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mercoledì 19 ottobre 2016

ASSENZIO



L'assenzio fu inventato da un medico francese, Pierre Ordinaire, che in fuga dalla Rivoluzione francese si trasferì a Couvet (Svizzera) nel 1792. Tra le erbe officinali della zona, che i medici di campagna dell'epoca utilizzavano per preparare rimedi naturali, trovò l'assenzio maggiore, di cui conosceva l'uso nei tempi antichi. Sperimentando con questa pianta iniziò a produrre un forte distillato da circa 60°, contenente oltre all'assenzio molte altre erbe tra cui anice, issopo, dittamo, acoro e melissa. Il liquore di Ordinaire divenne un famoso toccasana a Couvet e assunse già il soprannome la Fée Verte (la Fata Verde). Si pensa che alla sua morte ne tramandò la ricetta segreta alle sorelle Henriod di Couvet, ma è possibile che in realtà le Henriod producessero il proprio assenzio già da prima di Ordinaire.

Nel corso del XIX secolo si diffusero in Francia e Svizzera molte distillerie di assenzio con vari marchi, ma il liquore divenne particolarmente noto alla fine del secolo, grazie alla fama che ebbe tra gli artisti e gli scrittori di Parigi. L'assenzio, consumato da molti artisti famosi con rituali elaborati e accessori stravaganti, divenne un'ispirazione dello stile di vita bohémien. La bevanda ebbe enorme successo in Europa, ma declinò nel giro di poco più di un decennio, a causa di vari fattori: il movimento contro l'alcolismo che si diffuse all'inizio del XX secolo, gli studi scientifici dell'epoca che individuarono la pericolosità del tujone contenuto, e le pressioni dei produttori di vino francesi che ne temevano la concorrenza.

Essendo generalmente di colore verde (naturalmente o mediante l'uso di coloranti), l'assenzio si è affermato anche con l'epiteto Fée Verte (Fata Verde). Viene generalmente bevuto aggiungendo dell'acqua ghiacciata e/o dello zucchero.

L’assenzio, delizioso liquore verde, è diventato celebre per la sua storia, che si intreccia con quella dei più controversi e apprezzati artisti dello scorso secolo. Rimasto proibito per molti anni è in realtà un ottimo distillato. La sua pericolosità è più una leggenda, nata a causa delle sostanze tossiche come sali di rame, tintura di anilina e antimonio tricloruro che venivano aggiunti per raggiungere stati di incoscienza; ma a dare all’assenzio la fama di stravolgere mente e spirito hanno contribuito anche l’elevata gradazione alcolica e la presenza del tujone.

Assenzio, anice e altre erbe, come menta, finocchio, melissa, issopo e angelica, vengono messe a macerare in alcool per un paio di settimane e al termine della macerazione si procede con la distillazione con l’alambicco in rame o acciaio.
Il prezioso liquido ottenuto, del tutto trasparente, viene colorato con erbe e zuccherato: si ottiene un liquore sciropposo e dal colore verde acceso in trasparenza.

L’assenzio ha una gradazione alcolica che si aggira tra i 40° e i 70°, da diluire in bicchiere, e proprietà organolettiche particolari. Al primo assaggio colpisce il gusto persistente dell’anice, ma in un secondo momento esplode al palato il ricco bouquet di erbe aromatiche che spazia dalla della menta e liquirizia all’arancia amara e alla melissa. Si percepiscono sentori erbacei, legnosi e agrumati che si accompagnano al principale aroma di anice e menta.

Il modo francese, originale e classico, utilizzato dai poeti maledetti, prevede di versare il liquore nel bicchiere dove viene poi appoggiato il tipico cucchiaino piatto traforato con una zolletta di zucchero. Si versa acqua gelata sopra la zolletta in modo da farla sciogliere lentamente nell’assenzio che inizierà l’effetto louche, diventando lattiginoso. Infine si mescola e si aggiunge del ghiaccio, l’acqua versata dovrebbe essere tre volte la quantità di assenzio.
Molto famoso è il metodo ceco, diffusosi nel XX secolo per attirare i turisti e dunque non originale, che prevede di incendiare la zolletta di zucchero imbevuta di assenzio provocando una fiamma. Prima che lo zucchero caramelli si versa l’acqua fredda e si mescola.

Varietà meno pregiate di questa bevanda sono fatte per mezzo di essenze o olii mischiati a freddo nell'alcool.

Storicamente, c'erano 4 varietà di assenzio: ordinario, semi-eccellente, eccellente, e superiore o svizzero, l'ultima delle quali aveva un tenore alcolico maggiore rispetto alle altre. Il miglior assenzio contiene dal 65% al 75% di alcol. Nel diciannovesimo secolo l'assenzio, come molti cibi e bevande del tempo, era occasionalmente contraffatto da affaristi con rame, zinco, indaco, o altre sostanze coloranti per conferirgli il colore verde; questo non fu ovviamente mai fatto dalle migliori distillerie.

Sembrerebbe una tesi priva di fondamento, sorta con l'intenzione di attribuire all'assenzio ottocentesco proprietà proprie di droghe diverse dall'alcol, quella secondo cui l'assenzio venisse in alcuni casi adulterato con oppio: non esiste infatti nessuna ricetta storica che ne parli. La diceria che l'assenzio venisse spesso bevuto con gocce di laudano nasce per lo più da esaltazioni dei media di rari casi storicamente documentati. Il laudano era assai poco diffuso e solo tra chi se lo poteva veramente permettere, e questi erano soliti utilizzarlo ovunque capitasse (il più delle volte nel vino): è possibile che costoro lo mettessero anche nell'assenzio, poiché l'assenzio era molto bevuto; quest'usanza è perciò da attribuire solo a pochi ricchi oppiomani.

La notevole popolarità che l'assenzio ebbe durante il XIX secolo (grazie anche a prezzi relativamente contenuti e accessibili a tutti i ceti) portò i produttori di vini, cognac e whisky a iniziare una vera e propria guerra contro l'assenzio, guerra che fu prontamente accolta dai governi per poter porre fine al diffuso alcolismo, piaga del XIX secolo francese.

Nei trattati sulla preparazione dell'assenzio di fine ottocento pervenuti, l'assenzio è prodotto solamente per distillazione.

Ogni distilleria utilizza la sua miscela di erbe. Alcune ricette prevedono dai 6 ai 12 ingredienti e ogni distilleria ha i suoi segreti. La base dell'absinthe resta tuttavia la stessa ed è comune a tutte le ricette: il distillato del macerato di artemisia absinthium, semi di anice verde e finocchio.

Nella fabbricazione degli alcolici è possibile trovare preparati con oli essenziali estratti dai vegetali in questione, anche nel caso dell'Assenzio, alcuni produttori utilizzano questo metodo. Ovviamente, si ottiene un prodotto differente da una distillazione diretta dei macerati; ma più economico per la commercializzazione.

L'Assenzio è fonte di discussione in Europa. Infatti il Parlamento Ue ha bocciato la proposta finalizzata a definire la bevanda, chiamata anche 'Fee Verte', o la fata verde, che più di ogni altro prodotto alcolico ha sollevato polemiche. Per 409 voti a favore, 247 contro e 19 astensioni, è arrivato il no dalla corte di Strasburgo. Quindi non esiste un parametro di riferimento per la produzione di questa bevanda.

Si pensava che un eccessivo uso di assenzio conducesse ad effetti che erano specificamente peggiori rispetto a quelli associati ad altre forme di alcol – il che è vero per alcuni dei prodotti meno meticolosamente adulterati (soprattutto quelli colorati con solfato di rame) –, creando lo stato fisico chiamato absintismo, che in realtà sorge soltanto alla stregua dell'alcolismo, da cui non si differenzia, in soggetti dipendenti da questa bevanda.

L'olio essenziale di Artemisia absinthium contiene un terpene chiamato tujone, il quale in dosi elevate può portare a crisi epilettiche, delirium tremens e morte. In realtà le quantità di intossicazione da tujone sono pari a 80-100 g, una quantità impossibile da assumere bevendo assenzio che normalmente non può contenere più di 30-40 mg/kg di tujone.



Un assenzio ben fatto, infatti, deve essere distillato, e gran parte del tujone che non si è perso nella fase di essiccazione dell'Artemisia absinthium (il tujone è estremamente volatile e un buon 70-80% evapora durante questa fase) si perde tagliando la "testa" del distillato. Studi più recenti hanno dimostrato che nell'assenzio distillato correttamente – anche in quelli prodotti seguendo le ricette ed i procedimenti tradizionali – rimane solo una minima quantità di tujone.

In realtà il mito del tujone è da sfatare, poiché già le argomentazioni dell'epoca, che permisero di mettere al bando l'assenzio, facevano riferimento a ben tre sostanze: tujone, anetolo e fenitolo. Probabilmente il tujone è rimasto l'unico componente che crea scalpore, poiché anetolo e fenitolo, che sono tossici tanto quanto il tujone e altre sostanze presenti in comunissime piante di uso quotidiano (come prezzemolo, alloro, rosmarino, noce moscata ecc.), erano più facilmente riscontrabili in molti amari e anisette. Il tujone al contrario era esclusiva di assenzio, vermouth e genepì (che non vennero tuttavia mai incriminati come l'assenzio).

La grafia non francese della parola "Absinth" venne introdotta per le bevande a base di assenzio prodotte nell'Europa centrale (fino all'inizio degli anni novanta). Questi prodotti in realtà avevano a malapena il nome in comune con l'assenzio del XIX secolo. Tipicamente, il basso contenuto di erbe presente in queste bevande impedisce la formazione del "louche".

La leggenda dell'assenzio è resa intrigante proprio da quanto si narra circa il tujone, peraltro uno dei tantissimi oli essenziali presenti.

Sono pochi gli studi scientifici inerenti quest'olio essenziale, e molti di questi non sono oggettivi poiché finanziati all'inizio del XX secolo proprio dai governi che volevano mettere l'assenzio al bando.

Studi condotti negli anni '70 hanno portato (probabilmente in modo erroneo) a considerare il tujone (e i suoi effetti) simili a quelli del THC della cannabis solo perché le due molecole avevano una disposizione spaziale molto simile.

Il tujone in verità è un terpene presente in diverse piante come le artemisie (tra cui l'Artemisia absinthium, ma anche il genepì, ovvero l'Artemisia glacialis) e le salvie (anche la Salvia officinalis usata in cucina). Il suo profumo è molto simile a quello del mentolo e lo troviamo tra gli eccipienti del farmaco da banco "Vicks Vaporub". Ad alti dosaggi il tujone ha effetti devastanti sul sistema nervoso: difficile è definire quali siano questi "alti dosaggi". Gli esperimenti scientifici descrivevano che bastava un grammo di tujone iniettato in vena ad una cavia di laboratorio per portare l'animale al delirium tremens; talvolta, la cavia moriva.

Nell'uomo, il cui peso è notevolmente più grande di quello di una cavia, la forza di resistenza è decisamente superiore: un grammo di tujone iniettato in un porcellino d'India equivarrebbe a 100 grammi per un uomo; non ci sarebbe da meravigliarsi se l'iniezione improvvisa di 100 grammi di tujone in un corpo umano potesse avere come conseguenza disturbi seri o addirittura la morte.

Tuttavia stando ai dati sopra riportati gli assenzi hanno sempre avuto quantità tali di tujone che una persona, per assumerne tali quantità, dovrebbe bere un centinaio di litri di assenzio. Va da sé che l'alcool porterebbe a danni gravi ben prima.

Stesso discorso vale per gli altri due oli essenziali condannati a suo tempo: l'anetolo, ricavato dall'anice e il fenitolo, ricavato dal finocchio.

È vero che la pianta Artemisia absinthium contiene moltissimo tujone, ma questo viene perso quasi tutto per evaporazione durante l'essiccazione, e altro tujone ancora si perde nella "testa" della distillazione. È quindi incorretto stimare, come fece nel 1989 Wilfred Arnold, che gli assenzi storici avessero 250 mg/kg di tujone. Arnold fece questa stima considerando la pianta fresca, senza calcolare né l'essiccazione né la distillazione.

Un noto chimico e biologo americano, Ted Breaux, ha passato gli ultimi 11 anni a studiare l'assenzio per capire se veramente fosse quel veleno che le leggende narrano. Egli estrasse con una siringa l'assenzio da antiche bottiglie del XIX secolo arrivate intatte fino ai nostri giorni e le analizzò. I risultati furono stupefacenti: gran parte degli assenzi d'epoca avevano tujone che andava dai 5 ai 9 mg/kg, e solo qualcuno sfiorava i 20–30 mg/kg. Considerando che le normative CEE permettono un limite massimo di 35 mg/kg di tujone, gran parte degli assenzi storici sarebbe tuttora legale da questo punto di vista.

Non tutto l'assenzio è verde. Anche in passato non tutti gli assenzi erano verdi. Considerando solo i veri assenzi e non quei pericolosi surrogati che già in passato circolavano, i colori andavano dal giallino fino al verde smeraldo, passando per tutte le gradazioni di verde. Alcuni erano lasciati addirittura incolore: questa tipologia ebbe una maggiore diffusione dopo la messa al bando perché più facile da contrabbandare.

Tenendo presente che in un vero assenzio la fase più delicata e complessa è proprio la colorazione, va da sé che gran parte degli assenzi colorati di verdi sgargianti e cristallini non siano vero assenzio, ma qualche surrogato colorato artificialmente; sono davvero pochi ai nostri giorni i veri assenzi, colorati naturalmente come vuole la tradizione, ad essere davvero verdi, e molto spesso sono piuttosto costosi.

L'assenzio per essere definito tale deve assolutamente essere distillato. Non esiste vero assenzio solo macerato o fatto con aggiunta di oli essenziali ed essenze all'alcool, e alcuni produttori senza scrupoli, sapendo che il bevitore di assenzio tende a scartare quei prodotti ottenuti con oli essenziali aggiunti, dichiarano di produrre assenzio distillato semplicemente perché loro stessi preparano gli oli essenziali. Per assenzio distillato al contrario si intendono solamente quegli assenzi distillati direttamente dalle erbe.

La differenza al palato tra un assenzio distillato e uno macerato o fatto con oli essenziali è enorme. I macerati tendono ad essere pesanti e invasivi esattamente come quelli fatti con oli essenziali che inoltre lasciano uno sgradevole senso di "unto" al palato.

Un vero assenzio deve contenere semi di anice verde. L'anice stellato è un ingrediente tipico dei pastis e raramente veniva usato negli assenzi e solo in minime quantità.

L'anice verde ha un sapore molto aromatico, profumato e secco, mentre l'anice stellato (probabilmente l'anice per come è conosciuto in Italia, quello usato per le caramelle e per la sambuca) è estremamente morbido e rotondo e con un sapore che ricorda molto la liquirizia.

Il sapore simile alla liquirizia che si possono notare nei veri assenzi non è dato tanto dall'anice stellato bensì dai semi di finocchio.

Gli assenzi di nuova generazione tendono ad utilizzare enormi quantità di anice stellato, tanto da rendere il sapore generale monotematico.

In un vero assenzio al contrario si devono trovare i profumi e gli aromi di tutte le erbe, per lo meno di quelle principali: l'amarezza piacevole dell'artemisia absinthium nel retrogusto, la morbidezza del finocchio, l'aroma di anice verde, quell'aspetto erbaceo unico dato dall'issopo, la melissa, il coriandolo.

Il sapore dell'assenzio dovrebbe essere un continuo rincorrersi di aromi perfettamente bilanciati: nessun ingrediente dovrebbe dominare.

Gran parte dei prodotti moderni non sono troppo diversi dai pastis, ma ce ne sono anche di qualità, specie se seguono ricette e metodi di distillazione originali.

L'assenzio viene prodotto dall'alcool di vino prodotto esattamente come nell'800 partendo da uve coltivate esattamente come se fossero coltivate negli anni d'oro dell'assenzio e da erbe selvatiche raccolte solo nel periodo di massima maturazione. Anche l'imbottigliamento è autentico: bottiglie dalla forma che rispecchia l'antica bottiglia di absinthe, etichette che ricalcano quasi perfettamente le etichette degli assenzi a cui si rifanno, tappo in sughero e cera lacca.

Dopo la diffusione della notizia secondo cui alcuni crimini violenti sarebbero stati commessi sotto l'influenza diretta della bevanda (risultata successivamente essere falsa, perché questi crimini erano in realtà stati commessi da persone ubriache, che avevano bevuto molto più che i due bicchieri della leggenda) e alla tendenza generale al consumo di superalcolici a causa della carenza di vino in Francia causata dalla fillossera negli anni tra il 1880 e il 1900, le associazioni contro l'uso di alcoolici e quelle dei produttori di vini presero di mira l'assenzio indicandolo come una minaccia sociale.

Affermarono che rende folli e criminali, trasforma gli uomini in selvaggi e costituisce una minaccia per il nostro futuro. Il dipinto di Edgar Degas, L'assenzio, risalente al 1876 (ora conservato al Museo d'Orsay), riassunse la mentalità popolare che vedeva i bevitori "dipendenti" di assenzio come istupiditi e mentalmente offuscati. Émile Zola descrisse le loro gravi intossicazioni nel suo romanzo L'ammazzatoio. Nel 1915 l'assenzio venne ritirato dal commercio in molti paesi e la sua produzione vietata.

Recentemente l'Unione europea ha legalizzato il commercio di assenzio e liquori simili; comunque sono presenti accurati controlli sul livello di tujone presente.

La proibizione dell'assenzio in Francia comportò la nascita di un sostituto dell'assenzio a base di anice stellato (raramente presente nell'assenzio del XIX secolo ma comunissimo nei moderni prodotti) al posto dei semi di anice verde e liquirizia: il pastis. Il pastis, come tutti i liquori a base d'anice furono soggetti a severissimi controlli nei primi anni che ne limitavano la qualità al fine di allontanarli sempre più dal vituperato assenzio: la gradazione alcolica non poteva superare i 32°, non doveva intorbidire con aggiunta di acqua. Successivamente la gradazione alcolica venne portata a 40° ma durante il secondo conflitto mondiale il governo francese proibì i pastis poiché intorbidivano le menti dei soldati in trincea. Solo nel 1951 venne rilegalizzato e per festeggiare tale data la Pernod-Ricard (la multinazionale nata dall'aggregamento di alcune delle più importanti distillerie d'assenzio) mise sul mercato il Pastis51.

La Francia non ha mai abrogato la legge del 1915, ma una legge del 1988 ha chiarito che il divieto riguarda solo le bevande non conformi con le regolamentazioni dell'Unione europea riguardo al contenuto di tujone, o che sono chiamate esplicitamente "assenzio". Questo ha provocato una ricomparsa dei bevitori francesi di assenzio, ora rinominato "spirito a base di piante d'assenzio". Dal momento che la legge del 1915 regolava solo la vendita dell'assenzio ma non la sua produzione, certe aziende francesi producono varianti destinate all'esportazione denominate semplicemente "assenzio".

I primi assenzi a tornare sul mercato erano in realtà poco più di pastis "arricchiti" con ulteriori erbe e a volte aumentati di gradazione.

Man mano che la popolarità di questa nuova generazione di assenzi cresceva, le vecchie distillerie iniziarono a distillare in segreto i loro antichi assenzi, li fecero analizzare e con lo stupore di tutti potevano essere tranquillamente commercializzati poiché il quantitativo di tujone era ben sotto i limiti previsti (la legge prevede 10 mg/kg di tujone per i liquori e 35 mg/kg di tujone per gli amari. Poiché l'assenzio può a tutti gli effetti rientrare nella categoria "amari" il limite è veramente ampio. Non sono noti assenzi del XIX secolo che superassero queste quantità).

Con le direttive 88/388/CEE e 91/71/CEE relative agli aromi destinati a essere impiegati nei prodotti alimentari e ai materiali di base per la loro preparazione, il Consiglio dell'Unione europea e la Commissione europea hanno, tra le altre cose, tolto all'assenzio la condizione d'illegalità, permettendo così ai vari Stati membri di adottare normative che riportassero tale distillato nel libero commercio.

In attuazione di tali direttive, il Governo Andreotti VII ha emanato il Decreto legislativo 25 gennaio 1992, n. 107 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana - Serie Generale n. 39 del 17 febbraio 1992 (Supplemento Ordinario n. 31) ed entrato in vigore il 3 marzo 1992.

Le sue successive modificazioni e integrazioni non hanno sostanzialmente cambiato, nei riguardi dell'assenzio, tale quadro normativo permissivo.

In Italia, in precedenza, in base all'Art. 105 del TULPS vigeva invece un divieto di fabbricazione, importazione e distribuzione per l'assenzio e per le altre bevande la cui gradazione alcolica era superiore al 21%, se aromatizzate con assenzio.

Nei Paesi Bassi una legge datata 1909 proibì la vendita e il consumo di assenzio, ma questa legge fu sfidata con successo da un venditore di vino, tale Menno Boorsma, nel luglio 2004, facendo tornare l'assenzio ancora una volta legale. Tuttavia, i querelanti fecero appello e quindi ci dovrà essere un secondo processo in una corte di livello superiore.

L'assenzio non venne mai vietato in Spagna o Portogallo, dove continua ad essere prodotto.

Negli anni novanta un importatore, BBH Spirits, si accorse che non c'era nessuna legge riguardo alla vendita di assenzio nel Regno Unito (non era mai stato vietato), a parte le regolamentazioni presenti su tutte le bevande alcoliche, e divenne nuovamente disponibile per la prima volta dopo quasi un secolo (anche se tassato in modo proibitivo a causa dell'elevato contenuto di etanolo).

In base a quanto sancito dal United States Customs, «l'importazione di assenzio o altro tipo di liquore contenente Artemisia absinthium è proibita».

L'interpretazione della legge statunitense condivisa dalla maggior parte dei bevitori di assenzio è questa:

È probabilmente illegale vendere prodotti destinati al consumo che contengono absintolo derivato dalla specie dell'artemisia. Questo deriva da un regolamento della Food and Drug Administration (in contrasto con un regolamento della Drug Enforcement Administration).
È probabilmente illegale per uno straniero vendere tali prodotti ad un cittadino statunitense, dal momento che i regolamenti doganali vietano specificatamente l'importazione di "assenzio".
È probabilmente legale comprare tali prodotti per uso personale negli Stati Uniti.
L'assenzio può essere e talvolta è confiscato dalla dogana americana, se sembra essere destinato al consumo.
Un falso-assenzio chiamato Absente, prodotto con Artemisia abrotanum invece che con Artemisia absinthium (assenzio), viene venduto legalmente negli Stati Uniti, sebbene la proibizione della FDA si estenda a tutte le specie di Artemisia, inclusa quindi, in teoria, l'Artemisia dracunculus, conosciuta come dragoncello. Ad ogni modo, l'Absente viene venduto nei negozi di liquore al dettaglio perché la qualità esportabile fatta per gli Stati Uniti non contiene assenzio.

In Svizzera, la proibizione dell'assenzio fu addirittura scritta nella costituzione nel 1907, in seguito a una iniziativa popolare. Nel 2000 questo articolo fu sostituito durante una revisione generale della costituzione, ma la proibizione fu semplicemente spostata nel codice di legge ordinaria. Successivamente questa legge fu revocata, così il 1º marzo 2005, l'assenzio divenne ancora legale nel suo paese d'origine, dopo circa cento anni di proibizione.




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venerdì 3 giugno 2016

LA VODKA




La vodka è tra le bevande alcoliche più antiche e più bevute del mondo.

Trae le sue origini nell'Est Europa, dove si contendono la paternità del nome la Polonia e la Russia. La parola vodka è, in varie lingue slave, diminutivo dei termini corrispondenti all'italiano acqua, ad esempio in russo вода (voda), o in polacco woda, in analogia con l'italiano acquavite che, similmente, designa una bevanda che ha l'aspetto limpido e trasparente dell'acqua (nelle lingue slave l'aggiunta di ka alla fine di una parola o al posto dell'ultima lettera dà un significato vezzeggiativo/diminutivo a quella parola, come l'italiano -ina/-etta). Essa è apparsa scritta, per la prima volta, in Polonia nel 1405 in un registro di Sandomierz Court. Probabilmente si è voluto indicare con il nome di acquetta (con ironico eufemismo) un distillato leggero e pulito nel gusto, ma non certo nel grado alcolico, perché alcune qualità di Vodka superano agevolmente anche il 50% di alcol. È poi interessante sapere che la vodka viene chiamata, nelle località dove si presume sia nata, con parole la cui radice significa "bruciare", per esempio in polacco: gorzałka.

Nel 1520, nella sola Danzica in Polonia operavano già una sessantina di distillerie ufficiali, senza contare quelle clandestine. In Russia, nel 1649, lo Zar Alessio promulgò un codice imperiale per la produzione della vodka; e all'inizio del XVIII secolo i nobili proprietari terrieri avevano l'autorizzazione per detenere un alambicco per piccole produzioni di consumo privato. Qui il termine vodka (con significato moderno) venne scritto in un documento ufficiale risalente al regno dell'imperatrice Caterina II; il decreto, datato 8 giugno 1751, regolava la proprietà di alcune distillerie di vodka. Un'altra possibile origine del termine può essere trovata nelle cronache di Novgorod, dell'anno 1533, dove il termine "vodka" è stato utilizzato nel contesto di tinture alcoliche.

La vodka fu diffusa in Europa da Napoleone. Egli ebbe modo di conoscere il distillato durante la campagna di Russia nel 1812, cui fece seguito la disastrosa ritirata. Per scaldare le sue truppe, rimaste senza alcolici e cibo a causa dell'eccessivo allungamento della catena degli approvvigionamenti, razziò ingenti quantità di vodka quale rimedio all'attacco del nemico più temibile: il freddo del Generale Inverno.

La vera diffusione della vodka in Europa arrivò dopo la Rivoluzione Russa nel 1917, con la presa del potere da parte dei bolscevichi guidati da Lenin. Parecchi esuli russi, appartenenti alla nobiltà proprietaria dei segreti della distillazione, emigrarono in Francia per salvarsi dalle epurazioni di massa volute dal regime comunista. Il più famoso esule è sicuramente Piotr Smirnoff il quale si vide confiscato lo stabilimento, fondato nel 1860. Emigrò in Turchia per sfuggire alla caccia mortale, e poi in Polonia, dove aprì una distilleria, per decidere poi nel 1925 di stabilirsi definitivamente a Parigi, dove cambiò il nome in Pierre. Vicende analoghe sono quella di Romanoff e quella del conte Keglevich che trovò rifugio a Trieste. Altra situazione simile visse il principe Nikolai Alexandrovich, titolare di Eristoff, la cui distilleria fu aperta nel 1806.

Oggi in Polonia e Russia sono migliaia le distillerie che producono questa bevanda. Si produce un'ottima vodka anche in quasi tutti i paesi dell'Est e del Nord Europa, i quali sono anche ottimi consumatori, con tradizioni che si tramandano da secoli. Nell'Europa Occidentale e nel Nord America la diffusione su larga scala ha invece una storia più recente. Essa raramente veniva bevuta al di fuori dell'Europa orientale prima del 1950 ma la sua popolarità fu estesa anche al Nuovo Mondo in seguito al dopoguerra francese. Nel 1975, negli Stati Uniti d'America, sorpassò le vendite del bourbon whiskey, fino ad allora il liquore più bevuto dalla popolazione americana. Anche se la vodka non appartiene alla cultura italiana, in questi ultimi anni è aumentata nel paese sia la produzione che il consumo della bevanda. Si può quindi ormai definire la vodka una bevanda conosciuta e prodotta su scala mondiale.

Narra una leggenda russa, che i cavalieri cosacchi durante un attacco, si trovarono di fronte ad un lago che ne ostacolava il passaggio. Il rapido dileguarsi del nemico impediva la perdita di tempo nella costruzione di un pontone. Il pope che accompagnava il reggimento cosacco, benedisse allora l'acqua del lago trasformandola in vodka così che cavalli e cavalieri poterono berla e passare dall'altra sponda.

Un luogo comune molto diffuso è quello di attribuire alla vodka una aura di purezza, come se fosse il più puro degli alcolici, dovuta presumibilmente al suo aspetto limpido e cristallino.

La vodka originale è ricavata dalla distillazione di patate o cereali fermentati, anche se alcune varietà più moderne utilizzano substrati differenti, come la frutta o lo zucchero raffinato.
Dal 1890, grazie alle direttive del chimico russo Dmitrij Mendeleev, la vodka standard di origine russa, ucraina, estone, polacca, lettone, lituana e ceca, deve contenere una percentuale di alcol pari al 40% in volume (80 proof). D'altro canto, l'Unione Europea (UE) ha stabilito un minimo di 37,5% vol. per qualsiasi vodka (caratteristica imprescindibile per rientrare in tale categoria). I tipi di vodka venduti negli Stati Uniti d'America, invece, possiedono una gradazione alcolica minima del 40% vol..
La vodka viene bevuta tradizionalmente liscia e spesso refrigerata (soprattutto nei paesi dell'Europa Orientale che si affacciano sul Mar Baltico). E' anche comunemente usata nella formulazione di diversi cocktail e bevande di vario genere, come: vodka martini, vodka tonic, Screwdriver, Greyhound, Black o White Russian, Bloody Mary e Sex on the Beach.



La vodka è una bevanda "vuota", ovvero che non possiede nutrienti utili per la salute..
Le malattie che subiscono negativamente l'assunzione di vodka sono molte e di vario genere; tra quelle metaboliche in particolar modo: l'ipertensione, l'ipertrigliceridemia e la sindrome metabolica conclamata. Parallelamente, nuoce gravemente ai tessuti di certi organi come: reni, fegato e pancreas, aggravando o predisponendo all'insufficienza renale e/o epatica, a pancreatiti, neoplasie ecc. Va poi rammentato che l'alcol etilico risulta particolarmente irritante per le mucose, ad esempio quella dell'esofago, dello stomaco e dell'intestino, ed aumenta significativamente la secrezione acida gastrica. Tale condizione predispone all'aggravamento di patologie infiammatorie idiopatiche e non (come il morbo di Crohn e la retto-colite ulcerosa) e può anche originarne di nuove (coliti ad eziologia alimentare o mista e gastriti); a queste si possono accodare varie tipologie di complicanze, come l'ulcera gastrica o duodenale, il reflusso gastro-esofageo e l'esofago di Barrett (verosimilmente evolvibile in tumore dell'esofago).
In ambito sportivo, la vodka dovrebbe essere evitata o, tutt'al più, consumata nell'opportuna razione raccomandata. Ciò è giustificabile dal fatto che l'alcol etilico favorisce la disidratazione per aumento della diuresi, aspetto negativo in quanto peggiora il bilancio idro-salino già di per sé compromesso dalla sudorazione intensa. Infine, seppur con una certa variabilità, l'alcol interferisce con i cicli del sonno e non permette un riposo sufficiente al sistema nervoso centrale. 
L'alcol interferisce anche nell'assorbimento e nel metabolismo dei farmaci e che, in caso d'abuso, aumenta il rischio di malassorbimento nutrizionale. 

Pur essendo illegale, in alcuni paesi dell'est europeo è particolarmente diffusa la produzione di vodka fatta in casa (detta "da vasca da bagno"), poiché esentasse e facilmente vendibile a minor prezzo. Tuttavia, la distillazione non controllata della vodka conduce all'assunzione di elementi tossici che possono provocare: intossicazione, cecità o morte.
Nel 2007, in seguito alla manifestazione di ittero in diversi soggetti russi, è stato scoperto che nella produzione casalinga di vodka veniva utilizzato un disinfettante industriale che apporta fino al 95% di etanolo; ovviamente, oltre a quest'ultimo, il prodotto conteneva molti altri composti, tra i quali uno altamente tossico per il fegato. L'esito fu di oltre 1.000 casi di avvelenamento, dei quali 120 giunsero al decesso; purtroppo, anche i superstiti sono oggi destinati a perire, in quanto la cirrosi provocata dall'avvelenamento è potenzialmente fatale nel lungo termine.
Oltre a questo episodio, le stime documentano un volume di decessi annuo a causa della vodka che (solo in Russia) raggiunge centinaia di migliaia di casi all'anno.

La vodka può essere prodotta da qualsiasi substrato amidaceo o zuccherino. Oggi, è ricavata prevalentemente da cereali come: sorgo, mais, segale e frumento (queste ultime due sono considerate le migliori). Certe vodka sono prodotte a partire dalle patate, dalla melassa, dalla soia, dall'uva, dal riso, dalle barbabietole da zucchero e, talvolta, sono perfino sottoprodotti della raffinazione dell'olio o della trasformazione del legno (40 degrees east: an anatomy of vodka - Nova Publihers).
Nonostante i paesi che rispettano un certo disciplinare di produzione insistano per una maggior tutela della bevanda, altre nazioni dell'Europa Centrale (come la Polonia) producono la vodka mediante la fermentazione di una soluzione di saccarosio, acqua e lieviti, piuttosto che da cereali interi. Negli Stati Uniti, molte vodka vengono prodotte utilizzando etanolo puro al 95% (distribuito da Archer Daniels Midland e Midwest Grain Processors); gli imbottigliatori acquistano l'alcol in grandi quantità, lo filtrano, lo diluiscono e commercializzano il prodotto con nomi che ricordano molto il termine "vodka".

La vodka in vendita in Italia è disponibile in un'infinità di gusti diversi ma in realtà è sempre lo stesso scadente prodotto a cui sono aggiunti sciroppi ed estratti di vari sapori per renderla più bevibile.

La vodka è un distillato che va bevuto liscio e freddo (ma non ghiacciato) per assaporarla meglio in tutta la sua pienezza, secondo la tradizione dei Paesi d'origine. Va servita nel classico bicchiere da vodka russo che non è a forma di provetta, come si usa scorrettamente, ma è un piccolo calice a pareti svasate, tale da consentire di bere il distillato non tutto di un fiato, ma in modo da dare la possibilità di assumerne insieme piccoli snack, vivande o un sorso d'acqua. È ottima anche nella preparazione di primi piatti italiani, come anche per cocktail e long drink. Riesce sempre ad unirsi al meglio con gli altri ingredienti senza mai prevalere, donando, alla bevuta, una piacevole armonia di gusto.

Essa può essere servita con la decorazione di una fettina di agrumi, od oliva, o ciliegina rossa. La tradizione slava preferisce l'accompagnamento con antipasti salati e verdure marinate, in particolare cetriolini: la vodka gioca infatti un ruolo da protagonista nel tipico buffet russo denominato zakuska.



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venerdì 8 aprile 2016

LA BISCIOLA



La bisciola, anche chiamata Pan di fich o Panettone valtellinese, è il dolce tipico della Valtellina.

La bisciola è una pagnottella arricchita con frutta secca, burro, uova e in alcune ricette anche miele. Ha un contenuto calorico elevato e durante le feste prende spesso il posto occupato in altre zone dal panettone.

Esiste una versione più povera ed economica della besciola, i Basin de sundri.

La leggenda narra che quando le truppe napoleoniche invasero il Nord Italia, nel 1797, avanzarono fino in Valtellina dove vi fece tappa lo stesso Napoleone. In quell'occasione l'imperatore chiese al proprio cuoco di preparare un dolce che fu confezionato con gli ingredienti disponibili nella nostra valle: da qui nacque la Bisciola. Leggenda a parte, la Bisciola è certamente un dolce di antiche tradizioni tramandate da oltre duecento anni. Lo stesso veniva offerto in occasione delle feste natalizie e la sua preparazione iniziava già dai primi mesi autunnali, periodo in cui le massaie raccoglievano, essiccavano e custodivano i frutti della nostra valle per poi utilizzarli nella realizzazione delle Bisciole.

Per degustare la Bisciola  si consiglia di avvicinarla, prima del consumo, ad una fonte di calore e di tagliarla a fette sottili. Questo dolce può essere accompagnato con panna montata o spruzzato con una buona grappa bianca.




Ingredienti
100 g di latte intero
2 uova – 40 g di burro
40 g di zucchero
200 g di farina bianca
1/2 bustina di lievito
1 pizzico di sale
scorza grattugiata di 1 limone
100 g di noci – 20 g di pinoli
100 g di uva sultanina
60 g di nocciole
150 g di fichi secchi

Vino consigliato: Valtellina D.O.C. Sforzato  

Versare in una ciotola, o nell’impastatore, il latte, un uovo, il burro ammorbidito, lo zucchero, la farina miscelata col lievito, il sale.
Impastare sino ad ottenere una pasta liscia, omogenea e abbastanza morbida.
Aggiungere la scorza di limone, tutta la frutta secca sminuzzata ed impastare accuratamente.
Versare l’impasto su un tavolo infarinato, lavorarlo accuratamente dandogli una forma allungata e deporlo sulla teglia del forno imburrata.
Incidere la bisciola longitudinalmente, per far si’ che durante la cottura si apra e possa cuocere meglio.
Pennellare il dolce con l’uovo sbattuto e mettere in forno a 160ÅãC-180ÅãC per trenta o quaranta minuti.
Le fette di bisciola si possono accompagnare con panna montata o, come un tempo, si possono appena imbibire nella grappa.



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domenica 20 marzo 2016

IL RAGU'



Con il termine di origine francese "Ragout" si identificano generalmente preparazioni di carne, pesce o verdura tagliate a pezzi, a cottura "in umido" relativamente lunga.
La parola "Ragù", della stessa derivazione francese, indica ricette abbastanza diverse tra loro ma accomunate dall'uso di carne cotta in un sugo di solito destinato a condire la pasta. Fondamentalmente i tipi di ragù sono due: uno a base di carne tritata e l'altro con un pezzo di carne intera cotta molto lentamente. Al primo genere di ragù (carne tritata) appartengono quelli emiliani (bolognese) e altri come il sardo o il barese. Al secondo tipo di ragù (carne intera) si associano quelli di alcune regioni meridionali. Esistono poi preparazioni così dette "al ragù" (involti grossi o piccoli di carne al ragù, braciole al ragù ecc.), prepararate con una fetta di carne disposta attorno ad elementi aromatici, che appartengono di solito alla tradizione delle regioni meridionali.
In ogni caso di tutti i tipi di ragù esistono diverse varianti in ogni area.
Di particolare fama è la versione del ragù cantata da Eduardo De Filippo in “Sabato, domenica e lunedì” e da Giuseppe Marotto ne “L’oro di Napoli”, ricetta dall'interminabile cottura servita sia di condimento alla pasta che come secondo.
«Fin dalle primissime ore del mattino un tenero vapore si congeda dai tegami di terracotta in cui diventa bionda la cipolla ed esala le sue nobili essenze il rametto di basilico appena colto sul davanzale». Così inizia il poemetto in prosa che Don Peppino dedica all'impareggiabile salsa con la quale a Napoli si condisce il vero cuore del convivio: la pasta. Perché il risultato sia quello ideale, e non comune carne col pomodoro, il ragù non deve mai essere abbandonato a se stesso durante le varie fasi della cottura, perché «un ragù negletto cessa di essere un ragù e anzi perde ogni possibilità di diventarlo».
Scelto con cura il pezzo di carne (né magro né grasso) che sta alla base della ricetta, lo si mette nel tegame sorvegliando la rosolatura e poi spalmando «a scientifici intervalli» strati di conserva. Entrano quindi in gioco il fuoco e il cucchiaio: lentissimo il primo, sensibile il secondo a capire il momento in cui intervenire.
La lunghissima cottura necessaria alla ricetta, reclamando una vigile sorveglianza, faceva si che i migliori ragù fossero ritenuti quelli “dei portieri”, cioè i portinai, che dalla guardiola potevano svolgere la doppia funzione di controllo, sia della casa che della cucina dove il ragù “pipiava” (sobbolliva).
Questa preparazione è una vera golosità se vi si ricopre una fetta di pane.

Secondo la leggenda, a Napoli alla fine del Trecento esisteva la Compagnia dei Bianchi di giustizia che percorreva la città a piedi invocando "misericordia e pace". La compagnia giunse presso il "Palazzo dell'Imperatore" tuttora esistente in via Tribunali, che fu dimora di Carlo, imperatore di Costantinopoli e di Maria di Valois figlia di re Carlo d'Angiò. All'epoca il palazzo era abitato da un signore nemico di tutti, tanto scortese quanto crudele, e che tutti cercavano di evitare. La predicazione della compagnia convinse la popolazione a rappacificarsi con i propri nemici, ma solo il nobile che risiedeva nel "Palazzo dell'Imperatore" decise di non accettare l'invito dei bianchi nutrendo da sempre antichi e tenaci rancori. Non cedette neanche quando il figliolo di tre mesi, in braccio alla balia sfilò le manine dalle fasce ed incrociandole gridò tre volte: "Misericordia e pace". Il nobile era accecato dall'ira, serbava rancore e vendetta, ed un giorno la sua donna, per intenerirlo gli preparò un piatto di maccheroni. La provvidenza riempì il piatto di una salsa piena di sangue. Finalmente, commosso dal prodigio, l'ostinato signore, si rappacificò con i suoi nemici e vestì il bianco saio della Compagnia. Sua moglie in seguito all'inaspettata decisione, preparò di nuovo i maccheroni, che anche quella volta, come per magia, divennero rossi. Ma quel misterioso intingolo aveva uno strano ed invitante profumo, molto buono ed il Signore nell'assaggiarla trovò che era veramente buona e saporita. La chiamo' così "raù" lo stesso nome del suo bambino.

Originariamente costituiva il piatto unico della domenica, in quanto il sugo veniva utilizzato per condire la pasta, e la carne consumata come seconda portata. I tipi di carne impiegati nella preparazione del ragù sono numerosi, e possono variare anche da quartiere a quartiere, ed inoltre, questa non è macinata ma è cotta a pezzi grossi, da 500 g fino a un kg, tagliati a mo' di grossa bistecca, farcita con ingredienti vari (uvetta, pinoli, formaggio, salame o lardo, noce moscata, prezzemolo) e legata con uno spago. Generalmente viene utilizzato un misto di carne di manzo (tagli anteriori e poco pregiati, che necessitano di lunga cottura) e di maiale. Troviamo il muscolo di manzo (gamboncello o colarda), le spuntature di maiale (tracchie), l'involtino di cotenna (cotica), la polpetta e la braciola, termine che viene usato però per indicare un involtino di carne di manzo ripieno con aglio, prezzemolo, pinoli, uva passa e dadini di formaggio.

Tradizionalmente, la preparazione del ragù inizia di buon mattino, se non il sabato sera, in quanto la salsa deve addensarsi molto, cuocendo a fuoco lento, fino a diventare di una consistenza molto cremosa, prima di poter condire degnamente una buona pastasciutta. In molte varianti del ragù napoletano viene impiegato anche un cucchiaio di concentrato di pomodoro.

Il ragù non è la carne c''a pummarola, come recita la poesia di Eduardo. Non è di facile realizzazione ed inoltre per essere saporito come quello della mamma del de Filippo richiede una lunghissima cottura. Attualmente si usa chiamare ragù un sugo di pomodoro nel quale si è cotta della carne. Il ragù, come recita Eduardo, veniva cotto su di una fornacella a carbone e doveva cuocere per almeno sei ore.

La pentola in cui si dovrebbe cuocere è un tegame di rame, e per rimestarlo occorre la cucchiarella (il cucchiaio di legno). Il ragù napoletano è il piatto tipico domenicale e base per altre pietanze altrettanto saporite, come ad esempio la tipica lasagna che a Napoli viene preparata con una grande quantità di ingredienti durante il periodo di Carnevale.

Ingredienti:
1 kg di spezzatino di vitello
2 cipolle medie
2 litri di passata di pomodoro
un cucchiaio di concentrato di pomodoro
200 g. di olio d'oliva
6 tracchiulelle (costine di maiale)
1/4 di litro di vino rosso preferibilmente di Gragnano
basilico
sale q.b.
È consigliabile prepararlo il giorno prima mettendo la carne nel tegame, unitamente alle cipolle affettate sottilmente e all'olio. Carne e cipolla dovranno rosolare insieme: la prima facendo la sua crosta scura, le seconde dovranno man mano appassire senza bruciare. Per ottenere questo risultato, bisogna rimanere ai fornelli, pronti a rimestare con la cucchiarella di legno,e bagnare con il vino, appena il sugo si sarà asciugato: le cipolle si dovranno consumare, fino quasi a dileguarsi. Quando la carne sarà diventata di un bel colore dorato, sciogliete il cucchiaio di conserva nel tegame e aggiungete la passata di pomodoro. Regolate di sale e mettete a cuocere a fuoco bassissimo, il ragù dovrà, come si dice a Napoli, "pappuliare", parola onomatopeica che ben descrive il suono del ragù che cioè dovrà sobbollire a malapena. A quel punto coprirete il tegame con un coperchio, senza chiuderlo del tutto. Il ragù dovrà cuocere per almeno tre ore, di tanto in tanto rimestatelo facendo attenzione che non si attacchi sul fondo della pentola.



Uno dei ragù più classici è quello alla bolognese, che tradizionalmente condisce le tagliatelle e, insieme alla besciamella, anche le famose lasagne alla bolognese. È perfetto con tutte le paste fresche, anche ripiene, come i tortellini.

Un uso molto comune all'estero del ragù è per condire gli spaghetti (erroneamente chiamati spaghetti alla bolognese), piuttosto comuni nel Nord Europa e venduti perfino in lattina: tale piatto, ormai diffuso anche in Italia, non è certamente da attribuirsi alla cucina bolognese, in quanto gli spaghetti non fanno parte della tradizione emiliana che ha sempre preferito la sfoglia all'uovo, solitamente fresca, rispetto alle paste di semola di grano duro, più tipicamente meridionali e generalmente secche.

Il ragù potentino, noto come ndrupp'c, è il ragù tipico tradizionale della città di Potenza, capoluogo della Basilicata.

Il ragù all'intoppo, "'ndrupp'c" appunto, si prepara facendo rosolare, almeno, carne bovina (muscolo di manzo) e suina (il cosiddetto salame pezzente), ma spesso anche di altri animali (es. agnello o carni bianche come coniglio o pollame), in olio di oliva insieme a spicchi di aglio, per poi ricoprire il tutto di salsa di pomodoro e far sobbollire per tre ore. Il sapore caratteristico di questa preparazione deriva dal salame pezzente, un salume artigianale molto grasso, aromatizzato con peperone secco in polvere, semi di finocchio e conservato previa leggera affumicatura. Il nome richiama il gesto di inciampare in qualcosa, è dovuto all'uso di presentare, nel piatto, la pasta insieme ai pezzi di carne e di salame, che vengono così ad ostacolare la forchetta durante l'infilzata. È tradizione aggiungere peperoncino fresco, secco o sott'olio in quantità e, nel periodo di Carnevale, rizoma di rafano grattugiato al momento.

Questo tipo di ragù viene accostato a paste fresche, preparate secondo la tradizione tipica della pasta secca meridionale, confezionata in forme tipiche della cucina lucana. In particolare, lo "'ndrupp'c" viene utilizzato per condire i cosiddetti fusilli, detti anche ferretti, sorta di corti e grossolani bucatini, 10 cm di lunghezza per 6–7 mm di diametro, realizzati facendo arrotolare pezzi di pasta fresca attorno a uno spiedo in ferro. Soprattutto, lo "'ndrupp'c" viene usato per condire gli strascinati, sorta di orecchiette pugliesi, ma più grandi e "aperte", preparati trascinando con tre dita un po' di pasta fresca: il pezzo singolo assume così la forma di una sottile e larga pizzetta, liscia su di un lato e rugosa sull'altro. Degli strascinati esistono varianti da quattro fino a otto dita, in cui il singolo pezzo viene trascinato con la punta delle dita di entrambe le mani. È un'abitudine della cucina lucana condire con lo "'ndrupp'c" un piatto misto di ferretti e strascinati.



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venerdì 29 gennaio 2016

LA MARMELLATA



Nonostante nel gergo comune i termini confettura e marmellata siano sinonimi, dal 1982, per effetto di una direttiva comunitaria, solo prodotti ottenuti da agrumi possono essere venduti nell'Unione europea con la denominazione di "marmellata", mentre tutte le altre preparazioni vanno chiamate confettura.

Il nome probabilmente deriva dalla parola portoghese marmelo, per mela cotogna. Diffusa in quasi ogni paese, ha generato una serie di leggende sulla sua origine, che spesso coinvolgono personaggi reali come Elisabetta d'Inghilterra o Maria de' Medici. Si dice, infatti, che i cuochi fiorentini che aveva portato con sé, preparassero per la regina di Francia indisposta e debole dopo una gravidanza, una gelatina ricostituente a base di agrumi. La gelatina piacque tanto alla regina che ne ordinò una gran quantità. Essa fu riposta in vasi con la scritta francese "pour marie malade" da cui verrebbe il francese "marmalade". Già gli antichi greci conservavano le mele cotogne cuocendole lentamente per addensare gli zuccheri contenuti. L'addensamento del composto ottenuto si ha durante il raffreddamento, ad effetto della azione della pectina.

È da notare comunque che, prima dell'avvento dello zucchero, evento alquanto recente, l'unico dolcificante conosciuto oltre ai succhi di frutta (Sapa) era il miele, materiale costosissimo, usato dai ceti poveri come merce di scambio per avere prodotti essenziali, piuttosto che per il consumo diretto.

Il termine "mela di miele" non deriverebbe perciò dalla aggiunta di miele, ma per il fatto, facile da verificare, che la polpa del frutto che è praticamente immangiabile anche in fase di maturità, pochissimo dolce, dura, e piuttosto acre, subisce con la cottura, prima di qualsiasi aggiunta di eventuali addolcenti, una trasformazione drastica degli zuccheri a lunga catena contenuti (quindi "poco dolci") in zuccheri decisamente "dolci", con uno spiccato profumo di miele.

Una preparazione affine è quella della canditura della frutta o della verdura, considerata un regalo principesco nello stesso periodo. È tuttavia probabile che entrambe le tecniche siano ben più antiche: la cottura e, insieme, la concentrazione degli zuccheri assicurano una lunga conservazione della frutta, altrimenti impossibile in epoche prive di sistemi di refrigerazione.

Nella marmellata, confettura, gelatina, composta il principio delle quattro preparazioni è identico. Il risultato varia, però, leggermente. Nella terminologia attuale con marmellata si intende una crema cotta di zucchero e agrumi a pezzetti (limone, arancia, mandarino, e più raramente di pompelmo, clementina, cedro e bergamotto).
La confettura indica la stessa preparazione riferita agli altri tipi di frutta.
La gelatina di frutta viene prodotta con zucchero e succo della frutta, senza polpa o buccia, ed è maggiormente usata in pasticceria per apricottare i dolci prima di glassarli. Compare anche come ingrediente di creme dolci.

La legge prevede che la percentuale di frutta non debba scendere, in ogni caso, sotto il 20%.
Marmellata, confettura o gelatina vengono definite extra se il tenore di frutta è di almeno il 45% e solitamente ne hanno il 35% o 40%.

La composta di frutta si distingue dalla marmellata o dalla confettura per il maggior contenuto di frutta e conseguentemente il minor quantitativo di zucchero aggiunto. La percentuale di frutta deve essere, per legge, superiore al 65%.

La frutta viene mondata delle parti di scarto, tagliata a pezzetti e cotta a lungo nello zucchero sino a che diventa cremosa. Viene quindi messa, bollente, in barattoli. Una volta tappati il calore residuo del composto si occupa di sterilizzarli. La marmellata viene consumata dopo qualche tempo dalla preparazione.

L'aggiunta di piccole quantità di pectina riduce drasticamente i tempi di cottura necessari per ottenere l'addensamento, portandoli da ore a minuti; per tale motivo è comunemente utilizzata nella produzione industriale ma può facilmente essere reperita anche per uso domestico. Viene quindi messa (bollente) in barattoli, subito tappati e messi capovolti (dalla parte del tappo) in mezzo a coperte fino a raffreddamento (questa operazione serve per sterilizzare, con il calore del composto, anche la parte interna del tappo, evitando la formazione di muffe). La piccola quantità di aria che rimane nel barattolo, raffreddandosi, diminuisce di volume e si forma quindi il sottovuoto.

Oggi la produzione industriale inscatola marmellate usando esclusivamente il metodo del sottovuoto e con doppia sterilizzazione: questa tecnica, eseguibile anche in ambito casalingo, evita la crescita di muffe. Il botulino invece non può svilupparsi nella marmellata né nelle confetture perché il loro tenore di zucchero è letale per questo batterio anaerobico; le contaminazioni da botulino nei prodotti casalinghi sono spesso riscontrabili nei sottoli. Lo zucchero o miele rappresenta circa il 40-50% del peso totale: la marmellata è sostanzialmente metà frutta e metà zucchero.



La marmellata e la confettura vengono conservate in vasetti di vetro in genere sottoposti a un doppio processo di sterilizzazione e sotto vuoto. Sia quelle artigianali sia quelle industriali possono essere conservate fuori dal frigorifero finché restano sigillate, ma vanno tenute in frigo una volta aperte, e consumate in genere entro tre settimane. Se si notano rigonfiamenti nel tappo, alterazioni nel colore e formazioni di muffe, è bene gettare marmellata e vasetto senza consumarla.

La marmellata è un alimento glucidico con valori nutrizionali variabili, tra le 130 kcal e le 260 kcal ad etto. Gli zuccheri totali dovrebbero stare (idealmente) tra i 35 e i 40 grammi per 100 grammi di prodotto (corrispondenti a 140-200 calorie per etto). L'etichetta del prodotto deve obbligatoriamente riportare alcuni dati, fra cui la quantità di zuccheri presenti in 100 grammi di prodotto, e la quantità di frutta utilizzata, sempre in 100 grammi. Come già segnalato, per legge la frutta deve rappresentare almeno il 20 per cento del totale nelle marmellate, il 35 per cento nelle confetture e il 45 per cento nelle confetture extra. Sempre per legge non è consentito aggiungere coloranti e conservanti al prodotto; l'unico additivo utilizzabile è la pectina, un enzima presente nella frutta fondamentale per il processo di gelificazione.

Preparare marmellate e confetture in casa non è difficile, e i risultati sono generalmente ottimi. L'unico imperativo categorico da rispettare è quello delle norme igieniche: è fondamentale seguire accorgimenti, come la doppia sterilizzazione dei vasetti, indispensabili ad esempio per distruggere eventuali spore di botulino che possono svilupparsi nelle conserve.
Ingredienti:
Frutta
zucchero
un preparato a base di pectina.
La quantità di zucchero dipende dalla dolcezza o acidità dei frutti scelti per la marmellata; può variare quindi da 500 grammi a un chilo, per ogni chilo di frutta.
Materiali:
Una pentola bassa e larga di rame o acciaio inox (mai di alluminio)
vasetti di vetro con chiusura sottovuoto e guarnizioni nuove
una pentola alta e larga
un mestolo di legno
un piatto.

Lavare la frutta ed eliminare le impurità. Evitare, tranne nel caso degli agrumi, di sbucciarla (la buccia contiene generalmente la pectina necessaria alla gelificazione). Sminuzzare la frutta in parti piccolissime e versarla nella pentola di rame o acciaio inox. Contemporaneamente, far bollire dell'acqua nella pentola più grande, ed immergervi i vasetti aperti che dovranno contenere la marmellata. Lasciarli in acqua bollente per circa dieci minuti.
Far bollire la frutta su fiamma media, mescolare senza interruzione e aggiungere gradualmente lo zucchero. Eliminare schiuma ed eventuali impurità. Se si vuole aggiungere il preparato a base di pectina, abbassare la fiamma, mescolare aggiungendo il preparato, e poi riportare a ebollizione.
Mantenere l'ebollizione per circa cinque minuti, senza aggiungere acqua. Abbassare la fiamma al minimo, e posare una cucchiaiata di marmellata su un piatto appena tolto dal frigo: il composto deve essere compatto e scivolare solo leggermente. Se risulta troppo liquido, aggiungere il succo di un limone per ogni chilo di frutta e riportare a ebollizione finché la marmellata raggiunge la consistenza desiderata.
Versare la marmellata nei vasetti sterilizzati, lasciando tre centimetri di distanza dal tappo, chiudere immediatamente sigillandoli con il tappo ermetico, capovolgerli per cinque minuti, quindi immergerli nella pentola per la sterilizzazione riempita con nuova acqua. Portare l'acqua a ebollizione e poi sobbollire per circa mezz'ora, quindi estrarre i vasetti, asciugarli e riporli in luogo fresco e riparato dalla luce.
La marmellata fatta in casa va consumata entro un anno; una volta aperta, va conservata in frigo e consumata entro venti giorni al massimo. Se il tappo risulta gonfio, se la marmellata subisce alterazioni di colore o presenta muffa, il vasetto va immediatamente buttato.



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mercoledì 9 dicembre 2015

IL CARBONE




La Befana è una figura tradizionale diffusa in tutta Italia: secondo la leggenda sarebbe una vecchia signora che, la notte del 6 gennaio, arriva nelle case a cavallo di una scopa per riempire le calze dei bambini con dolci (per i buoni) o carbone (per i “cattivi”).

L’origine di questo personaggio è probabilmente legato alle antiche credenze pagane, che la collegherebbero alla figura di Madre Natura e alla simbologia della rinascita. Ciò spiegherebbe l’aspetto anziano della Befana, che incarna l’anno vecchio che se ne va per lasciare posto al nuovo. Per questo in diverse zone d’Italia, in questo periodo, c’è l’usanza di bruciare un fantoccio raffigurante donna anziana, per salutare simbolicamente l’anno passato.

Nella mitologia germanica, troviamo figure analoghe a quella della Befana: anche queste sono legate alla Natura, e per questo la Befana è portatrice di doni golosi e abbondanza (per chi li merita) ma anche di aridità e sterilità – il carbone – per chi non si è impegnato a sufficienza. Un’altra leggenda di matrice cristiana vede l’origine della Befana in questa storia: la notte dell’Epifania, i Re Magi si fermarono alla porta di una anziana signora per chiedere la strada per arrivare da Gesù Bambino. La vecchia rifiutò di aiutarli, ma poi si pentì, preparò un cesto di dolci e andò di casa in casa a cercarli, ma senza trovarli. Da allora girerebbe il mondo, regalando dolci ai bambini, per farsi perdonare del suo egoismo.

Il 6 gennaio è atteso da grandi e piccini: tutti sperano di trovare nella calza il delizioso e super zuccherino carbone della befana. Ebbene se ne ricevete 100 gr avrete anche in regalo 410 calorie, ma considerando che è un dolce che si mangia davvero una volta l'anno ne vale decisamente la pena!



La ricetta è semplice e veloce da preparare, con zucchero, albume di uovo e colorante si riesce a preparare il dolce perfetto da inserire dentro la calza dei bambini!

Ingredienti
Zucchero a velo: 100 gr
Zucchero semolato: 400 gr
Uova: 1 albume
Alcool puro: 1 cucchiaio
Colorante alimentare: q.b.
Ricetta e preparazione
In una pentola dal fondo spesso, mettete 300 gr di zucchero semolato, ricoprite interamente di acqua fredda, mescolate velocemente e lasciatelo sciogliere per una decina di minuti, o almeno fino a quando il caramello non si imbiondisce.
Nel frattempo montate a neve l’albume sino a raggiungere una consistenza ben solida, unite lo zucchero semolato rimasto, l’alcool, lo zucchero a velo e il colorante alimentare.
Quando il caramello comincia a diventare biondo, aggiungete la glassa e mescolate velocemente per amalgamare bene tutti gli ingredienti e aspettate qualche minuto fino a quando il composti non si gonfi.
Versate il composto in uno stampo antiaderente e con i bordi alti e schiacciate bene per renderlo ben compatto. Una volta raffreddato, rompetelo in pezzi e mettete insieme agli altri dolci questo carbone gustosissimo!

Per colorare il vostro carbone, potete sbizzarrirvi fra tantissimi colori. Il colorante nero invece è molto difficile da reperire, a meno che non vi rivolgiate ad un pasticcere ben rifornito.

In alternativa potete mescolare insieme il giallo, il rosso e il blu, il risultato non è un vero e proprio nero ma almeno è quello che più si avvicina. Il carbone dolce della befana si conserva anche per un mese in un luogo fresco e asciutto, ben chiuso in un sacchetto di plastica o in una scatola di latta.




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IL TUO FUTURO E' ADESSO .
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giovedì 1 novembre 2012

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