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martedì 1 novembre 2016

IL PAN DEI MORTI



Il pane dei morti, in spagnolo "pan de muerto", è un tipo di pane preparato nel Messico nelle settimane prima della festa conosciuta come il "Giorno dei morti". È basato su una semplice ricetta per pane dolce con semi di anice, che varia in base alla regione. Nel Messico centrale è di forma tonda, con pezzi che assomigliano a ossi.

Secondo la tradizione deve essere collocato sull'altare dei morti come un gesto di benvenuto. Si crede che le anime dei morti consumino l'"essenza" del cibo.

Ne La mixteca è data al pane una forma umana. Viene cosparsa con lo zucchero bianco per i bambini uccisi o rosso per gli adulti.

Il pan dei morti è un'antica ricetta, originaria del milanese e diffusa  in varie zone dell’Italia del Nord, tipica del periodo della ricorrenza dei defunti. Il pan dei morti, infatti, veniva preparato e mangiato per rendere omaggio alle persone care scomparse.
In realtà questo rito dell'offerta era già presente in tempi molto antichi: i Greci, ad esempio, offrivano un pane dei morti a Demetra, la Dea delle messi, per assicurarsi un buon raccolto. Ancora oggi, in molte zone d'Italia è una cosa comune mettere a tavola e servire, anche per le persone defunte, il pan dei morti.
In Toscana, le ricorrenze dei morti e dei santi sono molto sentite: per questo motivo la produzione di questo dolce è molto intensa e di grande tradizione, tanto che si può affermare che il pan dei morti sia diventato anche un dolce tipico toscano.
In ogni caso, al giorno d'oggi, forse per il suo nome un po’ lugubre, è uno dei dolci legati alla festa di Halloween, la notte delle streghe.

Sono, probabilmente, da ricercare nella cultura contadina le origini delle credenze popolari legate alla commemorazione dei defunti. In Lombardia, e soprattutto nella zona di Milano, ad esempio, si riteneva che, ogni anno, con la stessa ciclicità del lavoro sui campi, le anime dei cari estinti si ripresentassero nelle loro case abbandonando temporaneamente l'oltretomba. Per offrire loro ristoro e per render loro omaggio durante queste visite, si era soliti preparare del pane dolce tradizionale da mettere in tavola come se i defunti dovessero accomodarsi assieme ai loro parenti ancora in vita. La ricetta che veniva preparata per l'occasione, non a caso, veniva, e viene ancora, chiamata Pane dei Morti, una sostanziosa prelibatezza a base di biscotti secchi sbriciolati, cacao e frutta secca. I soli ingredienti evocano l'evidente necessità di ricavare un alimento nutriente utilizzando ciò che si trovava in casa e, come spesso avviene per numerosi piatti della tradizione povera, il risultato era comunque estremamente gustoso. Nel corso del tempo anche la ricetta del Pan dei Morti, come molte altre dalle origini simili, ha subito delle modifiche adattandosi ai gusti e agli ingredienti reperibili durante i diversi periodi storici, ma l'idea di fondo è rimasta la stessa ed oggi, nel Milanese, questi panini sono diventati il dolce tradizionale del 2 novembre ed anche dell'ormai gettonatissima festa di Halloween.



Le caratteristiche distintive di questi dolcetti sono, certamente, l'utilizzo di biscotti sbriciolati e frutta secca. Le modifiche apportate nel corso del tempo hanno favorito l'aggiunta di nuovi ingredienti precedentemente non conosciuti o difficilmente reperibili, come le mandorle,il cacao o lo zucchero a velo. Oggi come un tempo, però, i Pani dei morti si presentano di forma ovale leggermente schiacciata e di dimensioni variabili in base alle preferenze.

Ingredienti: 500 grammi di biscotti secchi, 300 grammi di zucchero, 250 grammi di farina tipo “00”, 100 grammi di uvetta, 100 grammi di fichi secchi, 50 grammi di canditi, 50 grammi di mandorle, 4 albumi, 1 bicchiere di vino, ½ bustina di lievito, 2 cucchiai di cacao amaro, cannella. Tritare i biscotti assieme alle mandorle, ai fichi e ai canditi. Aggiungere, quindi, la farina, lo zucchero, la cannella, il cacao, il lievito e l'uvetta ammorbidita per circa 15 minuti in acqua o liquore e mescolare il tutto. Introdurre nel composto anche gli albumi ed il vino del quale si potrà aumentare lievemente la dose se l'impasto dovesse risultare ancora troppo secco. Formare dei panini ovali schiacciati, ed infornarli per circa 30 minuti ad una temperatura di 180°.



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giovedì 6 ottobre 2016

IL LIMONCELLO


Secondo la tradizione il limoncello nasce agli inizi del Novecento e la sua paternità viene contesa tra sorrentini, amalfitani e capresi: molto rinomato infatti è quello prodotto in Campania utilizzando il limone di Sorrento (il "femminello") o lo sfusato amalfitano IGP, nonchè quello di Procida.

In seguito alla popolarità raggiunta dal Limoncello in Italia, anche gli Stati Uniti hanno iniziato a produrre limoncello usando i limoni della California che equivalgono al 90% della produzione nazionale.

Il limoncello è un liquore dolce ottenuto dalla macerazione in alcol etilico delle scorze del limone ed eventualmente di altri agrumi, miscelata in seguito con uno sciroppo di acqua e zucchero.

Generalmente, si utilizza per l'infusione alcol etilico a gradazione di almeno 90%, in cui vengono macerate le scorze (solo la parte gialla) di dieci grossi limoni per ogni litro di alcol. Il periodo di macerazione varia a seconda delle ricette ma mediamente si aggira sui venti giorni, dopodiché viene aggiunto lo sciroppo, in cui le porzioni sono sommariamente di 600-700 grammi di zucchero per litro d'acqua. Il liquore viene quindi filtrato e imbottigliato.



Mediamente dopo almeno un mese di maturazione (ma per certe ricette la durata è molto minore) in bottiglia, diviene il classico liquore di colore giallo, particolarmente adatto da gustare come digestivo dopo i pasti.

La buccia di colore giallo citrino, ottenuta dai migliori limoni di forma ellittica, simmetrica e di dimensioni medio-grandi, è l'ingrediente principale del limoncello contenente oli essenziali che conferiscono al liquore un aroma molto deciso nonché un gusto molto forte.

Questo liquore ricco di aromi mediterranei, inoltre è conosciuto per le sue virtù digestive.





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domenica 6 marzo 2016

LA RANA



La rana è un anfibio anuro presente in Italia in molte varietà tra le quali sono due le specie buone a fini alimentari: la rana verde (Rana esculenta) e quella comune (Rana temporaria) appartenente al gruppo delle cosi dette “rane rosse”. È bene ricordare che questa rana è, come tutti i rettili e gli anfibi Italiani, protetta dalla Convenzione di Berna che viene a sua volta applicata, a livello italiano, con disposizioni regionali. Pertanto, prima di raccogliere o allevare questo anfibio, consultare gli uffici della regione (Caccia e Pesca).

I piatti a base di rane sono notoriamente caratteristici delle località dove ci sono le risaie. La cucina piemontese tradizionale popolare e contadina vanta diversi piatti a base di rane, così come quella tradizionale lombarda. Intorno a Novara e Vercelli si coltiva uno dei più grandi quantitativi di riso di tutta Europa. Nei suoi terreni acquitrinosi si trova una delle prelibatezze della cucina piemontese, quali le rane, servite fritte o in guazzetto e ancora oggi uccise davanti al compratore per farne verificare personalmente la freschezza. Ma anche in Veneto, specie nel veronese dove il riso fa da padrone ci sono ancor oggi buone possibilità di reperire le rane. In alcune zone del centro-sud d'Italia le rane sono un alimento importante della cucina tradizionale, come la cucina teramana che ne ha sempre fatto grande uso.

Nel medioevo la rana veniva legata al mondo della stregoneria. Con il tempo poi divenne una preziosa risorsa alimentare per il mondo contadino. Un tempo le rane, venivano pescate sia di giorno, ma anche di notte con una lampada a carburo mediante con una bacchetta a cui veniva fissato un filo con l'esca, sovente un pezzo di panno rosso. La tradizione lombarda vuole che siano catturate nei mesi il cui nome contenga la lettera "R". In passato si credeva che le rane nascessero dalla terra fecondata dagli acquazzoni estivi, oppure che fossero concepite dalla pioggia direttamente nel cielo. Il loro gracidare era visto come una lode a Dio, ed interromperlo equivaleva a ritardare la liberazione di un'anima dal purgatorio. Fu in Italia e Francia che durante l’alto Medioevo si affermò l'uso di mangiare rane, identificate come un cibo povero di magro, la cui pesca era liberamente concessa ai contadini delle zone ricche d’acqua. Secondo alcuni reperti iconografici preistorici la rana sembra simboleggiare l’utero della grande Dea, capace di muoversi non solo all’interno del corpo della donna, ma anche di uscirne. Esisteva poi una distinzione allegorica fra la rana ed il rospo: emblema di fecondità la prima, segno di morte il secondo. La “ronocchiella” in oro o argento era, ed è ancora nelle regioni centro meridionali, un amuleto d’abbondanza e fortuna contro il male. Nel Seicento, quando l’impotenza si ricollegava all’opera degli stregoni, la carne di rana veniva ritenuta afrodisiaca e rinvigorente.

La rana è saporita, con un sapore molto simile al pesce o al pollo. Le sue carni sono di ottima digeribilità, in genere se ne consumano le cosce. Le rane sono un alimento dalle antiche tradizioni, considerate un ottimo approvigionamento di proteine, in tempi di guerra o nel dopo-guerra fino al boom economico. Le carni sono prelibate, tenere, praticamente senza grasso, e dunque eccellenti dal punto di vista dietetico. Gradualmente il consumo di questo anfibio è andato scemando, fino ai giorni nostri in cui solo i buongustai si cimentano ancora a mangiarle. Da piatto povero tradizionale oggi i piatti a base di rane si stanno riabilitando come piatti raffinati e rari. In genere le rane, o meglio le cosce, sono preparate fritte. Si possono cucinare anche con altri ingredienti, come aglio, cipolla, prezzemolo, erbe aromatiche, funghi, patate, seguendo le stesse ricette che in genere si utilizzano per preparare il pesce o il pollo. Una recente normativa della CEE ha regolamentato il commercio della carne di rana che, in ogni caso, deve essere venduta solo dopo aver privato l'animale delle interiora. Sui banchi delle migliori pescherie si trovano sotto forma di "filetti", anche se non lo sono, perchè i consumatori prediligono la parte terminale del busto e le cosce. Oggi la maggior parte della carne di rana in commercio in Italia proviene dai paesi balcanici specie dalla Romania, dall'ex Jugoslavia e dalla Turchia, dove la rana è ancora una fonte di reddito. In commercio sono diffuse anche rane importate dal sud-est asiatico che arrivano sui nostri mercati congelate in pacchi generalmente da 10 chili. Per pulire le rane si deve spogliarle dalla pelle, tagliare la punta delle zampe, togliere testa ed interiora sciacquarle in acqua fresca. Si possono surgelare o conservare come la carne del pollo. Le ricette tradizionali con le rane spaziano dal risotto alle rane, tipico di Piemonte e Lombardia, alle rane fritte, un classico della cucina povera, alle rane in guazzetto o con patate, facendo strati successivi di rane e patate, con olio, sale, vino bianco. Si può aggiungere anche il prezzemolo, pomodoro e pecorino. Se si desidera friggere le rane, si consiglia di porle a macerare per 1 ora in una marinata composta da aceto, un po' di prezzemolo tritato, aglio schiacciato, sale e pepe. Trascorso tale tempo, scolarle e asciugarle, immergerle nella pastella e friggerle immediatamente in abbondante olio caldo.
Da un punto di vista nutrizionale la carne di rana non presenta nessun tipo di controindicazione, anzi, è molto ricca di proteine ed ha un contenuto lipidico bassissimo. Le rane sono ricche in ferro.  Fresche non contengono glutine.



Rane fritte: rane, aceto di vino bianco, prezzemolo, pepe bianco, uova, farina, vino bianco, olio e sale. Vino rosso aspro e robusto.
Rane al limone: rane, farina, sale, pepe, burro, vino bianco, scorza di limone e peperoncino. Vino bianco morbido e fruttato.
Rane in umido: rane, aceto di vino bianco, cipolla, prezzemolo, olio extravergine, pomodoro, peperoncino, sale, pepe, acqua calda. Vino rosso ampio e corposo.

Cosce di rana fritte. Il fritto è una tecnica di cottura che piace a tutti e rende più sfizioso qualsiasi alimento: se volete avvicinare i vostri commensali al gusto dolce ed insolito delle rane, potete proporle fritte in una pastella al vino. Prendete 1 kg di rane pulite e sciacquate con acqua fresca. Preparate una marinata con 100 ml di aceto di vino bianco, 20 grammi di prezzemolo tritato finemente e pepe bianco macinato fresco. Immergete le rane per 2 ore nella marinata, facendo attenzione che siano tutte ben coperte. Intanto preparate la pastella: in una ciotola e sbattete 1 uovo intero ed un tuorlo, aggiungendo 100 grammi di farina, mezzo bicchiere di vino bianco, un cucchiaio di olio e il sale. Lavorate bene la pastella con una forchetta fino ad ottenere un composto omogeneo e senza grumi. Prendete ora le rane, asciugatele con un foglio di carta e immergetele nella pastella. Con un cucchiaio versatele in una padella con abbondante olio di arachide bollente e pronto alla frittura. Se non volete consumare troppo olio, vi consiglio di adoperare una padella di piccolo diametro. Lasciatele cuocere a fuoco per 4-5 minuti e ricordate di mettere uno spargifiamma sotto la padella, per ottenere una diffusione del calore uniforme. Consiglio di servire ben caldo, accompagnato da un vino rosso aspro e robusto.

Cosce di rane al limone. Questa ricetta è una rivisitazione delle scaloppine di vitello: si prepara in pochi minuti e il risultato è ottimo e gustoso. Prendete 100 grammi di farina, aggiungete sale e pepe e infarinate 500 grammi di cosce di rana. In una padella fate sciogliere a fuoco lento 40 grammi di burro. Potete ora aggiungere le rane facendole rosolare. Intanto in una tazza mettete un bicchiere di vino bianco, la scorza del limone e peperoncino. Consiglio di non grattare la parte bianca della scorza di limone, onde evitare che la salsina venga amara. Lasciate riposare qualche minuto e versate nella padella con le rane. Fate ora cuocere il tutto per 10 minuti con il coperchio, per poi scoprire per far sfumare la salsa. Consiglio di servire questo prelibato piatto ancora caldo, accompagnato da un vino bianco morbido e leggermente fruttato.

Cosce di rana in umido. Questo piatto è molto apprezzato nella cucina popolare, ma ultimamente molti ristoranti stanno inserendo questa ricetta nei loro menu: basta un piccolo assaggio per esserne conquistati. Sciacquate le rane in acqua e aceto di vino bianco, per poi asciugarle con carta da cucina e farle riposare in frigo fino al momento in cui bisognerà cuocerle. Tritate ora la cipolla e il prezzemolo e fate soffriggere il mix con olio extravergine di oliva, che darà un sapore corposo alle vostre coscette di rana. Aggiungete pomodoro, peperoncino, sale, pepe, aceto di vino bianco e acqua, che avrete appositamente fatto scaldare prima di mettere a soffriggere il trito di cipolla e prezzemolo. Coprite con un coperchio e lasciate cuocere a fuoco dolce per circa mezz'ora, mescolando di tanto in tanto. Aggiungete le cosce di rana e lasciatele cuocere, senza smuoverle troppo e con coperchio, per quindici minuti. Spegnete ora la fiamma e fate riposare il tutto per circa dieci minuti. Servite le vostre gustosissime coscette di rana accompagnate da crostini di pane o polenta grigliata. Accompagnate il tutto con un vino rosso ampio e corposo.

Non fate cuocere troppo le rane, altrimenti la carne risulterà stoppacciosa e poco gradevole.



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venerdì 4 marzo 2016

LA TRADIZIONE DELL'AGNELLO



Quella dell’agnello pasquale è una tradizione che affonda le radici molto lontano, fin dalle origini della cristianità. L’agnello, simbolo sacrificale per eccellenza, per la religione cristiana rappresenta Gesù Cristo, e può essere considerato, dunque, quasi lo stemma del cristianesimo. In particolare, è Giovanni Battista a definire Gesù nel Vangelo l’Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo (l’Agnus Dei della liturgia).

Vi è tuttavia anche un importante collegamento tra la tradizione cristiana di consumare l’agnello per Pasqua e l’Antico Testamento e, in particolare, la Pasqua ebraica (Pèsach).Quest’ultima è una festività che dura otto giorni e celebra la liberazione del popolo di Israele dall’Egitto. Secondo la tradizione ebraica un agnello viene immolato il giorno prima della Pèsach e, nonostante sin dal Concilio di Nicea, le date della celebrazione pasquale ebraica e cristiana non coincidano, secondo il Vangelo di Giovanni sembra che il giorno della morte di Gesù corrisponda proprio a quello in cui si immolava l’agnello.

A sua volta, il rito dell’agnello nella Pasqua ebraica – da cui la Pasqua cristiana deriva salvo il rimando cristologico – è volto a ricordare un importante episodio dell’Antico Testamento. Dio, dopo aver annunciato a Mosé e Aronne la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù in Egitto ordinò infatti che tutte le famiglie del popolo di Israele si procurassero un agnello per marcare con il suo sangue gli stipiti delle porte ed evitare così il terribile castigo che aspettava i primogeniti d’Egitto, ovvero la morte.

Anche in questo caso, dunque, l’agnello è simbolo di sacrificio, ma anche di salvezza. E dietro a questo simbolo si cela l’intreccio tra le due più antiche religioni monoteiste.

Per gli animalisti, la battaglia si combatte sul piano delle cifre: quelle degli agnelli macellati ogni anno, circa 3 milioni e mezzo in Italia, in previsione della Pasqua. Per i biblisti e teologi, invece, il terreno di confronto è quello dei testi sacri, dell’Antico e del Nuovo Testamento. Lo stesso Benedetto XVI, durante l’omelia del Giovedì Santo del 2005, riportò l’attenzione sul fatto che probabilmente lo stesso Gesù non consumò l’agnello durante la celebrazione della Pasqua con i suoi discepoli, e cioè durante l’Ultima Cena, rompendo di fatto con la tradizione religiosa ebraica. Questo, aggiungeva il papa, avrebbe fatto sì che a un qualsiasi agnello venisse sostituito l’Agnello come simbolo di incarnazione, e cioè Egli stesso. Ma lo stesso Mosé, secondo i testi dell’Esodo, non avrebbe mai prescritto al popolo eletto l’agnello come cibo obbligatorio da consumare in occasione della Pasqua; solo più tardi, accogliendo i costumi di popolazioni semi-nomadi e pagane, gli ebrei avrebbero cominciato a consumare l’agnello in quel giorno. 



Dal punto di vista ebraico il sangue dell’agnello non salva dai peccati, piuttosto – in Esodo 12 leggiamo – viene posto sugli stipiti delle porte per risparmiare alcune case dal cosiddetto “angelo sterminatore”, che passava ad uccidere i primogeniti. In un’ottica ebraica la Pasqua è una festa, per così dire, “politica”, perché è la festa di una liberazione dalla schiavitù, politica e sociale soprattutto. Non è l’espiazione dei peccati, assolutamente no. Questo avverrà con i sacrifici nel Tempio e poi nel giorno del Kippur, dove ciò che conta sarà un capro, appunto “espiatorio”, più che l’agnello. I testi sono complessi: dal punto di vista cristiano Gesù è stato identificato con l’agnello pasquale. Peraltro il Battista nel Quarto Vangelo dice: “Ecco l’agnello di Dio che porta via il peccato del mondo”. Lo dice il Battista, senza alcun riferimento all’Ultima Cena, ed il suo è un giudizio sulla funzione redentrice svolta da Gesù stesso. Ma pensare ad una Pasqua senza agnello, dal punto di vista ebraico, è impossibile. Semmai la questione è quella del sangue: ricordiamo che il Libro del Levitico proibisce di bere il sangue, perché nel sangue c’è la vita, appartiene a Dio, per questo non si può né toccarlo né berlo. L’agnello pasquale va “immolato”, letteralmente dovremmo leggere sgozzato, proprio nel senso di far uscire il sangue, dissanguato. E infatti si mangia solo la carne. In Giovanni, capitolo 6, dopo il discorso sul pane di vita, Gesù dice: “Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, non avrà la vita”. Una frase scandalosa, tant’è che Giovanni nota che fu allora che molti lo lasciarono, per questo Gesù chiese ai discepoli: “volete andarvene anche voi?”. Questo è uno dei punti di differenziazione tra cristianesimo e giudaismo.

Nel capitolo 23 dell’Esodo, dove si annunciano le feste principali del calendario ebraico, si dice chiaramente che tutte e tre sono connotate da un punto di vista agricolo. La prima è la Festa degli Azzimi, durante la quale si mangia solo il pane e azzimo, dunque è la Pasqua celebrata senza l’agnello; la seconda è la Festa della Primizie, cioè la Pentecoste; la terza è la Festa delle Capanne, o sarebbe meglio chiamarla, Festa del Raccolto. Sono tutte e tre espressioni di una cultura agricola. Successivamente vengono storicizzate da Israele e messe tutte e tre in rapporto all’evento dell’Esodo, che è l’evento storico in senso mitico, ufficiale, fondante, dell’identità israelitica. Inoltre lì si include una componente della cultura pastorizia, per la Pasqua, e gli azzimi vengono integrati dall’agnello. La stessa Pentecoste è enunciata e formulata proprio in vista della Pasqua, perché è il 50° giorno, le 7 settimane dalla Pasqua (7×7 fa quarantanove, più uno, cioè la perfezione somma): è una festa pasquale, perché è in rapporto agli Azzimi, alla Pasqua.
Nei Vangeli sinottici, dove si racconta l’Ultima Cena, l’agnello non compare, ma non si dice esplicitamente che non c’è. Semplicemente non se ne parla. Ma non se ne parla proprio perché la Pasqua ebraica aveva ormai assunto la cadenza tipica della Festa cristiana, la quale, ricordiamolo, non celebra l’uscita dall’Egitto, come gli ebrei, ma celebra la morte di Gesù Cristo, il sangue è il suo: ecco che dal politico si passa all’aspetto più personalistico, per non dire religioso, della Salvezza.





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giovedì 10 gennaio 2013

falafel di ceci


falafel di ceci

I falafel sono un piatto tipico della tradizione mediorientale, presenti sia nella cucina araba che nella cucina israeliana, di cui si ipotizza però un'origine egiziana. Si tratta di crocchette per la preparazione delle quali l'ingrediente base è solitamente rappresentato dai legumi. Nella preparazione dei falafel si utilizzano prevalentemente i ceci, oppure le fave.

E' richiesto l'utilizzo di legumi essiccati, che vengono lasciati in ammollo in modo che possano ammorbidirsi, così da poterli frullare insieme agli altri ingredienti che vengono utilizzati per la preparazione dei falafel. I falafel di ceci, di cui vi proponiamo la ricetta qui di seguito, sono ottimi soprattutto se gustati appena fatti, ma possono essere serviti anche freddi.

I falafel possono essere scelti come pietanza da inserire all'interno di un menù in occasione di un aperitivo casalingo, ma anche come antipasto o come secondo piatto, accompagnati da un insalata o da verdure di stagione. I falafel di ceci possono essere utilizzati anche come ripieno per la pita (un pane arabo morbido di cui in precedenza vi avevamo proposto la ricetta per la preparazione casalinga ), da soli oppure accompagnati da verdure di stagione.

Esiste una salsa particolare che viene tradizionalmente servita nei Paesi in cui i falafel rappresentano un piatto tipico, come il loro perfetto accompagnamento. Si tratta della salsa thain (anche denominata thaina o thaini). La thain è una salsa a base di semi di sesamo facilmente reperibile nei negozi di prodotti biologici o etnici. La salsa thain può anche essere preparata in casa frullando i semi di sesamo con dell'olio di sesamo o di girasole spremuto a freddo.

Ecco tutti gli ingredienti necessari per la preparazione casalinga dei falafel di ceci ed il relativo procedimento.

Ingredienti per 10 – 15 falafel
250 grammi di ceci essiccati
2 cucchiai di prezzemolo tritato
Farina di ceci o pane grattuggiato
Olio extravergine d'oliva
1 spicchio d'aglio
½ cucchiaino di cumino in polvere
½ cipolla
Sale e pepe

Preparazione

Per la preparazione dei falafel a partire dai ceci essiccati sarà necessario procedere al loro ammollo in acqua per 24 ore. L'acqua dell'ammollo dovrà essere sostituita dopo 12 ore. Ricordate che non dovrete procedere alla cottura dei ceci prima di realizzare le crocchette. Per formare i falafel è infatti necessario partire da ceci crudi.

Una volta trascorso il tempo dell'ammollo, i ceci dovranno essere scolati completamente e riposti nel bicchiere di un mixer da cucina. All'interno di esso dovranno essere aggiunte la cipolla tritata, lo spicchio d'aglio (di cui potete fare a meno, se non ne amate il gusto), il prezzemolo, il cumino e un filo d'olio extravergine d'oliva.

Procedete frullando il tutto fino ad ottenere un composto omogeneo. Regolatene il sapore con il sale e con il pepe e iniziate a formare con le mani delle crocchette di forma sferica, oppure appiattita. Solamente nel caso in cui il composto dovesse risultare troppo morbido, aggiungete un pochino di pane grattuggiato o di farina di ceci.

Per facilitare la formazione delle crocchette e ottenere un impasto più compatto, è inoltre consigliabile lasciare riposare l'impasto in frigorifero per un'ora, prima di mettervi all'opera. Una volta formate le crocchette di ceci, sarà necessario procedere alla loro cottura. La ricetta tradizionale dei falafel prevede che venga effettuata la loro frittura in olio bollente, da prolungare fino al momento in cui la superficie delle crocchette non risulterà ben dorata.
Esiste però un'alternativa alla frittura, che renderà i vostri falafel di ceci molto più leggeri. Si tratta della cottura al forno, che può essere effettuata senza l'aggiunta di grassi, ad eccezione di un pochino d'olio per ungere la teglia, a meno che non si utilizzi della carta da forno. La cottura in forno avrà una durata di circa 20-25 minuti a 180 °C. .

I falafel di ceci al forno saranno pronti quando sulla loro superficie si sarà formata una crosticina croccante e ben dorata. Sono ottimi se accompagnati anche da hummus di ceci o dalla sala allo yogurt.



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mercoledì 24 marzo 2010

LA PASTIERA NAPOLETANA

La pastiera napoletana è un dolce pasquale della tradizione campana. Questo dolce ha una base di pasta frolla ed un morbido ripieno a base di grano aromatizzato con cannella ed essenza di fiori d'arancio.
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La leggenda, che vuole la sirena Partenope creatrice di questa delizia, deriva probabilmente dalle feste pagane e dalle offerte votive del periodo primaverile. In particolare la leggenda è probabilmente legata al culto di Cerere le cui sacerdotesse portavano in processione l'uovo, simbolo di rinascita che passò nella tradizione cristiana. La ricetta attuale fu perfezionata proprio nei conventi e divennero celebri quelle delle suore del convento di San Gregorio Armeno.

Esiste anche una leggenda più "reale" che narra che dei pescatori, a causa dell'improvviso maltempo, rimasero in balia delle onde per un giorno ed una notte. Una volta riusciti a rientrare a terra, a chi domandasse loro come avevano potuto resistere in mare così tanto tempo, risposero che avevano potuto mangiare la Pasta di Ieri, fatta con ricotta, uova, grano ed aromi. Per questo motivo la Pastiera iniziò ad essere simbolo di rinascita, oltre che per gli ingredienti, perché aveva dato una seconda vita a questi quattro pescatori.

La diffusione di pastiera risale almeno al '600. Lo testimonia la seguente citazione tratta dalla favola la gatta Cenerentola di Giambattista Basile (1566–1632) che descrive i festeggiamenti dati dal re per trovare la fanciulla che aveva perso lo scarpino:

« E,venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzara che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle? Dove li sottestate e le porpette? Dove li maccarune e graviuole? Tanto che nce poteva magnare n’asserceto formato. »
(Giambattista Basile, La gatta Cenerentola.)

Ingredienti

Per la pasta frolla
400 gr di farina
150 gr di zucchero
170 gr di burro o sugna
1 uovo intero e 3 tuorli
la scorza di un limone grattugiata
1 bustina di lievito

Per il ripieno
1/2 kg di grano precotto
1/2 kg di ricotta freschissima di mucca
1/2k g di zucchero
1/2 litro di latte
8 uova
2 cucchiai di strutto
frutta candita mista scorze d'arancia, cedro, cucuzzata
essenza di acqua di fiori d'arancio
limoncello
cannella
scorza di un limone grattugiata
scorza di un'arancia grattugiata

Preparazione
Preparare la pasta frolla con gli ingredienti indicati e non appena pronta metterla in frigo per almeno 30 minuti. Versare in una pentola abbastanza capiente il latte con il grano, la cannella, la scorza di limone e arancia e i due cucchiai di strutto e cuocere finché il latte nonsi addensa.

Preparazione ripieno pastiera
Lasciar raffreddare completamente il grano ed intanto frullare la ricotta con lo zucchero e poi unire le uova, il limoncello, l'essenza di fiori d'arancio, i canditi e come ultimo ingrediente il grano cotto precedentemente.

Preparazione ripieno pastiera
Prendere la frolla e rivestire una teglia rotonda e riempire con il composto di ricotta.
Con la frolla rimanente tagliare delle striscioline e posizionarle incrociate sulla superficie della pastiera.

Pastiera napoletana
Infornare a forno caldo a 200° per circa 1 ora o anche di più a seconda della velocità di cottura del forno e comunque è consigliabile fare la prova stecchino.
Una volta sfornata e fatta raffreddare spolverare la pastiera con zucchero a velo.

Ecco il risultato:

Pastiera
Pastiera napoletana

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