendo l'articolo che ho scritto per "Alias" de "Il Manifesto" sabato scorso.
La carriera compositiva di Pete Townshend è perlomeno curiosa.
Da una parte ha firmato capolavori senza tempo, attestandosi senza dubbio tra i più significativi autori del Novecento, sia in ambito strettamente rock che in un'accezione più ampia del concetto di musica pop(olare).
Valgano su tutto opere rock come “Tommy” e “Quadrophenia”, canzoni come “My Generation” o “Won't Get Fooled again” (dall'opera mancata “LifeHouse” trasformatasi nel capolavoro “Who's Next”, uno dei primi lavori in assoluto in cui l'elettronica fu usata coscientemente in ambito pop rock e non solo in chiave puramente sperimentale).
Dall'altra, la constatazione che il picco della sua creatività (e di quella degli Who) sia durato una manciata di anni, dal 1966 al 1973 per poi sfumare in album dignitosi e raramente di scarso livello ma sostanzialmente trascurabili.
Anche la disordinata carriera solista ha subìto modalità simili: un piccolo gioiello come “Empty Glass” nel 1980 e una lunga serie di album talvolta incompiuti, altre volte dispersivi e scarsamente a fuoco.
Eppure il recente monumentale boxset “Live In Concert 1985-2001”, che raccoglie 14 CD live della sua attività solista, ci mostrano un musicista in grande forma, avido di nuove soluzioni artistiche, cultore della ricerca di brani sconosciuti o molto particolari nell'ambito della black music.
E' raro che ci si occupi del suo percorso al di fuori degli Who, tanto magnificenti, quanto ingombranti e che facilmente oscurano qualunque uscita extra band. Eppure merita un approfondimento. La partenza non è delle più entusiasmanti.
“Who Came First” del 1972 raccoglie brani in acustico, poco più che demo, precedentemente usciti, in poche copie e pressoché irreperibili, su album dedicati al suo guru Meher Baba, dove aveva contribuito musicalmente, a cui aggiunse i provini di tre brani destinati all'opera “Lifehouse”. Artisticamente trascurabile se non per i fan accaniti.
Molto meglio il lavoro condiviso con l'amico Ronnie Lane, già con Small Faces e Faces che inizialmente aveva previsto Pete come produttore ma con cui alla fine divise l'onere e onore di co firmare l'album.
“Rough Mix” è del 1977 e vede l'aiuto di un po' di prestigiosi amici, da Eric Clapton a John Entwistle, Charlie Watts, Ian Stewart, Boz Burrell. Nell'anno del punk i due rimangono ancorati al più classico rock anni Settanta, con sguardi a country e blues, un po' sfasati temporalmente ma con un disco dignitoso e con qualche ottimo brano. Avrà un discreto riscontro arrivando nei top 50, sia in Inghilterra che Stati Uniti.
Finalmente nel 1980 Pete pubblica il primo vero album solista, pensato e strutturato come tale. Un periodo per lui difficilissimo, distrutto dalla morte di Keith Moon, minato dall'abuso di alcool (e non solo), in preda ad una crisi esistenziale (nonostante sia, con i canoni odierni, ancora giovane, 35 anni, è considerato dalla critica e dalle nuove punk band come un "dinosauro" di un' epoca finita), coinvolto in tristi problemi in famiglia e dalla consapevolezza che gli Who siano ormai artisticamente finiti.
I 10 brani di "Empty glass" sono un'incredibile prova di energia e forza, in cui recupera la freschezza e l'urgenza degli esordi, lancia arroganti ventate di robustissimo rock, conserva la raffinatezza della scrittura e degli arrangiamenti (bellissimi quelli vocali, originali e curatissimi). La chitarra torna a ruggire, la base ritmica (alla batteria è prevalentemente presente il "mostro" Simon Philipps ma troviamo anche Kenney Jones, Mark Brzezicki e James Asher) con Bill Butler dei Big Country al basso che fa faville, Rabbit Brundick (storico tastierista degli Who) è impeccabile, la voce di Townshend sa essere rabbiosa, vellutata, avvolgente, cattiva, sempre convincente.
"Empty Glass non era un album particolarmente all'avanguardia ma è stato interessante per me perché mi sono trovato a fare il tipo di materiale vario che non erano soliti usare gli Who.” Splendido disco, probabilmente il migliore scritto da Pete Townshend dal 1973 in poi (Who inclusi), fu oggetto di polemica all'interno della band, privata di grandissimi brani e che invece per il pur buono "Face Dances" e il mediocre "It's Hard" si dovette accontentare di materiale molto meno interessante. Ebbe un buon successo sia di pubblico che di critica.
Il successivo “All The Best Cowboys Have Chinese Eyes” risente del recente periodo speso a rimettersi in sesto dagli eccessi e abusi e della sempre più traballante vita degli Who (costretti a incidere “It's hard”, uscito qualche mese dopo, per motivi contrattuali), scioltisi un anno dopo.
Il sound si fa più sintetico, le tematiche sono sempre più personali e introspettive, la qualità compositiva non è eccelsa, nonostante buoni episodi.
Ritorna al format concept con “White City: A Novel” nel 1985. Anche in questo caso l'opera è confusionaria e la qualità compositiva altalenante, anche se chitarre e grinta tornano in primo piano con ottimi momenti in “Give Blood” e “Face The Face” e una band con i fiocchi alle spalle (tra cui David Gilmour in un paio di brani). Il riscontro sarà però tiepido.
Nel 1989 è la volta invece di un musical.
“The Iron Man” è basato su un libro per bambini di Ted Hughes e annovera tra gli ospiti grandi nomi come Nina Simone e John Lee Hooker ma soprattutto gli ex compagni degli Who nella trascurabile “Dig” e nella cover (dalla resa molto discutibile) di “Fire” di Arthur Brown. Purtroppo il contenuto è ancora una volta discordante, tra momenti ottimi e canzoni inutili e deludenti.
La produzione è pomposa e ridondante, la critica stronca il tutto in modo impietoso. Gli Who tornano a suonare dal vivo per celebrare i 25 anni di “Tommy” e l'opera cade nel dimenticatoio.
Nel 1993 esce quello che è l'ultimo album in studio di Townshend, "Psychoderelict".
Un'altra opera rock basata sul suo racconto “The Boy Who Heard Music”.
La prima versione è caratterizzata dalla narrazione parlata dei protagonisti che si sovrappone (in maniera irritante) talvolta alle canzoni. Ne verrà realizzata una versione senza i parlati, fortunatamente, ma non risolleverà le sorti dell'album.
Peccato, perché, a parte qualche esagerazione a livello produttivo e nelle sonorità e ad alcuni intermezzi abbastanza superflui, il contenuto compositivo è di buonissimo livello (“English Boy”, “Outlive The Dinosaur”, “Don't Try To Make Me Real” avrebbero potuto tranquillamente trovare un posto nella discografia degli Who).
Da questo momento Townshend si è dedicato a innumerevoli tour con la band madre, sempre in eccellente forma e forte di un repertorio inimitabile, con cui ha inciso due discreti album di inediti, “Endless Wire” nel 2006 e “Who” nel 2019 e sporadicamente è apparso qualche brano solista, vedi il country acustico “Outrun The truth”nel 2023.
Interessante la serie delle compilation “Scoop”, di cui sono usciti tre volumi, nel 1983, nel 1987 e nel 2001, con decine di demo tape, inediti, rarità, outtake, prese dal suo infinito archivio.
Nel 2000 ha visto la luce un lussuoso e raro box set di sei CD con tutto il materiale relativo all'abortita opera rock “Lifehouse” e un ambizioso progetto di interazione sonora con i fan musicisti poi naufragato.
Pete Townshend rimane un genio indiscusso e indiscutibile ma che forse ha gestito non sempre bene la sua immensa creatività, dando sfogo e spazio a progetti che con una cura maggiore e una più attenta tempestività, avrebbero potuto avere tutt'altri spessore e importanza.
Ci lascia una carriera solista piena di aspetti interessanti, canzoni eccellenti e ottimi spunti, sicuramente da (ri)scoprire.
La carriera compositiva di Pete Townshend è perlomeno curiosa.
Da una parte ha firmato capolavori senza tempo, attestandosi senza dubbio tra i più significativi autori del Novecento, sia in ambito strettamente rock che in un'accezione più ampia del concetto di musica pop(olare).
Valgano su tutto opere rock come “Tommy” e “Quadrophenia”, canzoni come “My Generation” o “Won't Get Fooled again” (dall'opera mancata “LifeHouse” trasformatasi nel capolavoro “Who's Next”, uno dei primi lavori in assoluto in cui l'elettronica fu usata coscientemente in ambito pop rock e non solo in chiave puramente sperimentale).
Dall'altra, la constatazione che il picco della sua creatività (e di quella degli Who) sia durato una manciata di anni, dal 1966 al 1973 per poi sfumare in album dignitosi e raramente di scarso livello ma sostanzialmente trascurabili.
Anche la disordinata carriera solista ha subìto modalità simili: un piccolo gioiello come “Empty Glass” nel 1980 e una lunga serie di album talvolta incompiuti, altre volte dispersivi e scarsamente a fuoco.
Eppure il recente monumentale boxset “Live In Concert 1985-2001”, che raccoglie 14 CD live della sua attività solista, ci mostrano un musicista in grande forma, avido di nuove soluzioni artistiche, cultore della ricerca di brani sconosciuti o molto particolari nell'ambito della black music.
E' raro che ci si occupi del suo percorso al di fuori degli Who, tanto magnificenti, quanto ingombranti e che facilmente oscurano qualunque uscita extra band. Eppure merita un approfondimento. La partenza non è delle più entusiasmanti.
“Who Came First” del 1972 raccoglie brani in acustico, poco più che demo, precedentemente usciti, in poche copie e pressoché irreperibili, su album dedicati al suo guru Meher Baba, dove aveva contribuito musicalmente, a cui aggiunse i provini di tre brani destinati all'opera “Lifehouse”. Artisticamente trascurabile se non per i fan accaniti.
Molto meglio il lavoro condiviso con l'amico Ronnie Lane, già con Small Faces e Faces che inizialmente aveva previsto Pete come produttore ma con cui alla fine divise l'onere e onore di co firmare l'album.
“Rough Mix” è del 1977 e vede l'aiuto di un po' di prestigiosi amici, da Eric Clapton a John Entwistle, Charlie Watts, Ian Stewart, Boz Burrell. Nell'anno del punk i due rimangono ancorati al più classico rock anni Settanta, con sguardi a country e blues, un po' sfasati temporalmente ma con un disco dignitoso e con qualche ottimo brano. Avrà un discreto riscontro arrivando nei top 50, sia in Inghilterra che Stati Uniti.
Finalmente nel 1980 Pete pubblica il primo vero album solista, pensato e strutturato come tale. Un periodo per lui difficilissimo, distrutto dalla morte di Keith Moon, minato dall'abuso di alcool (e non solo), in preda ad una crisi esistenziale (nonostante sia, con i canoni odierni, ancora giovane, 35 anni, è considerato dalla critica e dalle nuove punk band come un "dinosauro" di un' epoca finita), coinvolto in tristi problemi in famiglia e dalla consapevolezza che gli Who siano ormai artisticamente finiti.
I 10 brani di "Empty glass" sono un'incredibile prova di energia e forza, in cui recupera la freschezza e l'urgenza degli esordi, lancia arroganti ventate di robustissimo rock, conserva la raffinatezza della scrittura e degli arrangiamenti (bellissimi quelli vocali, originali e curatissimi). La chitarra torna a ruggire, la base ritmica (alla batteria è prevalentemente presente il "mostro" Simon Philipps ma troviamo anche Kenney Jones, Mark Brzezicki e James Asher) con Bill Butler dei Big Country al basso che fa faville, Rabbit Brundick (storico tastierista degli Who) è impeccabile, la voce di Townshend sa essere rabbiosa, vellutata, avvolgente, cattiva, sempre convincente.
"Empty Glass non era un album particolarmente all'avanguardia ma è stato interessante per me perché mi sono trovato a fare il tipo di materiale vario che non erano soliti usare gli Who.” Splendido disco, probabilmente il migliore scritto da Pete Townshend dal 1973 in poi (Who inclusi), fu oggetto di polemica all'interno della band, privata di grandissimi brani e che invece per il pur buono "Face Dances" e il mediocre "It's Hard" si dovette accontentare di materiale molto meno interessante. Ebbe un buon successo sia di pubblico che di critica.
Il successivo “All The Best Cowboys Have Chinese Eyes” risente del recente periodo speso a rimettersi in sesto dagli eccessi e abusi e della sempre più traballante vita degli Who (costretti a incidere “It's hard”, uscito qualche mese dopo, per motivi contrattuali), scioltisi un anno dopo.
Il sound si fa più sintetico, le tematiche sono sempre più personali e introspettive, la qualità compositiva non è eccelsa, nonostante buoni episodi.
Ritorna al format concept con “White City: A Novel” nel 1985. Anche in questo caso l'opera è confusionaria e la qualità compositiva altalenante, anche se chitarre e grinta tornano in primo piano con ottimi momenti in “Give Blood” e “Face The Face” e una band con i fiocchi alle spalle (tra cui David Gilmour in un paio di brani). Il riscontro sarà però tiepido.
Nel 1989 è la volta invece di un musical.
“The Iron Man” è basato su un libro per bambini di Ted Hughes e annovera tra gli ospiti grandi nomi come Nina Simone e John Lee Hooker ma soprattutto gli ex compagni degli Who nella trascurabile “Dig” e nella cover (dalla resa molto discutibile) di “Fire” di Arthur Brown. Purtroppo il contenuto è ancora una volta discordante, tra momenti ottimi e canzoni inutili e deludenti.
La produzione è pomposa e ridondante, la critica stronca il tutto in modo impietoso. Gli Who tornano a suonare dal vivo per celebrare i 25 anni di “Tommy” e l'opera cade nel dimenticatoio.
Nel 1993 esce quello che è l'ultimo album in studio di Townshend, "Psychoderelict".
Un'altra opera rock basata sul suo racconto “The Boy Who Heard Music”.
La prima versione è caratterizzata dalla narrazione parlata dei protagonisti che si sovrappone (in maniera irritante) talvolta alle canzoni. Ne verrà realizzata una versione senza i parlati, fortunatamente, ma non risolleverà le sorti dell'album.
Peccato, perché, a parte qualche esagerazione a livello produttivo e nelle sonorità e ad alcuni intermezzi abbastanza superflui, il contenuto compositivo è di buonissimo livello (“English Boy”, “Outlive The Dinosaur”, “Don't Try To Make Me Real” avrebbero potuto tranquillamente trovare un posto nella discografia degli Who).
Da questo momento Townshend si è dedicato a innumerevoli tour con la band madre, sempre in eccellente forma e forte di un repertorio inimitabile, con cui ha inciso due discreti album di inediti, “Endless Wire” nel 2006 e “Who” nel 2019 e sporadicamente è apparso qualche brano solista, vedi il country acustico “Outrun The truth”nel 2023.
Interessante la serie delle compilation “Scoop”, di cui sono usciti tre volumi, nel 1983, nel 1987 e nel 2001, con decine di demo tape, inediti, rarità, outtake, prese dal suo infinito archivio.
Nel 2000 ha visto la luce un lussuoso e raro box set di sei CD con tutto il materiale relativo all'abortita opera rock “Lifehouse” e un ambizioso progetto di interazione sonora con i fan musicisti poi naufragato.
Pete Townshend rimane un genio indiscusso e indiscutibile ma che forse ha gestito non sempre bene la sua immensa creatività, dando sfogo e spazio a progetti che con una cura maggiore e una più attenta tempestività, avrebbero potuto avere tutt'altri spessore e importanza.
Ci lascia una carriera solista piena di aspetti interessanti, canzoni eccellenti e ottimi spunti, sicuramente da (ri)scoprire.
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