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lunedì 19 ottobre 2015

Billy Idol - Idolize yourself. The best of Billy Idol (2008)

Prima o poi, mi dicevo, riuscirò a postare qualcosa che si ascoltava assieme (e con gusto) al liceo. Assieme in tal senso: sia da parte di un gruppetto di asociali e incattivi misantropi rock (fra i quali il sottoscritto) che da parte degli altri, i meno militanti, almeno fra quelli più svegli e meno zombificati dai gusti di regime.
Billy Idol era parte del terreno comune.
Era molto orecchiabile, duro, ma melodico, e quindi popolare e godibile anche fra i meno avvezzi a Neil Young, Jefferson Airplane e Iron Maiden.
Al contempo anche noi, avvezzi a Neil Young, Jefferson Airplane e Iron Maiden, consentivamo che, a ben ascoltare, Billy Idol era accettabile ... poteva andare, insomma ... non era male (per così dire).
Certo, a distanza di anni, si può dire che l'ossigenato Idol era già una resa totale di tutto ciò che era davvero outlaw e frontista, nel punk nel folk nell'hard rock; Billy era solo merce, pacchi di vinili e musicassette pronti a essere sbolognati a folle rintronate dalla propaganda, un eroe del nulla buono solo per MTV e Videomusic; e fu Videomusic, infatti, da vera battona della musica leggera, a lanciare in orbita una sequela di bambolotti inglesi (fra cui il nostro Billy) che ancor oggi muovono nostalgie e umidori di ciglia: la nostra nazione, giova ripeterlo, era colonia anglosassone e tanto Videomusic doveva (gli americani, rispettosi delle zone d'influenza, dall'Italia giravano un po' al largo).
Ma non voglio essere cattivo: il buon William Michael Albert Broads in fondo il successo se l'è meritato; Catch my fallRebel yellWhite wedding e Flesh for fantasy ancora oggi suonano bene; il resto, inclusi Dancing with myself e il romanticume di Eyes without a face, è, come dire, andante; come certe ragazze che non sono belle, ma neanche brutte, eppur nemmeno carine: simpatiche, insomma; andanti.
Questo accadeva trent'anni fa, però: ora sono tutte carine per default. Una sedicenne (pardon: diciottenne) di oggi è, naturalmente carina; ne vedete una davvero brutta? Alte, snelle, gambe diritte, viso e capelli curatissimi, fare discretamente strafottente; basta guardare le foto del mio liceo primi anni Ottanta o i bianco e nero dei nostri genitori per scoprire come, risalendo nel tempo, cresca inesorabile l'intensità della coticheria (da 'cotica', donna racchia; noto anche coll'accrescitivo, coticone).
Vedete voi quali miracoli opera il benessere capitalista basato sul credito facile combinato col welfare ben temperato delle socialdemocrazie occidentali: raddrizza le gambe, snellisce i fianchi, rassoda le braccia, ingentilisce i nasi, arrotonda vezzoso le natiche; è così e basta. 
I poveri sono brutti.
Per riprova basta confrontare le cinesi immigrate a Roma nei primi Ottanta con le loro nipoti attuali: i tratti di quei musi da contadine traccagnotte e storte sono stati trasfigurati (appena tre decenni!) in linee delicate e morbide, che assecondano un sorriso amabile quanto il loro dialetto romano.
Tutto questo in attesa di ridiventare gradualmente racchie ... i cicli del capitalismo sono inevitabili: espansione-contrazione, espansione-contrazione ...
Ma cosa stavo dicendo di Billy Idol? Buono, andante; passabile, via. Anche su di lui, però, grava l'onere del tempo (critico implacabile) e presto ne resterà ben poco; a parte l'effetto nostalgia sui vecchi coticoni come me.

giovedì 6 agosto 2015

Brainville 3 (Daevid Allen/Hugh Hopper/Chris Cutler) - Trial by headline (2008)

Per quanto sia allergico ai supergruppi ... è impossibile ignorare la storia di Gong, Soft Machine, Henry Cow e Art Bears; quattro bands e quattro posizioni nella Nurse With Wound list.
Brainville 3 non è, peraltro, un cimitero dei dinosauri. I Nostri si portano appresso la loro storia (c'è anche una I bin stoned before), certamente, ma il disco (dieci brani che oscillano fra avanguardia, space e progressive), pur non vantando memorabili impennate, a tratti si rivela d'inaspettata vitalità.
Da ascoltare, se non altro per omaggiare i tre leoni (Allen e Hopper riposino in pace).

mercoledì 11 marzo 2015

Detroit rock sound - Where you gonna go. Motor City garage bands 1965-1969 (2008)/Sympathetic sounds of Detroit (2001)

Dirtbombs
Il sottotitolo a questo post potrebbe essere: non valiamo più niente, ecco la verità.
Volevo usare una espressione più forte, ma anche questa rende bene l'idea. Sì, siamo una generazione di smidollati, facciamo schifo a noi stessi. Le differenze con chi ci ha preceduto sono palpabili e nette, come strati geologici di materiali incompatibili.
L'ho già spiegato: ai tempi di MC5 la gente si faceva ammazzare nelle strade, adesso su tutte le vette è pace.
Nessuno oggi reagisce perché non ha la minima idea di come farlo; e, soprattutto, ha paura a farlo: una sorta di vergogna sociale - o di inadeguatezza - ne blocca gli atti più spontanei. Timorosi, queruli, isterici, arroganti - facce diverse di uno stesso cubo di Rubik, quello dell'impotenza.
E questo accade, pur con tutti i nostri titoli di studio, i dottorati, le lauree, le specializzazioni, la sapienza tecnica e la possibilità davvero prometeica di conoscere in tempo reale il mondo e la natura: e perché accade? Perché, in fondo, siamo solo degli attori della vita.
Il capolavoro del potere: costringerci, senza apparente obbligo, in una recitazione ben precisa.
Non esprimiamo sentimenti, ma fingiamo sentimentalismi; non rivendichiamo giustizia, ma ciò che ci hanno detto essere giustizia; non conosciamo l'amore e l'odio, ma i simulacri commerciali di queste due potenti molle all'azione. Una finzione continua, un traccheggiare da guitti che sembra farci felici  e invece conduce alla nevrosi.
I nostri vecchi avevano la seconda o la terza elementare, ma ancora possedevano passioni. Li potevi ingannare come i cafoni di Fontamara, costringerli con la forza, tenerli nell'ignoranza più brutale, limitarli in una riserva, ma era impossibile che scambiassero il bene con il male; o fingessero una vita o degli odi o degli atteggiamenti. Esisteva ancora l'indignazione, come istinto sorgivo, immediato. E un sentimento di giustizia naturale, millenario. Il benessere e la pace hanno infrollito i loro figli, e i loro nipoti e bisnipoti - noi - ridotti a innocui figurini di secondo piano, perfettamente manipolabili, e intercambiabili.
La mancanza della passione ... di empatia, di coinvolgimento emotivo. Una deprivazione emozionale che lascia sbigottiti. Di fronte alle tragedie, all'iniquità più manifesta (contro persone e popoli) si rimane assolutamente indifferenti; a volte sarcastici sino al dileggio, altre spietati sino al tecnicismo. La tragedia della Grecia, le morti per le difficoltà economiche, la corruzione più sfacciata dovrebbero incendiare il cuore e le lingue ... e invece ... non ho mai visto un corpo sociale più amorfo, passivo, cinico e tremebondo ... rifugiato nella piccineria, nei piccoli conti in casa propria, nel menefreghismo alla si salvi chi può ... perché noi non viviamo, recitiamo ... non sta bene protestare, la parte è assegnata ... coesione, placare i toni, sopire, troncare, cautela ... le ingiustizie più squallide, sbandierate con la protervia dei criminali, non provocano che qualche borbottio ... si alzano le spalle ... si sposa una causa e la si abbandona alla prima difficoltà ... si giura e si spergiura, in alto i cuori, all'arrembaggio .... e poi, al primo scoppio di mortaretto: non ho tempo, non stiamo facendo bene, mamma la pula, occorre una riunione, convergenze parallele, devo scappare ...
Detroit, deindustrializzata, spolpata, spopolata, in bancarotta, rassegnata ... la prefigurazione dell'Italia, insomma ... ma, se non altro, ricca di sacche di pura ribellione artistica: Tidal Waves, Unrelated Segments e MC5 allora; Dirtbombs, Paybacks, Buzzards adesso ... ore di grandissima musica rock da accoppiare all'altra micidiale compilation, Detroitrocksampler, compilata da Julian Cope e ammannita dal vostro Signore della Notte ... in persona ... con un poco di fatica ... sudore e qualche goccia di sangue ....
Intanto, in Italia, le solite baruffe chiozzotte: si accapigliano un critico musicale e un perfetto coglione da musicarello renziano ... uno dei tanti nadir dell'intelligenza italiana ... fra i due non saprei chi scegliere: uno è sicuramente un coglione (con la zeppola), l'altro invece pure ... venendo meno all'aurea regola: mai parlarci con un coglione, qualcuno potrebbe non capire la differenza ... e infatti ... ridicoli anche nella depressione ... un paese da tre palle un soldo, davvero ... viva Detroit!

Tracklist:

venerdì 25 ottobre 2013

Smiths - The sound of The Smiths (2008) 1^ parte/2^ parte



Quarantacinque tracce (quarantacinque) per una storia musicale che vanta solo quattro album, di cui solo un paio meritevoli d'esser ricordati; i curatori rappattumano, come al solito, qualche live e versione da 7'' o da Peel session per dilatare a due cd un'esperienza che ebbe la fortuna sfacciata di nascere ed affermarsi durante quel periodo ingenuo e irripetibile in cui vinili, musicassette e radio lasciavano frettolosamente il posto alle nuove televisioni commerciali specialistiche (MTV, Videomusic).
I primi video, i primi VJs consacrarono una nuova generazione pop che, con melodie ballabili o esangui linee chitarristiche post-punk, liquidava definitivamente, e in modo incruento, l'esperienza politicamente devastante del punk, dell'hardcore, del progressive e del folk autoriale. 
Fra le legioni, diversificate in base al target, ecco gli Smiths, destinati al lato meno cialtrone del consumatore medio; anzi destinati al teenager consumer avveduto e responsabile (viva la pace, meat is murder, la fame dei bimbi etc etc); avveduto e responsabile poiché egli, nonostante tutto, resterà tale (consumatore) senza scocciare più tanto, rimanendo avido di prodotti (ideologici e commerciali, di MTV e dei signori che usano il mezzo MTV) e, in più, illuso di aver dato il suo contributo di progressista medio (destro, sinistro, centrista) alla causa del capitalismo compassionevole (vi ricordate il Live Aid? Le canzoncine angloamericane Feed the world et similia?).
Non vorremmo far torto al gruppo di Morrissey (Johnny Marr, chitarra; Andy Rourke, basso; Mike Joyce, batteria): The queen is dead, What difference does it make, Barbarism begins at home, That joke isn't funny anymore, How soon is now sono sempre piacevoli; a distanza di trent'anni, però, il brodo ha un retrogusto un po' annacquato, e, alla fine dei quarantacinque pezzi del best of, sembra ancor più scipito.
Manca il sale, la forza. Gli Smiths sono bravi, ma carini. O carucci. E fortunati. In seguito arriverà il diluvio Oasis, Blur, Verve: dovremmo forse essere più indulgenti, ma le responsabilità sono di chi vive le vicende in un dato momento storico. Al massimo potremmo concedere le attenuanti della sincerità, ma, ormai, alla sincerità ci credo poco anch'io.
Approfittiamo del post per un saluto a Morrissey, trasferitosi qualche anno fa nei dintorni di Roma, attirato da un amore bruciante, e a tutte le ammiratrici romane del gruppo (quasi sempre hipster, biondine e spilungone: lo so per certo).

mercoledì 12 giugno 2013

Beyond the boundaries - Post rock vol. 4 (Nadja) 1^ parte/2^ parte


Dietro il moniker Nadja, si nasconde, come si è visto, il geniale multistrumentista Aidan Baker (Nadja è palindromo del nome di battesimo del canadese). La produzione del duo (al Nostro si aggiunge, alla voce e al basso, la compagna Leah Buckareff) assomma, a tutt'oggi, a più di sessanta lavori, fra CD, Ep, ri-registrazioni con bonus tracks, split con bei nomi dell'avanguardia internazionale (Black Boned Angel, Fear Falls Burning, Atavist, fra i tanti).
Nonostante il diluvio sonoro (raggiunto in poco più di dieci anni), e le ritenutezze stilistiche proprie del genere, una sorta di epico shoegaze-doom, la qualità delle opere, sorprendentemente, rimane sempre alta, tanto che, a proposito del duo, il giudizio si può ritenere acquisito: sono tra i capifila indiscussi del post rock degli anni Duemila.
Due dei lavori maggiori sono già stati recensiti (Radiance of shadows dal sottoscritto, lo stesso Radiance e Thaumogenesis dal buon Webbatici); ho trascelto, dagli anni 2002-2010, i lavori ritenuti più rappresentativi (a parte gli split che esamineremo in seguito). 
Oltre al quartetto da tenere sotto orecchio anche Guilted by the sun e Truth becomes death.

Corrasion (2003). Uno dei primi lavori e già lo stile è affinato: brontosauri sonori, basso pulsante, detumescenze, stasi, riprese ancor più ciclopiche. Il rumore di fondo dell'universo. Conflagrazioni stellari, annientamenti, nascite di nuove galassie, vengono scandite dal basso continuo di Buckareff e dalla drum machine di Baker, veri regolatori della vita stessa di questo cosmo musicale. Non mancano accenni più spiccatamente doom (You're as dust) o meditativi (l'inizio di Corrasion).

Bodycage (2005). Tre pezzi per circa cinquanta minuti; un classico imperdibile, Clynodactil (21'45''), maestoso come il dispiegarsi dell'anima stessa dell'universo.

Touched (2007; re-recorded). Assieme a Radiance of shadows forse il capolavoro dei canadesi; questa è la versione accresciuta dell'omonimo del 2003 (da ascoltare anche quella: alcuni la preferiscono); Mutagen e Flowers of flesh sono gli ennesimi tour de force in cui possiamo udire il respiro stesso del divenire. Musica per sciamani. 

Desire in uneasiness (2008). Per la prima volta i Nadja si muniscono di un vero batterista (Jacob Thiesen). Si perde il fascino avvolgente dei primi lavori, ma le progressioni divengono dei bulldozer spaventevoli. Eccellente Uneasy desire

giovedì 26 aprile 2012

Elephant9 - Dodovoodoo (2008)

In un memorabile racconto di Borges, Pierre Menard, l’omonimo protagonista decide di riscrivere, parola per parola, riga per riga, il Don Chisciotte di Cervantes. Il nuovo testo, posteriore di tre secoli, pur verbalmente identico, sarebbe risultato paradossalmente ben più ricco del precedente poiché saturo di significati storici e filosofici intercorsi tra la prima e la seconda stesura.
I norvegesi Elephant9, più modestamente, decidono di riscrivere, anche loro quasi alla lettera, un disco di progressive jazz degli anni Settanta e ci riescono perfettamente. Eilertsen (basso), Lofthus (batteria; ottimo) e soprattutto l’organista Ståle Storløkken (già con i ben più arditi Supersilent e collaboratore dello storico chitarrista Terje Rypdal) allestiscono un ensemble compatto dal suono piacevolmente deja entendu; ognuno ricerchi le influenze che i Nostri solleticano, Keith Emerson, Egg, Weather Report (gli ultimi due pezzi, Doctor honoris causa e Directions, sono rifacimenti di pezzi di Joe Zawinul) oppure Soft Machine.
A differenza dell’opera di Menard il tempo non gioca a favore del trio nordico: negli anni Settanta la forma libera, anche caricata di valenze politiche libertarie, riscattava dai lacci della canzone classica, e l’improvvisazione e la suite erano dichiarazioni d’indipendenza precise. Oggi, polverizzati gli stili e annientato l’impegno radicale, rimane esclusivamente il rimando esteriore a quel periodo irripetibile. Il disco brilla allora per ciò che evita: ipertecnicismi, riferimenti paleosinfonici e simile paccottiglia colorata. Ne viene perciò un’opera sorprendentemente sobria, ovviamente ben interpretata e, innegabilmente, come detto, piacevole, a partire dal pezzo eponimo.
Gli amanti del genere avranno di che godere. Ma non si gridi al miracolo.