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venerdì 26 ottobre 2018

La divulgazione scientifica al tempo del prosumatore

Alberto Angela, paleontologo di formazione e divulgatore vecchio stile e senza compromessi. Celebrato sui social media per il suo fascino e per la sue abilità nel "divulgare forte" in  un numero spropositato di memi, i quali hanno ispirato magliette e cosplayer (il meme con Cartesio è imbattibile: "Penso, quindi sono. / Divulgo forte, quindi levati").
Fonte: Google

«Attenzione nell’informarsi. Per lo più si vive d’informazione; il meno è quello che vediamo; viviamo sopra l’altrui fede […] Necessaria è la più fina attenzione in questo punto per iscuoprire la intenzione di colui che è di mezzo, investigando, avanti che parli, di che piede si mosse ad informare. Sia la riflessione quella che faccia paragone dell'oro vero dal falso, e rivegga i pesi e le misure».

Baltasar Gracián y Morales, aforisma n. 79 (1647), dalla traduzione italiana di Vincenzo Giovanni De Lastanosa intitolata Oracolo Manuale e Arte di Prudenza, Venezia, 1690.

Ipsa scientia potestas est


Che cos’è che rende efficace la divulgazione scientifica? Dove si può tirare una linea di demarcazione e dire questo prodotto non è divulgazione, mentre quest’altro lo è? Che cos’è che rende un prodotto divulgativo un buon servizio divulgativo, e che cosa lo differenzia da un “cattivo” esempio di divulgazione? Quale impatto hanno avuto la Rete e i social network sulla qualità della divulgazione? 

La questione è molto più complicata e ambigua di quanto si possa pensare, e l’etimologia del termine – primo possibile argine alla nostra confusione – non ci aiuta molto. Divulgare, come leggiamo sul sito della Treccani, ha due accezioni principali. La prima ci informa che divulgare equivale a «Rendere noto a tutti o a molti, diffondere»; la seconda ci suggerisce come significato quello di «Rendere accessibili a un più vasto pubblico, per mezzo di un’esposizione semplice e piana, nozioni scientifiche e tecniche» [1]. Sono due accezioni fortemente in contrasto, perché se la prima stabilisce un livello di accettabilità minimo potenzialmente slegato dalla tipologia (e dalla qualità) dei contenuti, la seconda reca con sé la necessità di conoscere mezzi, metodi e teorie in modo approfondito per saperli poi divulgare, ossia diffondere

Il presupposto banale di ogni divulgazione fatta come si deve è che dietro alla voglia di diffondere ci sia anche la volontà di contribuire ad aumentare le conoscenze per il bene comune. Il sapere è infatti la pietra di volta di ogni miglioramento sociale e individuale. Se so come accendere un fuoco, cucinerò meglio e scalderò la mia famiglia. Se conosco la storia posso imparare ad evitare gli errori già commessi nel passato. Se so che cos’è il tempo profondo dell’evoluzione riuscirò a liberarmi di preconcetti razziali antiquati e a essere – si spera – un individuo moralmente migliore.

Ipsa scientia potestas est: la conoscenza in sé è potere, secondo il motto coniato dal filosofo inglese Francis Bacon nel 1597. Bacon sottintendeva almeno tre accezioni dietro a questa frase:
  1. l’accumulo di conoscenze verificate risultante dallo studio sperimentale che serve per migliorare le condizioni di vita;
  2. coloro che possiedono conoscenze pratiche sulla base del punto (1) sono in una posizione privilegiata per occupare cariche pubbliche e posizioni politiche di rilievo rispetto a chi le detiene o le eredita perché nobile di nascita;
  3. questo sapere può esser organizzato ed utilizzato per implementare una tecnologia del sapere, ossia una serie di processi cognitivi, strumenti sociali, pratiche, e discorsi volti a irreggimentare una disciplina della ricerca non aliena a scopi e motivazioni di carattere politico – in ottemperanza a quanto stabilito dal punto (1) [2].
Fin qui, tutto normale. Al tempo di Bacon si trattava di giustificare l’investimento e la mobilitazione di capitali intellettuali e politici allo scopo di istituire le fondamenta di un’organizzazione scientifica capillare ancora di là da venire. Sto ovviamente tagliando il discorso storiografico con l’accetta, ma il discorso resta valido anche oggi. Se dobbiamo decidere come smaltire scorie radioattive, come affrontare in modo efficace il riscaldamento globale o come gestire i gruppi che fanno pressione perché si elimini l’insegnamento della biologia evoluzionistica dalle scuole dell’obbligo si spera che i decisori politici abbiano conoscenze approfondite in merito a ingegneria nucleare, climatologia e  storia della scienza o genetica (o per lo meno, si spera che abbiano saputo circondarsi di consiglieri capaci). Cosa che però, al tempo della post-verità, del negazionismo climatico e di cospirazionismi vari, evidentemente non è [3].

Non è un caso che il terzo punto della relazione tra potere e sapere, quello più strettamente legato all’esercizio pratico del potere, si sia prestato agli affondi poststrutturalisti di studiosi come Michel Foucault e Pierre Bourdieu, i quali hanno passato al setaccio le negoziazioni e i rapporti di potere tra classi sociali e individui, tra subordinati e dominanti, per svelare i modi in cui i discorsi e le pratiche che rappresentano il guscio esterno del “sapere” possono contribuire a influenzare, indirizzare, manipolare e distorcere la ricerca stessa e l’applicazione dei suoi risultati per convenienze politiche e sociali [4]. Un esempio storico? L’accettazione del lysenkoismo come genetica di stato nell’Unione Sovietica fu motivato non tanto dai risultati sperimentali (deludenti e fallimentari) ma dalla sua adozione all’interno di una tecnologia sociale del sapere (in termini filosofici, una tecnologia scissa dall’epistemologia) volta a contrapporsi a priori e per motivi ideologici alla genetica “occidentale”, ritenuta macchiata da compromessi borghesi e capitalistici. Il risultato fu triplice: 
  • la sostanziale marginalizzazione dell’ambito di ricerca nell’URSS;
  • lo smantellamento della biologia sperimentale russa tramite licenziamento o reclusione dei ricercatori;
  • l’esodo di genetisti russi all’estero (che decisero di non tornare più, come fece Theodosius Dobhzansky). 
Il lysenkoismo diventò un’arma della propaganda interna la quale adottò, diffuse e divulgò questa dottrina per sostenere l’agricoltura russa in un momento difficile. Di esempi simili ce ne sono tanti per ogni epoca e per ogni latitudine (le manipolazioni nazifasciste dei discorsi e delle pratiche scientifiche in epoca interbellica furono ancora più aberranti), ma tanto basti per ricordarci banalmente che le idee e la loro diffusione non sono innocue ma hanno conseguenze tangibili sul reale [5].

Un cervello dell’età della pietra


Possiamo quindi capire che divulgare non può e non deve essere considerato come cosa buona di per sé. I ciarlatani possono divulgare in modo efficace e convincente. E, purtroppo, abilissimi ricercatori possono essere carenti dal punto di vista delle doti comunicative. Quando chi sa viene marginalizzato  o delegittimato per motivi di convenienza, non è raro che si diffondano con maggiore efficacia le voci dei ciarlatani. Ricordo l'esempio recente del parlamentare ed ex ministro conservatore inglese Michael Gove il quale, durante la campagna per il referendum del Regno Unito sul mantenimento dell'adesione all’Unione Europea, commentò di averne “avuto abbastanza degli esperti”. Come il caso del lysenkoismo insegna, e come la storia sociale della scienza ha ribadito fino allo sfinimento, possono esistere pressioni sociali dietro alla ricerca, all’imposizione o al silenziamento del sapere, e queste pressioni sociali si traducono nella creazione di un ambiente nel quale le idee competono e si diffondono sulla base della loro forza persuasiva. In breve, l’utilità ideologica e la spendibilità politica prendono il sopravvento sulla conoscenza sperimentale in senso lato – ossia sul sapere dotato della dovuta garanzia di affidabilità o di replicabilità a seconda del tipo di scienza coinvolto.

Ma se vengono meno i paletti di valutazione propriamente scientifici, come si fa a giudicare? In questo caso, si giudica o sulla base dell’aderenza ad un progetto ideologico (come l’esempio del lysenkoismo dimostra) e/o sulla base del grado di apprezzamento e di accettabilità intuitivi rispetto al contenuto divulgato. In altre parole, entrano in ballo i bias cognitivi e le fallacie logiche, ossia quella serie di scorciatoie razionali che sono il frutto dell’evoluzione di Homo sapiens (i bias) e della sua organizzazione socio-culturale (le fallacie). Questi accessori computazionali sono condizione necessaria ma non sufficiente per capire il mondo e il suo funzionamento: necessaria perché fanno parte del pacchetto cognitivo e sensoriale “chiavi in mano” del quale siamo dotati dalla nascita; non sufficiente perché sono il risultato di intuizioni rapidissime e utili nel passato profondo ma potenzialmente inaffidabili sul funzionamento del mondo. Fare affidamento su queste intuizioni “di pancia” nel mondo ultrasociale e ipertecnologizzato di oggi equivale a un suicidio intellettuale [6]. Siamo primati evoluti per gestire un mondo fatto di un nucleo esteso di familiari e conoscenze di 150 individui al massimo, un mondo nel quale se sentiamo del brusio tra le siepi potrebbe esserci un predatore nascosto pronto a farci la pelle, un mondo nel quale la comunicazione è quella che avviene a voce – e stop. Se i bias e le intuizioni sono utili è perché hanno permesso ai nostri antenati di sopravvivere in quelle determinate condizioni – e stop. Non servivano capacità cognitive peculiari per gestire il sovraccarico cognitivo di informazioni quotidiane o le migliaia di followers sui social media, perché il volume della rete sociale e di informazioni condivise nell’arco della vita intera di un nostro lontano antenato paleolitico starebbe tranquillamente su un quaderno A4 o su un floppy disk. Eppure, nonostante la stupefacente tecnologia computazionale racchiusa nella nostra CPU cognitiva sia stata costantemente ri-sistemata dal bricolage evolutivo, alla base c’è ancora la struttura portante di quel lontano sistema operativo paleolitico. Con tutti i suoi limiti e i suoi bias che ci portiamo dietro. Faccio tre esempi banali.
  • Ci sembra ovvio che sia il Sole a sorgere, e continuerà a sembrarci così anche se sappiamo che è la Terra a girare intorno al Sole e persino se vinciamo un Nobel. Non ci siamo evoluti per volare nello spazio e vedere la Terra dall’alto.

Earthrise, 24 dicembre 1968. missione Apollo 8. Fonte: NASA, immagine di dominio pubblico; da Wikipedia.

  • Ci sembra ovvio che il primo segmento dall'alto dell’immagine qui sotto sia più lungo del  secondo segmento, e continuerà a sembrarci così anche dopo aver misurato entrambi i segmenti e aver appurato che in realtà sono della stessa misura. Non ci siamo evoluti per discriminare le illusioni ottiche e il nostro sistema di percezione visiva è a malapena sufficiente. 


Illusione di Müller-Lyer. Fonte: Wikipedia.

  • Ci sembra ovvio che gli animali non stiano evolvendo a occhio nudo nell’arco dei decenni della vostra esistenza su questa Terra, e nel leggere testi antichi o nel vedere statue e dipinti potremmo pensare che non si siano mai evoluti. Non ci siamo evoluti per vedere le mutazioni microscopiche che agiscono nel DNA, nei microbi e nei microrganismi nel giro di ore o giorni.[7] 

Attenti al cane! Certe cose, a quanto pare, non cambiano mai... Fonte: Wikipedia

Per farla breve, non ci siamo evoluti allo scopo di fare proprio un bel niente – tutto le nostre capacità fisiche e mentali sono il frutto di processi selettivi privi di scopo che hanno filtrato quelle caratteristiche sufficientemente buone da permettere la sopravvivenza e la riproduzione dei nostri antenati lungo la storia profonda dell’evoluzione sulla Terra. Sopravvivenza fino alla riproduzione – e stop. Se davvero vogliamo individuare una qualche peculiarità è quella di aver ereditato una nicchia cognitiva specifica che ha permesso lo sfruttamento cumulativo e intergenerazionale del surplus computazionale del nostro sistema nervoso centrale per accumulare conoscenze di ogni tipo, dalle tecniche di caccia agli alberi storico-genealogici per tenere conto di alleati e nemici, fino ad arrivare ai memi di Alberto Angela che “divulga forte” sulla Rete [8]. Va da sé che questo sistema computazionale e cognitivo è ben lungi dall’essere perfetto: i pregiudizi e le fallacie lo dimostrano.

Ora, le culture umane sono il risultato dell’interazione continua e sostenuta di più sistemi centrali nervosi individuale connessi in una rete sociale. Per insistere sulla nostra metafora informatica, questi PC sono sì collegati in rete (la cultura), ma sono di seconda mano (evoluti) e con tutti i loro software preinstallati, vecchi, in prova, incompleti, “craccati” e in conflitto tra di loro (i bias). Non stupiamoci allora se anche le culture umane (e la nostra non fa eccezione) sono spesso afflitte da pregiudizi di ogni tipo. Eppure, un argine a questi pregiudizi lo si può trovare proprio in quell’accumulo di sapere che è il frutto della nostra nicchia cognitiva  – se, e solo se, vincolato a tecniche e metodi logici e razionali. Ricordiamocelo: anche i ciarlatani possono divulgare in modo efficace, sfruttando proprio gli stessi strumenti della cassetta degli attrezzi cognitivi che ha permesso di costruire la nostra nicchia cognitiva. Il sapere può contenere i biases e correggere le fallacie se, e solo se, questo viene vincolato a tecniche e metodi logici e razionali. Per tale motivo, lottare contro questi processi cognitivi suggestivi e accattivanti costa molta fatica intellettuale e impegna decenni di alfabetizzazione scientifica e umanistica. Il geocentrismo è stato falsificato, le illusioni ottiche dimostrano il peso dei vincoli evolutivi nella percezione dinamica dell’ambiente ecologico e la stupefacente prospettiva aperta dal tempo profondo è stata dischiusa con sforzi immani dalle geologia. Il problema sta nel fatto che solamente un livello sufficiente di formazione intellettuale può ovviare alla proliferazione incontrollata di queste trappole seducenti e intuitive – anzi, seducenti perché intuitive. E perché ciò avvenga, è necessario che ci siano istituzioni capaci di fare buona divulgazione, ossia, in primo luogo, la scuola e l’università.


L'illusione di Müller-Lyer è un artefatto culturale: in ambienti reali e tridimensionali è un indice affidabile di profondità. Esistono altre spiegazioni ecologico-evolutive che contribuiscono a spiegare questa e altre illusioni, ma la sostanza è la stessa: il nostro sistema percettivo può essere 'fregato' da indizi sensoriali sconnessi dall'input ecologico primario. Questo vale per tutti i domini percettivo-sensoriali: pensate ai dolcificanti che mimano l'effetto dello zucchero. Da Wikipedia.


I vizi del prosumatore


Grazie alla nostra nicchia cognitiva e al sistema di accumulo culturale a denti d’arresto, l’evoluzione culturale viaggia più velocemente dell’evoluzione biologica. Per questo c’è sempre uno scarto tra le due, con l’evoluzione biologica a segnare il passo. In questo senso, la globalizzazione, la commercializzazione di massa dei personal computer e la diffusione di connessioni Internet rapide e a buon mercato hanno segnato uno spartiacque di dimensioni ciclopiche: ogni prodotto audiovisivo e letterario creato da Homo sapiens è potenzialmente catalogato (o catalogabile), disponibile e a portata di clic. Questa sovrabbondanza di informazione disponibile ovunque, per chiunque e in tempo reale ha modificato pesantemente sia il sistema sociale sia quello economico. In breve, la divulgazione non ha fatto altro che seguire o adeguarsi alla trasformazione generale della cultura di massa, all’interno della quale si sono imposti i cosiddetti “prosumer”, o prosumatori. Per prosumatore si intende un agente a metà tra produttore/professionista e consumatore, anzi, un «consumatore che è a sua volta produttore o, nell’atto stesso che consuma, contribuisce alla produzione» [9]. Il prosumatore produce e diffonde più o meno gratuitamente contenuti sulle stesse piattaforme digitali adibite al consumo di informazioni. L’attuale nicchia culturale dei prosumatori è quello dei social media in genere, e in particolare quella dei podcast da scaricare e dei canali su Youtube, la nota piattaforma per la condivisione di clip audiovisive. Due fattori concomitanti e legati tra di loro hanno causato questo rapidissimo avvicendamento: 
  1. l’esplosione dei social network, i quali – a partire dall’introduzione dell’iPhone di Apple nel 2007 – hanno gradualmente depauperato le funzioni dei blog rendendoli obsoleti (le interazioni e la fidelizzazione dei followers non avvengono più su Blogger o Wordpress, ma hanno luogo soprattutto su Twitter, su Facebook, su Instagram e sulla sezione commenti di Youtube); 
  2. la diffusione a macchia d’olio degli smartphone i quali hanno reso possibile la creazione e la fruizione di contenuti audio-video di buona qualità ovunque e in ogni istante: nel 2016 i social media contavano 2,3 miliardi di utenti e, di questi, 1,9 erano connessi grazie alle app sul cellulare [10]
In pratica, l’esistenza di prodotti relativamente economici ha creato un bacino smisurato di prosumatori dotati di account e di profili sui maggiori social media, un bacino che coincide virtualmente con quello dei possessori di mezzi tecnologici sufficientemente adeguati. Questo si traduce nella coesistenza di produzione e consumo da parte di tutti i possessori di smartphone e nella trasformazione dei social media in fonte di contenuti informativi/divulgativi creati dai consumatori stessi. Questa massa enorme di prosumatori crea un ambiente altamente competitivo all’interno del quale vigono criteri che non sono quelli che dovrebbero garantire una corretta informazione (scientifica e non). Dato che viene a mancare un controllo fattuale dell’informazione, questi criteri coincidono piuttosto con i bias cognitivi e con le fallacie logiche e che qui appaiono distribuiti su tre livelli che interagiscono continuamente creando dinamiche specifiche: 
  • individuale: i bias logici ed emotivi che caratterizzano la computazione mentale (ossia, appello alle emozioni, bias di conferma, ecc.);
  • sociale: le dinamiche di gruppo (accettazione di contenuti sulla base del conformismo, del presunto prestigio della fonte, della presunta autorevolezza della fonte, ecc.);
  • tecnologico: i bias presenti negli algoritmi che selezionano automaticamente i contenuti sulla base della preferenze di navigazione, ritagliandoli su misura per ogni prosumatore (ovviamente, i bias non appartengono alle “macchine”, ma ai programmatori che hanno implementato questi programmi) [11] 
Un contenuto può quindi diventare “virale”, ossia diffondersi in modo capillare, come risultato dell’interazione di questi tre livelli. Come ci insegna la network theory, la popolarità, l’adozione (il fatto di “postare” su un profilo) e la condivisione attiva (scrivendone) di certi contenuti da parte di agenti (o influencer) capaci di influenzare a cascata i nodi che compongono la rete di relazioni diventa a sua volta un traino – e un bias. Se Gwineth Paltrow decide di sponsorizzare sulla sua piattaforma commerciale adesivi cutanei capaci di “ribilanciare la frequenza energetica del proprio corpo” [sic!], utenti che non avrebbero mai pensato a questo tipo di prodotto possono subire l’influenza e il prestigio della star in questione e acquistare un pezzo di nastro adesivo che non serve assolutamente a nulla [12]. Infine, l’ambiente dei social media tende ad autoriprodursi, auto-organizzarsi e auto-citarsi, emulando schemi e nozioni riconoscibili perché hanno avuto successo (o semplicemente perché questi schemi sono arrivati prima, imponendosi come vincolo comunicativo), e questo crea un’omogeneizzazione delle fonti (e una bolla conscitiva) che incide negativamente sul livello di approfondimento: nella stragrande maggioranza dei casi, per fare divulgazione in un video si tende a citare e a linkare un video di un altro canale Youtube e non un articolo su JStor o JAMA [13]

Ora, per la sola forza dei numeri, il numero di prosumatori diluisce l’efficacia degli agenti possessori di sapere epistemicamente giustificato nel contenere la diffusione di contenuti che non raggiungono un livello minimo di accettabilità scientifica o di affidabilità informativa. Da qui la diffusione delle cosiddette fake news e della pseudoscienza cospirazionista e negazionista che infesta la Rete. Tirando le somme fino a questo punto, l’ipotesi è che sui social media, su Youtube e sulle piattaforme ad esso collegate il volume di contenuti volti a «Rendere noto a tutti o a molti, diffondere» sia di gran lunga maggiore rispetto ai contenuti diretti a «Rendere accessibili a un più vasto pubblico, per mezzo di un’esposizione semplice e piana, nozioni scientifiche e tecniche». [14]

All’interno dell’ambiente concettuale creato dalle utenze connesse via smartphone, le conoscenze scientifiche, onerose da acquisire e lente da apprendere, e pertanto possedute da una minoranza di utenti, sono state schiacciate dal numero stupefacente di prosumatori estranei al mondo scientifico. Questi ultimi sono però interessati all’accumulo del capitale sociale ottenibile grazie al prestigio della scienza, e consumando/producendo contenuti che si caratterizzano in linea di massima come materiale di intrattenimento estemporaneo creano una nicchia prontamente occupata da bias e fallacie. Mancando i presupposti conoscitivi del sapere accumulato, non c’è garanzia che i loro prodotti siano affidabili [14bis]. Se a ciò aggiungiamo che quello dello youtuber prosumatore è diventato un mestiere retribuito sulla base di una partnership aziendale (sancita a sua volta dal raggiungimento di un certo numero di followers – una spinta dal “basso”), non è difficile capire come la produzione di materiale di consumo social possa diventare la molla e il motivo fondamentale per incontrare e assecondare i bias innati del pubblico – rinunciando così alla missione educativa su lungo termine.

In breve, la conseguenza di maggior rilievo per la divulgazione scientifica è 
la creazione di una nicchia cognitivamente ottimale (ossia sufficientemente intuitiva – immediata e capace di catturare l’attenzione – ma non sufficientemente scientifica – cioè lenta e che si acquisisce sulla base di un accumulo di conoscenze), che prevede la creazione/consumo di materiale facilmente assimilabile, capace di venire incontro ai bias e alle fallacie logiche comuni e che si presenta come aderente alla seconda accezione della definizione di Treccani riportata all’inizio del post ma che, in buona o cattiva fede, ricade nella prima. 

Purché se ne parli


Si legge sempre meno in Italia, lo sappiamo [15]. Questo processo, incoraggiato da decenni di strapotere televisivo e di disimpegno culturale cavalcato a spron battuto dalla società e dai decisori politici (una fase che in qualche modo preannunciava la post-verità di oggi), ha avuto un impatto sia sulla divulgazione “vecchio stile” (quella alla Carl Sagan e alla Piero Angela, per intenderci) sia su chi ha abbracciato nel frattempo la “terza cultura” alla Brockman, ossia la produzione di materiale divulgativo per mano dei ricercatori e degli scienziati stessi. Entrambe le tipologie di divulgazione abbracciano idealmente uno standard di divulgazione lento e cumulativo, prediligendo pacchetti divulgativi chiusi capaci di «Rendere accessibili a un più vasto pubblico, per mezzo di un’esposizione semplice e piana, nozioni scientifiche e tecniche». 

La concorrenza con le nuove tecnologie, la dipendenza digitale delle nuove generazioni, e i tagli ai fondi destinati alle infrastrutture istituzionali per la creazione di prodotti di qualità, hanno fatto sì che alcune delle caratteristiche basilari del modello prosumeristico si siano imposte graudalmente come nuovo standard per la realizzazione della divulgazione. In questo modo hanno preso piede un nozionismo spettacolare o immagini stupefacenti. Si confronti il Cosmos di Sagan con quello più recente di Neil DeGrasse Tyson, o un qualunque documentario sulla paleontologia degli anni ’80 e uno di oggi. Forse l’esempio più rappresentativo di questo processo è l'acquisizione del National Geographic da parte della Fox di Rupert Murdock, che ha trasformato nel giro di pochi anni il venerabile mensile, alfiere della migliore divulgazione scientifica a tutto tondo, in un brand-piattaforma dedicato all’infotainment sensazionalistico [15bis]

Trova l'intruso...
Fonte: fotografia scattata dall'autore (CC-BY-NC-ND 3.0)

Gli scienziati interessati alla divulgazione (e spronati dall’accademia per fare outreach ed essere visibili sulla scena culturale, pena la rinuncia a fondi sempre più risicati) si sono così dovuti reinventare prosumatori per evitare l’emarginazione culturale, andando incontro al livello di bias e di fallacie coltivato nei social. Nello stesso tempo, la competizione ha creato altresì un ceto digitale di influencer/prosumatori che non dispongono di particolari nozioni nel campo scientifico del quale si occupano, ma che rispondono ai livelli di conoscenza e di attese contenutistiche dell’utenza digitale. Ancora, se la divulgazione classica guidava l’apprendimento secondo uno schema chiuso di accumulo di conoscenze, i format di YouTube e deipodcast non prevedono mai questo palinsesto di lunga durata, preferendo sfruttare un sistema aperto all'interno del quale i temi sono estemporanei e le interviste forniscono spunti per eventuali discussioni, inseguendo l’hot topic del momento per poi abbandonarlo subito dopo. Arrivati a quest’ultimo punto, i problemi sono due:
  1. l’utenza digitale che segue i maggiori siti e account social dedicati alla scienza riceve un’informazione schiacciata pesantemente sulla “spendibilità” pratica e immediata della notizia, a sua volta vincolata dai bias di cui sopra: le fotografie e le illustrazioni e le infografiche vincono sui contenuti, ricordandoci ancora una volta che siamo animali sociali sostanzialmente visivi; i consigli pratici, i consigli sulla salute, e gli appelli estemporanei all’azione concreta o alla solidarietà (esulando spesso dalla scienza in senso stretto) vincono sull’approfondimento e sulla precisione; il nozionismo rapido, slegato da contenuti complessi, è più ficcante degli approfondimenti e delle riflessioni puntuali; e così via [16];
  2. la divulgazione stessa – anche quando fatta bene – soffre delle limitazioni dovute al mezzo stesso di divulgazione: la diffusione e il trasferimento di contenuti culturali e scientifici al di fuori dell’ambiente di origine (ossia l’accademia e il network esteso degli studiosi) comporta un effetto imbuto che da un lato semplifica con successo concetti complicati per veicolarli in modo efficace, ma dall’altro prepara il contenuto trasferito a un arricchimento semantico  che si basa – e qui casca l’asino – sui bias innati di cui parlavamo all’inizio. In altre parole, il concetto semplificato e divulgato viene re-installato all’interno di un contesto dominato da riferimenti socio-cognitivi profondamente differenti, e lì viene addobbato, per così dire, di connotazioni del tutto estranee al concetto stesso. Metafore e concetti minimamente controintuitivi, sfruttati per la loro memorabilità e presa cognitiva ottimale (il gatto di Schrödinger e il collo della giraffa lamarckiana sono un esempio lampante), vengono recepiti e miscelati tra di loro (del tipo, “evoluzione quantistica”) per rientrare come carne da cannone della cultura popolare (film, serie TV, programmi televisivi, riviste di informazione, quotidiani, ecc.), della post-verità, del cospirazionismo e della pseudoscienza esoterica [17]. In pratica, si passa dal gatto di Schrödinger a Deepak Chopra e a Lost senza soluzione di continuità. In buona sostanza, è questa scienza-non-scienza che diventa la fonte principale di conoscenza del pubblico. Ed è per questo che occorre essere quanto più precisi possibile quando si fa divulgazione.

Lo schema più importante di tutto il post, incentrato sull'inevitabile dramma della scorrettezza scientifica: per divulgare efficacemente si deve scendere a patti con bias e fallacie,  ma questo scivolamento comporta il fraintendimento dei contenuti veicolati. Solo un programma a lungo termine di alfabetizzazione scientifica, logico-razionale e culturale può ovviare a queste distorsioni.  Questo programma ci sarebbe già: si chiama "scuola".
Fonte: opera dello scrivente, adattata e modificata da Asprem 2016 (vedi bibliografia) (CC-BY-NC-ND 3.0)


Divulgazione 2.0 tra postmodernismo e post-verità



In conclusione, è più probabile che il movente di un contenuto divulgato online sia meramente quello di essere presenti e di “diffondere” un contenuto, e non il contenuto scientificamente corretto ci si apsetterebbe. Questo contenuto si piega spesso al bisogno di attirare l’attenzione: basta che se ne parli se il trend è hot in quel momento, e se non lo è occorre trovare il modo per renderlo tale. Spesso si cavalca un nozionismo ridanciano che si basa sull’inaspettato, sul “perturbante” (quello che Freud chiamava Unheimlich) e su tutti i mezzi cognitivi per attirare l’attenzione in un mondo digitale dove l’attenzione è il bene più elusivo di tutti (non sto qui a ricordare gli effetti reali o presunti degli smartphone e dei social media sulla cognizione umana [17bis]). E il risultato è che per fare divulgazione si finisce invece a creare edutainment, ossia fondere (molto) divertimento con (poco) materiale educativo. Una cosa che non suona neanche tanto minacciosa, ma che declinata sulla base dei bias e delle fallacie logiche, diventa il veicolo per diffondere contenuti veramente “virali” – nel senso di materiali infettivi e dannosi. 

I fatti socio-politici dell’attualità confermano che la distinzione tra informazione semiseria e diffusione/divulgazione non viene riconosciuta dalla maggioranza dei prosumatori: la Brexit, l’elezione di Trump, il sovranismo europeo, le scie chimiche e l’antivaccinismo sono tutti sostenuti da bugie e da un attivo disprezzo nei confronti degli esperti, e convergono tutti in quel punto all’orizzonte che si chiama postmodernismo – e che è anche il punto di fuga umanistico del prosumerismo. Dal alcuni rivoli della filosofia postmoderna nascono:

  • l’abbaglio sociale dello smantellamento del sapere istituzionale (e specialmente quello scientifico) perché ritenuto colpevole dei mali sociali, politici ed economici;
  • la confusione tra ontologia (quello che c’è, la realtà) e l’epistemologia (ossia il sapere che utilizziamo per giungere alla conoscenza della realtà);
  • il pensiero che il reale sia quello che viene ritenuto tale e non quello che è;
  • l’idea che tutte le opinioni abbiano eguale valore scientifico (in senso lato). 
Allora, è normale che astrologia e astronomia possano avere lo stesso identico peso epistemologico – e lo stesso spazio nelle trasmissioni televisive (in Italia) [18]. E così le bugie politiche e i dati economici, il mercurio nei vaccini che causerebbe l’autismo e gli effetti dell’inquinamento come interferente endocrino, il dramma del cambiamento climatico e il negazionismo della Casa Bianca coesistono tutti come se avessero un peso e un valore identici. Tutto coesiste con il suo contrario, uno vale uno – e chi perde in questo gioco è proprio il sapere. Ma allora, senza controllori adeguati, chi controlla e chi gestisce tutto questo marasma? Nessuno. O meglio: tutti i prosumatori stessi, guidati in stragrande maggioranza dai loro bias intutivi, dai gusti locali, dalle mode del momento e dalle loro fallacie logiche. In un mondo digitale nel quale contano le visualizzazioni e gli iscritti, la divulgazione scientifica, ossia lo scioglimento di contenuti complessi in micro-concetti facilmente assimilabili sui quali costruire e consolidare a lungo termine nozioni man mano più complesse, è stata la prima vittima [18bis].

Ma la scuola? – si potrebbe obiettare. Non avrebbe dovuto formare – e vaccinare razionalmente – quelli che sarebbero poi diventati i prosumatori? Purtroppo no. La scuola dell’obbligo e l’università italiane versano in condizioni che, in generale e paragonate a quelle di altri paesi confinanti, non esiterei a definire sull’orlo del disastro [19]. Entrambe scontano decenni di problematiche strutturali lasciate irrisolte. Spetterebbe all’insegnamento scolastico fornire lo standard della divulgazione: lenta, cumulativa, per gradi di complessità crescente, senza semplificare in modo eccessivo ma cercando di veicolare pensieri complessi in modo diretto, progressivo e con calma. Insegnando innanzitutto a giudicare logicamente le informazioni e le nozioni, a valutare le fonti, a sviluppare una critica sensata ed epistemologicamente fondata. Tutto questo non è più un dato di fatto, qualcosa di scontato, e anche quando questo servizio essenziale viene fornito in modo esemplare il sapere immagazzinato deve vedersela con la competizione costante e il bombardamento cognitivo dell’edutainment/infotainment dei social media. Chiaro, si parla di grandi numeri, e non prendo in considerazioni le eccezioni. Ma i trend internazionali forniti dalle istituzioni più affidabili parlano chiaro: c’è una recrudescenza di fragilità conoscitive e di scelte sociali e politiche inadeguate dovute a un venir meno della conoscenza scientifica condivisa. Si è aperto uno squarcio nella struttura sociale, e se non riusciremo a ricucirlo al più presto, tutti, prosumatori e non, ne pagheremo le conseguenze. 


[1] Treccani – Vocabolario on line, s.v. 'divulgare'. http://www.treccani.it/vocabolario/divulgare/

[2] Rodríguez García, J.M. (2001) “Scientia Potestas Est – Knowledge is Power: Francis Bacon to Michel Foucault”. Neohelicon (2001) 28: 109-121. https://doi.org/10.1023/A:1011901104984

[3] D’Ancona, M (2017). Post-Truth: The New War on Truth and How to Fight Back. Londra: Ebury Press. La post-verità, in breve, rappresenta il risultato politico dell’interazione tra i seguenti fattori: (1) l’esistenza di una corrente filosofica di successo (il postmodernismo) per cui “non esistono i fatti, esistono solamente le opinioni”; (2) un’epoca storica caratterizzata da democrazia, liberismo, capitalismo; (3) l’innovazione tecnologica della Rete. Da Ferraris, M. (2017). Postverità e altri enigmi. Roma e Bari: laterza. p. 10.

[4] Cfr. D’Ancona. Post-Truth..., cit., e Ferrari, Postverità e altri enigmi, cit.

[5] Cassata, F. (2008). Le due scienze. Il «caso Lysenko» in Italia. Torino: Bollati Boringhieri.

[6] Kahneman, D. (2012). Pensieri lenti e pensieri veloci. Milano: Mondadori.

[7] Si veda questa serie di post su McCauley, R. N. (2011). Why Religion Is Natural and Science Is Not. Oxford and New York: Oxford University Press; cfr. anche Tooby, J. & Cosmides, L. (1992). “The psychological foundations of culture”. In J. Barkow, L. Cosmides, & J. Tooby (Eds.), The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture. New York: Oxford University Press; Dunbar, R. (2004). The Human Story. Faber & Faber; Dunbar, R., Barrett, L. & Lycett, J . (2005). Evolutionary Psychology: A Beginner’s Guide. OneWorld: Oxford. Sui limiti cognitivi relativi ai legami sociali si veda “Do Online Social Media Cut through the Constraints That Limit the Size of Offline Social Networks?” di R. Dunbar, in Royal Society Open Science, Vol. 3, Article No. 150292; January 2016 http://rsos.royalsocietypublishing.org/content/3/1/150292

[8] Pinker, S. (2010). “The cognitive niche: Coevolution of intelligence, sociality, and language”. PNAS 107 (Supplement 2) 8993-8999; published ahead of print May 5, 2010 https://doi.org/10.1073/pnas.0914630107

[9] Menduni, E. (2008). s.v. “prosumer”. Enciclopedia della Scienza e della Tecnica. http://www.treccani.it/enciclopedia/prosumer_%28Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica%29/

[10] Biały, Beata (2017). “Social Media—From Social Exchange to Battlefield.” The Cyber Defense Review 2(2): 69-90. https://www.jstor.org/stable/26267344?seq=1#metadata_info_tab_contents

[11] Pigliucci, M & M. Boudry (2014). Philosophy of Pseudoscience: Reocnsidering the Demarcation Problem. Chicago and London: The University of Chicago Press.

[12] Caulfield, T. (2016). Is Gwyneth Paltrow Wrong About Everything? When Celebrity Culture And Science Clash. London: Penguin.

[13] Cianpaglia, G. L. & F. Menczer (2018). “Misinformation and biases infect social media, both intentionally and accidentally”. June 20, 2018, The Conversation, https://theconversation.com/misinformation-and-biases-infect-social-media-both-intentionally-and-accidentally-97148. Basato su Shao C, Hui P-M, Wang L, Jiang X, Flammini A, Menczer F, et al. (2018) Anatomy of an online misinformation network. PLoS ONE 13(4): e0196087. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0196087.

[14] Apro qui in nota una digressione storica, chiedendo scusa in anticipo per la semplificazione eccessiva. La tecnologia e l’industria del libro aveva un numero variabile ma consistente di passaggi e di tecniche da padroneggiare prima che un utente potesse passare da consumatore a produttore, agendo  nell'insieme da dissuasore per i più impreparati. Le tecnologie digitali hanno invece azzerato i tempi di attesa sia nella gestione del materiale che nella produzione. Oggi, chiunque può creare prodotti culturali con una veste grafica di buona o persino di eccellente qualità – cosa che una volta spettava solamente alle case editrici migliori, le quali avevano anche accumulato un capitale di rigore scientifico. Quindi, precisione del contenitore (la veste grafica) e del contenuto (le informazioni divulgate all’interno del libro) spesso coincidevano. Le University Presses anglosassoni erano (e sono tuttora) belle da vedere e da sfogliare ma soprattutto affidabili. Oggi questi due elementi sono spesso disgiunti. Anzi, la veste grafica viene attivamente sfruttata online per veicolare informazioni e nozioni false, mentre le piattaforme digitali non controllano i contenuti che i loro utenti postano. Oxford University Press, ad esempio, conduce un rigoroso controllo preliminare dell’autore e del tema trattato prima di pubblicare qualcosa, e sottopone il testo a un controllo paritario a doppio cieco; YouTube e Facebook (almeno fino a prima dello scandalo Cambridge Analytica) non esercitano alcun tipo di controllo. Per riflettere sulle conseguenze socio-politiche si rimanda a Floridi, L. (2015). “The New Grey Power.” Philosophy & Technology 28(3): 329-332. DOI 10.1007/s13347-015-0206-y. https://link.springer.com/article/10.1007/s13347-015-0206-y

[14bis] In effetti, una fetta considerevole di utenza si dedica attivamente a fare contro-propaganda divulgativa di ogni tipo: pseudoscientifica, fondamentalista, razzista, ma sempre e in ogni caso fermamente antiscientifica.


[15bis] Thielman, S. (2015). “How Fox ate National Geographic”. The Guardian, 14 novembre 2015. https://www.theguardian.com/media/2015/nov/14/how-fox-ate-national-geographic

[16] Hitlin, P. (2018). “The Science People See on Social Media”. Pew Research Center. http://www.pewinternet.org/2018/03/21/the-science-people-see-on-social-media/

[17] Asprem, E. (2016). “How Schrödinger’s Cat Became a Zombie: On the Epidemiology of Science-Based Representations in Popular and Religious Contexts”. Method & Theory in the Study of Religion 28(2): 113-140. DOI: 10.1163/15700682-12341373

[17bis] Wilmer, H. H., L. E. Sherman & J. M. Chein (2017). “Smartphones and Cognition: A Review of Research Exploring the Links between Mobile Technology Habits and Cognitive Functioning. Front Psychol. 8 605. Published online 2017 Apr 25. doi:  10.3389/fpsyg.2017.00605. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5403814/

[18] Ferraris, M. (2017). Postverità e altri enigmi. Roma-Bari: Laterza. Su astrologia e astornomia cfr. Pigliucci, M. (2016). “Was Feyerabend Right in Defending Astrology? A Commentary on Kidd.” Social Epistemology Review and Reply Collective 5, no. 5 (2016): 1-6. https://social-epistemology.com/2016/05/02/was-feyerabend-right-in-defending-astrology-a-commentary-on-kidd-massimo-pigliucci/

[18bis] Vale la pena domandarsi: quanto sono affidabili gli iscritti, i follower e le visualizzazioni dei migliori canali/account scientifici come indicatori di avvenuta divulgazione in un mondo liquido come quello della Rete, dove i contenuti e le idee devono competere 24 ore su 24 con altri contenuti potenzialmente simili? Trasmissione e visualizzazione non equivalgono a comprensione e condivisione.

[19] OECD (2018). “Italy: Overview of the Education System”. http://gpseducation.oecd.org/CountryProfile?primaryCountry=ITA&treshold=10&topic=EO

giovedì 11 maggio 2017

Reflecting on "Mary Beard's Ultimate Rome," one year later


It's been more than a year since the BBC broadcast Cambridge historian Mary Beard's celebrated documentary Ultimate Rome: Empire Without Limit. It was an unprecedented critical success, and English media relished and enjoyed the astonishing quality of such a magnificent production. In a time where ancient history, and historiography in general, are suffering the most from institutional budget cuts, from the competition with sexier, scientific disciplines, and from the postmodern disregard for the ancient past, Ultimate Rome tried to prove all the naysayers wrong.

In a sense, the documentary has succeeded spectacularly. It has been hailed by The Guardian as "a thoughtful and resolutely British series that, like its predecessors, deserves to draw in viewers by the million." Personally, I have admired Beard's wit and her down-to-earth, no-nonsense attitude in Ultimate Rome. In the past, I enjoyed reading Beard's groundbreaking academic works, and I have included them when I was preparing the syllabus of my university course about gender issues and female cults in ancient Rome. I was delighted to discover such a lively popularisation of ancient historiography in her documentary. Well, I wish there were more exploration of gender topics in a documentary on ancient Rome, but I digress, for the theme of the present post is not the many things that I have found enjoyable in Ultimate Rome, but the few things that were, in my opinion, quite problematic or debatable.

What follows is a personal selection from some of these issues. It goes without saying that, notwithstanding the accuracy of my personal notes from over one year ago, my memory might fail me. Plus, I might be just wrong in my (mis)recollections. Finally, let me just remark that in no way such criticism detracts from the value of Beard's scholarship. I simply and firmly believe that historiography is a science, sic et simpliciter, and, as such, it must be subjected to the very same evaluation and quality control that preside over any other science. Readers already acquainted with the usual themes of the blog know how many posts I have devoted to such topic.

And now, one note from each of the fourth installments of the series:

EPISODE #1 


We start with nothing more than a trifle. In the first episode, Beard takes the viewers to the Ara Pacis in Rome. Contrary to what images and words suggested, the Augustan Res Gestae seen here is not original. It is a fascist replica engraved in the external wall of the Museum of the Ara Pacis in Rome. Yet, the inscription is presented as if its originality was not in question, which may have led the viewers to take it at face value for a real document. Ancient historians, like palaeontologists, very rarely have the luxury of such mind-blowingly complete documents. History is, most of the times, reconstructed from bits and scraps.

EPISODE #2


The second episode has to do with the unique Roman engineering prowess. Or was it? While standing in front of a stone milestone on the Via Domitia (in France), Beard asserts that, for the first time, it was possible to know exactly where one was on a state network of roads, thanks to a standardised,  precise distance-tracking system. This is exactly the kind of ancient historiography that struck me as quite problematic, especially after the demise of Western Civ in the US and after the groundbreaking impact of global history and Big History on our understanding of the human past. If we take into consideration the parallel and independent development of human cultures scattered all over the world, what about the extremely well-organised Inca road system (e.g., chaskiwasi, tambos, etc.), for instance?
Again, the same point of view is deployed when Beard speaks of the Roman market system, and pottery in particular, as the first example of "globalisation." I may be too harsh here, as this is no longue-durée, big-historical documentary, but again such a statement can be quite misleading. For the record, globalisation as a process began during the first out-of-Africa migration of the genus Homo. Should you really want to maintain a rigorous, geographical focus, long-distance trade in Europe is attested since Cro-Magnons and Neanderthals, by the way. Maybe a redefinition of "globalisation" could have contributed to clarify those general statements.

EPISODE #3


In the third episode, Beard shows in a rather straightforward and absolutely correct way the mixed ethnic composition of Roman Britain, sagaciously deconstructing the ignorant, racist claims of local ethnic purity. Just to be clear once and for all: there is no such thing now, and there was no such thing in the ancient past. Ethnic purity has always been a myth. (On the other hand, obtuse inbreeding led to the War of Spanish Succession, so beware of "purity.")
The results of chemical analyses concerning the isotope signature in the tooth enamel of Roman era bones from York allows her colleague Ella Eckhart to ascertain that the remains pertained to someone who originally grew up in a much colder climate, such as Germany or Poland.
Now, is this an epistemically warranted assertion?
First of all, what about altitude? What if that human being came from the Alps, or the Pyrenees? Simple fact: the higher you go, the colder the temperature you get. There is no need to think in two dimensions. There is no doubt that the addition of archaeological technologies such as stable isotopes analysis have contributed to reshape radically our understanding of ancient physical mobility. However, as Roman historian Greg Woolf has recently cautioned, researchers should avoid such reliance on methodologies that are so constrained by the poor availability of data (in most cases fragmentary). As a matter of fact, isotopes from water consumption are not reliable when considered in a larger environmental network of short-range variation and, most of all, in the Roman technological network which allowed high-altitude drinking water to be brought by aqueducts (see G. Woolf, G. 2016. “Movers and Stayers”, in: L. de Ligt & L. E. Tacoma (eds.), Migration and Mobility in the Early Roman Empire, Leiden & Boston: Brill, pp. 438- 461: 455). Science provides an empowering set of methods, but before using it, one has to master epistemology. In cases like this one, palaeogenetics might be of invaluable help, provided that the quality of data is sufficiently reliable. Maybe this issue has already been resolved by additional research, but I do not recall any clear assertion on that from the episode.
Second, I think that it is quite misleading to conflate (ancient) geographical regions and (modern) peoples. Slavic peoples from the area now occupied by Poland, for instance, were not identified as "Poles" until the eleventh century (at least). As a matter of fact, all European identities and languages were invented and standardised during the Nineteen-century process that Eric Hobsbawm and Terrence Ranger famously called the "invention of tradition."
I know that Beard's was a clever rebuttal to mock racist, blatant claims on ethnic purity, but the parallel between modern Polish (or Germans) and ancient Roman Britain citizens was a bit anachronistic. This is the hard problem implicit in  every popularising effort - especially in history, where labels, names, and definitions might be associated with long-held, essentialised beliefs: what should you give for granted? How should you explain very complicated, longue-durée processes in  just a couple of minutes?

EPISODE #4


Unfortunately, the final episode of  Ultimate Rome did really jump the shark - for me, at least.
A single, highly problematic sentence that has defined so far the dominant paradigm in contemporary Roman History raised my eyebrow. In Beard's own words, "the Romans didn't believe in their gods, they didn't have internal faith in our sense." Roman religion, consequently, "was a religion of doing, not believing" (Beard, M. 2015. SPQR, Profile Books, London. p. 103). A step back might be helpful now. Originally conceived as the wedge to overthrow the previous and problematic disciplinary paradigm (deeply rooted in the Reformation's vocabulary and in its depreciative and belittling view of Catholic ritual as devoid of real religious meaning), this rather curious definition managed to throw the baby out with the bathwater. In other words, and to cut a long story short, since belief was reputed to be a culturally conditioned state of mind that may or may not be present, either you have it or you don't. We have it ("our internal sense of faith"). Romans didn't have it. They did things, they did not believe in things. Full stop.


The most shocking consequence for the discipline is that ancient Romans, with their stress on orthopraxy and rituals, become a bit like Chalmers' zombies, lacking internal conscious states about beliefs. Therefore, through this scholarly perspective, ancient Romans are reputed to have had a totally different cognitive machinery that almost made them a bizarre sort of cognitively peculiar human beings.
An idea which, frankly, seems particularly bonkers. 
Cognitive science of religion is currently helping to reconsider such a statement: ancient Romans were, rather unmistakably and beyond any reasonable doubts, members of the species Homo sapiens. As such, it could be considered more than a safe bet to presume that they were agents with beliefs, desires, and intentions, evolved to communicate with and relate to other agents with beliefs, desired, and intentions. Goddesses and gods, as culturally postulated superhuman beings (according to the classical definition advanced by Melford Spiro in 1971), were a distinct class of imagined agents - but agents nonetheless. Which was the necessary and sufficient condition to communicate with and relate to them, and to believe in whatever they might have been reputed to say. Cognitively and historically speaking, there is so much more to say, but, since I do not want to steal my own thunder, wait for my paper on the topic.

And there you have it: a complete nitpicker's guide to an otherwise brilliant, fabulously shot, and sincerely informative BBC documentary. Do not get me wrong: I have loved and I strongly recommend this documentary. And I eagerly wait for a Mary Beard/BBC documentary on gender issues, androcentrism, and patriarchy in the ancient Mediterranean. That would be awesome.

That's all, folks. So long, and thanks for all the fish.

Credits: all images ©2016 BBC

lunedì 6 giugno 2016

Il fenotipo esteso della religione tra altruismo, punizione e competizione

Introduzione e riassunto

La nicchia non è solamente il recapito dellorganismo,
ma anzi rappresenta il suo ruolo nellecosistema - cioè quello che egli fa.
Luria, Gould & Singer 1984: 631

ResearchBlogging.org
Benvenute e benvenuti al terzo e ultimo post sui tempi profondi della religione e sull’inizio delle istituzioni sociali e religiose!

Come i lettori di vecchia data ricorderanno, in passato avevamo già trattato in poche pillole i presupposti cognitivi delle credenze. Per un paio di anni tutto sul blog è rimasto press’a poco tale e quale, fatta eccezione per qualche breve incursione interdisciplinare nel tema. Erano però rimaste delle notevoli lacune. Ovvero, come si è passati dall’aspetto cognitivo a quello sociale (e viceversa) nel corso del tempo profondo? Come coniugare l’aspetto mentale delle credenze con il lato comportamentale delle pratiche rituali? E, infine, come coniugare le enormi differenze storiche tra religioni diverse e i presupposti cognitivi universali di Homo sapiens? Eccoci quindi arrivati al nocciolo della questione, dove le caratteristiche della cognizione di H. sapiens si intrecciano con le sue peculiari organizzazioni sociali. Riprendiamo il filo del discorso e proviamo a sintetizzare i punti fondamentali ricordati nei due post precedenti.

Nel quadro dei tempi profondi della storia di Homo sapiens, l’istituzionalizzazione della religione ha indubbiamente agito come fattore di coesione, in quanto potenziatore culturale adatto allo sfruttamento dei meccanismi cognitivi deputati all’elaborazione di comportamenti sociali. Questo specialmente all’interno di quelle comunità che, allo scopo implicito di limitare la tensione sociale e per le contingenze dell’evoluzione culturale e tecnologica, si sono trovate ad avere a che fare con gruppi di individui sempre più numerosi e composti da potenziali estranei. La pietra di volta l’abbiamo già identificata in una serie di tratti etologici. Come rilevato nel 2011 da Kim Hill e colleghi, «il legame di coppia monogamo, il riconoscimento paterno all’interno di unità cooperative per l’allevamento sociale e la dispersione bisessuale abbiano facilitato sia relazioni frequenti e amichevoli tra i gruppi, sia la migrazione e la bassa vicinanza genetica dei coresidenti del gruppo» [1].

Ma non è tutto oro ciò che luccica. Vero Giano bifronte, questo modello di ultrasocialità può però condurre a un incremento di stress, di tensioni e di ostilità tra individui di sesso maschile appartenenti a differenti gruppi sociali [2]. Insomma, il contatto continuo con gruppi sempre più numerosi di estranei necessita di ulteriori meccanismi di controllo. La storia profonda della religione andrebbe pertanto simultaneamente collocata su un piano di belligeranza e di cooperazione, di espansione inclusiva e di disintegrazione esclusiva, di competizione e di cooperazione. Focalizzarsi solo sugli aspetti pro-sociali, come sembra andare di moda in alcuni ultimi studi accademici sull’argomento, è di fatto una posizione pregiudiziale che cela potenziali bias.

Come abbiamo visto nel post precedente, l’istituzionalizzazione della religione risponde all’esigenza meramente politica (se preferite, organizzativa) di poter giocare indifferentemente su entrambi i fronti, quello cooperativo e quello competitivo, patteggiando costantemente un equilibrio simbolico e instabile tra comunità interne (noi) ed esterne (gli altri). Adesso dobbiamo necessariamente tirare le somme chiamando in causa nel dettaglio l’organizzazione sociale delle parentele.

La religione come estensione della rete parentale


L'ultimo volume di William E. Paden, fresco di stampa.
Fonte: Bloomsbury.

William E. Paden ha proposto di considerare la religione come un esempio di niche construction, ovvero come prodotto secondario del linguaggio umano capace di modellare da sé la sua stessa nicchia ambientale e culturale. In quanto tale, esso ha reso possibile la creazione di rappresentazioni di oggetti e soggetti materialmente inesistenti: 
«Insieme all’oganizzazione sociale giunge un mondo costruito di oggetti prestigiosi, di relazioni di status sociale e di norme consacrate, così che le religioni, in quanto sistemi rituali per negoziare il benessere con gli dèi, diventino poi forme culturalmente progettate di ambienti “naturali”, spazi della mente e perciò ambienti secondari paralleli all’invenzione e all’uso di punte di lancia, utensili e fuoco» [3].
Gli individui costruiscono una realtà sociale alla quale si attengono nella misura in cui sussistono determinate condizioni, quali le conseguenze negative tipiche dei costi di defezione e specifici vincoli di scelta morale e comportamentale [4]. Da questo punto di vista,
«credenze religiose, riti, e altri indicatori, con il loro tipico riferimento alla discendenza, all’ascendenza e alle tradizioni collettive, possono essere comprese come varianti dei segnali per il riconoscimento parentale [kin recognition] allo scopo di affermare i vincoli di affinità e la fiducia reciproca» [5].
Seguendo Lee A. Kirkpatrick (il quale a sua volta riprendeva alcuni studi psicologici), Paden avanza l’ipotesi che i complessi religiosi possano essere ascritti a un «processo ipertrofico di riconoscimento parentale» (hypertrophied kin recognition process), dove il legame tra i vari punti del network sociale esteso che lega i cooperatori sociali sarebbe costituito da dèi e antenati nella misura in cui questi ultimi rappresentano la categoria di «patroni o guardiani» [6]. Tali “guardiani”, quindi, «attivano i meccanismi parentali e motivano il comportamento altruistico reciproco»; di conseguenza, meccanismi quali la difesa del gruppo sociale da minacce interne o esterne (reali o virtuali) o persino il martirio diventano «strategie omeostatiche per la sopravvivenza del gruppo» [7]. Gli dèi, oltre ad essere «rappresentazioni intellettuali di informazioni causali o sociali», diventano quindi anche «oggetti interattivi di status sociale che innescano l’esibizione di comportamenti deferenti in relazione alla costruzione di una relazione conciliatoria e per evitare punizioni, sfortuna o vergogna» [8].

Scendendo ancora di più nello specifico, la sostanziale uguaglianza tra i comportamenti di sottomissione nei nostri parenti filogenetici più vicini e gli atti di venerazione e/o sottomissione religiosa erano già stati notati da Walter Burkert nel suo Tracce del sacro, il quale aggiungeva che
«i rituali di sottomissione, tanto importanti nelle attività religiose, sono o erano forme comuni di comportamento in altri contesti non sono di per sé specificamente religiosi. […] Non limitati a una particolare civiltà, questi rituali si trovano in tutto il mondo, e parecchi di essi sono dimostrabilmente preumani» [9].
Rituali di conferma gerarchica tra scimpanzé maschi.
L'individuo a sinistra, con una pietra nella mano destra, è dominante.
A sinistra il rivale, piegato e in atteggiamento deferente.
Fonte: de Waal, F. (2013). The Bonobo and the Atheist: In Search of Humanism Among the Primates. New York: Norton & Co. p. 155. © degli aventi diritto.
In seconda battuta, per gli appartenenti al network relazionale esteso, l’adesione ai principi religiosi diventa una segnalazione costosa che sottolinea l’impegno personale nei confronti di credenze e rituali socialmente condivisi. L’alto costo in termini di investimento di tempo, di impegno, di lavoro, di sforzo cognitivo, eccetera, tende inoltre a funzionare come deterrente per eventuali scrocconi e perditempo che usufruiscono dei benefici sociali derivanti dall’appartenenza al gruppo senza farsi carico dei costi individuali [10]. In pratica, è come se ti dicessero: ok, appartieni davvero al gruppo se dai prova di impegnarti in questa serie di comportamenti faticosi e se dimostri di condividere queste idee potenzialmente onerose. Patti chiari, amicizia lunga, come si suol dire.

Controllo, reciprocità e punizione: digressione evoluzionistica


Il modello socio-religioso umano combinerebbe allora cooperazione e moralità già presenti nei nostri parenti filogenetici più vicini (ma anche altrove nel mondo animale) in un modo reso possibile dall’exaptation di determinate caratteristiche, ossia utilizzando caratteri evolutisi nel passato profondo per determinate cause (oppure originatisi senza apparente utilità adattativa in quanto risultato di particolari vincoli storici) reindirizzandone l’uso verso nuovi scopi. L’altruismo reciproco in questo quadro occupa un ruolo fondamentale. Rispetto all’altruismo genetico, questo modello si dimostra molto più permeabile ai rischi rappresentati dai cosiddetti free-rider, ossia «imbroglioni che violano o contraccambiano con atti di minore valore i comportamenti altruistici di cui sono stati beneficiari» (insomma, gli scrocconi del paragrafo precedente) [11]. Esso implica la capacità di ricordare l’autore del gesto altruistico e la capacità di contraccambiare secondo il valore del gesto. In un’ottica simile, dunque,
«la cooperazione e l’altruismo puro nella specie umana potrebbero aver dunque trovato nella storia naturale precursori in caratteristiche come la lettura della mente altrui [ovvero la theory of mind, o ToM, della quale ci siamo occupati qui e qui], il rifiuto della sofferenza palese e la reciprocità sociale, emerse da processi di selezione di gruppo e di parentela in popolazioni suddivise in gruppi (localisticamente altruistici). Questi vincoli potrebbero poi essere stati trattenuti in varie specie di ominini come meccanismi anti-predazione, in tribù di bipedi raccoglitori e cacciatori opportunisti ancora soggette a intensa predazione, con una forte selezione sociale contro i free-rider» [12].
Ecco che allora il processo ipertrofico di riconoscimento parentale, con i fedeli che adottano trame familiari fittizie chiamandosi per esempio “fratello” e “sorella” ed evocando ascendenze comuni (le divinità come padri o madri), potenzia a livello culturale i legami interpersonali cercando di arginare questi scottanti problemi sociali. In pratica, è come se la cultura sfruttasse i sottostanti meccanismi neuroendocrinologici per ricreare i legami biologici in un contesto allargato. La selezione parentale (kin selection) combina la spiegazione del vantaggio individuale (ovvero la fitness) con i fenomeni di altruismo e cooperazione: dato che un individuo non può trasmettere tutti i propri geni, poiché nella riproduzione sessuata i geni trasmessi sono per metà paterni e per metà materni, si è osservato che la cooperazione e l’altruismo sono (solitamente) più forti presso i parenti prossimi [13].
Se tutti tuoi correligionari sono uniti da un’ascendenza fittizia, se vi chiamate tradi voi fratello e sorella, se i vostri testi sacri o le credenze non scritte predicano i legami ininterrotti che vi legano ad una catena relazionale costruita su basi parentali, se vi riferite alla vostra divinità, o alle vostre divinità, come ad un padre o una madre, se tracciate le vostre radici comuni fino ad Adamo ed Eva, Deucalione e Pirra, o ad altre coppie di esseri umani quali che siano, ecco che state attivando un discorso neuroendocrinologico basato sul riconoscimento parentale allo scopo di instaurare una rete allargata di relazioni altruiste ed inclusive (nel vostro gruppo) e competitive ed esclusive (rispetto ai gruppi esterni o agli indesiderati membri interni).

Conclusione: Il fenotipo esteso della religione


Eravamo partiti con un libro di Dawkins, e al termine di questa serie di post torniamo a un altro volume di Dawkins, il ben più solido ma meno celebrato Fenotipo esteso [14]. Proviamo a scomporre un momento il titolo del libro di Dawkins. Per fenotipo si intende l’espressione di un genotipo, ossia «tutte le proprietà osservabili, strutturali o funzionali, di un organismo» [15], mentre il genotipo è l’insieme dei geni che compongono il codice genetico di un essere vivente. Per estensione del fenotipo si intende il processo di modificazione dell’ambiente da parte dell’organismo e che avviene pertanto all’esterno dell’organismo stesso. Questo insieme di interventi mirati a modificare l’ambiente che un organismo effettua per contribuire alla sopravvivenza dei suoi alleli, e che quindi vanno potenzialmente a beneficio della sua fitness (misurata sulla base della trasmissione dei propri geni alle generazioni future), viene compreso all’interno dei comportamenti potenzialmente adattativi come estensione parallela a quello che i geni fanno all’interno dell’organismo, inteso da Dawkins come veicolo o vettore per la loro replicazione. Ecco che, allora, i pergolati costruiti con sagacia architettonica dagli uccelli giardinieri allo scopo di attirare potenziali partner, e che abbiamo incontrato nel primo post di questa serie, sono un esempio perfetto di fenotipo esteso. Altri esempi classici possono essere le dighe dei castori, i termitai e le tele dei ragni.

Gli uccelli giardinieri ve li avevo già mostrati in abbondanza.
E allora questa volta scelgo un Castor canadensis con la sua diga fenotipica
Probabilmente è in preda al panico perché ha visto arrivare quei pazzi scriteriati dei suoi nipotini.
Qualcuno prenda i livelli di cortisolo al povero Papà castoro!
Fonte: Wikipedia (credit: M. Klapczynski).
Se siete stati attenti finora, avrete già capito dove voglio arrivare. Se sulla scorta di quanto ipotizzato da Benjamin Purzicky e Richard Sosis consideriamo come “fenotipo religioso” come il mix tra componenti cognitivi e comportamento rituale di H. sapiens, allora i contenuti degli aggregati religiosi specifici (ossia, il risultato di vari componenti come variante condivisa – e non solo le mere idiosincrasie individuali) costituirebbero il risultato variabile di un fenotipo religioso [16]. L’ambiente socio-ecologico e le pressioni esterne (ad es., le aspettative morali che modulano su base culturale le predisposizioni innate) contribuirebbero a conformare in modo abbastanza prevedibile i contenuti specifici, partecipando attivamente nel modellare la nicchia cognitiva del fenotipo religioso, e continuando a creare i presupposti per la sua stessa successiva riproduzione e riproducibilità (ricordate l’epigrafe del post? No? Andate a leggerla subito!).

In altre parole, gli elementi che hanno contribuito a modellare questo peculiare ambiente culturale fatto di immaginazione, di credenze e di riti, vengono riprodotti con maggiore o minore successo sulle base di vincoli contestuali o di contenuti innestati e fissati precedentemente. Nel farlo attraverso le generazioni, essi mutano più o meno impercettibilmente ma ineluttabilmente e continuamente, senza però poter mai tornare indietro: si tratta di quello che è stato definito come “ratchet effect”, ossia l’azione vincolante dell’ingranaggio a denti d’arresto noto come cricco o cricchetto, il quale impedisce di tornare al dente precedente, stadio o passaggio che sia.

Il segreto sta in quel piccolo braccio metallico a destra, capace di bloccare ad ogni scatto la ruota dentata a sinistra.
Didascalia dalla pagina di Wikipedia: "cricco con sistema di svincolo; ruota dentata (a), dente di tenuta (b)".
Fonte: Wikipedia (credit: immagine da una lezione su "Cultura e tecnologia" di Franz Reuleaux per il Niederösterreichischer Gwerbeverein di Vienna, tradotta dallo svedese e pubblicata nella rivista di ingegneria Teknisk Tidskrift,  4/5 (1885), p. 4 di 7).
La capacità di cooperare con individui estranei alla cerchia familiare ha preso piede gradualmente nel corso del tempo profondo ominine, sulla base di un effetto cricchetto che ha ancorato ogni volta un gradino di ampliamento sociale alla selezione co-evolutiva tra geni e cultura, fino a quando altri blocchi componenziali, come dei mattoncini Lego, sono stati man mano aggiunti. Tra questi vanno segnalati almeno «l’attaccamento emotivo ai gruppi delimitati simbolicamente» e «la prontezza nel punire gli altri per la trasgressione delle regole del gruppo» [17], elementi che interagiscono l’un l’altro e concorrono nel creare un determinato ecosistema culturale. Come ha sintetizzato Dawkins,
«c’è un’ecologia dei memi [ossia delle idee/delle rappresentazioni culturali], una foresta tropicale dei memi, un termitaio dei memi. I memi non si limitano a saltare, per imitazione, di mente in mente nella cultura umana: questa è solo la punta dell’iceberg. Fanno anche un’altra cosa: prosperano, si moltiplicano e competono all’interno di ciascun cranio» [18].
La cosa forse più interessante da notare a questo punto è che le nicchie culturali create da H. sapiens avrebbero modulato, e modulerebbero tuttora, le pressioni selettive che le generazioni successive hanno ricevuto, e riceveranno, in eredità [19]. Il fenotipo religioso non fa eccezione.

Cosa vuole dire tutto ciò? Vuol dire che natura e cultura si avvincevano e inseguono l’un l’altra senza soluzione di continuità. Vuol dire inoltre che una volta che un’innovazione culturale viene implementata per fronteggiare determinati problemi impliciti o espliciti (come la costruzione ultrasociale di una rete parentale fittizia con forti pressioni ed incentivi sociali alla riproduzione, per esempio), vengono poste le basi per nuovi problemi che prima non esistevano e che non erano nemmeno prevedibili: «modellando una nicchia, gli organismi introducono nuove pressioni selettive nella medesima misura in cui essi sono capaci di superare quelle precedenti» [20].
Cambiando gli ambienti naturali e sociali, cambiano a lungo termine le risposte cognitive e comportamentali, e ciò che era potenzialmente adattativo smette di esserlo. E allora, in una spirale di vorticosi inseguimenti culturali, le pressioni ambientali del mondo occidentale e/o postindustriale contemporaneo rendono potenzialmente disadattative le inclinazioni della maggior parte dei fenotipi religiosi. Allo stesso modo, l’elevato tasso di natalità delle società caratterizzate dalla presenza di specifici fenotipi religiosi può diventare disadattativa in un contesto di sovrappopolamento globale, di crisi ambientale e climatica e di incipiente scarsità di materie prime [21

 Il fiume Ourthe, in Belgio. Altro che diga dei castori!
Benvenuti nell'Antropocene. Plastica in quantità, per tutti, per sempre.
Fonte: Wikipedia (credit: Okki).
Anche se molto resta da indagare scientificamente per appurare e distinguere tra cause effettive e mere correlazioni, ancora una volta il messaggio più importante è che le condizioni storiografiche sono e restano un fattore indispensabile – se non la chiave necessaria – per comprendere l’interazione dei processi mentali e comportamentali di questo strano primate che, a partire dai suoi antenati nella Rift Valley nell’Africa orientale, ha colonizzato, e modificato radicalmente, tutti i continenti del pianeta Terra (sì, ci sono stazioni scientifiche in Antartide, anche se non sono abitate in pianta stabile. Ci sono anche chiese in Antartide, nel caso ve lo steste chiedendo). Capire i processi cognitivi significa poter comprendere le cause dei gravissimi dissesti ambientali e degli spinosi problemi sociali dell’Antropocene, l’unica epoca geologica del pianeta ad essere stata proposta per designare l’impatto geologico (molto spesso, ahimè, negativo) di un vertebrato sull’intero globo terracqueo [22].

[1] Hill, K., Walker, R., Bozicevic, M., Eder, J., Headland, T., Hewlett, B., Hurtado, A., Marlowe, F., Wiessner, P., & Wood, B. (2011). Co-Residence Patterns in Hunter-Gatherer Societies Show Unique Human Social Structure Science, 331 (6022), 1286-1289 DOI: 10.1126/science.1199071.

[2] Dunbar, R. (2013). The Origin of Religion as a Small-Scale Phenomenon. In Religion, Intolerance, and Conflict: A Scientific and Conceptual Investigation, edited by Clarke, S., Powell, R., & Savulescu, J. (eds.), pp. 48-66. Oxford and New York: Oxford University Press.

[3] Paden, W. E. (2008). Connecting with Evolutionary Models: New Patterns in Comparative Religion? In Introducing Religion: Essays in Honor of Jonathan Z. Smith, edited by Braun, W. & McCutcheon, R.T. (eds.), pp. 406-417. London and Oakville: Equinox Publishing. pp. 409-410.

[4] Ibi: 411.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem. Cfr. Kirkpatrick, L. A. (2005). Attachment, Evolution, and the Psychology of Religion. New York: Guilford. 

[7] Paden, Connecting with Evolutionary Models, cit., p. 411.

[8] Ibi: 412.

[9] Burkert, W. (2003). La creazione del sacro. Orme biologiche nell’esperienza religiosa. Milano: Adelphi. p. 116 (pubbl. orig. nel 1996 come Creation of the Sacred: Tracks of Biology in Early Religions. Cambridge, MA and London: Harvard University Press.

[10] Cfr. Martin, L.H. (2005). Religion and Cognition. In The Routledge Companion to the Study of Religion, edited by Hinnells, J. R., pp. 473-488: 483. Abingdon and New York: Routledge; Paden, Connecting with Evolutionary Models, cit., p. 414; Buss, D. M. (2012). Psicologia evoluzionistica. Milano e Torino: Pearson Italia, p. 207 (pubbl. origi. nel 2012 come 4a ed. di Evolutionary Psychology: The New Science of the Mind. Boston: Pearson).

[11] Vallortigara, G. (2008). Animato, troppo animato. In Girotto, V., Pievani, T. & Vallortigara, G. Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, pp. 83-112:110. Torino: Codice edizioni pp. 83-112.

[12] Pievani, T. (2012). L’evoluzione della morale. Ne Le Scienze. Edizione italiana di “Scientific American”, 526, giugno, pp. 64-71: 70.

[13] Cfr. Luria, S. E., Gould, S.J., & Singer, S. (1984). Una visione delle vita. Introduzione alla biologia, p. 520. Bologna: Zanichelli (pubbl. orig. nel 1981 come A View of Life. Menlo Park, CA: Benjamin/Cummings Publishing Company).

[14] Dawkins, R. (1987). Il fenotipo esteso. Il gene come unità di selezione. Bologna: Zanichelli (pubbl. orig. nel 1982 come The Extended Phenotype: The Gene as the Unit of Selection. New York: W.W. Norton & Co).

[15] Sella, G. (2004). s.v. “Genotipo e fenotipo”. In Dizionario di biologia, Fasolo, Aldo (a cura di), pp. 476-479: 476. Torino: UTET.

[16] Purzycki, B., & Sosis, R. (2013). The extended religious phenotype and the adaptive coupling of ritual and belief Israel Journal of Ecology & Evolution, 59 (2), 99-108 DOI: 10.1080/15659801.2013.825433.

[17] Richerson, P.J. & Boyd, R. (2005). The Origin and Evolution of Cultures. Oxford and New York: Oxford University Press. pp. 263-264.

[18] Dawkins, R. (2002). L’arcobaleno della vita. La scienza di fronte alla bellezza dell’universo. Milano: Mondadori. p. 276. (1a ed. 2001; pubbl. orig. nel 1998 come Unweaving the Rainbow: Science, Delusion and the Appetite for Wonder. Boston: Houghton Mifflin).

[19] Smail, D.L. (2008). On Deep History and the Brain. Berkeley, Los Angeles and London: University of California Press. pp. 102-104.

[20] Purzycki & Sosis, The extended religious phenotype, cit., p. 104.

[21] Cfr. però Richerson, P. J. & Boyd, R. (2006). Non di soli geni. Come la cultura ha trasformato l’evoluzione umana. Torino: Codice edizioni, pp. 236-244 (pubbl. orig. nel 2005 come Not by Genes Alone: How Culture Transformed Human Evolution. Chicago and London: The University of Chicago Press). Si veda anche Slone, D.J. & Van Slyke, J.A. (eds.) (2015). The Attraction of Religion: A New Evolutionary Psychology of Religion. London and New York: Bloomsbury.

[22] Waters, C., Zalasiewicz, J., Summerhayes, C., Barnosky, A., Poirier, C., Ga uszka, A., Cearreta, A., Edgeworth, M., Ellis, E., Ellis, M., Jeandel, C., Leinfelder, R., McNeill, J., Richter, D., Steffen, W., Syvitski, J., Vidas, D., Wagreich, M., Williams, M., Zhisheng, A., Grinevald, J., Odada, E., Oreskes, N., & Wolfe, A. (2016). The Anthropocene is functionally and stratigraphically distinct from the Holocene Science, 351 (6269) DOI: 10.1126/science.aad2622.