Credevo di capire le cose prestando sempre attenzione, quando la maestra con gli occhiali e un'età superiore a quella di mia madre ma più giovane di mia nonna, spiegava cose che poi nella vita saranno state importanti all'incirca come un commento futile al mio vestiario o il giorno del tuo compleanno.
Credevo di poter arrivare a soddisfare il Mondo soltanto portando a casa quaderni in ordine e cartelle pesantissime, fusti di sapienza ordinata e ben impaginata. Ad esser sinceri a pensare di fare il bene degli altri si tralascia troppo il proprio, di bene.
Ho cominciato poi a guardare che i disegni che facevo a matita eran più belli di quelli fatti con i pennarelli, perchè riuscivo a sfumarli e a trovarci delle ombre e delle luci, dei significati che non sapevo. Quindi dietro quell'uso forte del colore c'era una forma di attenzione troppo evidente, quasi costante. Un nascondiglio per quello che credevo o per quello che credevo di aver capito.
Poi un giorno in classe mi distrassi e cominciai a guardare fuori dalla finestra.
Il vento che spazzolava le foglie degli alberi come fossero capelli, gli uccelli che non tenevano la stessa traiettoria, le nuvole che si muovevano. Non come nei miei disegni in cui staticamente sembravano temere il sole, ma qui, fuori da quella finestra di quella inutile classe all'interno di una scuola prefabbricata degli anni '70, si opponevano al sole e a volte lo rincorrevano. Altre volte invece si sovrapponevano l'una all'altra. Quel giorno distraendomi ho capito che guardando fuori dalla finestra avrei visto mondi anche dove non ce n'erano. Dietro un foglio bianco, un penna vuota, una siringa usata.
Tornando a casa dissi a mio nonno che non avevo seguito nulla delle lezioni di quel giorno perchè avevo guardato fuori dalla finestra, che tutto là fuori mi ignorava ma io potevo guardarlo lo stesso e farmi i miei calcoli, le mie regole grammaticali o le mie guerre personali.
La perplessità dei suoi occhi mi mise subito in guardia dal non distrarmi troppo, dal restare nel reale, dal sembrare normale. Ma io avevo capito ormai la mia strada, quella che non porta a niente o forse porta a qualcosa ma dall'entrata secondaria o dall'uscita di sicurezza.
Camminavo tanto per guardare il movimento delle cose o prendevo i mezzi per vedere come si comportano le persone chiuse dentro scatole di ferraglia. Le guardavo per capire me, di loro non mi è mai interessato molto. Il mio era uno sguardo distratto, di quelli che guardano tutto e non vedono niente o vedono solo quello che vogliono.
Perchè la verità ti porta a vedere entro le quattro mura, fino a qualche metro più in là. E' la distrazione che ti regala la profondità, quello che non c'è, arriva a bussare al sogno e poi lo diventa, se qualche stronzo non viene a richiamare la tua attenzione.
Quella sì, superficiale e temporanea, perchè sarà anche un controsenso ma ci vuole attenzione anche nell'essere distratti.
Così si continua in quel percorso tracciato a matita, ascoltando le lezioni con un orecchio e immaginando mondi fuori dalla finestra, distrattamente attento a non pestare troppe merde abbandonate ai margini della strada.
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