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giovedì 16 agosto 2012

Grouper - Cover the windows and the walls (2007)

Grouper non è altri che Liz Harris, all'incrocio fra la psichedelia onirica e dilatata di Azalia Snail, Elisabeth Fraser e il paradisiaco incanto di Ashera. La Harris non ha, di certo, il talento melodico di Snail e tende, pericolosamente, alla monocromia: tutte le sue composizioni sono nenie angeliche e tremolanti, aeree e sfumate; solo una volta si sfiora la cupezza (You never come), con un suono più largo e solenne; il tono predominante, invece, è estasiato, melanconico e liquido. Le modulazioni da sirena di Harris sarebbe state perfette nelle scene conclusive del Wild blue yonder di Werner Herzog. Nel film del tedesco, una fantasia fantascientifica, una missione spaziale esplora gli abissi interstellari alla ricerca d'un nuovo mondo abitabile: la Terra, infatti, sta morendo. Gli astronauti trovano un pianeta perfetto, con mari estesi e nuovi esseri viventi: le commoventi riprese finali, sottomarine, svelano una fauna brulicante, dalla vita semplice e miracolosa, resa incantata, rallentata e sognante dal filtro diafano delle acque e dai giochi di luce dei riflettori degli esploratori. Tale scoperta, tuttavia, sarà inutile: al loro ritorno gli astronauti troveranno la Terra spopolata, e riconsegnata (una benedizione?) all'imperio della Natura*.
Per finire: tali lavori possono risultare, per qualcuno, noiosi. Si fa per dire. La noia è un sentimento nobile, da usare per la disperazione metafisica. Noia, in tali casi volgari, significa insofferenza. Quasi impossibile** usarla come parametro estetico: essa esprime, infatti, nel migliore dei casi, la nostra incapacità a rapportarsi con materiali diversi dall'ordinario; nel peggiore significa o scarsa preparazione oppure, quasi sempre, un ottundersi del gusto, reso tale dalla frequentazione con pietanze da dozzina. Un teppista futurista (poco tempo fa ancora alla moda) scrisse addirittura un florilegio di critiche cinematografiche basato sulle sue insofferenze (e non voglio ricordarne il nome, anzi voglio dimenticarlo). Come diceva PPP: “Quanta stupidità … che bolgia di stupidità!”.

* Il film è più complesso: la narrazione è fatta da un alieno caduto sulla Terra.
** Non nel caso di Nietzsche a cui fremevano le gambe quando ascoltava musiche non di suo gusto. 

venerdì 21 ottobre 2011

Eluvium - Talk amongst the trees (2005)


Matthew Cooper (nato nel Tennessee, cresciuto a Louisville, Kentucky, ora residente nell’Oregon, a Portland), tastierista e chitarrista, raggiunge, con Talk amongst the trees, assieme all’esordio Copia,  il vertice della propria produzione.
La sua musica gode di una struttura elementare, basata com’è sul gioco dei due strumenti anzidetti, ma Cooper riesce comunque a generare composte architetture minimali e ambientali fidando soprattutto sulla lunga durata; le sue avvolgenti sonorità abbisognano, infatti, per formalizzarsi compiutamente  in oggetto e nella mente dell’ascoltatore, di dipanarsi lentamente: negli episodi più alti (Taken, New animals from the air, One) uno strumento assolve il compito di una frase ripetitiva o di semplice bordone, mentre l’altro esegue minime variazioni su quel tema insistito che possono anche evolvere in crescendo come in Taken (16’56’’): qui un delicato e ripetitivo strumming di chitarra viene gradatamente sommerso dal gonfiarsi dell’onda delle tastiere. New animals from the air (10’47’’), invece, pur vantando la stessa impostazione, non ne altera il ritmo per tutta la sua durata; One (7’44’’) è ancor più spoglia, dominata da profonde pulsazioni e labili tastiere (quasi un Trollmann av Ildtoppberg); Show us our homes (4’46’’) è un breve quadro di musica ovattata e sospesa come in un paesaggio nebbioso e invernale; Calm of the cast-light cloud (5’30’’) è pura monocromia.
L’impressione generale è che Eluvium si tenga lontano dalla feconda ambiguità dei Labradford o dall’attonita meraviglia dei Lightwave o da certe cupe profondità di alcuni contemporanei: la sua peculiarità consiste nell’iterare, variandole lentamente, sonorità pulite ed ordinate, venate da freddi accenti crepuscolari, seppur mai problematiche o davvero profonde.