Archivio storico de
L’Eco
di Roccasecca
Un estratto dalla
“Edizione speciale monografica” del Novembre 1998,
Anno 3, n.17 de L’Eco di Roccasecca, ci
riporta ad un testo di cinquanta anni fa dedicato alla
Ciociaria. Trattandosi di un numero di quasi 10 anni orsono
pensiamo di far cosa gradita, riproponendo queste tre belle
paginette, soprattutto agli appassionati di argomenti
“ciociari”.
Buona ri-lettura a tutti!
Ancora alcune pagine
"auliche", questa volta di Anton Giulio Bragaglia (Ciociaria,
1957) che ci propone un saggio in cui tratta di cose
ciociare tra la linguistica, la storia, la geografia,
l’epica, il teatro, la poesia e, soprattutto, i sentimenti
di un innamorato perso di questa terra. Ben volentieri
rinfreschiamo queste pagine scritte lontane nel tempo e le
consegniamo ai nostri lettori. Il titolo ricorda,
curiosamente, un romanzo “alternativo” di grande successo
negli anni ‘70 ("Porci con le ali"), ma è superfluo
precisare che questo testo fu scritto parecchi anni prima.
Poteri della Ciociaria! Simpatica anche la dedica a
Mercurio, considerato dall’autore "ciociaro doc"...
dell’Olimpo!
Segnaliamo altresì che in
questo saggio la parola ciocia al plurale viene indicata
senza la "i" (cioce), contrariamente ad altri testi.
CIOCE CON LE ALI
Le cioce con le ali le
portava il dio Mercurio, ciociaro mediterraneo.
La carta geografica della
Ciociaria è una fantasiosa mappa letteraria dai confini
vagamente sfumati. Questa vaghezza desta contrasti e
polemiche. Per fortuna la terra nostra sta sempre sotto il
segno di Circe, maga burliera, che possiede il potere di
mutare le forme e l’essenza delle cose viventi. Gli scherzi
riferiti da Omero usa farli ai forestieri, non ai
compaesani. Circe, comunque, non muta le montagne e i fiumi
che, grosso modo, delimitano il suo regno temporale e
magico.
Per quanto svanito nei
contorni, il Regno Ciociaro - che raccoglie l’eredità dei
Volsci, degli Ernici e degli Equi - si estende dai Colli
Albani ai Monti Aurunci, dall'Appennino Abruzzese al mare.
I romani chiamano
ciociari persino i Sabini di Anticoli Corrado. Si sa che la
Ciociaria è il Lazio Aggiunto, di qua dalla cornice di
vulcani spenti che sbarra la Campagna romana. A cominciare
da Roccapriora, la catena dei Lepini forma la spina dorsale
di questo vasto corpo ovale.
(La Ciociaria trae il
nome dai calzari romani, benchè non siano una caratteristica
strettamente sua: li portano, uguali, i contadini calabresi
come quelli del basso Danubio. I calzari romani non
calpestarono soltanto il Latium novum, ma il mondo antico).
Confine ciociaro con
Roma, cioè confine del Lazio Aggiunto, è riconosciuto da
tempo antico l’Aniene, donde Subiaco è ciociara e, con essa,
la bella Gina, ninfa dei castagni che vanno in corsa verso
Fiuggi.
L’alta muraglia
dell’Appennino si leva, di là da Filettino, a separar
l’Abruzzo dal Lazio, segnando i confini fra Avezzano marsica
e Sora ciociara.
Nell’ aspro cumulo di
monti, colli e colline che s’accatastano all'interno,
abbiamo Monte San Giovanni Campano, che farebbe diventar
Campania il cuore della Ciociaria, se non si trattasse di
denominazioni politiche come quella di Sezze Romano, sito
accanto a Maenza, augusta sede di Camilla regina dei Volsci:
la nostra regina.
Dove la Ciociaria finisca
verso i Monti Aurunci, è difficile fissare. Già più volte
sono state sollevate dispute in riguardo, e ciascuno è
restato a pensarla a proprio modo. Vale l’opinione generale.
Sappiamo che Fondi, al confine delle "Due Sicilie" era sotto
i Borboni; ma gli abitanti di Fondi si ritengono ugualmente
Ciociari.
I loro portavoce sono
Libero De Libero, Peppe De Santis, Domenico Purificato e
Aristide Rotunno: quattro Campioni intellettuali di quel
nobile Castello.
Una fusione del Lazio
Nuovo con la Campania risulta dalla mescolanza degli usi e
delle cucine, di comunione di leggende e di canti, pur nella
distinzione delle stirpi - allora popoli, - che furono
ostili tra loro, ma sempre alleati contro Roma. Eppure Osci
e Volsci, dopo la Repubblica, frequentarono Roma
assiduamente. Anche col loro teatro. E i Romani ci si
divertirono.
Fu allora che
cominciarono a ridere dei Volsci e degli Osci. Oggi
seguitano.
Quando un napoletano
qualunque, o un burino, apre bocca, la gente ride; non
importa cosa abbia detto. Ma il napoletano non si offende se
gli si ride in faccia. Se ne compiace come di un successo
personale. Allorché dico, con naturale semplicità, "Sono
ciociaro" qualche fesso mi guarda sbalordito dalla
disinvoltura mia. Per lui è come se un tipo ridicolo dicesse
con indifferenza: "Sono ridicolo". L’antica farsa Romana da
tremila anni ha sviluppato in un clima ridevole il
personaggio del Ciociaro che, nella sua realtà, è un muso
duro, di carattere aspro, interessato agli affari (alla
robba). Ma il nostro dialetto contadinesco, tra romano e
napoletano, risulta curioso a Roma: fa " provinciale", fa
"burino". Di qui il riso. Per quanto a Roma, prima di Leone
X, la parlata popolare trasteverina fosse identica a quella
dei Castelli Romani, cioè prossima al Ciociaria, la
rustichezza dei linguaggi usati nel Lazio Nuovo era maggiore
di quella che fu, poi, quando venne toscanizzata. E
risultava più buffa.
A Roma si parlò toscano;
nel Lazio Nuovo (o Ciociaria) si seguitò a parlare con la
lingua originale nelle intonazioni rurali proprie. Il nostro
linguaggio restò distante dal latino, come lo era al tempo
dell’impero.
I Volsci e gli Osci,
secondo gli antichi scrittori, divertivano i Romani, a
quello stesso modo che l’abruzzese Riento li spassava, pochi
anni orsono, descrivendo nella sua parlata provinciale, gli
animali del Giardino Zoologico; o, come faceva Petrolini,
parlando ciociaro in "Lumie di Sicilia" (glie
l’avevamo insegnato io ed Apolloni, l’antiquario nostro
compaesano); o come fanno tutti i macchiettisti partenopei
discesi da Nicola Maldacea.
Le parlate burine o
napoletane hanno spassato i romani, quanto oggi li diverte
la parlata umbra di Talegalli alla Radio.
L’eredità delle Maschere,
loquacissime in dieci diversi linguaggi provinciali, oggi è
conservata dai mimi dialettali, e rappresenta un aspetto
della nobiltà di ciascuna Regione: specchio spiritoso del
carattere di ognuna.
Il Ciociaro fa sorridere,
come il Campano fa ridere; la furbizia del primo e le
amenità del secondo erano la ragione comica delle farse
popolari arcaiche. Essi, in fondo, rappresentavano il primo
Zanni furbo ed il secondo Zanni sciocco (finto).
Il teatro volsco può
essere considerato sullo stesso piano di quello Osco perchè
la storia ci dice che si alternavano. A Roma «osce et volsce
fabulabantur, nam latine nesciunt»: vale a dire i
commedianti delle farse Atellane recitavano in osco e in
volsco, a Roma, non sapendo essi la lingua latina; e i
dialetti loro erano, all’incirca, compresi dai romani. Come
i siciliani e i napoletani d’oggi italianizzano il loro
linguaggio intercalandovi frasi italiane. e come i
Commedianti dell’Arte a Parigi parlavano italo-francese,
così i mimi ciociari e capuani si arrangiavano a mettere
parole latine nell’osco e quando i buffoni erano ciociari,
nel vosco. Il temperamento, i caratteri lo spirito dei mimi
di Frosinone o di quelli dell’Acerra erano gli stessi:ciò
che venne in ogni tempo riconosciuto. L’abate Perrucci,
maestro dell’improvvisa commedia atellanica, scrive: " Era
la detta lingua osca una lingua latina alterata nei vocaboli
e servì di riso, appunto come oggi la napoletana, scelta per
lo ridicolo, come prova Camillo Pellegrino". Sia detto lo
stesso per il volsco.
Il Minturno scriveva
nell'Arte Poetica: "Quelle commedie, le quali in questa
città si chiamano Cavaiole, sono simili alle Atellane. Le
farse volsche e quelle osche erano tutt’una cosa, in quanto
a genere, e come tutt’una cosa furono le commedie di Zanni
che seguirono il Medioevo".
Benedetto Varchi in
«Ercolano» (1561) presumeva: "Credo che i nostri Zanni
facciano più ridere che i mimi (osci e volsci) non
facevano... e avanzino, (cioè siano superiori a) quelle
commedie che dalla città di Atene si chiamavano Atellane".
B. Davanzati nella
postilla al Libro IV delle opere di Tacito riconosce la
identità di Osci e Volsci, Atellani, Mattaccini, Zanni e
Ciccandoni.
Il chiosatore della
Vajasseide del Cortese spiega: "Le vecchie farse erano una "sciorta
di composizione simmole alle commedie atellane, perchè non
hanno nesciuna forma di rappresentazione drammateca: nè
tampoco seponno assemegliare co’ li poema antiche: chiù
priesto èglie na certa spezie de satera".
Nella farsa volsca
correva sangue di Giovenale d’Aquino, e per addolcire questo
sangue il nostro poeta pensava a una casetta in Ciociaria.
Serene ed accoglienti, le
nostre fertili campagne ci ricordano ancora la Satira Terza.
Io vivo all’estero e a Roma. La Ciociaria è per me, vicina e
lontana; però vado spesso nella sua direzione, a Tuscolo,
con De Libero:
O Ciociaria colore di
prugna
sospiro di menta,
sapore di prugna,
che nelle valli ti
vanti dei castani
e parli col nitrito
dei cavalli...
I luoghi di Circe,
stampa del 1840 di K. Lindemann
Dopo aver dato
un’occhiata alla mia regione da Tuscolo, come faceva il
compaesano Cicerone, vado a cena a Rocca di Papa perchè
lassù la cucina sa di Ciociaria. Lì sotto si stende lo
stretto territorio del Lazio Antico dominato da Albalonga,
confuso nelle altre leggende con la mitica Troia. Dove
questo regno si dividesse, oltre Ardea, da quello della
regina Camilla, non venne conosciuto.
La pianura Pontina
testimoni coi suoi istrici giganti sotto gli elci millenari,
la preistoria che sopravvive nell’immanente potere di Circe.
Dall’altro lato
l’Acropoli di Alatri, più antica di quella di Atene, sta
saldamente arroccata a dominar le dirute acropoli dei patesi
vicini: Ferentino, Veroli, Arpino. Qui arretriamo in
millenni piu oscuri di quelli etruschi, e tocchiamo con mano
regni primevi.
Quando i macigni dei
paesi volsci erano bianchi di pietra appena tagliata, la
valle del Tevere era un pantano misto alle Paludi Pontine e
la terra dove s’erge l’alma Roma risuonava di rane.
Il mio imperialismo
sentimentale, fondato sui miti, sull’anima del paesaggio e
delle genti, nulla teme perchè non chiede approvazione.
Dietro i Colli Albani
comincia la Ciociaria e, da quelli ben staccato, Velletri vi
appartiene con la sua Gens Giulia. Chiaro è che Cesare la
malaria se la prese andando a caccia a Cisterna, dove,
allora, le zanzare erano grosse come beccacce. Nei libroni
ufficiali che volgarizzano la storia leggerete tesi assai
più spericolate di questa piuttosto ovvia. Oggi la maga
Circe e il Divo Giulio sono numi della Ciociaria di
Campagna; mentre Cicerone si scaglia contro Cafo
mozzarellaro del Garigliano; D. Giulio Giovenale, d’Aquino,
sta lì a sfottere. Secoli dopo, Pascarella, figlio di due
ciociari, diventa poeta romano come Giovenale.
Questo discorso più
sentimentale che geografico, più romantico che storico,
benché scritto con aria di fantasia divagata, farà
inorridire gli snobs che sdegnano il nome dei Ciociari,
temendo d’esser riconosciuti cafoni (discendenti di cafo).
Io che questo timore non ho, voglio essere detto ciociaro.
Giacché sto a casa mia nelle capitali d’Europa, d’Asia e
d’America, dove sono andato e trovato più volte in vita di
ciociaro emigrante.