Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur
Fine dei giochi, secondo schiaffone all'Italia in tre giorni... Il "liberale" ed "europeista" Macron ha deciso di nazionalizzare STX piuttosto che farla guidare a Fincantieri. Europa? Mercato? Belle parole, poi c'è l'interesse nazionale... "Il nostro obiettivo è difendere gli interessi strategici della Francia", ha spiegato il ministro dell'economia francese Bruno Le Maire. Non si tratta di cattiveria, ma all'Eliseo evidentemente non si fidano del nostro sistema-Paese. Oppure, sarà colpa del "protezionista" Trump??
Già come Italia non contavamo molto, ma dal 2011, dalla chiamata dello straniero e dai governi di inetti che sono seguiti, ci hanno azzerati completamente, ci stanno massacrando, ma i nostri governi non l'hanno ancora capito e continuano a parlarsi addosso.
O forse l'hanno capito un paio di giorni fa, e sono ancora storditi. Martedì all'Eliseo si sono incontrati i due principali rivali sul futuro della Libia, al-Serraj e Haftar, invitati dal presidente francese Macron, che ha preso in mano le redini del processo dopo aver probabilmente ricevuto via libera da Trump e da Putin (invitati anch'essi a Parigi in rapida successione). Blitz Macron, Italia fuori dai giochi. "Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur". La storia di come ci siamo di fatto auto-esclusi è ancora da scrivere. Ma si può azzardare qualche ipotesi... Indecisi a tutto, timidi, siamo andati in crisi con al Sisi cadendo nella trappola Regeni, troppi complessi - che Macron non ha avuto - nel parlare con i "cattivoni" Trump e Putin... eccetera...
E ora il presidente francese annuncia anche gli hotspot in Libia (idea poi parzialmente smentita: non subito), di cui si discute, anzi si chiacchiera da anni in Italia ovviamente senza concludere nulla. Mentre il governo italiano si occupava di migranti come una qualsiasi ONG, Macron ha semplicemente fatto politica. Non è un nostro "nemico", fa gli interessi francesi mentre noi quasi ci vergogniamo di averne.
Non provino nemmeno Gentiloni, Alfano e Renzi: non c'è modo per ridimensionare gli schiaffoni presi da Macron. Possono solo tacere e, se possibile, sparire. Per tentare di parare il colpo ora sono pronti a inviare le navi della marina militare in Libia... Dopo che per anni hanno detto che non si poteva e ridicolizzato chi lo proponeva. Pagliacci!
Sarà chiaro adesso cosa significa EnMarche! Il primo cadavere su cui Macron è passato sopra marciando, cantando la Marsigliese e sventolando la bandiera francese, non quella europea, è quello dell'Italia. Macron ha effettivamente "salvato l'Europa", intesa come burocrazia europea, ma si sta muovendo come se l'Ue non esistesse, agisce senza nemmeno avvertirla. E ha ragione: l'Europa sui temi e le crisi internazionali non esiste. Non esiste un interesse europeo. Esistono interessi francesi, tedeschi, italiani (sebbene non ce ne curiamo). Tutti legittimi.
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Thursday, July 27, 2017
Friday, July 21, 2017
Senza pudore
Per anni i migranti (non aventi diritto ad alcun asilo) ce li siamo andati a prendere davanti alle coste libiche in barba a qualsiasi regola e buon senso, praticamente un'invasione autoinflitta. Ora pretendiamo che se li accollino quota parte anche gli altri paesi europei e siccome si rifiutano, in nome dell'interesse nazionale ma anche soprattutto europeo, li minacciamo con la "proposta Bonino-Soros" dei 200mila visti... Poi non lamentiamoci dei luoghi comuni sugli italiani eh!
La pretesa italiana di "relocation" anche dei migranti illegali che si è messa in casa da sola è surreale. È contro ogni regola, logica e interesse non solo nazionale ma della stessa Unione europea che rischia la disgregazione. E anziché coltivare buoni rapporti con i Paesi dell'Est, per non subire troppo l'asse franco-tedesco, rompiamo... Resteremo i valletti di Parigi e Berlino.
Che poi, il direttore dell'INPS un po' di pudore dovrebbe averlo a sbandierare che i contributi di oggi servono a pagare le pensioni di oggi. Sappiamo tutti che è così, non solo per i contributi degli stranieri. Ma saperlo è un conto, che il direttore dell'INPS quasi se ne vanti... soprattutto nei confronti di lavoratori stranieri che probabilmente non vedranno mai una pensione, è come vantarsi di una rapina... Bella considerazione degli immigrati che hanno questi professorini...
La pretesa italiana di "relocation" anche dei migranti illegali che si è messa in casa da sola è surreale. È contro ogni regola, logica e interesse non solo nazionale ma della stessa Unione europea che rischia la disgregazione. E anziché coltivare buoni rapporti con i Paesi dell'Est, per non subire troppo l'asse franco-tedesco, rompiamo... Resteremo i valletti di Parigi e Berlino.
Che poi, il direttore dell'INPS un po' di pudore dovrebbe averlo a sbandierare che i contributi di oggi servono a pagare le pensioni di oggi. Sappiamo tutti che è così, non solo per i contributi degli stranieri. Ma saperlo è un conto, che il direttore dell'INPS quasi se ne vanti... soprattutto nei confronti di lavoratori stranieri che probabilmente non vedranno mai una pensione, è come vantarsi di una rapina... Bella considerazione degli immigrati che hanno questi professorini...
Monday, July 17, 2017
La centralità della Polonia e la difesa dell'Occidente
Pubblicato su formiche
Nel suo discorso a Varsavia Trump ha centrato la questione della nostra epoca: l'Occidente ha la *volontà* di sopravvivere? Non è una questione di capacità e di risorse, ma di volontà… E sembra suggerire che noi europei quella volontà di difenderlo l'abbiamo persa…
Del discorso di Trump a Varsavia i mainstream media hanno snobbato sia i contenuti che il paese scelto: la Polonia. Grave errore di comprensione e di analisi. Non solo, infatti, come ha ricordato lo stesso presidente Usa, la Polonia è "il cuore geografico dell'Europa e, più importante, nel popolo polacco vediamo l'anima dell'Europa", ma è anche una delle economie più vivaci dell'Unione europea, con una previsione di crescita del Pil superiore al 3% sia nel 2017 che nel 2018. Ed è tra i pochi membri Nato a soddisfare il parametro di spesa militare del 2% rispetto al Pil.
Distratti e pigri i mainstream media, di certo a Mosca e a Berlino non è passato inosservato il messaggio che l'amministrazione Trump ha voluto mandare scegliendo Varsavia per un discorso sulla difesa dell'Occidente e i suoi valori di libertà e democrazia.
Nel XVII secolo la Confederazione polacco-lituana fu un fondamentale argine all'espansione ottomana in Europa ed ebbe un ruolo decisivo nel respingere i turchi alle porte di Vienna. La Polonia moderna è stretta tra la Germania e la Russia, il popolo polacco ha subito invasioni e dominazioni da entrambe, ma ha resistito orgogliosamente agli spaventosi totalitarismi del Novecento, nazismo e comunismo. Oggi è nazionalista e saldamente occidentale, in prima linea sulla crisi ucraina, e Washington ha voluto far capire che punta proprio sulla Polonia per contenere Russia e Germania.
Due esempi concreti. Proprio a Varsavia Trump ha annunciato l'accordo per la vendita alla Polonia di otto batterie del sistema missilistico americano Patriot, una chiara risposta ai missili Iskander schierati dalla Russia a Kaliningrad. E ha inoltre affermato l'impegno americano "ad assicurare alla Polonia e ai suoi vicini l'accesso a fonti alternative di energia in modo che non siano mai più ostaggio di un singolo fornitore". Gas liquido a Varsavia e carbone a Kiev. Il messaggio a Putin è chiaro: è finita l'era Obama, durante la quale dalla Siria all'Ucraina il Cremlino ha goduto di una libertà d'azione senza precedenti sia in Medio Oriente che alle porte dell'Europa, tornando centrale su tutti i principali dossier. L'America è tornata, è determinata a difendere i suoi alleati in Europa orientale e non permetterà a Mosca altri blitz come quello che ha portato all'annessione della Crimea e alla crisi ucraina, una situazione che resterà sospesa per molto tempo ancora e che fa tremare Estonia e Lettonia. E non intende lasciare campo libero alla Russia nemmeno nel mercato energetico che interessa i suoi alleati.
Ma il messaggio è diretto anche agli altri alleati europei dell'America: falso che Trump sia la marionetta di Putin. A Varsavia il presidente americano ha chiarito che vede i russi come avversari aggressivi, non come partner o alleati: "Esortiamo la Russia a cessare le sue attività destabilizzanti in Ucraina e altrove, il suo supporto a regimi ostili - come Siria e Iran - e ad unirsi invece alla comunità di nazioni responsabili nella nostra lotta contro nemici comuni e in difesa della civiltà". Come sempre, i russi sono pronti a intascare qualsiasi "carota" gli venga offerta come incentivo iniziale, salvo poi continuare a provocare i danni maggiori possibili, finché non percepiscono di aver urtato contro un vero muro. L'amministrazione Trump sta sviluppando un nuovo approccio con il Cremlino: vuole verificare i margini per una cooperazione, per esempio in Siria, ma al tempo stesso sta tirando su quel muro. Il primo faccia a faccia Trump-Putin, la sua durata e il suo esito, non scontati, dimostrano, come scrivevamo su Formiche dopo il raid americano sulla Siria, che il confronto è duro ma che Washington e Mosca hanno ripreso a parlarsi e lo fanno a tutto campo.
Falso, inoltre, che l'amministrazione Trump voglia liquidare la Nato o che non gli importi granché. Al contrario, per rilanciarla chiede agli alleati il giusto contributo (come fa la Polonia) e una ridefinizione della missione dell'Alleanza.
Il merito del presidente Trump è proprio quello di aver centrato la questione della nostra epoca: l'Occidente ha la volontà di sopravvivere? Non è una questione di capacità e di risorse, ma di volontà... E sembra suggerire che noi europei quella volontà di difenderlo l’abbiamo persa...
Nel suo discorso a Varsavia Trump ha centrato la questione della nostra epoca: l'Occidente ha la *volontà* di sopravvivere? Non è una questione di capacità e di risorse, ma di volontà… E sembra suggerire che noi europei quella volontà di difenderlo l'abbiamo persa…
Del discorso di Trump a Varsavia i mainstream media hanno snobbato sia i contenuti che il paese scelto: la Polonia. Grave errore di comprensione e di analisi. Non solo, infatti, come ha ricordato lo stesso presidente Usa, la Polonia è "il cuore geografico dell'Europa e, più importante, nel popolo polacco vediamo l'anima dell'Europa", ma è anche una delle economie più vivaci dell'Unione europea, con una previsione di crescita del Pil superiore al 3% sia nel 2017 che nel 2018. Ed è tra i pochi membri Nato a soddisfare il parametro di spesa militare del 2% rispetto al Pil.
Distratti e pigri i mainstream media, di certo a Mosca e a Berlino non è passato inosservato il messaggio che l'amministrazione Trump ha voluto mandare scegliendo Varsavia per un discorso sulla difesa dell'Occidente e i suoi valori di libertà e democrazia.
Nel XVII secolo la Confederazione polacco-lituana fu un fondamentale argine all'espansione ottomana in Europa ed ebbe un ruolo decisivo nel respingere i turchi alle porte di Vienna. La Polonia moderna è stretta tra la Germania e la Russia, il popolo polacco ha subito invasioni e dominazioni da entrambe, ma ha resistito orgogliosamente agli spaventosi totalitarismi del Novecento, nazismo e comunismo. Oggi è nazionalista e saldamente occidentale, in prima linea sulla crisi ucraina, e Washington ha voluto far capire che punta proprio sulla Polonia per contenere Russia e Germania.
Due esempi concreti. Proprio a Varsavia Trump ha annunciato l'accordo per la vendita alla Polonia di otto batterie del sistema missilistico americano Patriot, una chiara risposta ai missili Iskander schierati dalla Russia a Kaliningrad. E ha inoltre affermato l'impegno americano "ad assicurare alla Polonia e ai suoi vicini l'accesso a fonti alternative di energia in modo che non siano mai più ostaggio di un singolo fornitore". Gas liquido a Varsavia e carbone a Kiev. Il messaggio a Putin è chiaro: è finita l'era Obama, durante la quale dalla Siria all'Ucraina il Cremlino ha goduto di una libertà d'azione senza precedenti sia in Medio Oriente che alle porte dell'Europa, tornando centrale su tutti i principali dossier. L'America è tornata, è determinata a difendere i suoi alleati in Europa orientale e non permetterà a Mosca altri blitz come quello che ha portato all'annessione della Crimea e alla crisi ucraina, una situazione che resterà sospesa per molto tempo ancora e che fa tremare Estonia e Lettonia. E non intende lasciare campo libero alla Russia nemmeno nel mercato energetico che interessa i suoi alleati.
Ma il messaggio è diretto anche agli altri alleati europei dell'America: falso che Trump sia la marionetta di Putin. A Varsavia il presidente americano ha chiarito che vede i russi come avversari aggressivi, non come partner o alleati: "Esortiamo la Russia a cessare le sue attività destabilizzanti in Ucraina e altrove, il suo supporto a regimi ostili - come Siria e Iran - e ad unirsi invece alla comunità di nazioni responsabili nella nostra lotta contro nemici comuni e in difesa della civiltà". Come sempre, i russi sono pronti a intascare qualsiasi "carota" gli venga offerta come incentivo iniziale, salvo poi continuare a provocare i danni maggiori possibili, finché non percepiscono di aver urtato contro un vero muro. L'amministrazione Trump sta sviluppando un nuovo approccio con il Cremlino: vuole verificare i margini per una cooperazione, per esempio in Siria, ma al tempo stesso sta tirando su quel muro. Il primo faccia a faccia Trump-Putin, la sua durata e il suo esito, non scontati, dimostrano, come scrivevamo su Formiche dopo il raid americano sulla Siria, che il confronto è duro ma che Washington e Mosca hanno ripreso a parlarsi e lo fanno a tutto campo.
Falso, inoltre, che l'amministrazione Trump voglia liquidare la Nato o che non gli importi granché. Al contrario, per rilanciarla chiede agli alleati il giusto contributo (come fa la Polonia) e una ridefinizione della missione dell'Alleanza.
"Gli americani sanno che una forte alleanza di nazioni libere, sovrane e indipendenti è la migliore difesa per le nostre libertà e per i nostri interessi. Per questo motivo la mia amministrazione ha chiesto che tutti i membri della Nato soddisfino definitivamente il proprio obbligo finanziario in modo pieno e giusto".Lo storico Victor Davis Hanson ha definito l’"anti-Cairo" il discorso di Trump a Varsavia, cioè l'antitesi del discorso che pochi mesi dopo il suo insediamento Obama pronunciò nella capitale egiziana, un tentativo di appeasement con il mondo arabo e islamico basato su una sorta di "autodafè" dell'Occidente. Il messaggio "anti-Cairo" di Trump, invece, è che "solo un Occidente forte, organizzato - convinto del suo passato e sicuro del suo attuale successo - riuscirà a dissuadere i suoi nemici, attrarre i neutrali e mantenere gli amici. Che solo lui abbia avuto il coraggio di esprimere l'ovvio, e che sia stato criticato per questo, ci ricorda come il rimedio alla nostra malattia occidentale sia visto come il problema e non la cura", conclude VDH.
Il merito del presidente Trump è proprio quello di aver centrato la questione della nostra epoca: l'Occidente ha la volontà di sopravvivere? Non è una questione di capacità e di risorse, ma di volontà... E sembra suggerire che noi europei quella volontà di difenderlo l’abbiamo persa...
"Dobbiamo ricordare che la nostra difesa non è solo un impegno di denaro, è un impegno di volontà. Perché, come ci ricorda l'esperienza polacca, la difesa dell'Ovest si basa in ultima analisi non solo sui mezzi, ma anche sulla volontà del suo popolo di prevalere e di avere successo e ottenere ciò che si deve avere. La questione fondamentale del nostro tempo è se l'Occidente abbia la volontà di sopravvivere. Abbiamo la fiducia nei nostri valori per difenderli a qualsiasi costo? Abbiamo abbastanza rispetto per i nostri cittadini per proteggere le nostre frontiere? Abbiamo il desiderio e il coraggio di preservare la nostra civiltà di fronte a coloro che vogliono rovesciarla e distruggerla?".
Sunday, July 16, 2017
Dal G20 di Amburgo agli abbracci Trump-Macron sugli Champs-Elysees
Pubblicato su formiche
Dal G20 di Amburgo (una sconfitta casalinga per la Merkel) agli abbracci Trump-Macron sugli Champs-Elysees (manovre di accerchiamento della Germania?), passando per il discorso di Trump a Varsavia in difesa dell'Occidente, snobbato dai media, e l'incontro con Putin, che hanno seppellito i falsi miti su Trump
Con il presidente americano Trump ai Campi Elisi, Parigi, invitato dal presidente francese Macron alle celebrazioni del 14 luglio per la presa della Bastiglia, si chiudono dieci giorni densi di avvenimenti sulla scena internazionale. E si moltiplicano gli indizi che ci inducono a intravedere tempi non facili per la locomotiva tedesca, e quindi per la macchinista, la cancelliera Angela Merkel. Le manovre di accerchiamento sono cominciate, vedremo se assumeranno le sembianze di un vero e proprio assedio a Berlino perché si decida a modificare le sue politiche europee e commerciali.
Forte della sua ambizione e di una solida maggioranza parlamentare, Macron è determinato a riequilibrare il motore franco-tedesco prima che vada fuori giri. Ed è pronto a giocare di sponda con Trump, sfidando persino l'impopolarità del presidente Usa, invitato a cena sulla Tour Eiffel e alle celebrazioni del 14 luglio (con i militari americani ad aprire la parata ai Campi Elisi). Serve luce verde da Washington inoltre per i suoi sogni di "grandeur": la guida della difesa europea e la supremazia francese nel Mediterraneo. Per Londra è addirittura una necessità rivolgersi al di là dell'Atlantico e cercare nell'Anglosfera una prospettiva post-Brexit.
Macron è una buona carta anche per gli Stati Uniti, che hanno sempre sostenuto il progetto europeo, ma non sono contenti della piega germano-centrica che sta prendendo. L'Ue serve a garantire stabilità e benessere agli europei. Gli attuali squilibri, accentuati dalle politiche e dal primato di Berlino, potrebbero non essere sostenibili nel medio periodo e rischiano di compromettere sia stabilità che benessere dell'Europa, indebolendo l'Occidente. Una Germania europea, non un'Europa tedesca avevano in mente gli americani quando hanno sostenuto la riunificazione nel contesto dell'integrazione europea.
Poi c'è la Russia, che preme ai confini orientali dell'Europa. A difesa dei paesi dell'Est, un mercato prezioso per Berlino, non ci sono certo le truppe della cancelliera, ma la Nato, ovvero l'arsenale americano. E nel pieno della crisi con Mosca per l'Ucraina, nonostante il regime di sanzioni, con le sue scelte di politica energetica, tra cui il raddoppio del gasdotto North Stream, la Germania (e l'Ue con essa) ha accresciuto anziché ridurre la dipendenza dal gas russo. Una prospettiva che non può far piacere a Washington.
Ma facciamo un passo indietro. Il G20 di Amburgo si prestava come palcoscenico ideale per l'esordio sulla scena internazionale della "nuova leader del mondo libero" (e liberal), la cancelliera tedesca Angela Merkel. Tuttavia, già alla vigilia si era compreso che qualcosa non tornava, se per far apparire isolata l'America di Trump sul clima aveva dovuto ostentare l'appoggio di Russia e Cina, non esattamente due fari del liberalismo (e ovviamente Putin e Xi non si sono lasciati pregare...), ma soprattutto se la cancelliera, che così meticolosamente in questi mesi ha coltivato il ruolo di Berlino come alfiere del libero commercio e della globalizzazione contro le minacce protezionistiche trumpiane, si era trovata sulla scrivania la seguente storia di copertina dell'Economist: "Il problema tedesco. Perché il surplus commerciale della Germania fa male all'economia mondiale". Ma come, l'organo "ufficiale" dell'intellighentzia "global", dell'ordine economico liberale, che rilancia la stessa identica critica sollevata dall'amministrazione Trump all'indirizzo di Berlino?
Se poi, a leggere la dichiarazione finale del G20 di Amburgo, sulla falsa riga di quella sottoscritta a Taormina, gli echi trumpiani sembrano addirittura dare il tono all'intero documento, non è esagerato parlare di una brutta sconfitta casalinga per la Merkel.
Né i leader del G7 riuniti a Taormina, né quelli del G20 ad Amburgo vedono più la globalizzazione come un fenomeno dalle magnifiche sorti e progressive, anzi ammettono che non tutti ci hanno guadagnato, ci sono dei "perdenti", dei "dimenticati" – quei dimenticati che hanno portato Trump alla Casa Bianca – e riconoscono che "rimangono delle sfide per realizzare una globalizzazione inclusiva, corretta e sostenibile", servono politiche di aggiustamento per mitigarne gli effetti distorsivi.
Ribadito l'impegno per il libero commercio e a "tenere i mercati aperti", tuttavia di fronte "alle pratiche commerciali scorrette" si riconosce "l'uso di strumenti legittimi di difesa commerciale". Strumenti che come abbiamo già scritto per Formiche non fanno solo parte dell'arsenale negoziale del presidente americano, ma sempre più sono invocati anche dai principali soci del club Ue – Francia, Italia e la stessa Germania – per rispondere alle "scorrettezze" cinesi. Nero su bianco, nel documento troviamo le doglianze americane ed europee nei confronti di Pechino sia sul tema dell'acciaio, per la sua eccessiva capacità produttiva, che per il dumping sul costo del lavoro, essendo il mercato cinese ancora lontanissimo dai nostri standard sociali, ambientali e di diritti umani.
A ben vedere nemmeno sul clima la cancelliera tedesca può contare un punto inequivocabilmente a suo favore. Ammesso e non concesso di poter isolare gli Stati Uniti su un tema come il clima, che certo non è alla base dei rapporti transatlantici, l'accordo di Parigi viene sì definito "irreversibile", ma nella dichiarazione si legge anche che verrà applicato "con differenziate responsabilità e rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali". Insomma, una sorta di "liberi tutti", ognuno lo interpreti come vuole... E il presidente turco Erdogan ha già fatto sapere che se non arriva il bonifico dai paesi ricchi la Turchia è anch'essa pronta a uscire dall'accordo.
Sull'immigrazione infine, viene confermato l'approccio già uscito da Taormina: i leader del G20 sottolineano "il diritto sovrano degli stati di controllare e difendere i propri confini e perseguire politiche nel proprio interesse nazionale e per la propria sicurezza nazionale".
Dichiarazione del G20 a parte, a rubare la scena alla Merkel sono stati il discorso di Trump in Polonia e il primo faccia a faccia tra il presidente americano e quello russo, dal quale (doveva durare mezz'ora, senza un'agenda prefissata, ma è durato due ore) è scaturito il primo cessate-il-fuoco a firma Usa-Russia in Siria, sebbene parziale. Certo, le cronache della stampa mainstream vi hanno raccontato altro, ma è comprensibile: il discorso di Varsavia e il primo confronto Trump-Putin hanno contraddetto la narrazione del giornalista collettivo sul nuovo inquilino della Casa Bianca in almeno due aspetti fondamentali. Trump non è il "puppet" di Putin. E l'America di Trump è tutt'altro che isolazionista. "America First" non significa "America alone", come hanno spiegato di recente sul WSJ i consiglieri del presidente McMaster e Cohn. Semmai, vuol dire che l'America è tornata.
Dal G20 di Amburgo (una sconfitta casalinga per la Merkel) agli abbracci Trump-Macron sugli Champs-Elysees (manovre di accerchiamento della Germania?), passando per il discorso di Trump a Varsavia in difesa dell'Occidente, snobbato dai media, e l'incontro con Putin, che hanno seppellito i falsi miti su Trump
Con il presidente americano Trump ai Campi Elisi, Parigi, invitato dal presidente francese Macron alle celebrazioni del 14 luglio per la presa della Bastiglia, si chiudono dieci giorni densi di avvenimenti sulla scena internazionale. E si moltiplicano gli indizi che ci inducono a intravedere tempi non facili per la locomotiva tedesca, e quindi per la macchinista, la cancelliera Angela Merkel. Le manovre di accerchiamento sono cominciate, vedremo se assumeranno le sembianze di un vero e proprio assedio a Berlino perché si decida a modificare le sue politiche europee e commerciali.
Forte della sua ambizione e di una solida maggioranza parlamentare, Macron è determinato a riequilibrare il motore franco-tedesco prima che vada fuori giri. Ed è pronto a giocare di sponda con Trump, sfidando persino l'impopolarità del presidente Usa, invitato a cena sulla Tour Eiffel e alle celebrazioni del 14 luglio (con i militari americani ad aprire la parata ai Campi Elisi). Serve luce verde da Washington inoltre per i suoi sogni di "grandeur": la guida della difesa europea e la supremazia francese nel Mediterraneo. Per Londra è addirittura una necessità rivolgersi al di là dell'Atlantico e cercare nell'Anglosfera una prospettiva post-Brexit.
Macron è una buona carta anche per gli Stati Uniti, che hanno sempre sostenuto il progetto europeo, ma non sono contenti della piega germano-centrica che sta prendendo. L'Ue serve a garantire stabilità e benessere agli europei. Gli attuali squilibri, accentuati dalle politiche e dal primato di Berlino, potrebbero non essere sostenibili nel medio periodo e rischiano di compromettere sia stabilità che benessere dell'Europa, indebolendo l'Occidente. Una Germania europea, non un'Europa tedesca avevano in mente gli americani quando hanno sostenuto la riunificazione nel contesto dell'integrazione europea.
Poi c'è la Russia, che preme ai confini orientali dell'Europa. A difesa dei paesi dell'Est, un mercato prezioso per Berlino, non ci sono certo le truppe della cancelliera, ma la Nato, ovvero l'arsenale americano. E nel pieno della crisi con Mosca per l'Ucraina, nonostante il regime di sanzioni, con le sue scelte di politica energetica, tra cui il raddoppio del gasdotto North Stream, la Germania (e l'Ue con essa) ha accresciuto anziché ridurre la dipendenza dal gas russo. Una prospettiva che non può far piacere a Washington.
Ma facciamo un passo indietro. Il G20 di Amburgo si prestava come palcoscenico ideale per l'esordio sulla scena internazionale della "nuova leader del mondo libero" (e liberal), la cancelliera tedesca Angela Merkel. Tuttavia, già alla vigilia si era compreso che qualcosa non tornava, se per far apparire isolata l'America di Trump sul clima aveva dovuto ostentare l'appoggio di Russia e Cina, non esattamente due fari del liberalismo (e ovviamente Putin e Xi non si sono lasciati pregare...), ma soprattutto se la cancelliera, che così meticolosamente in questi mesi ha coltivato il ruolo di Berlino come alfiere del libero commercio e della globalizzazione contro le minacce protezionistiche trumpiane, si era trovata sulla scrivania la seguente storia di copertina dell'Economist: "Il problema tedesco. Perché il surplus commerciale della Germania fa male all'economia mondiale". Ma come, l'organo "ufficiale" dell'intellighentzia "global", dell'ordine economico liberale, che rilancia la stessa identica critica sollevata dall'amministrazione Trump all'indirizzo di Berlino?
Se poi, a leggere la dichiarazione finale del G20 di Amburgo, sulla falsa riga di quella sottoscritta a Taormina, gli echi trumpiani sembrano addirittura dare il tono all'intero documento, non è esagerato parlare di una brutta sconfitta casalinga per la Merkel.
Né i leader del G7 riuniti a Taormina, né quelli del G20 ad Amburgo vedono più la globalizzazione come un fenomeno dalle magnifiche sorti e progressive, anzi ammettono che non tutti ci hanno guadagnato, ci sono dei "perdenti", dei "dimenticati" – quei dimenticati che hanno portato Trump alla Casa Bianca – e riconoscono che "rimangono delle sfide per realizzare una globalizzazione inclusiva, corretta e sostenibile", servono politiche di aggiustamento per mitigarne gli effetti distorsivi.
Ribadito l'impegno per il libero commercio e a "tenere i mercati aperti", tuttavia di fronte "alle pratiche commerciali scorrette" si riconosce "l'uso di strumenti legittimi di difesa commerciale". Strumenti che come abbiamo già scritto per Formiche non fanno solo parte dell'arsenale negoziale del presidente americano, ma sempre più sono invocati anche dai principali soci del club Ue – Francia, Italia e la stessa Germania – per rispondere alle "scorrettezze" cinesi. Nero su bianco, nel documento troviamo le doglianze americane ed europee nei confronti di Pechino sia sul tema dell'acciaio, per la sua eccessiva capacità produttiva, che per il dumping sul costo del lavoro, essendo il mercato cinese ancora lontanissimo dai nostri standard sociali, ambientali e di diritti umani.
A ben vedere nemmeno sul clima la cancelliera tedesca può contare un punto inequivocabilmente a suo favore. Ammesso e non concesso di poter isolare gli Stati Uniti su un tema come il clima, che certo non è alla base dei rapporti transatlantici, l'accordo di Parigi viene sì definito "irreversibile", ma nella dichiarazione si legge anche che verrà applicato "con differenziate responsabilità e rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali". Insomma, una sorta di "liberi tutti", ognuno lo interpreti come vuole... E il presidente turco Erdogan ha già fatto sapere che se non arriva il bonifico dai paesi ricchi la Turchia è anch'essa pronta a uscire dall'accordo.
Sull'immigrazione infine, viene confermato l'approccio già uscito da Taormina: i leader del G20 sottolineano "il diritto sovrano degli stati di controllare e difendere i propri confini e perseguire politiche nel proprio interesse nazionale e per la propria sicurezza nazionale".
Dichiarazione del G20 a parte, a rubare la scena alla Merkel sono stati il discorso di Trump in Polonia e il primo faccia a faccia tra il presidente americano e quello russo, dal quale (doveva durare mezz'ora, senza un'agenda prefissata, ma è durato due ore) è scaturito il primo cessate-il-fuoco a firma Usa-Russia in Siria, sebbene parziale. Certo, le cronache della stampa mainstream vi hanno raccontato altro, ma è comprensibile: il discorso di Varsavia e il primo confronto Trump-Putin hanno contraddetto la narrazione del giornalista collettivo sul nuovo inquilino della Casa Bianca in almeno due aspetti fondamentali. Trump non è il "puppet" di Putin. E l'America di Trump è tutt'altro che isolazionista. "America First" non significa "America alone", come hanno spiegato di recente sul WSJ i consiglieri del presidente McMaster e Cohn. Semmai, vuol dire che l'America è tornata.
Thursday, July 06, 2017
L'Italia è un pericolo per sé, per gli altri e per l'Europa
Fallimentare il vertice di Tallinn per il governo italiano, ma sui siti della stampa mainstream la notizia è già affossata. In soccorso arriva la scoperta del Cern...
Il problema non è che l'Europa nega "solidarietà" all'Italia, ma che l'Italia insista con politiche dannose per sé, per gli altri e per l'Ue.
La chiusura dei partner europei all'Italia sulla crisi dei migranti è nel loro interesse nazionale, pensano molti, ma in realtà questo è uno dei pochi casi in cui interesse nazionale ed europeo coincidono. Condividere la dissennata politica dei governi italiani sui migranti sarebbe suicida per l'Ue, porterebbe alla disgregazione. È l'Italia che ahimé non riesce a fare né i propri interessi nazionali né quelli dell'Europa e nemmeno se ne rende conto...
Il problema non è che l'Europa nega "solidarietà" all'Italia, ma che l'Italia insista con politiche dannose per sé, per gli altri e per l'Ue.
La chiusura dei partner europei all'Italia sulla crisi dei migranti è nel loro interesse nazionale, pensano molti, ma in realtà questo è uno dei pochi casi in cui interesse nazionale ed europeo coincidono. Condividere la dissennata politica dei governi italiani sui migranti sarebbe suicida per l'Ue, porterebbe alla disgregazione. È l'Italia che ahimé non riesce a fare né i propri interessi nazionali né quelli dell'Europa e nemmeno se ne rende conto...
Monday, July 03, 2017
Italia isolata in Europa sull'emergenza migranti
Hanno ragione Francia, Spagna e Austria, che non sono certo governate da
pericolosi estremisti... E torto l'Italia, che
sull'emergenza migranti, per lo più autoinflitta, non rispetta leggi e
regole, e soprattutto i suoi cittadini
Praticamente, ieri sera al vertice di Parigi sull'emergenza migranti, Francia Germania e Italia hanno adottato il "piano Zuccaro" sulla condotta delle ong. Le prove dovevano essere proprio convincenti...
Se tra i punti dell'intesa sul protocollo di condotta delle ong c'è 1) il divieto di entrare in acque libiche; 2) il divieto di spegnere i trasponder a bordo; e 3) il divieto di lanciare segnali luminosi verso la costa libica, vuol dire che al momento un numero non irrilevante delle navi delle ong fanno esattamente queste tre cose: entrano in acque libiche, spengono i trasponder e lanciano segnali luminosi ai trafficanti. E questo non è soccorso...
Prima, anzi fino a ieri, non c'era nemmeno un'emergenza, era un fenomeno ineluttabile a cui abituarsi, vi dicevano. D'un tratto, nell'arco di un weekend, il fenomeno è diventato "ingestibile", tanto da dover chiudere i porti... E il problema è l'Europa? Qualcosa non torna...
L'emergenza migranti (come il debito pubblico e la nostra interminabile crisi economica) è per lo più autoinflitta, abbiamo incoraggiato il business per anni. Più siamo andati a prenderli vicino alle coste libiche, meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, più vittime in mare. Non ci voleva un genio per capirlo... Chiunque dotato di buon senso e onestà intellettuale non può che concludere che le politiche dei governi italiani e l'attività delle ong hanno di fatto incoraggiato il fenomeno (nient'affatto ineludibile, almeno non in queste forme - tratta di essere umani - e in questi numeri), lo hanno reso meno rischioso e più redditizio per i trafficanti, più mortale per i migranti. Anche il New York Times è xenofobo e razzista??
Certo, la crisi generata dal caos libico (grazie Obama, Clinton, Sarkozy, Cameron), ma è stata aggravata dalle politiche dissennate dei governi Letta e Renzi. Profughi una estrema minoranza, sulle nostre coste arrivano da sempre migranti economici, che spesso non fuggono nemmeno da una condizione di miseria assoluta: leggere queste scomode verità. Di quelli nessuno in Europa ne voleva e ne vuole sapere. Abbiamo ancora la nostra sovranità, i nostri confini e gli strumenti per farli rispettare. È una questione di volontà politica nostra, non di chiedere permessi o aiuti a Bruxelles. Tirare in ballo - ora - l'Ue serve solo a cercare di coprire le responsabilità di chi c'è e di chi c'era al governo...
La realtà è che si sono finalmente accorti che la politica dell'accoglienza è alla lunga insostenibile, che sull'immigrazione senza limiti hanno perso consensi (referendum e amministrative), e ora che le politiche sono dietro l'angolo, et voilà, il "blocco" non è più xenofobo, razzista, disumano. Però per giustificare il cambio di linea prendono come alibi presunte inadempienze dell'Ue. Cialtroni. Ipocriti. Codardi.
E' un gioco delle parti. La relocation riguarda i rifugiati, un'estrema minoranza di quanti arrivano in Italia. Al di là delle pacche sulle spalle, la posizione dell'Ue è chiara da tempo (ed è la più ovvia): identificazione e rimpatri (e aiuti in Africa). Se poi il governo italiano vuole accogliere tutti, problemi suoi. Al massimo uno sconticino sul deficit. Il governo italiano lo sa bene, ma continua a lamentarsi con l'Ue che "non ci aiuta" per giustificare all'opinione pubblica la crisi e il cambio di linea. Poi ci sarebbe il tema Libia, ma l'Ue non esiste (per una soluzione bussare a Washington e Mosca), ogni nazione fa i suoi interessi. Anche questa non è una novità...
Il presidente francese Macron ha il merito di aver detto le cose come stanno, mentre dagli altri solo ipocrisia. "La Francia deve fare la sua parte sull'asilo di persone che vogliono rifugio. Poi c'è il problema dei migranti economici, e questo non è un tema nuovo: l'80% dei migranti che arrivano in Italia sono migranti economici (dati Viminale, ndr). Non dobbiamo confondere". E questa è la vera posizione di tutti i paesi. Solo in Italia si è voluto confondere, per confondere i cittadini, e giustificare un'accoglienza indiscriminata. Ora arriva il conto, politico ed economico.
Praticamente, ieri sera al vertice di Parigi sull'emergenza migranti, Francia Germania e Italia hanno adottato il "piano Zuccaro" sulla condotta delle ong. Le prove dovevano essere proprio convincenti...
Se tra i punti dell'intesa sul protocollo di condotta delle ong c'è 1) il divieto di entrare in acque libiche; 2) il divieto di spegnere i trasponder a bordo; e 3) il divieto di lanciare segnali luminosi verso la costa libica, vuol dire che al momento un numero non irrilevante delle navi delle ong fanno esattamente queste tre cose: entrano in acque libiche, spengono i trasponder e lanciano segnali luminosi ai trafficanti. E questo non è soccorso...
Prima, anzi fino a ieri, non c'era nemmeno un'emergenza, era un fenomeno ineluttabile a cui abituarsi, vi dicevano. D'un tratto, nell'arco di un weekend, il fenomeno è diventato "ingestibile", tanto da dover chiudere i porti... E il problema è l'Europa? Qualcosa non torna...
L'emergenza migranti (come il debito pubblico e la nostra interminabile crisi economica) è per lo più autoinflitta, abbiamo incoraggiato il business per anni. Più siamo andati a prenderli vicino alle coste libiche, meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, più vittime in mare. Non ci voleva un genio per capirlo... Chiunque dotato di buon senso e onestà intellettuale non può che concludere che le politiche dei governi italiani e l'attività delle ong hanno di fatto incoraggiato il fenomeno (nient'affatto ineludibile, almeno non in queste forme - tratta di essere umani - e in questi numeri), lo hanno reso meno rischioso e più redditizio per i trafficanti, più mortale per i migranti. Anche il New York Times è xenofobo e razzista??
Certo, la crisi generata dal caos libico (grazie Obama, Clinton, Sarkozy, Cameron), ma è stata aggravata dalle politiche dissennate dei governi Letta e Renzi. Profughi una estrema minoranza, sulle nostre coste arrivano da sempre migranti economici, che spesso non fuggono nemmeno da una condizione di miseria assoluta: leggere queste scomode verità. Di quelli nessuno in Europa ne voleva e ne vuole sapere. Abbiamo ancora la nostra sovranità, i nostri confini e gli strumenti per farli rispettare. È una questione di volontà politica nostra, non di chiedere permessi o aiuti a Bruxelles. Tirare in ballo - ora - l'Ue serve solo a cercare di coprire le responsabilità di chi c'è e di chi c'era al governo...
La realtà è che si sono finalmente accorti che la politica dell'accoglienza è alla lunga insostenibile, che sull'immigrazione senza limiti hanno perso consensi (referendum e amministrative), e ora che le politiche sono dietro l'angolo, et voilà, il "blocco" non è più xenofobo, razzista, disumano. Però per giustificare il cambio di linea prendono come alibi presunte inadempienze dell'Ue. Cialtroni. Ipocriti. Codardi.
E' un gioco delle parti. La relocation riguarda i rifugiati, un'estrema minoranza di quanti arrivano in Italia. Al di là delle pacche sulle spalle, la posizione dell'Ue è chiara da tempo (ed è la più ovvia): identificazione e rimpatri (e aiuti in Africa). Se poi il governo italiano vuole accogliere tutti, problemi suoi. Al massimo uno sconticino sul deficit. Il governo italiano lo sa bene, ma continua a lamentarsi con l'Ue che "non ci aiuta" per giustificare all'opinione pubblica la crisi e il cambio di linea. Poi ci sarebbe il tema Libia, ma l'Ue non esiste (per una soluzione bussare a Washington e Mosca), ogni nazione fa i suoi interessi. Anche questa non è una novità...
Il presidente francese Macron ha il merito di aver detto le cose come stanno, mentre dagli altri solo ipocrisia. "La Francia deve fare la sua parte sull'asilo di persone che vogliono rifugio. Poi c'è il problema dei migranti economici, e questo non è un tema nuovo: l'80% dei migranti che arrivano in Italia sono migranti economici (dati Viminale, ndr). Non dobbiamo confondere". E questa è la vera posizione di tutti i paesi. Solo in Italia si è voluto confondere, per confondere i cittadini, e giustificare un'accoglienza indiscriminata. Ora arriva il conto, politico ed economico.
Sunday, June 04, 2017
Toh, gli europei che fanno i "trumpiani" in risposta al protezionismo cinese...
Pubblicato su formiche
E meno male che gli uni e gli altri dovevano essere i nuovi campioni del libero commercio... Europa e Cina non
possono dare lezioni di libero commercio, al massimo di ipocrisia...
Le due notizie secondo cui la
cancelliera tedesca Angela Merkel sarebbe la nuova leader del mondo
libero e il presidente cinese Xi Jinping l'alfiere della
globalizzazione e del libero commercio (com'è stato incoronato dopo
l'ultimo World Economic Forum di Davos), nonché da qualche giorno
anche del clima, sono nella migliore delle ipotesi "fortemente
esagerate".
Basti pensare che mentre prendiamo
lezioni di libero commercio da Xi Jinping, la Cina non è ancora
riconosciuta come economia di mercato. E nell'Indice della libertà
economica elaborato ogni anno da Wall Street Journal e Heritage
Foundation risulta al 139esimo posto (tra i paesi "non liberi")
su 178 paesi. Gli Stati Uniti sono all'undicesimo posto, la Germania
è al sedicesimo, la Francia al 73esimo e l'Italia all'80esimo posto.
Negli ultimi cinque anni, mentre gli Stati Uniti hanno ridotto le
loro emissioni di CO2 di 270 milioni di tonnellate, la Cina le ha
aumentate di oltre un miliardo di tonnellate, e anche se Pechino
rispettasse gli impegni presi con l'accordo di Parigi sul clima non
vedremmo progressi significativi fino al 2030.
La realtà è che la leadership cinese
ha saputo capitalizzare al massimo dal punto di vista propagandistico
l'impopolarità del nuovo presidente americano agli occhi
dell'ovattato mondo di Davos e la grande stampa occidentale c'è
cascata in pieno facendo da cassa di risonanza alla propaganda di
Pechino. Non solo gli Stati Uniti, anche l'Europa rifiuta ancora di
riconoscere alla Cina lo status di economia di mercato. E a ragion
veduta. La Cina sostiene a parole il libero commercio, ma nei fatti è
lontanissima da ciò che predica.
Poi, nei giorni scorsi, il ritiro degli
Stati Uniti dall'accordo di Parigi sul clima annunciato dal
presidente Trump proprio mentre era in corso il vertice Ue-Cina ha
offerto ai leader europei e cinesi l'occasione di rivendicare (a
parole, come vedremo) una sorta di leadership "morale",
politica e commerciale che colmerebbe il presunto vuoto lasciato
dagli Stati Uniti. Insomma, Trump avrebbe contribuito a rilanciare
l'asse Ue-Cina e a farne i nuovi campioni del libero commercio e del
clima.
Ma le cose stanno molto diversamente.
Unione europea e Cina sono tra gli attori politici ed economici più
protezionisti del pianeta e il loro vertice è stato un totale
fallimento. Nessun accordo, né passi avanti tra Bruxelles e Pechino.
Nessuna dichiarazione congiunta, nemmeno per esprimere la sbandierata
sintonia sul clima, che infatti nella realtà non va oltre la
condivisione della polemica nei confronti di Washington per la
decisione di ritirarsi dall'accordo di Parigi ed è servita solo a
mascherare il fallimento del vertice. Nessun passo avanti, per
esempio, è stato compiuto su uno dei temi in cima all'agenda dei
colloqui: l'accesso da parte europea al mercato cinese degli
investimenti, oggi ostacolato dalle barriere protezionistiche di
Pechino.
Il valore delle acquisizioni di
compagnie europee da parte dei cinesi ha raggiunto nel 2016 il valore
record di 48 miliardi di dollari (quasi il doppio rispetto al 2015)
mentre, a causa delle restrizioni di Pechino nell'accesso ai suoi
mercati, quelle europee in Cina sono crollate rispetto al 2013 e nel
2016 si sono fermate intorno al miliardo (dati Dealogic/Wall Street
Journal). Secondo stime più caute, il rapporto sarebbe di 4 a 1 (35
miliardi di dollari il valore delle acquisizioni cinesi in Europa,
+77% rispetto all'anno precedente, contro gli 8 miliardi da parte
europea in Cina, in calo del 23%).
"Il commercio con la Cina
dev'essere basato sulla reciprocità". Alle compagnie europee
dev'essere garantito un "uguale trattamento". La
"sovracapacità" cinese nella produzione di acciaio è un
problema. Si tratta degli ultimi tweet del presidente americano
Donald Trump? No, delle affermazioni, rispettivamente, del
commissario europeo al commercio Cecilia Malmstrom, incalzata dal
Parlamento europeo, della cancelliera tedesca Angela Merkel e del
presidente della Commissione europea Juncker, all'indirizzo dei
leader cinesi.
Tuttavia, nonostante le promesse
pubbliche, il regime di Pechino in questi anni ha fatto orecchie da
mercante e non solo si rifiuta di garantire alle compagnie europee
pieno accesso ai suoi mercati, ma di fatto elude anche ogni tentativo
di iniziare una discussione vera in proposito. Anzi, secondo un
recente studio, per le imprese europee il sistema economico cinese
nel suo complesso è peggiorato nel corso degli ultimi anni. Invece
di assistere ad una maggiore liberalizzazione, si aggravano le
distorsioni provocate dall'intervento pubblico e le imprese europee
si scontrano con una sorta di "età dell'oro" per i grandi
gruppi cinesi a partecipazione statale. Gli stessi che riempiti di
capitali pubblici vengono poi a fare shopping in Europa. Inoltre, con
la scusa della cyber-security e del controllo della Rete, alle
autorità governative è garantito accesso a dati industriali
sensibili e ai progetti ad alta tecnologia delle imprese che operano
in Cina.
Tutto questo sta alimentando una
reazione protezionista nei governi e nei parlamenti europei, che
stanno chiedendo alla Commissione europea nuovi strumenti di difesa
commerciale, per esempio un meccanismo di controllo per vagliare gli
investimenti stranieri in Europa. Le pressioni europee per proteggere
industrie o settori di rilievo strategico e importanti per gli
interessi di sicurezza nazionale si fanno sempre più incalzanti alla
luce del vero e proprio shopping compulsivo soprattutto da parte
cinese. I governi di Germania, Francia e Italia, cioè gli stessi in
prima linea nel bacchettare Trump sul commercio, hanno chiesto alla
Commissione europea di considerare un blocco generalizzato delle
acquisizioni da parte di investitori non europei di compagnie ad alta
innovazione tecnologica. "Siamo preoccupati della mancanza di
reciprocità e della possibile svendita delle competenze europee",
lamentano i governi di Berlino, Parigi e Roma in una dichiarazione
congiunta indirizzata alla Commissione Ue. "Occorre una
soluzione europea... una ulteriore protezione". La strategia di
Pechino sembra funzionare infatti nell'aiutare le compagnie cinesi a
ridurre il gap tecnologico con i concorrenti internazionali e secondo
alcuni studi la Cina potrebbe essere in grado di colmare del tutto il
gap di innovazione già dal 2020. Sta quindi guadagnando consensi in
Europa la proposta di creare una versione europea del "Comitato
sugli investimenti stranieri" statunitense, che ha il compito di
indagare a fondo sugli investimenti stranieri in settori strategici e
sensibili dell'economia.
Insomma, la "nuova via della Seta"
annunciata in pompa magna da Pechino per espandere il commercio
Europa-Cina, e celebrata dalla grande stampa europea come la
definitiva adesione del regime al libero mercato in contrapposizione
alle presunte chiusure americane, non è che un bluff che non incanta
più nessuno.
Ed esattamente come il presidente Trump
nei confronti dei principali partner commerciali degli Stati Uniti,
anche l'Unione europea sta agitando la minaccia di un mercato europeo
più protetto, più chiuso, per convincere i leader cinesi ad aprire
davvero il loro mercato. D'altra parte, se è vero come sostengono
Stati Uniti ed Europa che la Cina non può ancora essere considerata
un'economia di libero mercato (il che ne dovrebbe mettere in dubbio
la stessa adesione al Wto), come può esserci un "fair trade",
una competizione leale e corretta? Se si ammette questo, tutto il
dibattito sulla globalizzazione e le sue distorsioni prende un'altra
piega, facendo apparire un po' meno "liberale" chi la
difende a spada tratta e un po' meno "illiberali" coloro
che parlano di riequilibrio e reciprocità.
Wednesday, May 31, 2017
Quale Europa senza inglesi e americani?
Non c'è dubbio: Brexit e Trump sono argomenti forti a favore di un rafforzamento politico e istituzionale dell'Ue. Però bisogna vedere di che tipo di Europa stiamo parlando e soprattutto, prese le distanze da inglesi e americani, nelle mani di chi finirebbe il nostro destino...
E poi, gli altri membri del club concordano sul fatto che il rinnovato impulso al progetto europeo avvenga a scapito dei rapporti transatlantici, che forse i tedeschi hanno dovuto ingoiare per 70 anni ma altri intrattengono ben volentieri?
Sul Financial Times, Gideon Rachman definisce un "passo falso" quello della Merkel...
E a proposito del ritiro americano dall'accordo di Parigi sul clima... "Since when is a difference of opinion on climate policy a signal of US retreat from Europe?" chiede il Wall Street Journal. Da quando le politiche sul clima sono alla base dell'alleanza transatlantica? Sulla Nato, invece, si direbbe che l'alleato inaffidabile è la Germania... che spende una cifra ridicola nella difesa rispetto alla sua ricchezza e contribuisce pochissimo alle missioni. Però adesso vuole farsi una difesa comune "europea"...
Intanto, sempre sul WSJ il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster e il consigliere economico di Trump, Gary D. Cohn, spiegano che "America First doesn't mean America alone".
E poi, gli altri membri del club concordano sul fatto che il rinnovato impulso al progetto europeo avvenga a scapito dei rapporti transatlantici, che forse i tedeschi hanno dovuto ingoiare per 70 anni ma altri intrattengono ben volentieri?
Sul Financial Times, Gideon Rachman definisce un "passo falso" quello della Merkel...
"It is baffling that a German leader could stand in a beer-tent in Bavaria and announce a separation from Britain and the US while bracketing those two countries with Russia. The historical resonances should be chilling.Ma attenzione, perché a volte i desideri diventano realtà: la Merkel rischia di dare a Trump esattamente ciò che vuole... che l'Europa diventi responsabile della sua difesa.
...
some have even proclaimed that the German chancellor is now the true leader of the western world. That title was bestowed prematurely. The sad reality is that Ms Merkel seems to have little interest in fighting to save the western alliance."
E a proposito del ritiro americano dall'accordo di Parigi sul clima... "Since when is a difference of opinion on climate policy a signal of US retreat from Europe?" chiede il Wall Street Journal. Da quando le politiche sul clima sono alla base dell'alleanza transatlantica? Sulla Nato, invece, si direbbe che l'alleato inaffidabile è la Germania... che spende una cifra ridicola nella difesa rispetto alla sua ricchezza e contribuisce pochissimo alle missioni. Però adesso vuole farsi una difesa comune "europea"...
Intanto, sempre sul WSJ il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster e il consigliere economico di Trump, Gary D. Cohn, spiegano che "America First doesn't mean America alone".
Monday, May 29, 2017
Il ritorno della leadership americana (ma is not for free) e della "questione tedesca"
Pubblicato su formiche
La leadership americana è tornata
ma "is not for free" e la Merkel perde la sua proverbiale
calma teutonica e svela i piani tedeschi sull'Europa. E se la
cancelliera, non Trump, fosse uscita ridimensionata da Taormina?
Terminato il primo viaggio all'estero
del presidente Trump, unendo i puntini disseminati nelle varie tappe
possiamo provare a tratteggiare il disegno complessivo della politica
estera della sua amministrazione. Innanzitutto, i temi che andranno
studiati e approfonditi nei prossimi mesi. C'è il tema del ritorno
della leadership americana. Una leadership che però, diversamente
dal passato, "is not for free", non sarà gratis. Per
nessuno. Nemmeno per gli europei con i quali gli Stati Uniti
condividono i valori di libertà e democrazia. L'America non vuole
più pagare per la sicurezza e il benessere altrui. E Donald Trump ha
presentato il conto. Non sarà gratis né sul piano militare, gli
alleati dovranno accollarsi la giusta quota di spese e di oneri. Né
sul piano commerciale: gli Stati Uniti non sono più disponibili a
perdere tessuto produttivo e posti di lavoro sull'altare del libero
commercio mondiale e della globalizzazione. La parola chiave è
reciprocità. Inoltre, è una leadership dalla natura molto diversa
da quella che i suoi predecessori hanno cercato con alterne fortune
di esercitare. Non di natura "imperiale", ma una leadership
esercitata come nazione. Gli Stati Uniti sono una nazione sovrana
ancora in grado di, e determinata a, tutelare i propri interessi
nazionali e valori ovunque siano minacciati nel mondo, ma non
pretendono di dare lezioni alle altre nazioni su come vivere a casa
loro. Né nella variante "esportazione della democrazia" di
Bush jr, né in quella liberal e global di Obama.
Un altro tema, collegato al primo, è
il ritorno delle nazioni e dei confini: nella dichiarazione finale
del G7 di Taormina, accanto ai diritti dei migranti e dei rifugiati,
si ribadiscono, su richiesta di Trump sostenuta probabilmente da
altri leader, "i diritti sovrani degli Stati, individualmente e
collettivamente, a controllare i propri confini e stabilire politiche
nell'interesse nazionale e per la sicurezza nazionale".
Terzo tema, anch'esso collegato agli
altri due. Si è manifestato l'approccio affaristico, da negoziatore
di Trump alla politica estera. Le alleanze e i consessi multilaterali
sono utili solo se attraverso il negoziato tra i partner si arriva a
un compromesso funzionale agli interessi americani, altrimenti sono
solo un peso di cui liberarsi: "America First". Un
approccio però mitigato, per esempio per quanto riguarda la Nato,
dal team di politica estera e di sicurezza dell'amministrazione Usa,
di cui fanno parte il segretario alla difesa Mattis, il segretario di
Stato Tillerson e il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster,
il cui approccio è più tradizionale e vede nell'Alleanza atlantica,
per la comunanza di valori tra i paesi membri, un asset strategico in
sé per gli Stati Uniti, e un moltiplicatore di forza.
Quarto tema: si è ormai affermata a
questo G7, e per impulso non solo della presidenza americana, una
visione meno ottimistica della globalizzazione. Siamo entrati nella
fase degli aggiustamenti da apportare per correggere le distorsioni
provocate da quell'ordine aperto e "liberale", da "fine
della storia", che era stato edificato a partire dalla fine
della Guerra Fredda. Il premier italiano Gentiloni sembra aver
afferrato lo spirito del tempo rappresentato da Trump quando ha detto
che "una certa ebbrezza della globalizzazione è alle nostre
spalle. Dirsi a favore del libero scambio non significa non rendersi
conto delle diseguaglianze più estreme e combatterle". La
parola chiave è "riequilibrio". Nella dichiarazione finale
del G7 viene sì ribadito l'impegno a tenere i mercati aperti e
combattere il protezionismo. Ma viene anche introdotto il concetto
caro a Trump di "fair trade" e reciprocità dei vantaggi. I
leader "spingono per la rimozione di tutte le pratiche
commerciali distorsive (dumping, barriere non tariffarie
discriminatorie, trasferimenti di tecnologia forzati, sussidi e altri
sostegni dai governi e dalle istituzioni) in modo da incoraggiare
condizioni realmente uguali per tutti". Il commercio
internazionale deve essere libero, ma corretto e riequilibrato. Sulla
globalizzazione i leader del G7 sembrano aver recepito dunque il
messaggio portato da Trump: si va verso una correzione di rotta,
anche perché la crisi del ceto medio in tutti i paesi avanzati, la
sua mancanza di prosperità e soprattutto di prospettive, rischia di
far deragliare anche le istituzioni democratiche.
Quinto e ultimo tema: era già in crisi
da tempo, ma da domenica sembra improvvisamente superato l'ordine
mondiale post-1945, che ha visto il mondo occidentale prima compatto
nel contrapporsi al blocco sovietico e poi, cessata la minaccia
comunista, impegnato nel realizzare le magnifiche sorti e progressive
della globalizzazione. La divisione che sta emergendo tra le nazioni
occidentali, l'Anglosfera da una parte e l'Europa continentale,
Germania in testa, dall'altra, con la Francia in mezzo, sembra
ricalcare quella ottocentesca, precedente al primo conflitto
mondiale. In questo contesto, la frattura Trump-Merkel segna il
ritorno in Occidente della "questione tedesca", un
nazionalismo ben travestito da europeismo.
Nelle varie tappe del viaggio del
presidente Trump (Medio Oriente, Nato a Bruxelles, G7 di Taormina)
sono emersi con maggiore chiarezza gli attori internazionali che a
Washington sono considerati alleati, vecchi o nuovi, e avversari. Per
la precisione, due nemici e tre avversari strategici. I nemici si
trovano in Medio Oriente: l'Isis ovviamente, ma in generale
l'estremismo islamico, e l'Iran, ritenuto il principale stato sponsor
del terrorismo al mondo e fattore di instabilità in Medio Oriente.
Nel discorso di Riad, che abbiamo analizzato in un precedente articolo per Formiche, il presidente Trump ha assicurato ai
tradizionali alleati arabi sunniti l'impegno Usa a contenere e
isolare l'Iran. Ma anche questa alleanza non è gratis: i leader
arabi dovranno in cambio combattere per davvero l'estremismo
islamico. Gli avversari, con i quali cooperare quando possibile e
confrontarsi per indurli a mutare comportamenti che ledono gli
interessi americani, sono innanzitutto Russia e Cina. Il raid
americano in Siria in risposta all'attacco chimico ordinato da Assad
sulla popolazione civile è servito a mettere pressione su entrambe.
Sulla Russia, per indurla a rompere il suo asse con Teheran e a
dimostrare di essere un player responsabile, che coopera per la
stabilità della regione, se vuol essere reintegrata nel tavolo dei
grandi. Trump non intende regalare nulla a Putin sull'Ucraina: gli
Usa continuano a considerare illegale l'annessione della Crimea da
parte russa e le sanzioni contro Mosca resteranno in vigore fino alla
completa applicazione degli accordi di Minsk e al completo rispetto
della sovranità e integrità dell'Ucraina (stessa linea ribadita
nella dichiarazione finale del G7 di Taormina). Pressione anche sulla
Cina, per indurla a esercitare tutta la sua influenza per
disinnescare la minaccia nucleare della Corea del Nord. Non solo nei
giorni scorsi la terza portaerei Usa è giunta nella zona della
penisola coreana, ma il cacciatorpediniere Uss Dewey si è addentrato
entro le 12 miglia dalla costa di una delle isole artificiali
realizzate da Pechino nel Mar cinese meridionale, dimostrando che
Washington non riconosce la sovranità cinese su quelle isole e
quelle acque.
Ma come è emerso dall'ultima tappa del
viaggio di Trump, il G7 di Taormina, c'è un terzo avversario. Potrà
destare una certa sorpresa, ma è in Europa: la Germania. Investito
dal "ciclone Trump", come definito dal direttore del
quotidiano La Stampa Maurizio Molinari, è stato un G7 di svolta,
lontano dall'unanimismo inconcludente che di solito caratterizza
questi vertici. Nonostante i media abbiano tentato di rappresentare
Trump come un bullo, distratto oltre i limiti della maleducazione, le
impressioni riportate dagli stessi leader partecipanti al vertice
dicono altro. Il presidente americano è apparso sì determinato
nella difesa delle sue posizioni sui vari temi, e anche con un certo
grado di successo, ma anche aperto e curioso nell'ascoltare le
argomentazioni altrui. Trump viene descritto come "attento e
partecipe" (persino nel momento del 'drafting') dal premier
Gentiloni: "Molto dialogante, molto curioso, con una capacità e
una volontà di interloquire e apprendere da tutti gli
interlocutori". "Ho trovato una persona aperta che ha
volontà di lavorare con noi", ha ammesso anche il presidente
francese Macron, che domenica in un'intervista al Corriere si è
mostrato ottimista sul presidente americano: "E' una personalità
forte, decisa, ma aperta, pragmatica, realista, capace sia di
ascoltare, sia di arrivare dritta al punto". Ha accettato di
confrontarsi, non si è chiamato fuori, il G7 non è fallito:
"Abbiamo dimostrato di essere una comunità di valori e Trump ne
fa parte, non si chiama fuori. Farà la sua parte".
Toni molto diversi anche nel riferire
la discussione e il mancato accordo con gli Stati Uniti sul clima tra
la Merkel, che ha parlato di una "discussione difficile, o
piuttosto molto insoddisfacente", e lo stesso Macron, che invece
ha riferito di "discussioni ricche, progressi, vero scambio",
e di aver visto un Trump "pragmatico", propenso ad
ascoltare. Non tutti i leader insomma hanno preso così male come la
cancelliera tedesca le "divergenze" con Trump al G7 di
Taormina. Che si siano resi conto che il presidente americano può
offrire una valida sponda per ridimensionare l'egemonia tedesca in
Europa?
L'impressione infatti è che durante il
vertice il pressing di Trump sia stato particolarmente forte su
Berlino, soprattutto riguardo il commercio: ha definito "molto
cattiva" la politica tedesca dei surplus commerciali. E il
fastidio per i surplus tedeschi è un sentimento condiviso da molti
paesi europei. Sul commercio il presidente Usa sembra aver trovato in
Macron una sponda: "Basta dumping sociale" da parte di
paesi dove gli operai hanno bassi salari e nessun diritto, "basta
lavoratori delocalizzati". Chissà che fra i due non sia
scoccata una scintilla, una sintonia personale… Il presidente
francese, ha osservato anche Molinari, "si è rivelato il più
attento alle istanze americane: anche lui è arrivato all'Eliseo
spinto dalla protesta contro le diseguaglianze ed i partiti
tradizionali, rendendosi conto della necessità di un cambio di
approccio alla distribuzione della ricchezza globale".
Invece che uscire ridimensionato Trump,
da questo G7 potrebbe essere uscita ridimensionata (e persino un po'
isolata) la Merkel. E questo spiegherebbe perché domenica la
cancelliera ha rincarato la dose: "I tempi in cui potevamo
fidarci completamente degli altri sono passati da un bel pezzo,
questo l'ho capito negli ultimi giorni. Noi europei dobbiamo davvero
prendere il nostro destino nelle nostre mani". Nella frase
successiva, sulla necessità di mantenere naturalmente "relazioni
amichevoli con Stati Uniti e Regno Unito", sullo stesso piano
tra "gli altri vicini" dell'Europa ha citato la Russia di
Putin. Con le sue parole la Merkel suggerisce di considerare concluso
l'ordine mondiale post-bellico, noi europei dovremmo smettere di
considerare i nostri liberatori, Stati Uniti e Regno Unito, "alleati
affidabili", per entrare in una nuova epoca di equidistanza dai
nostri vicini a Occidente e ad Oriente. Ma la solidarietà
transatlantica può andare in frantumi per una divergenza
sull'accordo di Parigi sul clima? O è solo un pretesto?
Sempre domenica la Frankfurter
Allgemeine Zeitung ha riferito di un "piano segreto" della
cancelliera per costruire una Unione europea politicamente ed
economicamente più forte e indipendente. Un piano basato su tre
pilastri: prioritaria la gestione della crisi dei migranti, quindi la
stabilizzazione della Libia; una politica di difesa comune, con il
via libera a un comando centrale di contingenti degli eserciti
europei; e infine l'unione economica e monetaria, con il governatore
della Bundesbank Jens Weidmann pronto a sostituire Mario Draghi al
timone. Il piano di un'Europa equidistante tra Stati Uniti e Russia
non è nuovo, è coltivato da anni a Parigi e a Berlino e le
dichiarazioni di Angela Merkel non fanno altro che evocarlo. Un piano
che però può rivelarsi un'illusione, se non addirittura un incubo.
Un'Europa distante da Washington e Londra, esposta all'aggressività
della Russia, assediata dall'estremismo islamico e dalla pressione
demografica di Medio Oriente e Nord Africa… Auguri.
La realtà è che di strappo in strappo
il processo di allontanamento della Germania dagli Stati Uniti non
nasce con Trump e va avanti dalla riunificazione tedesca, che non
sarebbe avvenuta così speditamente e morbidamente senza il sostegno
degli Stati Uniti, contro i pareri dei russi, dei britannici e dei
francesi. Ricordiamo la contrarietà dell'allora premier britannica
Margaret Thatcher (la riunificazione "non porterà a una
Germania europea ma a un'Europa tedesca"), le preoccupazioni
dell'allora presidente francese Mitterand (farà riemergere i
tedeschi "cattivi") e l'emblematica battuta dell'ex
presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti: "Amo
talmente tanto la Germania che ne preferivo due". Ma da allora
(altro che Trump…) la Germania non ha fatto altro che distanziarsi
dall'alleato americano. Fin dalla crisi jugoslava. Berlino decideva
di procedere al riconoscimento di Slovenia e Croazia, senza attendere
l'Europa e contro il parere di Washington, salvo poi rifiutare di
assumersi la responsabilità di gestire la crisi come chiedevano gli
americani. Nel 2003 la rottura tra Bush e Schroeder sulla guerra in
Iraq. Pur nella cordialità e nella stima reciproca, le relazioni non
sono migliorate tra il presidente Obama e la cancelliera Merkel, che
ha ignorato le richieste americane di abbandonare l'austerità per
una politica economica espansiva dopo la crisi finanziaria del 2008 e
la crisi dell'Eurozona nel 2010.
La riunificazione tedesca fu accettata
sulla base della duplice garanzia dell'appartenenza della nuova
Germania alla Nato e del quadro politico-istituzionale dell'Ue,
all'interno di un ordine post-1945 che la vedeva in stretta
partnership con i due vincitori occidentali della guerra: Stati Uniti
e Regno Unito. Ma ora, assunta la guida politica ed economica dell'Ue
(senza Londra nessun paese membro, nemmeno la Francia, può
rappresentare un efficace contrappeso), la Germania ci spiega che
sarebbe arrivato il momento di non ritenere più affidabili americani
e inglesi come alleati e guarda caso di progettare una difesa comune
europea, in prospettiva alternativa alla Nato.
"Con la Brexit svanisce la
speranza più realistica per una soluzione europea alla nuova
questione tedesca" e "la prospettiva di un cambiamento
viene dall'esterno dell'Europa", avverte il politologo Walter
Russell Mead, spiegando come l'europeismo di cui i tedeschi vanno
così fieri nasconda in realtà politiche nazionaliste. Un'analisi che abbiamo già riportato per Formiche. Cosa succede, si
chiede, "se la Germania non è più vista come un pilastro leale
dell'Occidente, ma come una potenza sconsiderata e mercantilista che
mina l'Europa e danneggia l'economia americana"? La leadership
tedesca infatti "poggia su basi insostenibili, al prezzo di
un'Unione europea sempre più instabile e divisa". "Se
Russia, Turchia e Stati Uniti sono uniti nell'opporsi al progetto
tedesco (sebbene non per gli stessi motivi e non con gli stessi
obiettivi), e se è crescente il malessere di buona parte dei Paesi
Ue, prima o poi il sistema si scontrerà con sfide che non può
superare. Lo status quo - conclude WRM - non può durare, e più a
lungo Berlino ritarda un cambio di rotta, più sarà doloroso, più
alto sarà il prezzo che dovrà essere pagato".
A questo punto bisogna rispondere ad
alcune domande: vuole liquidare la Nato chi pretende che ogni membro
contribuisca il giusto, il pattuito, e propone un riorientamento
strategico dell'alleanza sulla lotta al terrorismo, oppure chi pur
tra i membri più ricchi non spende quanto dovuto, né partecipa alle
missioni quanto potrebbe? Chi vuole liquidare la Nato non è
Washington, non è alla Casa Bianca, ma è a Berlino. E' la Germania,
con una spesa militare ridicola rispetto alla sua ricchezza e una
partecipazione quasi nulla alle missioni, che ora che il Regno Unito
è fuori dall'Ue intende lanciare la difesa comune europea, in
prospettiva alternativa alla Nato e come ombrello del suo riarmo.
Tuesday, May 16, 2017
Le scomode conclusioni della Commissione Difesa
Alcune delle conclusioni approvate con voto unanime dalla Commissione Difesa del Senato al termine dell'indagine conoscitiva sul ruolo delle Ong nei salvataggi di migranti in mare:
1) "In nessun modo può ritenersi consentita dal diritto interno e internazionale, né è desiderabile, la creazione di corridoi umanitari da parte di soggetti privati, trattandosi di un compito che compete esclusivamente agli Stati e alle organizzazioni internazionali e sovranazionali".
2) Per le Ong impegnate nel soccorso in mare ai migranti, "occorre elaborare forme di accreditamento e certificazione che escludano alla radice ogni sospetto di scarsa trasparenza organizzativa e operativa".
3) L'intervento di polizia giudiziaria dovrebbe essere "contestuale" al salvataggio. "Al fine di non disperdere preziosi dati ed elementi di prova utili per perseguire i trafficanti di esseri umani, sarebbe opportuno adeguare l'ordinamento italiano o comunque prevedere modalità operative tali da consentire l'intervento tempestivo della polizia giudiziaria contestualmente al salvataggio da parte delle Ong. Parallelamente, occorrerebbe potenziare la forza e gli strumenti investigativi, favorendo ad esempio l'intercettazione dei telefoni satellitari".
Dati Frontex: nel 2017 sono arrivati illegalmente nell'Unione europea l'84% in meno dei migranti rispetto allo stesso periodo del 2016, mentre in Italia ne sono arrivati il 33% in più (principali paesi di provenienza: Nigeria, Bangladesh e Costa d'Avorio). Siamo il ventre molle d'Europa...
1) "In nessun modo può ritenersi consentita dal diritto interno e internazionale, né è desiderabile, la creazione di corridoi umanitari da parte di soggetti privati, trattandosi di un compito che compete esclusivamente agli Stati e alle organizzazioni internazionali e sovranazionali".
2) Per le Ong impegnate nel soccorso in mare ai migranti, "occorre elaborare forme di accreditamento e certificazione che escludano alla radice ogni sospetto di scarsa trasparenza organizzativa e operativa".
3) L'intervento di polizia giudiziaria dovrebbe essere "contestuale" al salvataggio. "Al fine di non disperdere preziosi dati ed elementi di prova utili per perseguire i trafficanti di esseri umani, sarebbe opportuno adeguare l'ordinamento italiano o comunque prevedere modalità operative tali da consentire l'intervento tempestivo della polizia giudiziaria contestualmente al salvataggio da parte delle Ong. Parallelamente, occorrerebbe potenziare la forza e gli strumenti investigativi, favorendo ad esempio l'intercettazione dei telefoni satellitari".
Dati Frontex: nel 2017 sono arrivati illegalmente nell'Unione europea l'84% in meno dei migranti rispetto allo stesso periodo del 2016, mentre in Italia ne sono arrivati il 33% in più (principali paesi di provenienza: Nigeria, Bangladesh e Costa d'Avorio). Siamo il ventre molle d'Europa...
Thursday, May 11, 2017
Nessun "Bregret", non hanno cambiato idea
Ve la ricordate la narrazione tanto cara ai nostri mainstream media, e anche a Bruxelles, ripetuta allo sfinimento con la certezza di chi la sa lunga? I britannici si sarebbero molto presto pentiti della Brexit. Anche coloro che hanno votato "Leave" avrebbero voluto poter tornare indietro. Ebbene, secondo i sondaggi YouGov, per ora non è accaduto nulla di tutto questo. Non solo nessun "Bregret", chi ha votato Leave o Remain il 23 giugno 2016 è ancora convinto di aver votato correttamente. Ma una parte consistente di quanti votarono Remain oggi ritiene che il governo debba dare seguito alla volontà popolare. La Brexit quindi va attuata per il 69% dei britannici. E il 55% è d'accordo con la premier Theresa May, quando dice "no deal is better than a bad deal".
Dunque, siete proprio sicuri che stanno a Londra quelli che si illudono, quelli che vivono "in un'altra galassia"?
Se hanno scambiato la May per uno Tsipras, e gli inglesi per greci, direi che a "farsi illusioni" siano i burocrati di Bruxelles... Sono pericolosi per sé e per gli altri, cioè per noi.
Il presidente della Commissione europea Juncker avrebbe riferito di una cena "disastrosa" avuta con la premier britannica Theresa May. Dopo un'ora e mezza, avrebbe lasciato la tavola "dieci volte più scettico" sulle possibilità di arrivare ad un accordo sulla Brexit entro due anni. Ora, bisogna capire se questo prima o dopo le pinte di birra che si è scolato alla cena. E se era anche dieci volte più brillo del solito... A Juncker non dovrebbe essere consentito guidare un'auto, figuriamoci condurre dei negoziati...
Dunque, siete proprio sicuri che stanno a Londra quelli che si illudono, quelli che vivono "in un'altra galassia"?
Se hanno scambiato la May per uno Tsipras, e gli inglesi per greci, direi che a "farsi illusioni" siano i burocrati di Bruxelles... Sono pericolosi per sé e per gli altri, cioè per noi.
Il presidente della Commissione europea Juncker avrebbe riferito di una cena "disastrosa" avuta con la premier britannica Theresa May. Dopo un'ora e mezza, avrebbe lasciato la tavola "dieci volte più scettico" sulle possibilità di arrivare ad un accordo sulla Brexit entro due anni. Ora, bisogna capire se questo prima o dopo le pinte di birra che si è scolato alla cena. E se era anche dieci volte più brillo del solito... A Juncker non dovrebbe essere consentito guidare un'auto, figuriamoci condurre dei negoziati...
Monday, May 08, 2017
Tre illusioni con le quali evitare di coccolarsi dopo la vittoria di Macron
Pubblicato su formiche
Ci sono almeno tre illusioni con le quali sarebbe meglio non coccolarsi dopo l'entusiasmante cavalcata di Emmanuel Macron verso l'Eliseo.
Illudersi di aver ri-trovato nell'europeismo una sorta di antidoto ai cosiddetti populismi (sempre ammesso che sia corretto definirli tali, ma non vuol essere questa la sede per approfondire questo aspetto).
Illudersi che la cura Macron possa bastare per guarire la Francia, e l'Unione europea.
Illudersi, come stanno facendo i "renziani", che Macron sia il "Renzi francese" o, viceversa, che Matteo Renzi possa diventare il "Macron italiano".
Punto primo. Ammesso che l'Europa da debolezza si sia trasformata in un punto di forza per Macron, funzionando quindi da "antidoto" contro la Le Pen, non è detto che possa funzionare in altri contesti e contro altri populismi. Siamo onesti: con Macron ha vinto l'europeismo o la paura del lepenismo? Una combinazione dei due, probabilmente: il primo lo ha aiutato ad arrivare al ballottaggio (anche se altrettanto decisivo è stato l'azzoppamento per via mediatico-giudiziaria del candidato gollista Fillon), ma è stata la seconda a portarlo all'Eliseo. Molti degli elettori che al secondo turno hanno fatto convergere il loro voto sul leader di "En Marche" non lo hanno certo fatto inebriati dall'Inno alla gioia. La vittoria di Macron, avverte il Wall Street Journal, "è molto più un rifiuto dell'estrema destra del Front National che un appoggio al suo programma".
Oltre ai suoi indiscutibili meriti personali, il suo successo si deve a una spregiudicata e brillante operazione di maquillage giovanilista e dissimulazione politica, che ha fatto apparire come outsider ed estraneo agli screditati partiti tradizionali l'ex ministro dell'economia del governo socialista di Hollande, uno dei più impopolari della storia della V Repubblica. I socialisti più assennati, riformisti, cercheranno di riciclarsi in "En Marche" (come l'ex premier Valls), con la benedizione di Hollande, mentre il partito fa la fine di una "bad company" sulle cui spalle sono stati caricati tutti i debiti politici degli ultimi cinque anni. Ma soprattutto, Macron è arrivato all'Eliseo perché la sua avversaria era gravata da un retaggio ideologico che al ballottaggio non le ha permesso di attrarre sufficienti voti da appartenenze politiche diverse. Nonostante quasi maggioritari in Francia (il 49% circa al primo turno), i sentimenti anti-establishment e anti-europeisti di spezzoni di elettorato divisi ideologicamente lungo l'asse novecentesco destra-sinistra non hanno potuto trovare la saldatura in un movimento post-ideologico. Pur cominciando a mostrare le prime crepe, infatti, la maggior parte degli elettori francesi ha esercitato ancora una volta la "conventio ad excludendum" nei confronti del lepenismo, un meccanismo peculiare del sistema politico francese che in altri contesti non scatterebbe nei confronti di altri populismi.
Il risultato di Marine Le Pen è ambivalente: da una parte può far pensare che sia uscita dal ghetto dell'impresentabilità (percentuale del 2002 raddoppiata e milioni di voti in più rispetto al primo turno), e che questa volta il "patto repubblicano" non abbia del tutto marginalizzato il FN, ma dall'altra mostra tutti i limiti di una identità politica che non riesce a uscire dal proprio recinto ideologico e nemmeno a sfondare nella destra repubblicana, pur in assenza di un candidato gollista. E' probabile che Marine la partita per l'Eliseo non l'abbia mai giocata per davvero... E infatti nelle sue prime parole subito dopo la chiusura delle urne non ha posto l'accento sulla soddisfazione per il risultato, ma sulla necessità di ulteriore rinnovamento del FN, parlando di "nuova forza politica" e di un'alleanza tra patrioti e repubblicani. In vista delle legislative di giugno, con il gioco delle desistenze, anche la presenza in Parlamento del FN è fortemente a rischio.
Il "modello Macron" quindi non è esportabile, né i fattori che hanno condannato Marine Le Pen alla sconfitta sono applicabili agli altri movimenti cosiddetti "populisti" e "sovranisti". Non c'è, quindi, una "lezione" delle presidenziali francesi valida per forze politiche e contesti nazionali diversissimi tra di loro. Le peculiari caratteristiche del sistema politico francese - l'elezione diretta in due turni del presidente e il "patto repubblicano" contro l'estrema destra - hanno giocato un ruolo decisivo. Molto più dell'europeismo più o meno critico di Macron.
Bisogna resistere alla tentazione di includere tutti i movimenti anti-establishment e anti-europeisti in una sorta di "internazionale del populismo", come se condividessero meriti e demeriti di vittorie e sconfitte. Come ha osservato Daniele Capezzone, c'è una differenza sostanziale - che l'"inviato collettivo" non ha saputo né voluto vedere - tra i fenomeni anti-establishment che si sono affermati nel mondo anglosassone (Trump e Brexit) e quelli che invece stentano ad affermarsi nel mondo europeo-continentale. Non avremmo avuto la Brexit, probabilmente, se una parte del mondo conservatore, soprattutto thatcheriano - politici, intellettuali ed economisti - con la sua autorevolezza non avesse delineato una prospettiva positiva ed economicamente sostenibile, anche se certamente non facile, per il Regno Unito fuori dall'Ue, quella di una "global Britain", un superhub globale capace di attrarre risorse e investimenti, offrendo un sistema business-friendly, a tasse basse e burocrazia attenuata. Donald Trump e Marine Le Pen, spesso accostati nelle analisi dei mainstream media, hanno visioni dell'economia e del ruolo dello Stato agli antipodi. E Trump non si è presentato alla guida di un partito di estrema destra dalle radici fasciste, ma ha incanalato la protesta anti-establishment all'interno di uno dei due partiti tradizionali, il Partito repubblicano, di fatto rilanciandolo.
E per venire al caso dell'Italia, il prossimo grande "malato d'Europa" atteso al varco delle elezioni politiche, i cosiddetti sovranisti e populisti possono contare, al contrario della Le Pen, sulla capacità (Lega e M5S l'hanno già dimostrata) di attrarre voti sia da destra che da sinistra. Possono far leva su una situazione economica peggiore di quella francese e su una maggiore impopolarità dell'Euro. E infine approfittare di un sistema elettorale che al contrario di quello francese è confusionario e tende a deresponsabilizzare l'elettore.
Punto secondo. L'indubbio trionfo di Macron non dovrebbe indurre a facili entusiasmi. Come detto, è figlio più della paura che di autentica convinzione nelle doti e persuasione dei programmi del nuovo presidente. La sua strada è in salita, a cominciare dalle legislative di giugno, e il rischio di una debolezza nel palazzo e nel paese è forte.
La Francia è ancora il "malato d'Europa", o il più grande tra i malati d'Europa: incapace di riformarsi, incapace di assimilare gli immigrati e proteggersi dalla minaccia terroristica, incapace ormai di giocare un ruolo di contrappeso rispetto all'egemonia di Berlino. Riuscirà la Francia con Macron a recuperare la sua posizione, il dinamismo, e a sviluppare un'agenda europea che possa convincere i tedeschi della necessità di un reale cambiamento? Un fragile mandato e un modesto programma di riforme rischiano di non bastare. Il programma di Macron è omeopatico rispetto ai mali che affliggono la Francia e l'Ue. "Liberale" solo per i parametri di una politica francese da destra a sinistra da sempre statalista e assistenzialista. In realtà, è moderatamente riformista e saldamente socialdemocratico. Macron propone di ridurre l'incidenza della spesa pubblica sul Pil dal 57% al 52%. I tagli di spesa verrebbero quasi compensanti da un piano di investimenti pubblici da 50 miliardi (sanità, infrastrutture, pubblica amministrazione, digitale, formazione, "transizione ecologica", qualsiasi cosa voglia dire...). Propone di tagliare le tasse su imprese, lavoro e famiglie, ma di aumentarle su redditi da capitale, carburanti e "giganti della Rete". La riduzione della pressione fiscale sarebbe assai modesta: dal 44,5% al 43,6% del Pil.
Sul fronte del mercato comune, il suo "Buy European Act", dagli echi trumpiani più che liberali (un protezionismo a livello europeo anziché nazionale), e l'immancabile "politica fiscale comune", con la nomina di un ministro dell'economia dell'Ue e l'azzeramento di qualsiasi concorrenza fiscale tra i Paesi membri. Il che ovviamente vorrebbe dire livellamento verso l'alto (i livelli di Francia e Germania), non verso il basso, di tassazione e spesa pubblica. Il tutto condito con una buona dose di politica industriale e dirigismo come da tradizione francese. E poi c'è il tema cruciale della settimana lavorativa di 35 ore, su cui Macron è stato ambiguo (mentre Fillon ne aveva promesso l'abolizione).
Siamo sicuri che sia la ricetta giusta, ammesso che venga attuata, per rilanciare l'economia francese e, quindi, l'Europa? La Francia, con la spesa pubblica al 57% del Pil e la disoccupazione al 10%, avrebbe bisogno di "riforme radicali", avverte il WSJ. Inoltre, la già modesta agenda riformista di Macron potrebbe incontrare l'opposizione di molti degli elettori che lo hanno votato solo in funzione anti Le Pen e, senza un partito forte alle spalle, con una coalizione parlamentare da inventare, persino quei minimi obiettivi potrebbero essere mancati. Un'alleanza con i Repubblicani potrebbe aiutarlo sulle riforme economiche e la sicurezza nazionale, ma allo stesso tempo rischia poi di lasciare al Front National e all'estrema sinistra il ruolo di uniche opposizioni nel Paese. Una "fredda" continuità potrebbe quindi rivelarsi la cifra prevalente della presidenza Macron, alimentando divisioni e tensioni nel Paese, quella "nevrosi" di cui ha parlato lo scrittore Houllebecq. Il progetto europeo è quindi lungi dall'essere salvo, a meno che non sia in grado di generare opportunità economiche e maggiore sicurezza, mostrando allo stesso tempo più rispetto per i cittadini europei infastiditi dall'arroganza dei tecnocrati di Bruxelles.
Infine, il terzo punto. Macron non è Renzi e per Renzi è ormai troppo tardi per "fare il Macron italiano"... Macron è anzi la prova del suo fallimento, è ciò che Renzi avrebbe potuto essere se avesse fatto altre scelte.
1) Macron non è un politico di professione e ha una specifica competenza in campo economico.
2) Macron si è presentato alle prime elezioni utili, non ha tramato nel palazzo per arrivare al potere senza legittimazione popolare.
3) Ma soprattutto, Macron non si è bruciato per scalare e riformare un partito irriformabile, l'ha rottamato puntando su una sua startup politica.
Potrà sembrare paradossale, ma la storia politica di Renzi ha più similitudini con quella di Marine Le Pen: ha rottamato i "padri" costituenti del suo partito in nome del rinnovamento, finendo però - proprio nella battaglia decisiva - per essere risucchiato nel recinto ideologico di un partito irriformabile.
Ci sono almeno tre illusioni con le quali sarebbe meglio non coccolarsi dopo l'entusiasmante cavalcata di Emmanuel Macron verso l'Eliseo.
Illudersi di aver ri-trovato nell'europeismo una sorta di antidoto ai cosiddetti populismi (sempre ammesso che sia corretto definirli tali, ma non vuol essere questa la sede per approfondire questo aspetto).
Illudersi che la cura Macron possa bastare per guarire la Francia, e l'Unione europea.
Illudersi, come stanno facendo i "renziani", che Macron sia il "Renzi francese" o, viceversa, che Matteo Renzi possa diventare il "Macron italiano".
Punto primo. Ammesso che l'Europa da debolezza si sia trasformata in un punto di forza per Macron, funzionando quindi da "antidoto" contro la Le Pen, non è detto che possa funzionare in altri contesti e contro altri populismi. Siamo onesti: con Macron ha vinto l'europeismo o la paura del lepenismo? Una combinazione dei due, probabilmente: il primo lo ha aiutato ad arrivare al ballottaggio (anche se altrettanto decisivo è stato l'azzoppamento per via mediatico-giudiziaria del candidato gollista Fillon), ma è stata la seconda a portarlo all'Eliseo. Molti degli elettori che al secondo turno hanno fatto convergere il loro voto sul leader di "En Marche" non lo hanno certo fatto inebriati dall'Inno alla gioia. La vittoria di Macron, avverte il Wall Street Journal, "è molto più un rifiuto dell'estrema destra del Front National che un appoggio al suo programma".
Oltre ai suoi indiscutibili meriti personali, il suo successo si deve a una spregiudicata e brillante operazione di maquillage giovanilista e dissimulazione politica, che ha fatto apparire come outsider ed estraneo agli screditati partiti tradizionali l'ex ministro dell'economia del governo socialista di Hollande, uno dei più impopolari della storia della V Repubblica. I socialisti più assennati, riformisti, cercheranno di riciclarsi in "En Marche" (come l'ex premier Valls), con la benedizione di Hollande, mentre il partito fa la fine di una "bad company" sulle cui spalle sono stati caricati tutti i debiti politici degli ultimi cinque anni. Ma soprattutto, Macron è arrivato all'Eliseo perché la sua avversaria era gravata da un retaggio ideologico che al ballottaggio non le ha permesso di attrarre sufficienti voti da appartenenze politiche diverse. Nonostante quasi maggioritari in Francia (il 49% circa al primo turno), i sentimenti anti-establishment e anti-europeisti di spezzoni di elettorato divisi ideologicamente lungo l'asse novecentesco destra-sinistra non hanno potuto trovare la saldatura in un movimento post-ideologico. Pur cominciando a mostrare le prime crepe, infatti, la maggior parte degli elettori francesi ha esercitato ancora una volta la "conventio ad excludendum" nei confronti del lepenismo, un meccanismo peculiare del sistema politico francese che in altri contesti non scatterebbe nei confronti di altri populismi.
Il risultato di Marine Le Pen è ambivalente: da una parte può far pensare che sia uscita dal ghetto dell'impresentabilità (percentuale del 2002 raddoppiata e milioni di voti in più rispetto al primo turno), e che questa volta il "patto repubblicano" non abbia del tutto marginalizzato il FN, ma dall'altra mostra tutti i limiti di una identità politica che non riesce a uscire dal proprio recinto ideologico e nemmeno a sfondare nella destra repubblicana, pur in assenza di un candidato gollista. E' probabile che Marine la partita per l'Eliseo non l'abbia mai giocata per davvero... E infatti nelle sue prime parole subito dopo la chiusura delle urne non ha posto l'accento sulla soddisfazione per il risultato, ma sulla necessità di ulteriore rinnovamento del FN, parlando di "nuova forza politica" e di un'alleanza tra patrioti e repubblicani. In vista delle legislative di giugno, con il gioco delle desistenze, anche la presenza in Parlamento del FN è fortemente a rischio.
Il "modello Macron" quindi non è esportabile, né i fattori che hanno condannato Marine Le Pen alla sconfitta sono applicabili agli altri movimenti cosiddetti "populisti" e "sovranisti". Non c'è, quindi, una "lezione" delle presidenziali francesi valida per forze politiche e contesti nazionali diversissimi tra di loro. Le peculiari caratteristiche del sistema politico francese - l'elezione diretta in due turni del presidente e il "patto repubblicano" contro l'estrema destra - hanno giocato un ruolo decisivo. Molto più dell'europeismo più o meno critico di Macron.
Bisogna resistere alla tentazione di includere tutti i movimenti anti-establishment e anti-europeisti in una sorta di "internazionale del populismo", come se condividessero meriti e demeriti di vittorie e sconfitte. Come ha osservato Daniele Capezzone, c'è una differenza sostanziale - che l'"inviato collettivo" non ha saputo né voluto vedere - tra i fenomeni anti-establishment che si sono affermati nel mondo anglosassone (Trump e Brexit) e quelli che invece stentano ad affermarsi nel mondo europeo-continentale. Non avremmo avuto la Brexit, probabilmente, se una parte del mondo conservatore, soprattutto thatcheriano - politici, intellettuali ed economisti - con la sua autorevolezza non avesse delineato una prospettiva positiva ed economicamente sostenibile, anche se certamente non facile, per il Regno Unito fuori dall'Ue, quella di una "global Britain", un superhub globale capace di attrarre risorse e investimenti, offrendo un sistema business-friendly, a tasse basse e burocrazia attenuata. Donald Trump e Marine Le Pen, spesso accostati nelle analisi dei mainstream media, hanno visioni dell'economia e del ruolo dello Stato agli antipodi. E Trump non si è presentato alla guida di un partito di estrema destra dalle radici fasciste, ma ha incanalato la protesta anti-establishment all'interno di uno dei due partiti tradizionali, il Partito repubblicano, di fatto rilanciandolo.
E per venire al caso dell'Italia, il prossimo grande "malato d'Europa" atteso al varco delle elezioni politiche, i cosiddetti sovranisti e populisti possono contare, al contrario della Le Pen, sulla capacità (Lega e M5S l'hanno già dimostrata) di attrarre voti sia da destra che da sinistra. Possono far leva su una situazione economica peggiore di quella francese e su una maggiore impopolarità dell'Euro. E infine approfittare di un sistema elettorale che al contrario di quello francese è confusionario e tende a deresponsabilizzare l'elettore.
Punto secondo. L'indubbio trionfo di Macron non dovrebbe indurre a facili entusiasmi. Come detto, è figlio più della paura che di autentica convinzione nelle doti e persuasione dei programmi del nuovo presidente. La sua strada è in salita, a cominciare dalle legislative di giugno, e il rischio di una debolezza nel palazzo e nel paese è forte.
La Francia è ancora il "malato d'Europa", o il più grande tra i malati d'Europa: incapace di riformarsi, incapace di assimilare gli immigrati e proteggersi dalla minaccia terroristica, incapace ormai di giocare un ruolo di contrappeso rispetto all'egemonia di Berlino. Riuscirà la Francia con Macron a recuperare la sua posizione, il dinamismo, e a sviluppare un'agenda europea che possa convincere i tedeschi della necessità di un reale cambiamento? Un fragile mandato e un modesto programma di riforme rischiano di non bastare. Il programma di Macron è omeopatico rispetto ai mali che affliggono la Francia e l'Ue. "Liberale" solo per i parametri di una politica francese da destra a sinistra da sempre statalista e assistenzialista. In realtà, è moderatamente riformista e saldamente socialdemocratico. Macron propone di ridurre l'incidenza della spesa pubblica sul Pil dal 57% al 52%. I tagli di spesa verrebbero quasi compensanti da un piano di investimenti pubblici da 50 miliardi (sanità, infrastrutture, pubblica amministrazione, digitale, formazione, "transizione ecologica", qualsiasi cosa voglia dire...). Propone di tagliare le tasse su imprese, lavoro e famiglie, ma di aumentarle su redditi da capitale, carburanti e "giganti della Rete". La riduzione della pressione fiscale sarebbe assai modesta: dal 44,5% al 43,6% del Pil.
Sul fronte del mercato comune, il suo "Buy European Act", dagli echi trumpiani più che liberali (un protezionismo a livello europeo anziché nazionale), e l'immancabile "politica fiscale comune", con la nomina di un ministro dell'economia dell'Ue e l'azzeramento di qualsiasi concorrenza fiscale tra i Paesi membri. Il che ovviamente vorrebbe dire livellamento verso l'alto (i livelli di Francia e Germania), non verso il basso, di tassazione e spesa pubblica. Il tutto condito con una buona dose di politica industriale e dirigismo come da tradizione francese. E poi c'è il tema cruciale della settimana lavorativa di 35 ore, su cui Macron è stato ambiguo (mentre Fillon ne aveva promesso l'abolizione).
Siamo sicuri che sia la ricetta giusta, ammesso che venga attuata, per rilanciare l'economia francese e, quindi, l'Europa? La Francia, con la spesa pubblica al 57% del Pil e la disoccupazione al 10%, avrebbe bisogno di "riforme radicali", avverte il WSJ. Inoltre, la già modesta agenda riformista di Macron potrebbe incontrare l'opposizione di molti degli elettori che lo hanno votato solo in funzione anti Le Pen e, senza un partito forte alle spalle, con una coalizione parlamentare da inventare, persino quei minimi obiettivi potrebbero essere mancati. Un'alleanza con i Repubblicani potrebbe aiutarlo sulle riforme economiche e la sicurezza nazionale, ma allo stesso tempo rischia poi di lasciare al Front National e all'estrema sinistra il ruolo di uniche opposizioni nel Paese. Una "fredda" continuità potrebbe quindi rivelarsi la cifra prevalente della presidenza Macron, alimentando divisioni e tensioni nel Paese, quella "nevrosi" di cui ha parlato lo scrittore Houllebecq. Il progetto europeo è quindi lungi dall'essere salvo, a meno che non sia in grado di generare opportunità economiche e maggiore sicurezza, mostrando allo stesso tempo più rispetto per i cittadini europei infastiditi dall'arroganza dei tecnocrati di Bruxelles.
Infine, il terzo punto. Macron non è Renzi e per Renzi è ormai troppo tardi per "fare il Macron italiano"... Macron è anzi la prova del suo fallimento, è ciò che Renzi avrebbe potuto essere se avesse fatto altre scelte.
1) Macron non è un politico di professione e ha una specifica competenza in campo economico.
2) Macron si è presentato alle prime elezioni utili, non ha tramato nel palazzo per arrivare al potere senza legittimazione popolare.
3) Ma soprattutto, Macron non si è bruciato per scalare e riformare un partito irriformabile, l'ha rottamato puntando su una sua startup politica.
Potrà sembrare paradossale, ma la storia politica di Renzi ha più similitudini con quella di Marine Le Pen: ha rottamato i "padri" costituenti del suo partito in nome del rinnovamento, finendo però - proprio nella battaglia decisiva - per essere risucchiato nel recinto ideologico di un partito irriformabile.
Saturday, April 29, 2017
Corridoi umanitari poco umanitari
Il procuratore di Catania Zuccaro non è il solito magistrato di provincia "innamorato di protagonismo", né si diverte a infangare il buon nome delle ONG, ma come riporta oggi La Stampa lancia un allarme sulla base di prove reali che però non può usare processualmente. Non si tratta di illazioni. È ormai acclarato che proprio "Mare Nostrum", cioè andare a prendere i migranti davanti le coste libiche, ha fatto esplodere il fenomeno con meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, peggiori condizioni e più rischi per i migranti. Responsabilità dei governi italiani Letta e Renzi. Ora che sotto missione Ue è arretrato il raggio d'azione dei pattugliamenti, il "vuoto" viene colmato dalle ONG e i dati peggiorano ancora (sia arrivi che vittime). Di fatto siamo di fronte alla realizzazione di un corridoio umanitario (che come mostrano i dati tanto umanitario non è...), cioè un atto di politica estera e di difesa, da parte di privati. Il problema è politico e di sicurezza nazionale: è qualcosa che un governo può accettare?
Zuccaro non è né il primo né sarà l'ultimo dei magistrati italiani a non parlare solo con gli atti, una condotta diffusa quanto inappropriata, che però indigna a corrente alternata, e semmai a differenza di altri suoi colleghi finora ha evitato di imbastire processi e ordinare arresti eclatanti in mancanza di prove utilizzabili in dibattimento... A stupire però è la rapidità con cui un magistrato, se solleva ipotesi non "allineate" alla narrazione dei "benpensanti" di sinistra, finisce sotto la lente del Csm e la gogna dei sacerdoti del politicamente corretto.
Zuccaro non è né il primo né sarà l'ultimo dei magistrati italiani a non parlare solo con gli atti, una condotta diffusa quanto inappropriata, che però indigna a corrente alternata, e semmai a differenza di altri suoi colleghi finora ha evitato di imbastire processi e ordinare arresti eclatanti in mancanza di prove utilizzabili in dibattimento... A stupire però è la rapidità con cui un magistrato, se solleva ipotesi non "allineate" alla narrazione dei "benpensanti" di sinistra, finisce sotto la lente del Csm e la gogna dei sacerdoti del politicamente corretto.
"Sulla pelle dei migranti sta emergendo un ennesimo scandalo: il sospetto, che purtroppo non sembra totalmente privo di fondamento, di una manipolazione a fini economici e politici anche delle operazioni di salvataggio. (...) la paura che venga meno lo sforzo generoso di molti per il salvataggio dei migranti non deve portare a semplificare il problema negandone l'esistenza".L'Osservatore Romano, non La Padania né il blog di Grillo...
Wednesday, April 26, 2017
Meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, più vittime in mare
Trucco ormai smascherato: altro che Canale di Sicilia, davanti Tripoli non sono salvataggi, ma è un efficiente servizio di linea operato dalla benemerita joint venture ong-trafficanti. Cui prodest? E soprattutto, cosa impedisce al governo italiano di denunciare attività che ben poco hanno a che fare con scopi umanitari? Qualche struzzo in realtà (compreso il capo di tutti gli struzzi, Matteo Renzi) sta alzando la testa dalla sabbia... Il 19 aprile a Matrix l'ex premier si è finalmente fatto sentire ("non possiamo essere presi in giro da nessuno, né in Europa, né da ong che non rispettano le regole"), ma purtroppo solo dopo che si è fatto prendere in giro per anni. E che, su questo tema, ha perso il referendum della vita...
Qualche dato di fatto.
In audizione davanti alla Commissione Difesa del Senato, il responsabile di SOS Méditerranée conferma: migranti imbarcati a pochi chilometri dalla costa libica.
L'aumento dei mezzi di soccorso (delle ong) nel tratto di mare tra Italia e Libia è "paradossalmente" coinciso con l'aumento delle vittime (4.500 nel 2016, 2.800 nel 2015). Salvini? No, il direttore di Frontex.
Sempre il direttore di Frontex, non Salvini... "L'origine dei migranti è prevalentemente africana (in particolare dai paesi dell'Africa occidentale sub-sahariana, mentre è in diminuzione dal Corno d'Africa). Il profilo più ricorrente è quindi quello di migranti economici irregolari". Dunque, per l'ennesima volta, dalla Libia non arrivano profughi siriani, pochi dal corno d'Africa, quindi è ovvio che non funzioni la redistribuzione a livello europeo, che non vale per gli irregolari.
"Evidenze che tra alcune ong e i trafficanti di uomini che stanno in Libia ci sono contatti diretti", avverte il procuratore di Catania Zuccaro, ma come lui stesso avverte, il problema è politico.
Frontex 1: "E' chiaro che i trafficanti che operano in Libia stanno approfittando dell'obbligo internazionale di salvare vite in mare".
Frontex 2: Dall'inizio dell'anno "oltre 36mila migranti sono arrivati in Italia, partendo soprattutto dalla Libia. E' il 43% in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso".
Frontex 3: dal 2014 è cambiato il modus operandi dei trafficanti libici. In particolare:
1) "l'area di ricerca e salvataggio è cambiata: mentre nel 2011 le barche che trasportavano i migranti arrivavano fino a Lampedusa e nel 2014 i salvataggi avvenivano a metà strada fra la Libia e l'Italia, nel 2016 e 2017 l'area di ricerca e salvataggio si è spostata al limite delle acque territoriali libiche";
2) "il numero di persone che viaggiano a bordo dei gommoni è aumentato: da circa 90 in media nel 2014 per imbarcazioni di 10 metri, nel 2016 e 2017 sono circa 170";
3) "la qualità dei materiali di cui sono fatte queste barche è drammaticamente peggiorata negli ultimi due anni";
4) "mentre nel 2014 la quantità di carburante era sufficiente per fare lunghi percorsi, ora basta appena a lasciare le acque territoriali libiche. Lo stesso vale per l'acqua da bere e il cibo";
5) "inoltre, recentemente abbiamo notato che i trafficanti tolgono i motori dalle barche quando vedono una nave di soccorritori nei paraggi, lasciando i gommoni pieni di gente alla deriva e in pericolo, per riutilizzare il motore per un altro viaggio".
Insomma, meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, più vittime in mare. Chiunque dotato di buon senso e onestà intellettuale non può che concludere che le politiche dei governi italiani e l'attività delle ong hanno di fatto incoraggiato il fenomeno (nient'affatto ineludibile, almeno non in queste forme e con questi numeri), lo hanno reso meno rischioso e più redditizio per i trafficanti, più mortale per i migranti.
Qualche dato di fatto.
In audizione davanti alla Commissione Difesa del Senato, il responsabile di SOS Méditerranée conferma: migranti imbarcati a pochi chilometri dalla costa libica.
L'aumento dei mezzi di soccorso (delle ong) nel tratto di mare tra Italia e Libia è "paradossalmente" coinciso con l'aumento delle vittime (4.500 nel 2016, 2.800 nel 2015). Salvini? No, il direttore di Frontex.
Sempre il direttore di Frontex, non Salvini... "L'origine dei migranti è prevalentemente africana (in particolare dai paesi dell'Africa occidentale sub-sahariana, mentre è in diminuzione dal Corno d'Africa). Il profilo più ricorrente è quindi quello di migranti economici irregolari". Dunque, per l'ennesima volta, dalla Libia non arrivano profughi siriani, pochi dal corno d'Africa, quindi è ovvio che non funzioni la redistribuzione a livello europeo, che non vale per gli irregolari.
"Evidenze che tra alcune ong e i trafficanti di uomini che stanno in Libia ci sono contatti diretti", avverte il procuratore di Catania Zuccaro, ma come lui stesso avverte, il problema è politico.
Frontex 1: "E' chiaro che i trafficanti che operano in Libia stanno approfittando dell'obbligo internazionale di salvare vite in mare".
Frontex 2: Dall'inizio dell'anno "oltre 36mila migranti sono arrivati in Italia, partendo soprattutto dalla Libia. E' il 43% in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso".
Frontex 3: dal 2014 è cambiato il modus operandi dei trafficanti libici. In particolare:
1) "l'area di ricerca e salvataggio è cambiata: mentre nel 2011 le barche che trasportavano i migranti arrivavano fino a Lampedusa e nel 2014 i salvataggi avvenivano a metà strada fra la Libia e l'Italia, nel 2016 e 2017 l'area di ricerca e salvataggio si è spostata al limite delle acque territoriali libiche";
2) "il numero di persone che viaggiano a bordo dei gommoni è aumentato: da circa 90 in media nel 2014 per imbarcazioni di 10 metri, nel 2016 e 2017 sono circa 170";
3) "la qualità dei materiali di cui sono fatte queste barche è drammaticamente peggiorata negli ultimi due anni";
4) "mentre nel 2014 la quantità di carburante era sufficiente per fare lunghi percorsi, ora basta appena a lasciare le acque territoriali libiche. Lo stesso vale per l'acqua da bere e il cibo";
5) "inoltre, recentemente abbiamo notato che i trafficanti tolgono i motori dalle barche quando vedono una nave di soccorritori nei paraggi, lasciando i gommoni pieni di gente alla deriva e in pericolo, per riutilizzare il motore per un altro viaggio".
Insomma, meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, più vittime in mare. Chiunque dotato di buon senso e onestà intellettuale non può che concludere che le politiche dei governi italiani e l'attività delle ong hanno di fatto incoraggiato il fenomeno (nient'affatto ineludibile, almeno non in queste forme e con questi numeri), lo hanno reso meno rischioso e più redditizio per i trafficanti, più mortale per i migranti.
Monday, April 24, 2017
Le vendette di Hollande dietro il successo di Macron e l'azzardo di aver rimosso l'argine gollista al lepenismo
Pubblicato su formiche
La disfatta è meno amara se
condivisa con i propri avversari
A urne chiuse, ora che tutti i puntini
sono uniti fra di loro, il volto ghignante che si staglia dietro il
"fenomeno Macron" è quello di un redivivo François
Hollande. La sua presidenza è stata catastrofica, ha fatto crollare
ai minimi storici i consensi del Partito socialista e non ha potuto
presentarsi per un secondo mandato talmente a picco era colato il suo
indice di fiducia. Eppure, il sicuro grande sconfitto della vigilia
ha saputo cucinarsi una vendetta servita ancora calda, assicurandosi
con ragionevole certezza l'insediamento del suo ex ministro
dell'economia come suo successore all'Eliseo, ma soprattutto
condividendo la disfatta con i suoi acerrimi avversari, esterni ed
interni. Che abbia o meno un ruolo pubblico in futuro, o preferisca
ritagliarsene uno dietro le quinte, sarà meno amaro per Hollande
lasciare l'Eliseo sapendo che anche la destra gollista è andata
incontro a una cocente disfatta, non riuscendo a portare al
ballottaggio un suo candidato nonostante la crisi dei socialisti, e
che coloro che gli hanno sfilato di mano il partito si ritrovano
intorno nient'altro che macerie.
Questo il duplice esito di una
spregiudicata e brillante operazione politica condotta con l'aiuto
dei magistrati, le cui preferenze politiche anche in Francia non sono
un mistero, dei media "amici" e del 24% degli elettori (in
gran parte di fede socialista). Uno dopo l'altro, gli ostacoli sulla
strada di Macron sono stati brutalmente rimossi e le impronte di
Hollande sono dappertutto. Fallimentare come presidente, si è
confermato un maestro di tattica politica.
Senza nulla togliere alle abilità e
alla freschezza di Emmanuel Macron, che in poche settimane ha messo
su un movimento, una sua "start-up" politica, centrando il
ballottaggio da vincitore del primo turno, ma l'azzoppatura per via
mediatico-giudiziaria del candidato della destra gollista, l'ex
premier François Fillon è stata decisiva. Altrimenti - come
d'altronde indicavano tutti i sondaggi precedenti alle inchieste ad
orologeria che l'hanno colpito (guarda caso solo dopo la vittoria
alle primarie...) - le loro posizioni di arrivo al primo turno si
sarebbero probabilmente invertite. Ed è difficile credere che
l'affermazione di Macron sia stata possibile in così poco tempo
senza la mobilitazione attiva in suo favore di pezzi importanti
dell'elettorato socialista, e quindi il concomitante sabotaggio della
candidatura ufficiale di Hamon. Il Partito socialista ha fatto la
fine di una "bad company" sulle cui spalle sono stati
caricati tutti i debiti politici della presidenza Hollande, mentre
gli elettori socialisti venivano "prestati" per
un'operazione di maquillage giovanilista nel tentativo di salvare lo
status quo (e restituire l'onore a Hollande).
Ma sia Hollande sia l'establishment
(francese ed europeo), che in funzione anti Le Pen hanno preferito un
maquillage giovanilista dei socialisti, facendo fuori per via
mediatico-giudiziaria il collaudato argine gollista, si sono assunti
un grosso rischio. Non gli resta che augurarsi di aver azzeccato il
calcolo... Perché se da una parte la strada di Macron appare ormai
in discesa grazie al ricostituirsi del "fronte repubblicano"
contro il lepenismo, la sua capacità di attrazione di elettori di
sinistra che lo ritengono di destra e di elettori della destra
repubblicana in libera uscita, per la prima volta non rappresentati
al ballottaggio, potrebbe essersi esaurita o quasi nel suo
stupefacente 24%. Insomma, siamo in un territorio ignoto: sarà anche
un'ipotesi remota ma rimosso l'argine gollista Marine Le Pen potrebbe
trovare una prateria a destra, e qualche inaspettato sostegno
dall'estrema sinistra.
Se, come probabile, Macron dovesse
vincere, l'Unione europea si salverebbe da una crisi rapida e al
buio, quindi drammatica, ma non basterà, come molti si illudono, per
invertire la tendenza a un lento declino... Ammesso e non concesso
che trovino sostegno parlamentare, le politiche omeopatiche di
Macron, in totale continuità con quelle di Hollande, non riusciranno
a guarire l'economia e la società francese, e quindi ad alleviarne
le tensioni. Né, quindi, potranno rendere la Francia una parte della
soluzione alla crisi dell'Ue. Il conto con la realtà, al giro
successivo, potrebbe essere salatissimo. In un'intervista al Corriere
lo scrittore francese Michel Houellebecq ha fatto riferimento a una
"nevrosi". I francesi "sono ancora più a destra
rispetto al 2012", Macron "non ha colpe", anche se
"molto migliore di Hollande può portare a una catastrofe"
perché quando "la realtà politica non corrisponde alla
società, è una situazione da nevrosi".
Macron supera l'esame ma Ue e renziani hanno poco da brindare
Macron ha superato l'ostacolo più grande, quello della credibilità, ora la sua strada per l'Eliseo è in discesa. È lui l'eroe del "racconto" elettorale, la sorpresa che si afferma, la storia vincente di cui molti vorranno far parte al secondo turno ("io l'ho votato", "io c'ero")... e difficilmente la Le Pen potrà farci qualcosa. Però deve stare attento all'abbraccio dei vecchi partiti e dell'establishment europeo. Se è così nuovo, giovane, e così "rivoluzionario", perché tutti i "vecchi" si sentono rassicurati da una sua vittoria?
E non va dimenticato che il successo di Macron è figlio dell'assassinio mediatico-giudiziario di Fillon, altrimenti le loro posizioni di arrivo al primo turno si sarebbero probabilmente invertite. Chi sia il mandante non lo sappiamo con certezza ma forse oggi Hollande lascia l'Eliseo con minore amarezza sapendo che probabilmente a succedergli sarà il suo ex ministro dell'economia... Forse, il Partito socialista si è persino salvato, "prestando" i suoi elettori per un'operazione trasformista, un maquillage giovanilista, e scaricando i suoi debiti politici alla "bad company".
La Le Pen porta a casa un risultato molto deludente. I francesi non hanno votato solo su sicurezza e immigrazione, ma con più di un occhio al portafogli, rispetto al quale il FN rappresenta un salto nel vuoto. Ancora una volta si è dimostrata incapace di superare il suo steccato ideologico, di sfondare nella destra gollista, nonostante la debolezza del suo candidato. E poi, quella visita da Putin che sembrava un colloquio di lavoro! In un sistema politico in cui gli elettorati antisistema e antieuropeisti non sono sommabili perché spaccati sull'asse novecentesco destra/sinistra, fascismo/comunismo, e il tema sicurezza è presidiato dal gollismo, se ancora fai paura agli elettori della destra repubblicana e moderati hai un problema insuperabile.
Quanto all'Unione europea. È salva, ma i brindisi degli eurofanatici sono del tutto fuori luogo... Il suo stato di salute non è migliore perché improvvisamente sia mutato il sentimento degli elettori (quasi il 50% dei francesi ha comunque votato candidati euroscettici o antieuropei). Il voto francese ci dice che un conto è raccogliere consensi sull'antieuropeismo, un altro presentarsi con una proposta di governo credibile. Il fatto che i movimenti antieuropei siano ancora considerati unfit, inadeguati per il governo di un grande Paese come la Francia, non significa che l'Ue sia tornata a piacere.
Entusiasmo bizzarro dei renziani per Macron, fenomeno molto diverso da quello di Renzi, non ha commesso i suoi errori e, anzi, ne prova il fallimento:
1) Macron non è politico di professione;
2) Macron si è presentato alle prime elezioni utili, non ha tramato nel palazzo per arrivare al potere senza legittimazione popolare;
3) ma soprattutto, Macron non si è bruciato per scalare e riformare un partito irriformabile, l'ha rottamato puntando su una sua startup politica.
UPDATE 27 aprile
Il tema non mi appassiona, lo considero irrilevante, ma immaginate cosa direbbero i "progressisti", che oggi si entusiasmano per la vita sentimentale di Macron, di una candidata presidente con un compagno di 24 anni più vecchio conosciuto quando lei ne aveva a 16. O peggio, di un candidato presidente con una compagna di 24 anni più giovane conosciuta quando lei ne aveva 16...
E non va dimenticato che il successo di Macron è figlio dell'assassinio mediatico-giudiziario di Fillon, altrimenti le loro posizioni di arrivo al primo turno si sarebbero probabilmente invertite. Chi sia il mandante non lo sappiamo con certezza ma forse oggi Hollande lascia l'Eliseo con minore amarezza sapendo che probabilmente a succedergli sarà il suo ex ministro dell'economia... Forse, il Partito socialista si è persino salvato, "prestando" i suoi elettori per un'operazione trasformista, un maquillage giovanilista, e scaricando i suoi debiti politici alla "bad company".
La Le Pen porta a casa un risultato molto deludente. I francesi non hanno votato solo su sicurezza e immigrazione, ma con più di un occhio al portafogli, rispetto al quale il FN rappresenta un salto nel vuoto. Ancora una volta si è dimostrata incapace di superare il suo steccato ideologico, di sfondare nella destra gollista, nonostante la debolezza del suo candidato. E poi, quella visita da Putin che sembrava un colloquio di lavoro! In un sistema politico in cui gli elettorati antisistema e antieuropeisti non sono sommabili perché spaccati sull'asse novecentesco destra/sinistra, fascismo/comunismo, e il tema sicurezza è presidiato dal gollismo, se ancora fai paura agli elettori della destra repubblicana e moderati hai un problema insuperabile.
Quanto all'Unione europea. È salva, ma i brindisi degli eurofanatici sono del tutto fuori luogo... Il suo stato di salute non è migliore perché improvvisamente sia mutato il sentimento degli elettori (quasi il 50% dei francesi ha comunque votato candidati euroscettici o antieuropei). Il voto francese ci dice che un conto è raccogliere consensi sull'antieuropeismo, un altro presentarsi con una proposta di governo credibile. Il fatto che i movimenti antieuropei siano ancora considerati unfit, inadeguati per il governo di un grande Paese come la Francia, non significa che l'Ue sia tornata a piacere.
Entusiasmo bizzarro dei renziani per Macron, fenomeno molto diverso da quello di Renzi, non ha commesso i suoi errori e, anzi, ne prova il fallimento:
1) Macron non è politico di professione;
2) Macron si è presentato alle prime elezioni utili, non ha tramato nel palazzo per arrivare al potere senza legittimazione popolare;
3) ma soprattutto, Macron non si è bruciato per scalare e riformare un partito irriformabile, l'ha rottamato puntando su una sua startup politica.
UPDATE 27 aprile
Il tema non mi appassiona, lo considero irrilevante, ma immaginate cosa direbbero i "progressisti", che oggi si entusiasmano per la vita sentimentale di Macron, di una candidata presidente con un compagno di 24 anni più vecchio conosciuto quando lei ne aveva a 16. O peggio, di un candidato presidente con una compagna di 24 anni più giovane conosciuta quando lei ne aveva 16...
Tuesday, March 21, 2017
Il ritorno della "questione tedesca". E non è un'invenzione di Trump
Pubblicato su formiche
Venerdì scorso si è tenuto a Washington l'atteso primo faccia a faccia tra il presidente americano Donald Trump e la cancelliera tedesca Angela Merkel, a caccia del suo quarto mandato. Ha fatto più notizia il presunto rifiuto di Trump di stringerle la mano davanti ai fotografi nello studio ovale (stretta comunque concessa sia all'arrivo della cancelliera alla Casa Bianca che al termine della conferenza stampa) che il lungo elenco di temi su cui si registrano divergenze tra i due leader. Non sono solo le biografie e lo stile, che non potrebbero essere più agli antipodi, a rendere complicati, ma pure interessanti, i loro rapporti, ma anche e soprattutto grandi questioni politiche: commercio, politica monetaria, Nato, Unione europea, Russia, gli accordi sul clima di Parigi. Questioni oggetto delle schermaglie che per settimane hanno preceduto l'incontro. I due si sono criticati prima, durante e dopo la transizione alla Casa Bianca.
Pur premettendo di nutrire un "profondo rispetto" per la cancelliera tedesca, Trump ha definito "un errore catastrofico" la decisione della Merkel di aprire le porte del suo Paese, e dell'Europa, ai rifugiati, mentre la cancelliera ha criticato l'ordine esecutivo della Casa Bianca che blocca temporaneamente gli ingressi negli Usa da alcuni Paesi musulmani e bacchettato il neo presidente sul protezionismo, rammentandogli i mutui benefici del libero scambio. Trump ha salutato positivamente la Brexit, convinto che il Regno Unito abbia fatto bene a riprendersi la sua sovranità uscendo da un'Europa ormai dominata da Berlino. E la cancelliera è preoccupata che la Casa Bianca intenda lavorare per indebolire l'Unione europea. Il governo tedesco è tra quegli alleati della Nato criticati da Trump perché non spendono abbastanza per la difesa (solo l'1,2% del Pil, contro l'obiettivo del 2%). Trump ha notato che ci sono troppe Mercedes a New York, e la Merkel replicato che a Monaco si vendono tanti iPhone. L'amministrazione Trump lamenta un surplus commerciale eccessivo a favore della Germania (65 miliardi di dollari), reso possibile a suo avviso da un euro troppo debole (che in realtà sarebbe un "marco travestito", secondo il consigliere al commercio di Trump, Peter Navarro).
L'enorme deficit commerciale degli Stati Uniti è infatti in cima all'agenda dell'amministrazione Trump, che sembra volersi concentrare in particolare sulla concorrenza sleale da parte della Cina. Tuttavia, il Wall Street Journal ha fatto notare che la più grande minaccia agli interessi commerciali americani potrebbe venire non dalla Cina, bensì dalla Germania, che sembra porre sfide più serie nel lungo termine. "La Cina - scrive il quotidiano - è oggetto della rabbia degli Stati Uniti per il commercio sleale, ma i surplus esteri della Germania sono ora molto più grandi e possono avere maggiore impatto sull'economia degli Stati Uniti e del resto del mondo". Per anni la manodopera a basso costo cinese ha messo sotto pressione i salari del settore manufatturiero americano, ma le industrie tedesche sono in competizione più diretta con quelle americane. "Nove dei maggiori dieci settori tedeschi per export, come macchinari ed elettronica, sono gli stessi della top 10 americana", ha spiegato al WSJ Caroline Freund, del Peterson Institute for International Economics. "L'euro debole - che ha perso circa un quarto del suo valore contro il dollaro negli ultimi tre anni - dà alle imprese tedesche un margine extra sui mercati internazionali".
Insomma, secondo il WSJ, la Germania starebbe abusando del sistema del commercio mondiale in misura molto maggiore di Cina e Messico. Sebbene possa essere stato vero in passato, la Cina non sta più facendo leva sulla svalutazione del renminbi per sostenere le sue esportazioni; semmai, è preoccupata che la sua moneta si svaluti troppo. La Germania invece ha tratto enormi benefici dalla crisi dell'Eurozona. La debolezza delle economie dei Paesi mediterranei infatti - Italia, Spagna, Portogallo e Grecia - ha reso necessari tassi di interesse bassi e svalutazione dell'euro. Denaro a buon mercato ed esportazioni facili che hanno dato grande spinta all'economia tedesca, il cui surplus commerciale altrimenti avrebbe dovuto fare i conti con un apprezzamento della moneta, non una svalutazione. Il costo, per la Germania, è stato politico, non economico. La sua popolarità presso gli altri stati membri, soprattutto del Sud Europa, è crollata. L'Unione europea si è indebolita, forse come mai prima nella sua breve storia, mentre la Germania è ancora più forte, tanto che il cosidetto direttorio franco-tedesco è ormai squilibrato.
Il presidente Trump è un pragmatico, un negoziatore d'affari, e la cancelliera Merkel una statista esperta e lungimirante. Non è affatto escluso che i due imparino per necessità a lavorare insieme, ma le divergenze, in campo geopolitico ed economico, sono profonde. In realtà, nonostante il loro sia stato un rapporto sinceramente cordiale, e contraddistinto da una certa sintonia personale, anche tra Obama e la Merkel non sono mancate differenze, come sulla gestione della crisi europea. Anche Obama era preoccupato della debolezza dell'euro e da una stagnazione economica nell'Eurozona che rischiava di frenare la crescita americana e mettere a rischio la sua rielezione. Obama era convinto che per superare la crisi dovessero essere adottati in Europa salvataggi e stimoli fiscali come quelli implementati dalla sua amministrazione in America e ha ripetutamente esortato la Merkel ad abbandonare l'austerità per una politica economica espansiva, e persino ad accettare una qualche forma di condivisione dei debiti pubblici.
E' così radicato il pregiudizio anti-Trump nei mainstream media che dalle cronache dell'incontro di venerdì alla Casa Bianca la Merkel emerge come nuova leader del mondo libero e portavoce degli interessi dell'Unione europea, ma a Washington si fa strada un punto di vista radicalmente diverso sulla Germania. E' maturata una nuova consapevolezza della crescente egemonia tedesca sul Vecchio Continente (sebbene il tema trasparisse già negli anni di Obama) e delle domande difficili da porsi. Esiste una nuova "questione tedesca", dal momento che nella cornice dell'Unione europea non esistono più contrappesi al potere di Berlino? La Germania rappresenta, al pari di Cina e Russia, una sfida all'ordine politico ed economico occidentale? A chiederselo è il politologo Walter Russell Mead in un'analisi pubblicata su "The American Interest".
Parte del problema, a suo avviso, è che le classi dirigenti tedesche non sono nemmeno consapevoli di quanto nazionalista sia diventata la loro politica. Il passaggio dell'Europa orientale da un'epoca di dominio russo all'integrazione in un ordine europeo dominato dalla Germania non è solo una vittoria dello stato di diritto come nella visione di Berlino, ma innanzitutto uno spostamento di potere nel quale la Russia abbandona ogni velleità di recuperare l'influenza perduta con il crollo dell'Unione sovietica, mentre la Germania espande a est la propria, consolidando la sua posizione di stato leader in Europa dagli Urali all'Atlantico. I tedeschi percepiscono la propria politica europea come un modello di europeismo responsabile e disinteressato, motivato dal loro "incrollabile impegno per un'Europa post-nazionalista", in mezzo a partner irresponsabili e ingrati. In realtà, osserva WRM, è "molto più nazionalista di quanto credano". Ritenendo il nazionalismo come qualcosa di "malvagio e distruttivo", i tedeschi pensano di esserne immuni. "Non è malvagio, né fascista", ma la Germania "è ancora una nazione" e i tedeschi perseguono i propri interessi nazionali.
Scrive quindi WRM che "non disposta a riconoscere che persegue una politica commerciale brutalmente mercantilista e che ha sacrificato la solidarietà europea per preservare l'armonia politica interna, la Germania è diventata meno un sostenitore dell'ordine occidentale e più un problema per l'Occidente". Realtà difficile da riconoscere per i tedeschi, e quindi ancor più difficile per i partner da discutere efficacemente con Berlino. Il guaio, osserva, è che "gli altri Paesi europei non hanno più il potere per indurre la Germania a ripensare la sua politica europea". Con il Regno Unito che ha imboccato la via dell'uscita dalla Ue, una Francia scossa dal terrorismo, indebolita economicamente e verso un'elezione presidenziale dall'esito incerto, Italia e Spagna retrocesse dalla crisi, non esistono più contrappesi allo strapotere tedesco. "Con la Brexit svanisce la speranza più realistica per una soluzione europea alla nuova questione tedesca" e "la prospettiva di un cambiamento viene dall'esterno dell'Europa".
Sia la Russia di Putin che la Turchia di Erdogan stanno cercando di "destabilizzare" l'Ue. Per gli Stati Uniti, ricorda WRM, è sempre stata desiderabile un'Europa in pace, libera da influenze esterne, e coinvolta in un sistema capitalistico aperto a livello mondiale. Su tali presupposti hanno lavorato con Berlino e gli altri alleati europei per espandere Nato e Ue. E queste sono state "le basi" delle relazioni tra Washington e Berlino fin dal 1990, nonché le basi del sostegno da parte dell'amministrazione Bush padre alla riunificazione tedesca "contro i desideri dei russi, dei britannici e dei francesi". Ricordiamo la contrarietà dell'allora premier britannica Margaret Thatcher ad una "Grande Germania": coniugate al "carattere nazionale" tedesco, dimensioni e posizione geografica del nuovo Stato avrebbero potuto provocare un "effetto destabilizzante" sull'Europa. La riunificazione, avvertiva la Thatcher, "non porterà a una Germania europea ma a un'Europa tedesca". Preoccupazioni condivise dall'allora presidente francese Mitterand (la riunificazione farà riemergere i tedeschi "cattivi"). Emblematica la celebre battuta dell'ex presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti: "Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due".
Alla fine, la riunificazione tedesca fu accettata sulla base della duplice garanzia dell'appartenza della nuova Germania alla Nato e del quadro politico-istituzionale dell'Ue. Ora, avverte WRM a conclusione della sua analisi, l'amministrazione Trump potrebbe essere la prima da decenni a trovarsi di fronte interrogativi difficili, impensabili fino a pochi anni fa per la politica estera americana. Cosa succede "se la Germania non è più vista come un pilastro leale dell'Occidente, a sostegno dei principi dell'ordine liberale, ma come una potenza sconsiderata e mercantilista che mina l'Europa e danneggia l'economia americana"? E "nella nuova fase di rivalità tra Germania e Russia per il controllo dell'Europa orientale - si chiede - dove stanno gli interessi dell'America?"
"Senza una relazione stretta con Berlino - osserva WRM - è difficile per gli Stati Uniti fare molto riguardo l'attacco di Putin all'ordine post-Guerra Fredda in Europa e in Medio Oriente, ma allo stesso tempo la stabilità tedesca poggia su basi insostenibili, al prezzo di una Unione europea sempre più instabile e divisa". Le rimostranze per il surplus commerciale tedesco non giungono solo dal "protezionista" Trump, ma trovano inaspettate sponde anche in diverse capitali europee, dove si ritiene che Berlino stia indebolendo la ripresa nell'Eurozona mancando di stimolare la propria domanda interna. L'attuale surplus tedesco viola le regole e "fa male a tutta l'Europa", è la denuncia reiterata dall'ex premier italiano Renzi. In generale, rileva il politologo, si rimprovera alla Germania di avere "un approccio all'euro essenzialmente predatorio", di perseguire, come la Cina, una "politica mercantilista basata sul mantenimento con ogni mezzo" di un surplus commerciale, che in Germania, come in Cina, "assicura la stabilità sociale e la salute dei settori industriali".
Ma questa politica, avverte WRM, "sebbene popolare internamente, sembra insostenibile". "Se Russia, Turchia e Stati Uniti sono uniti nell'opporsi al progetto tedesco (sebbene non per gli stessi motivi e non con gli stessi obiettivi), e se è crescente il malessere di buona parte dell'Ue per la leadership tedesca, prima o poi il sistema si scontrerà con sfide che non può superare. Lo status quo - conclude WRM - non può durare, e più a lungo Berlino ritarda un cambio di rotta, più sarà doloroso, più alto sarà il prezzo che dovrà essere pagato". Secondo il politologo, sono due i temi sui quali venendo incontro alle richieste dell'amministrazione Trump, Berlino potrebbe creare le basi per rinnovare la sua alleanza con Washington: rispettare l'impegno di spesa militare in ambito Nato e affrontare il tema del surplus commerciale. Anche se entrambi questi passi "metterebbero a rischio la pace sociale in Germania". E' possibile che proprio richieste in tal senso si sia sentita avanzare, e in toni abbastanza assertivi, la cancelliera Merkel durante il suo incontro con il presidente Trump alla Casa Bianca. Da qui il clima cordiale, ma freddo del loro primo incontro. Che per la prima volta la Merkel anziché spadroneggiare si sia vista recapitare il conto?
Venerdì scorso si è tenuto a Washington l'atteso primo faccia a faccia tra il presidente americano Donald Trump e la cancelliera tedesca Angela Merkel, a caccia del suo quarto mandato. Ha fatto più notizia il presunto rifiuto di Trump di stringerle la mano davanti ai fotografi nello studio ovale (stretta comunque concessa sia all'arrivo della cancelliera alla Casa Bianca che al termine della conferenza stampa) che il lungo elenco di temi su cui si registrano divergenze tra i due leader. Non sono solo le biografie e lo stile, che non potrebbero essere più agli antipodi, a rendere complicati, ma pure interessanti, i loro rapporti, ma anche e soprattutto grandi questioni politiche: commercio, politica monetaria, Nato, Unione europea, Russia, gli accordi sul clima di Parigi. Questioni oggetto delle schermaglie che per settimane hanno preceduto l'incontro. I due si sono criticati prima, durante e dopo la transizione alla Casa Bianca.
Pur premettendo di nutrire un "profondo rispetto" per la cancelliera tedesca, Trump ha definito "un errore catastrofico" la decisione della Merkel di aprire le porte del suo Paese, e dell'Europa, ai rifugiati, mentre la cancelliera ha criticato l'ordine esecutivo della Casa Bianca che blocca temporaneamente gli ingressi negli Usa da alcuni Paesi musulmani e bacchettato il neo presidente sul protezionismo, rammentandogli i mutui benefici del libero scambio. Trump ha salutato positivamente la Brexit, convinto che il Regno Unito abbia fatto bene a riprendersi la sua sovranità uscendo da un'Europa ormai dominata da Berlino. E la cancelliera è preoccupata che la Casa Bianca intenda lavorare per indebolire l'Unione europea. Il governo tedesco è tra quegli alleati della Nato criticati da Trump perché non spendono abbastanza per la difesa (solo l'1,2% del Pil, contro l'obiettivo del 2%). Trump ha notato che ci sono troppe Mercedes a New York, e la Merkel replicato che a Monaco si vendono tanti iPhone. L'amministrazione Trump lamenta un surplus commerciale eccessivo a favore della Germania (65 miliardi di dollari), reso possibile a suo avviso da un euro troppo debole (che in realtà sarebbe un "marco travestito", secondo il consigliere al commercio di Trump, Peter Navarro).
L'enorme deficit commerciale degli Stati Uniti è infatti in cima all'agenda dell'amministrazione Trump, che sembra volersi concentrare in particolare sulla concorrenza sleale da parte della Cina. Tuttavia, il Wall Street Journal ha fatto notare che la più grande minaccia agli interessi commerciali americani potrebbe venire non dalla Cina, bensì dalla Germania, che sembra porre sfide più serie nel lungo termine. "La Cina - scrive il quotidiano - è oggetto della rabbia degli Stati Uniti per il commercio sleale, ma i surplus esteri della Germania sono ora molto più grandi e possono avere maggiore impatto sull'economia degli Stati Uniti e del resto del mondo". Per anni la manodopera a basso costo cinese ha messo sotto pressione i salari del settore manufatturiero americano, ma le industrie tedesche sono in competizione più diretta con quelle americane. "Nove dei maggiori dieci settori tedeschi per export, come macchinari ed elettronica, sono gli stessi della top 10 americana", ha spiegato al WSJ Caroline Freund, del Peterson Institute for International Economics. "L'euro debole - che ha perso circa un quarto del suo valore contro il dollaro negli ultimi tre anni - dà alle imprese tedesche un margine extra sui mercati internazionali".
Insomma, secondo il WSJ, la Germania starebbe abusando del sistema del commercio mondiale in misura molto maggiore di Cina e Messico. Sebbene possa essere stato vero in passato, la Cina non sta più facendo leva sulla svalutazione del renminbi per sostenere le sue esportazioni; semmai, è preoccupata che la sua moneta si svaluti troppo. La Germania invece ha tratto enormi benefici dalla crisi dell'Eurozona. La debolezza delle economie dei Paesi mediterranei infatti - Italia, Spagna, Portogallo e Grecia - ha reso necessari tassi di interesse bassi e svalutazione dell'euro. Denaro a buon mercato ed esportazioni facili che hanno dato grande spinta all'economia tedesca, il cui surplus commerciale altrimenti avrebbe dovuto fare i conti con un apprezzamento della moneta, non una svalutazione. Il costo, per la Germania, è stato politico, non economico. La sua popolarità presso gli altri stati membri, soprattutto del Sud Europa, è crollata. L'Unione europea si è indebolita, forse come mai prima nella sua breve storia, mentre la Germania è ancora più forte, tanto che il cosidetto direttorio franco-tedesco è ormai squilibrato.
Il presidente Trump è un pragmatico, un negoziatore d'affari, e la cancelliera Merkel una statista esperta e lungimirante. Non è affatto escluso che i due imparino per necessità a lavorare insieme, ma le divergenze, in campo geopolitico ed economico, sono profonde. In realtà, nonostante il loro sia stato un rapporto sinceramente cordiale, e contraddistinto da una certa sintonia personale, anche tra Obama e la Merkel non sono mancate differenze, come sulla gestione della crisi europea. Anche Obama era preoccupato della debolezza dell'euro e da una stagnazione economica nell'Eurozona che rischiava di frenare la crescita americana e mettere a rischio la sua rielezione. Obama era convinto che per superare la crisi dovessero essere adottati in Europa salvataggi e stimoli fiscali come quelli implementati dalla sua amministrazione in America e ha ripetutamente esortato la Merkel ad abbandonare l'austerità per una politica economica espansiva, e persino ad accettare una qualche forma di condivisione dei debiti pubblici.
E' così radicato il pregiudizio anti-Trump nei mainstream media che dalle cronache dell'incontro di venerdì alla Casa Bianca la Merkel emerge come nuova leader del mondo libero e portavoce degli interessi dell'Unione europea, ma a Washington si fa strada un punto di vista radicalmente diverso sulla Germania. E' maturata una nuova consapevolezza della crescente egemonia tedesca sul Vecchio Continente (sebbene il tema trasparisse già negli anni di Obama) e delle domande difficili da porsi. Esiste una nuova "questione tedesca", dal momento che nella cornice dell'Unione europea non esistono più contrappesi al potere di Berlino? La Germania rappresenta, al pari di Cina e Russia, una sfida all'ordine politico ed economico occidentale? A chiederselo è il politologo Walter Russell Mead in un'analisi pubblicata su "The American Interest".
Parte del problema, a suo avviso, è che le classi dirigenti tedesche non sono nemmeno consapevoli di quanto nazionalista sia diventata la loro politica. Il passaggio dell'Europa orientale da un'epoca di dominio russo all'integrazione in un ordine europeo dominato dalla Germania non è solo una vittoria dello stato di diritto come nella visione di Berlino, ma innanzitutto uno spostamento di potere nel quale la Russia abbandona ogni velleità di recuperare l'influenza perduta con il crollo dell'Unione sovietica, mentre la Germania espande a est la propria, consolidando la sua posizione di stato leader in Europa dagli Urali all'Atlantico. I tedeschi percepiscono la propria politica europea come un modello di europeismo responsabile e disinteressato, motivato dal loro "incrollabile impegno per un'Europa post-nazionalista", in mezzo a partner irresponsabili e ingrati. In realtà, osserva WRM, è "molto più nazionalista di quanto credano". Ritenendo il nazionalismo come qualcosa di "malvagio e distruttivo", i tedeschi pensano di esserne immuni. "Non è malvagio, né fascista", ma la Germania "è ancora una nazione" e i tedeschi perseguono i propri interessi nazionali.
Scrive quindi WRM che "non disposta a riconoscere che persegue una politica commerciale brutalmente mercantilista e che ha sacrificato la solidarietà europea per preservare l'armonia politica interna, la Germania è diventata meno un sostenitore dell'ordine occidentale e più un problema per l'Occidente". Realtà difficile da riconoscere per i tedeschi, e quindi ancor più difficile per i partner da discutere efficacemente con Berlino. Il guaio, osserva, è che "gli altri Paesi europei non hanno più il potere per indurre la Germania a ripensare la sua politica europea". Con il Regno Unito che ha imboccato la via dell'uscita dalla Ue, una Francia scossa dal terrorismo, indebolita economicamente e verso un'elezione presidenziale dall'esito incerto, Italia e Spagna retrocesse dalla crisi, non esistono più contrappesi allo strapotere tedesco. "Con la Brexit svanisce la speranza più realistica per una soluzione europea alla nuova questione tedesca" e "la prospettiva di un cambiamento viene dall'esterno dell'Europa".
Sia la Russia di Putin che la Turchia di Erdogan stanno cercando di "destabilizzare" l'Ue. Per gli Stati Uniti, ricorda WRM, è sempre stata desiderabile un'Europa in pace, libera da influenze esterne, e coinvolta in un sistema capitalistico aperto a livello mondiale. Su tali presupposti hanno lavorato con Berlino e gli altri alleati europei per espandere Nato e Ue. E queste sono state "le basi" delle relazioni tra Washington e Berlino fin dal 1990, nonché le basi del sostegno da parte dell'amministrazione Bush padre alla riunificazione tedesca "contro i desideri dei russi, dei britannici e dei francesi". Ricordiamo la contrarietà dell'allora premier britannica Margaret Thatcher ad una "Grande Germania": coniugate al "carattere nazionale" tedesco, dimensioni e posizione geografica del nuovo Stato avrebbero potuto provocare un "effetto destabilizzante" sull'Europa. La riunificazione, avvertiva la Thatcher, "non porterà a una Germania europea ma a un'Europa tedesca". Preoccupazioni condivise dall'allora presidente francese Mitterand (la riunificazione farà riemergere i tedeschi "cattivi"). Emblematica la celebre battuta dell'ex presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti: "Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due".
Alla fine, la riunificazione tedesca fu accettata sulla base della duplice garanzia dell'appartenza della nuova Germania alla Nato e del quadro politico-istituzionale dell'Ue. Ora, avverte WRM a conclusione della sua analisi, l'amministrazione Trump potrebbe essere la prima da decenni a trovarsi di fronte interrogativi difficili, impensabili fino a pochi anni fa per la politica estera americana. Cosa succede "se la Germania non è più vista come un pilastro leale dell'Occidente, a sostegno dei principi dell'ordine liberale, ma come una potenza sconsiderata e mercantilista che mina l'Europa e danneggia l'economia americana"? E "nella nuova fase di rivalità tra Germania e Russia per il controllo dell'Europa orientale - si chiede - dove stanno gli interessi dell'America?"
"Senza una relazione stretta con Berlino - osserva WRM - è difficile per gli Stati Uniti fare molto riguardo l'attacco di Putin all'ordine post-Guerra Fredda in Europa e in Medio Oriente, ma allo stesso tempo la stabilità tedesca poggia su basi insostenibili, al prezzo di una Unione europea sempre più instabile e divisa". Le rimostranze per il surplus commerciale tedesco non giungono solo dal "protezionista" Trump, ma trovano inaspettate sponde anche in diverse capitali europee, dove si ritiene che Berlino stia indebolendo la ripresa nell'Eurozona mancando di stimolare la propria domanda interna. L'attuale surplus tedesco viola le regole e "fa male a tutta l'Europa", è la denuncia reiterata dall'ex premier italiano Renzi. In generale, rileva il politologo, si rimprovera alla Germania di avere "un approccio all'euro essenzialmente predatorio", di perseguire, come la Cina, una "politica mercantilista basata sul mantenimento con ogni mezzo" di un surplus commerciale, che in Germania, come in Cina, "assicura la stabilità sociale e la salute dei settori industriali".
Ma questa politica, avverte WRM, "sebbene popolare internamente, sembra insostenibile". "Se Russia, Turchia e Stati Uniti sono uniti nell'opporsi al progetto tedesco (sebbene non per gli stessi motivi e non con gli stessi obiettivi), e se è crescente il malessere di buona parte dell'Ue per la leadership tedesca, prima o poi il sistema si scontrerà con sfide che non può superare. Lo status quo - conclude WRM - non può durare, e più a lungo Berlino ritarda un cambio di rotta, più sarà doloroso, più alto sarà il prezzo che dovrà essere pagato". Secondo il politologo, sono due i temi sui quali venendo incontro alle richieste dell'amministrazione Trump, Berlino potrebbe creare le basi per rinnovare la sua alleanza con Washington: rispettare l'impegno di spesa militare in ambito Nato e affrontare il tema del surplus commerciale. Anche se entrambi questi passi "metterebbero a rischio la pace sociale in Germania". E' possibile che proprio richieste in tal senso si sia sentita avanzare, e in toni abbastanza assertivi, la cancelliera Merkel durante il suo incontro con il presidente Trump alla Casa Bianca. Da qui il clima cordiale, ma freddo del loro primo incontro. Che per la prima volta la Merkel anziché spadroneggiare si sia vista recapitare il conto?
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