L’altro album di famiglia del terrorismo italiano
Tutti i buoni libri che affrontano il tema del terrorismo nel
nostro paese sono una ricchezza. Come lo è quello di Guido Panvini, Cattolici e violenza politica, uscito da
Marsilio (400 p.,€22), che approfondisce una aspetto importante della cosiddetta lotta
armata in Italia. Il volume aiuta a capire come da idee fondate di mutamento e
giustizia sociale (maturate negli ambienti cattolici e cristiani), come quelle emerse
a partire dagli anni '60, un gruppo di persone, per lo più giovani, abbia
pensato di passare alla lotta armata ritenendo di essere alle soglie della
nascita di una dittatura e di muoversi sotto un regime. Che ogni terrorismo
abbia qualcosa di religioso e fideistico è noto, ne facciamo i conti ancora
oggi. Ricorda l'autore come comunque, negli anni affrontati dal saggio,: «l'adesione e la militanza nei movimenti
armati non è stato il risultato di una devianza, bensì la conseguenza di un
complesso intreccio di mobilitazioni politiche». Il libro di Panvini si
inoltra, come detto, nel mondo cattolico, da sempre combattuto tra l'annosa
questione della "guerra giusta", della violenza necessaria a
rimuovere il tiranno e la non violenza, e/o la resistenza passiva e la
disobbedienza civile. Ricordo le riflessioni che su tale questione si ebbero,
ad esempio, durante la Resistenza (cui pure parteciparono a vario titolo, nei
modi più differenti, molti cattolici e credenti). Significative le parole di
Moltmann riportate nel volume: «Se si
oppone la violenza alla violenza, sarà difficili abolire dopo la violenza la
rivoluzione [...] Se il fine della rivoluzione è un'umanità realizzata in modo
migliore, non bisogna perdere di vista questo fine anche durante il così detto
«periodo di transizione» [...] I mezzi rivoluzionari devono essere
continuamente confrontati con i fini umanitari, altrimenti la rivoluzione
minaccia di finire e di affondare nel terrorismo o nella rassegnazione. Come
l'uso della violenza intende aiutarci per ottenere il regno della fraternità
non violenta ? E' l'insolubile difficoltà logica dell'azione rivoluzionaria.
Chi accetta la legge del suo avversario non è ancora un uomo nuovo». Risulta
difficoltoso capire come, pur di fronte ad un mondo che cambiava, come quello
della vecchia Europa, recando legittime istante di libertà e progresso, da
suddividere fra tanti (e per questo fra molte resistenze) si sia fatto il salto
ed imbracciato le armi (direttamente o favorendo in qualche modo trame
eversive): sia in senso conservatore, con la paura del comunismo, sia in senso
rivoluzionario con l'intento di abbattere il sistema. La contestualizzazione
del periodo può aiutarci a capire: il primo centrosinistra con l'apertura al
Psi che in alcuni ambienti del conservatorismo cattolico sembrò il preludio dei
cosacchi in Piazza San Pietro; il boom economico che mutava la geografia e
l'aspettativa sociale di vasti strati di giovani e di lavoratori; la fabbrica
fordista come terreno e veicolo di emancipazione con l'operaio che veniva
percepito sia come avanguardia rivoluzionaria sia come avanguardia evangelica;
la fine del colonialismo, con le spinte all'autodeterminazione dei popoli in un
contesto teso e difficile segnato dalla cortina di ferro e da una rivisitata ed
aggiornata, in senso ampio, dottrina Monroe; il concilio Vaticano II. Nel mondo
cattolico il concilio ha rappresentato, scrive Panvini, uno snodo fondamentale:
«Sulla scia di quei fermenti, infatti,
nacque una tormentata riflessione tra fede, militanza politica e scelta
rivoluzionaria». Il Vaticano II sembrò, ad un certo momento, rappresentare,
per alcuni, molto di più di quanto immaginato dagli stessi promotori. Anche in
quel caso delle comprensibili richieste di progresso liturgico ed esegetico, di
uguaglianza e di lotta alla povertà vennero, in certi ambienti, lette in modo
estremistico. Dirà Dossetti, protagonista di quell'evento, nel 1994 a Pordenone,
che il concilio ha avuto un limite reale: «che
era stato tutto pensato ancora in regime di cristianità e supponendo
sostanzialmente ancora un regime di cristianità, dal quale si è allontanato per
poche cose. Quindi ha inquadrato i rapporti col mondo, specialmente nella
Gaudium et Spes, in una visione ottimistica, troppo ottimistica, e in una
supposizione, non più vera, che il regime globale - sociale, culturale,
politico - fosse più o meno, con differenze rilevanti fra le diverse nazioni,
quello ereditato dal vecchio regime cristiano. E quindi per molti aspetti si è
trovato a scontrarsi con una situazione nuova, diversa, non facilmente
amalgamabile. Questa potrebbe essere la ragione profonda del suo arresto, della
sua stasi e nell'ordine della ricezione completa e dell'impulso reale dato al popolo
di Dio e alle sue guide.» Riflettendo oggi su quel periodo, resta sempre la
perplessità di come si sia potuto arrivare a tanto. Scrive l'autore, a mio parere
giustamente, che: «Nè la ricerca di
risposte univoche e definitive ai problemi della società contemporanea può
comportare da sola, la legittimazione dell'uso della forza così ricorrente in
quegli anni». E aggiunge: «Sarebbe mancata a lungo una riflessione
sulle vittime di quella violenza, troppe volte messe sullo stesso piano dei
loro carnefici, mentre una maggiore attenzione alla sproporzione tra mezzi e
fini, implicita nell'uso politico del terrore, avrebbe aiutato a comprendere il
sovrainvestimento ideologico e le divisioni che segnarono la politica e la
società in quella drammatica stagione della storia repubblicana». E' un
volume che, a mio parere, va anche oltre lo specifico (come tutti i libri
sull'argomento) perchè indica una visione sostanziale e di fondo: dove può
portare, cioè, la manifestazione concreta e la interpretazione di parte, in
modo capzioso, degli ideali che diventano ideologie, trasformandosi in fenomeni
totalizzanti e subdolamente "avvolgenti" nella vita delle persone.