L'erotismo
sembra essere una forma di conoscenza che nel momento stesso che scopre la
realtà, la distrugge. In altri termini si può conoscere il reale per mezzo
dell'erotismo; ma al prezzo della distruzione completa e irreparabile del reale
medesimo. In questo senso l'esperienza erotica si apparenta a quella mistica:
ambedue sono senza ritorni, i ponti sono bruciati, il mondo reale è perduto per
sempre. Altro carattere comune all'esperienza mistica e a quella erotica è che
esse hanno bisogno dell'eccesso; la misura, che è propria al conoscere
scientifico, è sconosciuta tanto a l'una che all'altra. Quest'eccesso,
naturalmente, porta alla morte. Ma nell'esperienza mistica sarà la morte del
soggetto; in quella erotica, la morte dell'altro. Questo forse spiega il
carattere apparentemente suicida dell'esperienza mistica e omicida
dell'esperienza erotica. Dico «apparentemente» perché suicidio e omicidio sono
nomi che il mondo dà a certi eccessi; mentre in realtà il misticismo e
l'erotismo proiettano l'uomo fuori del mondo. Quanto a dire, ovviamente, che erotismo
e misticismo hanno in comune la svalutazione del mondo; e che si può essere
santi sia in senso religioso sia in senso erotico. Del resto è noto che le due
esperienze erano collegate e indistinguibili nelle religión primitive; averle
separate e contrapposte è stata opera del cristianesimo, il quale rifiuta,
condanna, rimuove l'erotismo. Ma, attenzione: sia pure in senso negativo e
diabolico anche nel cristianesimo, l'erotismo è un elemento indispensabile, di
qualsiasi operazione conoscitiva.
Comunque,
l'erotismo si rivela strumento di conoscenza soprattutto in quanto non è mai un
fatto di natura o meglio soltanto di natura: esso comincia ad esistere al
livello culturale. Ancora una
volta, però, bisogna avvertire che il momento erotico nella cultura, se è
accompagnato da consapevolezza, non può che essere distruttivo; e se è
inconsapevole non è erotico. Il rapporto tra erotismo e cultura si può, d'altra
parte, articolare nel modo seguente: all'origine l'erotismo è inconscio; via
via che si sviluppa la cultura, con la stessa gradualità si verifica il
riconoscimento e il recupero dell'erotismo. Anzi, con un po' di sforzatura, si
potrebbe addirittura affermare che la cultura altro non è che la progressiva scoperta
e definizione dell'erotismo originario e inconscio. La fine della cultura
logicamente è completa consapevolezza e totale rinvenimento dell'erotismo. A
questo punto, spiegazione equivale a distruzione e coscienza ad annientamento. In
fondo, dunque, la forma di conoscenza propria dell'erotismo riguarda unicamente
l'erotismo. Esso si sforza di conoscere se stesso e attraverso questo sforzo si
manifesta e si esprime. Così le culture nascono dalla soppressione, ignoranza e
incoscienza del fatto erotico; e si sviluppano e muoiono secondo il progresso
di una scoperta che è contemporaneamente distruzione.
Abbiamo
detto che l'erotismo ha in comune con l'ascesi mistica la svalutazione del
mondo reale. Una prova secondaria ma significativa della verità di questa
affermazione, va ravvisata nella brevità dei libri erotici. Questi libri sono
il più delle volte scadenti; più raramente, hanno un valore letterario; ma
belli o brutti, hanno tutti in comune il carattere specifico della brevità. Ossessionato
dal proprio argomento e insieme deciso ad isolarlo e a conferirgli un carattere
di totalità, lo scrittore erotico di solito esaurisce in poche decine di pagine
tutte le possibili combinazioni del rapporto sessuale. Incesto, animalità, omosessualità, necrofilia,
eterosessualità e via dicendo, vengono separati dai contesti sociali,
psicologici, storici, morali a cui, nella realtà, sono inestricabilmente
legati. In altri termini tutto ciò che non è sesso è passato sotto silenzio
come se non esistesse. Il rapporto sessuale, come Attila, non lascia l'erba
dove passa, fa il deserto intorno a sé e chiama questo deserto realtà. Questa
operazione può essere calcolata e interessata, come nei libri cosiddetti
pornografici; può, invece, essere spontanea e disinteressata come nei libri
propriamente erotici; ma, in ambedue i casi, rivela il potere corrosivo
dell'erotismo e la distruzione alla quale esso sottopone il tessuto culturale,
lo scrittore erotico non si occupa che dell'erotismo in quanto occuparsi
dell'erotismo vuol dire, appunto e prima di tutto, sopprimere tutto ciò che non
è erotico. E questo non tanto perché l'erotismo se ne avvantaggia, anzi in
certo modo sono talvolta più erotici certi passaggi erotici di romanzi normali
in cui si parla di tutto, che gli stessi passaggi in romanzi in cui non si
parla che dell'erotismo; quanto perché l'erotismo una volta assunto a tema
dominante, non sa che farsene della realtà.
Avviene così che i personaggi dei
libri erotici non hanno professione né parentele né rapporti sociali; o meglio
tutte queste cose sono ridotte a meri involucri quasi a sottolineare il
processo di svuotamento che è proprio dell'erotismo. E mentre è vero che
l'erotismo ha bisogno dei valori per profanarli, non è meno vero che questa
profanazione cessa di essere tale al momento stesso che avviene, a causa del
carattere eccessivo dell'erotismo. Tutto, insomma, nell'erotismo, porta al
delitto. Intendo il delitto come uno dei due grandi rifiuti del mondo; l'altro
è il rifiuto religioso nella sua accezione estrema, voglio dire nel suo momento
mistico. Erotismo e misticismo rifiutano il mondo dei valori annullandoli nell'estasi;
ma l'estasi religiosa porta all'olocausto di se stessi, quella erotica,
dell'altro. Si torna qui all'idea del delitto che è indivisibile dall'erotismo
e che nelle antiche religioni attraverso il rito e il sacrificio perdeva il suo
carattere di trasgressione, diventando a sua volta atto religioso. L'amante
vuol mordere, divorare, assassinare, distruggere l'amante, in un impossibile
sforzo di comunicazione e di identificazione. Nelle religioni questo
cannibalismo viene ritualizzato, mediato, trasformato in
rappresentazione simbolica.
«Storia dell'occhio» di Georges
Bataille, oltre che un piccolo capolavoro della letteratura d'avanguardia, è un
buon esempio di romanzo reso corto ed essenziale dalla vampa divorante
dell'erotismo. Ma pur essendo corto nel modo dei libri chiamati pornografici,
cioè corto perché ridotto a poche variazioni del solo tema del sesso, non è
forse tanto un libro erotico quanto un libro nel quale l'inquietudine religiosa
è trasferita in una storia di fissazione sessuale. Ciò che fa la spia al carattere
religioso del libro è la curva narrativa che partendo da un'analogia a sfondo
ossessivo (la rassomiglianza tra l'uovo e il testicolo e l'occhio) si carica di
tensione e di significati per esplodere finalmente nella profanatoria scena
conclusiva nella quale l'ossessione analogica si risolve in una specie di messa
nera di tipo sadico. Abbiamo detto sadico; e in verità «Storia dell'occhio» è
un libro che fa curiosamente pensare a una discendenza di Bataille dal Divino
Marchese. Lo stile lucido e insieme delirante, i paesaggi teatralmente
romantici e tempestosi, l'alternarsi di azioni convulse e di illuminazioni
concettuali, soprattutto l'utilizzazione puntuale degli ambienti, dei
personaggi e dei riti della religione, tutto in questo romanzo ricorda l'autore
di «Justine». Bataille, del resto, non lo nasconde, anzi si compiace di
sottolinearlo con la convencionalita settecentesca dello schema narrativo,
degli sfondi turistici e mondani, della conclusione frivola e sbadata.
Ma
De Sade è un ideologo razionalista e illuminista, il quale descrive e rappresenta
per dimostrare, divulgare, discutere, negare; Bataille invece è un
irrazionalista decadente le cui descrizioni e rappresentazioni hanno l'autosufficienza
e il disinteresse che e proprio della poesia. Là dove De Sade ci presenta, in
fondo, degli esempi, Bataille invece ci fornisce dei simboli. Così il senso di
De Sade è chiarissimo anche se il fondo della sua ispirazione
è oscuro; mentre in Bataille l'ispirazione ha tutta la chiarezza di una
consumata consapevolezza culturale, ma il senso rimane ambiguo e dubbio. Che
cosa ha voluto dire Bataille con la strana sconvolgente immagine dell'occhio
che, inserito nel sesso di Simona, guarda tra il pelo pubico come tra le ciglia
di due palpebre e, pur guardando, piange calde lagrime di orina? Quell'occhio
che è stato strappato dall'orbita di un giovane prete spagnolo martirizzato e
strangolato nel corso della messa nera? Quell'occhio che rassomiglia, azzurro,
puro e ingenuo, all'occhio dell'amata Marcella, morta suicida alla fine di
un'orgia? Basterà ricordare che l'occhio vuol dire visione, percezione,
apprendimento, conoscenza, per rendersi conto che l'immagine, di purissima
marca surrealista, ha un suo significato che la trascende. Vuol forse dire che l'occhio,
organo della mente che vuol sapere e conoscere, trasferito dalla cavità dell'orbita
a quella del sesso femminile, sta a indicare un analogo trasferimento della
facoltà conoscitiva dalla mente all'istinto, dalla razionalità all'erotismo,
dallo spirito al corpo? È difficile dirlo; comunque qualsiasi ipotesi è
legittima. Tuttavia si deve notare che l'occhio come simbolo di conoscenza e
onniveggenza è comune a tutte le religioni. Nella pianura di Katmandu, nel
Nepal, terra natale del Buddha, l'enorme occhio dipinto sul pinnacolo della
stupa ci guarda al di sopra dei boschi e delle coltivazioni con la stessa
ossessiva fissità con la quale, nella pagina di Bataille, ci sentiamo spiati,
di tra le gambe della crudele e stravagante Simona, dall'occhio del morto.
Ma sul carattere fondamentalmente
religioso dell'erotismo, sarà bene lasciar parlare Bataille stesso. Nella
prefazione a «Madame Edwarda», egli scrive: «Alla fine di questa riflessione
patetica che, in un grido, si auto annienta, in quanto affonda
nell'intolleranza di se stessa, noi ritroviamo Dio. Questo è il senso, l'enormità
di questo libro insensato. Questo racconto mette in gioco nella pienezza dei
suoi attributi Dio stesso; e questo Dio, pur tuttavia è una meretrice in tutto
simile a tante altre. Ma ciò che il misticismo non ha potuto dire (al momento
di dirlo, veniva meno, non ce la faceva), l'erotismo lo dice: Dio è nulla se
non è il superamento di Dio in tutti i sensi; nel senso del comune volgare; nel
senso dell'orrore e dell'impurità; infine nel senso del nulla... Non possiamo
aggiungere impunemente al linguaggio la parola che sorpassa tutte le parole, la
parola di Dio; nel momento stesso che lo facciamo, questa parola si sorpassa
essa stessa, distrugge vertiginosamente i propri limiti. Ciò che Dio è, non
retrocede davanti a nulla, e dappertutto dove è impossibile trovarlo; esso
stesso è una «enormità». Chiunque ne ha il sospetto
anche minimo, tace subito. Oppure, cercando l'uscita, e ben sapendo che,
invece, si chiude sempre più, cerca in se stesso ciò che potendolo annientare,
lo rende simile a Dio, cioè simile al nulla».