Il vento è cessato, lasciando il cielo terso, di un azzurro carico; solo qualche piccolo sbuffetto bianco qua e là, come gocce di acquarello lasciate cadere per sbaglio dal pennello di un pittore distratto. Anche a mille metri, la temperatura è gradevolissima, quasi ideale per la stagione, come accade spesso a questa altezza e non solo in queste valli alle porte d’Italia, ma in tutto il mondo. Era l’81, e la quota più o meno la stessa nella profondità dell’altopiano anatolico. Una giorno d’estate dolce in un piccolo paese vicino a Kars a pochi kilometri dal sud del Caucaso. Ricordo un piccolo ristorante nascosto tra vecchie case di legno, segnalato da una piccola insegna dipinta a mano e da qualche seggiola impagliata fuori dalla porta. All’interno poche tavole di legno circondate da panche e pochi clienti che discutevano a bassa voce in fondo al locale. Ci sedemmo anche noi, un po’ defilati, cercando di non dare nell’occhio, ma senza speranza; non erano molti gli stranieri che capitavano da quelle parti e subito fummo al centro di un’attenzione discreta, fatta di sorrisi e ammiccamenti gentili sotto barbe imponenti, come quasi dappertutto nell’est della Turchia, dove non si sentiva mai il peso dell’essere turisti lontano da casa, ma sempre ospiti visti con simpatia. Non avendo lessico comune, feci il consueto giro in cucina, tanto per rendermi conto materialmente di cosa bolliva in pentola. Trascurando subito la testa di montone bollita il cui occhio solitario mi guardave triste e disattento da una grande pentola di alluminio, optai per un classico menù turco per fare onore, oltre che al robusto appetito che ci contraddistingueva, anche a una gastronomia che, sebbene poco conosciuta, è una delle più ricche e varie del mondo. Un paio di volenterosi ragazzini ci portarono subito una serie di vassoi con un gran numero di mezé, gli antipasti tradizionali, olive, pomodori secchi, formaggi conditi, creme di fave, peperoni, fritti vari, miscele di aglio e yogourth e molte altre cose anche di difficile identificazione, che mangiammo con gusto, sbarazzando i piatti di alluminio che venivano via via cambiati. Poi una minestra rossa alquanto piccante, una sorta di Chorba caucasica, piuttosto densa e gradevole, subito seguita da un trionfo di carne grigliata, spiedini, costolette, grossi blocchetti di carne rosolata e succulenta con una sorta di fagiolini dolcissimi e leggermente farinosi. Saltammo i lukoumi, troppo dolci per il nostro palato e terminammo con un gran piatto di frutta secca e grandi fette di anguria rosso cupo, dolce come solo sa esserlo quando ingrossa sotto il sole forte e diretto. Un grande pentolino di rame per il più classico caffè turco carico e spesso, che punisce gli ingordi che non riescono ad arrestarsi prima di beccarsi la sorsata mista alla polvere di caffè del fondo, mise il suggello al pranzo. Avevamo bevuto succo di mele dolce e profumato, degli infiniti alberi che popolavano le odulazioni attorno al paese e chiedemmo il conto appagati e certi che sarebbe stato come sempre corrispondente alla soddisfazione che avevamo avuto. Il ragazzino che ci aveva servito arrivò con un bigliettino compitato a mano. Con un rapido calcolo, che pure rifatto più volte per sicurezza, dava il corrispettivo di circa 500 lire per tre persone, anche ricordando che a quel tempo il mio stipendio era di circa 7/800.000 lire mensili, parevano l’evidente frutto di un errore di calcolo, almeno per la mancanza di uno zero. Chiamammo dunque il principale, che arrivò subito mostrando un’aria preoccupata. Alla nostra richiesta di precisazione se non avesse sbagliato il conteggio, unendo uno stentato inglese al tedesco consueto dell’emigrante tornato al paese natio, dette una spiegazione complessa che potrei sunteggiare in questo modo:”Capisco che la cifra è esageratamente alta, ma purtroppo, vi prego di credere che i prezzi sono talmente aumentati negli ultimi tempi che non ce la facciamo più a mantenere un conto moderato come una volta e ci scusiamo ancora ma non possiamo praticarvi uno sconto”. Lo tranquillizzammo subito e chiarito l’equivoco, lasciammo una robusta mancia al ragazzino e ce ne andammo, salutati da tutta la famiglia del ristoratore, che, presi gli asini di ordinanza, volle accompagnarci fuori del paese per mostrarci la strada per il lago di Van. La temperatura era sempre gradevole anche se cominciavano a frinire le cicale.
lunedì 20 luglio 2009
Rosso d'anguria.
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2 commenti:
Una bellissima rimembranza, raccontata con piglio e delicatezza. La descrizione dell'Autore ricorda al Critico le sensazioni provate nelle valli lombarde, dove il semplice popolo leghista aggiunge di sua sponte 1 o 2 zeri al conto, rigorosamente non fatturato, per far sì che l'avventore non si trovi in imbarazzo.
M ricorda qualcosa di analogo che ci sucesse a Bangkok in un ristorante tipicamente locale (niente turisti) che ci era stato consigliato dal console svizzero. Dopo un pasto luculliano e delizioso, ci giunse il conto, l'equivalente di 20 dollari in 5!... Al che Antonio, incredulo, chiamò il cameriere che ovviamente parlava solo thai (in cui non siamo fortissimi) per chiedere spiegazioni e il poveretto pensò che protestassimo per il prezzo eccessivo. Chiamò il padrone, che anche lui parlava solo thai, e alla fine cercammo di far capire che non eravamo scontenti erogando una "lauta" mancia di, credo, 2-3 dollari. L'intera cucina uscì a profondersi in inchini.
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