11/2/2007 - in corso
welcome
per ricevere la newsletter scrivi a jackilpinguino@gmail.com
per ricevere la newsletter scrivi a jackilpinguino@gmail.com
current adventure: "How to be a Grown Up"
current adventure: "How to be a Grown Up"
description: jack si avventura nella giungla metropolitana; chi può sapere a cosa va incontro?
goal: capire cosa fare della propria vita
status: in corso
description: jack si avventura nella giungla metropolitana; chi può sapere a cosa va incontro?
goal: capire cosa fare della propria vita
status: in corso
martedì 13 novembre 2012
sabato 27 ottobre 2012
acquarello di un ritorno
Quando l’autostrada, immersa nel piatto acquitrino
padano, ti ispira pace e pensieri profondi, e la barriera di Agrate ti fa
scodinzolare come un cane che senta il rumore dei pmeumatici del padrone sul
vialetto di casa; quando il cielo grigio pallido e la nebbia che si appiccica
ai capelli ti fanno sobbalzare il cuore di gioia; quando persino la
pioggerellinna insistente e il freddo umido ti sembrano confortanti, mentre
fanno brillare le luci del traffico del venerdì sera come un albero di Natale; allora,
cara mia, fattene una ragione. Sei milanese; nel corpo e nell’anima.
Ma lo sapevi. Lo sapevi. L’avevi intuito, soprendendo te
stessa sull’orlo di una crisi di aggressività, mentre osservavi il Peruano Lento
muoversi alla moviola; già lo sospettavi, nel fastidio di fronte alla
disorganizzazione del processo decisionale nel team dell’ACD. Lo sapevi anche
prima di partire, ma non volevi ammetterlo, e tentavi di smussare gli angoli di
questa dura verità con il classico “ma-Milano-ha-i-suoi-angoli-di-bellezza”,
tipico di chi la ama incondizionatamente ma non sa perché.
Ora basta. L’amore non vuole ragioni. L’ami, e non c’è su
questa Terra peccato più grave che rifiutare l’amore. L’ami come si può amare
un uomo bello ma ispido e trascurato, con un brutto carattere, con tanti
difetti e contraddizioni, ma in fondo affidabile e capace di preziosi momenti
di dolcezza, un amore di grandi sofferenze ma anche di grande rispetto e passione.
venerdì 26 ottobre 2012
centosessantaquattresimo giorno di imbarco
Milano (con tutto il suo contenuto) mi è mancata tutti i
centosessantaquattro giorni in cui sono stata per mare, ma tra gli amici, i divertimenti e il
grande impegno lavorativo, sono quasi sempre riuscita a tenere la nostalgia
sotto controllo. Gli ultimi giorni sono stati diversi. Da quando il mio
cervello ha realizzato che lo stavo riportando a casa, come un fiume che rompe
una diga, immagini della mia città e delle persone che amo hanno cominciato a
riversarsi davanti al mio sguardo; in modo che i miei occhi fisicamente trasmettessero
al mio sistema nervoso le immagini degli interni della nave, ma il messaggio
giungeva mixato con gli input provenienti dagli occhi dell’anima, come quando
in TV mettono un numero di telefono in sovraimpressione.
In questo stato confusionale, aggravato dall’emozione degli
ultimi abbracci, sono giunta al termine del mio viaggio.
In foto potete vedere l’enorme mole del bagaglio che mi
riporto a casa, ma è nulla a confronto di quello che mi porto dentro!
Non so come ringraziarvi.
La vostra presenza famigliare e partecipe mi ha dato un
grande conforto nei momenti difficili. Non solo: ha dato consistenza alle mie
parole e ha permesso che un semplice racconto (che in fondo non è altro che una
serie di caratteri allineati uno dopo l’altro) diventasse un reale veicolo di
comunicazione, creatore di esperienza: proprio qui, a volte in pubblico, altre
in privato (come nella vita reale) sono nate discussioni, pensieri, ci siamo
scambiati affetto ed emozioni.
Il blog non è nulla; non è un vero diario di carta da
passare ai nipoti, non è un libro, non è un bar dove chiaccherare davanti a un
bicchiere di vino profumato; è solo una manciata di bits. Eppure, raccontarvi
ed essere letta è stata un’esperienza altrettanto ricca e reale della nave.
Per questo vi ringrazio e non vi dimenticherò!
Domani ritorno.
Il blog non chiude (è aperto da quasi 6 anni), ma, come altre
volte in passato, cambierà. Non so cosa mi riservi il futuro, ma spero di
avervi ancora con me per la prossima avventura, grande o piccola che sia.
domenica 21 ottobre 2012
centocinquantanovesimo giorno di imbarco: "il mondo, in fondo, è lo stesso dovunque. Sono gli uomini che lo abitano a renderlo diverso"
Sto leggendo un libro che parla di un manipolo di marinai
dell’antica Grecia. Partiti con la loro flotta da Troia in fiamme, volgono le
prue verso casa per scoprire che non ne è rimasto più nulla; ovvero, le pietre,
le strade e i palazzi sono ancora al loro posto, ma dopo 10 anni di lontananza,
le loro mogli si sono trovate degli amanti, i loro genitori sono morti, i loro
fratelli e gli amici periti in battaglia o dispersi in mare, insomma, più nulla
appartiene loro, e loro non appartengono più a nulla. Allora proseguono il
viaggio verso nuovi lidi e approdano – dopo varie disavventure – nella pianura
Padana.
Mentre la Luminosa si allontana dal porto di Ajaccio,
osservo le luci della città svanire lentamente inghiottite dalla notte. Penso a
come potrei descrivervi la scena sorprendente che si apre davanti al mio
sguardo: sorprendente perché la luce non si affievolisce gradualmente, come si
aspettano i miei occhi; no, forma invece una specie di bolla luminosa che
contiene la città, una bolla dai contorni piuttosto netti - come la corona
intorno alla fiamma di una candela (molto più grande, naturalmente). Una nave,
o è dentro alla bolla, o è fuori: per le luci del porto non esiste il
crepuscolo. Il buio è una bestia incredibile che sembra divorare tutto, inghiottire
tutto, con una profondità che toglie il fiato e che la luce artificiale non è
in grado di tenere lontano, se non per un brevissimo tratto e – come una legione
che difende una fortezza da un assedio – a costo di grandi sforzi. Ed è strano,
perché le luci della città si vedono a grande distanza, eppure, poiché non
hanno nulla su cui posarsi, non illuminano nulla: ed ecco il buio.
Io sono al sicuro, ho un posto dove tornare, e posso godermi
questo spettacolo bello e terribile fino all’ora di andare a nanna. Penso a
come devono essersi sentiti i marinai dell’antichità mentre lasciavano la
“bolla di luce” del porto di turno per avventurarsi in mare aperto, con la
pancia della nave che scivola pesantemente verso lo stomaco infinito della
notte.
Sul fronte vita quotidiana, non ci sono grandi novità. Col
mio sostituto va abbastanza bene, anche se segue ritmi di lavoro sudamericani
(è peruviano); non so come potrà cavarsela nella frenesia delle mini crociere e
del crossing transatlantico che lo aspetta, ma magari ha i suoi metodi, che io
ancora non comprendo.
Ricevo molti meno regali, e non ho più ricevuto lettere
d’amore, da quando è imbarcata la nuova hostess olandese, una stangona
biondissima e gnocchissima che non lesina sull’ondeggiamento di ciglia e che ha
incantato ricchi e poveri. Gli uomini le ronzano intorno come mosche al miele,
letteralmente, dovunque lei si sposti è seguita da una scia di ammiratori che
la raggiungono con un moto più o meno elastico e le aprono tutte le porte della
nave, sperando di poterle aprire quelle delle loro cabine. Un paio di miei
amici hanno passato diverse ore nel mio ufficio a parlarmi di lei e mi hanno
investito della funzione di corriere per recapitare fiori e biglietti. Trovo
tutto ciò divertente e irritante al tempo stesso. Il mio ego sgomita messo da
parte, e le mie manie di protagonismo si indispettiscono a recapitare
complimenti all’indirizzo altrui; ciononostante, lei è forte, onesta,
simpatica, e – bisogna ammetterlo – bella che è un piacere guardarla, e questa situazione
ha contribuito a stringere per me alcuni legami di complicità molto piacevoli. Due
sono le cose che mi domando: come mai questo tipo di donna sembri innamorarsi
sempre degli uomini sbagliati, e come sia possibile che gli uomini che le fanno
la corte (almeno la maggior parte di loro) non abbiano alcun contatto con la
realtà. Non per fare del classismo estetico, Quasimodo può certamente
conquistare Esmeralda; ma prima deve salvarle la vita e sgominare un complotto
nazionale (e anche allora, ci sono buone probabilità che la ragazza scelga
comunque il bellone). Non è che le situazioni eroiche crescano sugli alberi...
venerdì 19 ottobre 2012
centocinquantasettesimo giorno di imbarco
Oggi è imbarcato il DTP che dovrà sostituirmi.
Raramente sono stata più felice di vedere qualcuno. Lui sa. E lo ha dimostrato ha pronunciando le
parole segrete dell’Ordine dei Cavalieri Della Tipografia, cioè:
“Solo un DTP capisce un altro DTP”.
Il mio imbarco è ormai agli sgoccioli (metaforicamente; qui
non è certo l’acqua a mancare).
La mia mente è talmente satura da non riuscire a cullare un
pensiero che valga la pena di essere scritto, per un tempo sufficiente perché
io mi accorga della sua esistenza.
Il blog e i suoi lettori mi mancano molto, ma dopo 12 ore di
tap-tap-tap le mie dita si rifiutano di obbedire e le uniche posizioni che
desiderano assumere sono quelle che le vedono strette attorno ad un bicchiere
di vino, delicatamente appoggiate al filtro di una sigaretta, o meglio
abbandonate mollemente al loro destino sul bordo del letto.
lunedì 8 ottobre 2012
centoquarantaseiesimo giorno di imbarco - pagine di diario sparse e svolazzanti
2 ottobre
Non ho proprio voglia di scrivere. Mi sto costringendo a
forza a non spegnere il pc e aprire, invece, il libro che mi ammicca malizioso
dal centro del letto e che tengo sotto controllo con la coda dell’occhio,
perché non scappi. In questi giorni di bufera, i pochi minuti che riesco a
leggere prima di andare a dormire sono come una promessa, un premio che allevia
le mie fatiche trasportandomi lontano dai corridoi di ferro e dal rumore delle
fotostampatrici, dalla nostalgia e dalla solitudine.
Il 95% dei miei amici è sbarcato, mettendo a nudo una
consapevolezza che da tempo maturava ma che, nascosta dalle risate, dalle
feste, dalle città sorprendenti che ho visitato e dagli affetti di cui mi sono
circondata, non aveva trovato spazio per affiorare in superficie. Questa vita
non fa per me.
Ora che Eva è tornata a casa, sto lavorando letteralmente
per due persone: mi sono stabilizzata tre le 14 e le 16 ore. Non ho il tempo
per chiaccherare con i colleghi che passano: ogni secondo è prezioso, le
scadenze sono serrate, l’errore è dietro l’angolo, le cose da ricordare sono
tante e richiedono una concentrazione quasi al di sopra delle mie ridotte
capacità mentali. Ah, la concentrazione non è mai stata il mio forte, ma non è
che posso permettermi di farmi distrarre da una farfalla in volo o dalla nuova
puntata della mia sit com preferita. Primo, perché farfalle non ce ne sono,
secondo, perché ogni minuto perso significa limare ulteriormente il mio già
breve periodo di riposo giornaliero. I crew party sono un lontano ricordo, e
l’altro ieri uno dei miei amici di macchina è venuto a portarmi la merenda solo
per controllare che non mi fossi persa tra le risme di carta, visto che il mio
sgabello al crew bar è ormai ricoperto da uno spesso strato di polvere. E di
visitare città, non se ne parla; sono 4 giorni che non vedo la luce del sole.
Letteralmente. Ieri ho messo i piedi a terra nel porto di Ibiza per il tempo di
una sigaretta. Il cielo era coperto e pioveva, ma mi bruciavano gli occhi per
il riverbero della luce. Non ho nemmeno il tempo di salire al ponte aperto a
guardare fuori. Oggi non mi sono nemmeno messa la divisa, ho lavorato in tuta
tutto il giorno. Non oso immaginare quale spettacolo di abbrutimento offra la
mia figura, mentre si aggira per i corridoi con gli occhi arrossati, parlando
tra sè e sè, bianca come un cencio, ad eccezione delle profonde occhiaie a
prova di fondotinta, con in mano fogli, telefoni e l’inseparabile thermos di
caffè.
3 ottobre
![]() | |
| Nonostante la pessima risoluzione, potete apprendere da questo inequivocabile cartellone che è illegale non gettare rifiuti fuori bordo. |
4 ottobre
Oggi ho litigato con un Primo Ufficiale di Ponte.
Mi sto impuntando su alcune cose che, anche se non
produrranno benefici a lungo termine (ormai non mi illudo di questo), mi
mettono leggermente al riparo dai capricci altrui e mi concedono anche qualche
soddisfazione. Lo schema è il seguente: per la stampa del Today e dei menu, mi
devono arrivare delle informazioni; dichiaro la dead-line e avviso che, se non
le ricevo, stampo senza. Non è sempre possibile, ma qualche volta sì. Lo chef,
il ponte, i capi dipartimento, all’inizio non capiscono che faccio sul serio,
quando dico loro di no. No, non si può ristampare; no, ormai è tardi; no, oggi
non posso, domani. Pensano che insistendo otterranno quello che vogliono, e
qualche volta è così, ma spesso, invece, finisco per spuntarla. Oggi ad esempio
è venuto il Foto Manager a chiedermi dei biglietti da visita, nel bel mezzo
della bufera del pomeriggio, quando ho tutte le hostess in ufficio e gli omini
dell’Housekeeping e il Front Desk e l’ACD che chiama e lo Chef che mi scrive e
Erodil che chiede se può stampare e Madame che viene per i flyers. Non se ne
parla...
I più difficili da addomesticare sono gli Ufficiali di Ponte
(ci sono quelli di Ponte, quelli di Hotel e quelli di Macchina, i terzi sono
gente molto più simpatica, con la tuta piena di macchie di grasso, anche se non
disdegnano l’occasionale sfruttamento della gerarchia di bordo per ottenere
favori).
Sul Today devo pubblicare, tra le altre cose, un bollettino
meteorologico; ma farsi arrivare le informazioni meteo sembra un’impresa
disperata. Basterebbe che mi abilitassero la connessione internet, me le
procurerei da sola; ma la compagnia preferisce la strada più complicata. Il problema
è che la procedura non specifica chi debba mandarmele, e nessuno si vuole
sobbarcare l’onere; così ogni giorno dovevo rincorrere Tizio o Caio e pregarli
di farmi sapere che tempo farà domani. Oggi,
per l’ennesima volta, questa benedette informazioni non volevano arrivare. Per l’ennesima
volta i candidati meteorologi mi hanno fatto telefonare ai loro concorrenti una
decina di volte, scaricando il barile e scaricandolo, al colmo della pigrizia,
per procura (cioè usando me come operatore telefonico). Alla fine mi sono
stufata di fare da segretaria a tutti quanti e ho inoltrato un’email all’Hotel
Director, al Cruise Director, all’IT Officer e al Ponte di Comando,
specificando che Buon pomeriggio, non avevo ancora ricevuto le informazioni meteo.
Non sapevo di chi fosse la competenza, ma non avevo il tempo di star dietro
alle loro discussioni. Che si mettessero d’accordo e mi comunicassero la
decisione; e che, se avevano intenzione di fornire ai passeggeri il servizio
meteo, mi mandassero le informazioni entro le 5 del pomeriggio, o sarei andata
in stampa con quelle vecchie. E per i giorni a seguire, sarebbero dovute
pervenite entro le 10 del mattino, o niente. Grazie e buon pomeriggio.
5 minuti dopo mi chiama un tizio del Ponte, che senza
presentarsi mi inveisce contro con una ramanzina sul mio inappropriato
comportamento, che non era compito loro e che non mi permettessi mai più di
minacciare il Ponte. Dopo avergli chiesto nome e cognome (M.S.D.V., Primo
Ufficiale di Ponte), gli ho detto che mi rincresceva moltissimo se il mio
comportamento l’aveva fatto sentire minacciato, ma che naturalmente non potevo
fermare la stampa perchè mi mancava il meteo, e che, come lui, mi auguravo che
questa situazione non dovesse più ripetersi. Con una minaccia degna del peggior
mafiosetto di quartiere, M.S.D.V. mi ha ripetuto che “NO, MEGLIO PER TE CHE NON
RICAPITI” e mi mette giù il telefono. Cantami o diva della pallida Irene l’ira
funesta. Beh, per farla breve, il mio capo, l’Hotel Director (visibilmente sopreso di scoprire il mio lato guerrafondaio), ha telefonato capo di M.S.D.V.,cioè il Comandante, e il risultato è che adesso il Ponte mi manda il meteo
alla fine di ogni crociera per quella dopo. Ahah.
8 ottobre
Se in condizioni normali sono una internetomane incapace di
ignorare la posta elettronica per più di 4 ore di fila, da quando Eva è
sbarcata il mio pc giace quasi dimenticato in un angolo dell’armadio. 5 minuti fa ho
aperto la mia email per la prima volta da giorni e mi sono spaventata. Ci vorranno
settimane per rispondere a tutti adeguatamente, specialmente visto che il mio corpo si rifiuta di restare a lungo davanti a un computer anche durante il tempo libero!
Devo ammettere che, però, la situazione migliora di giorno
in giorno. Dalle 16 ore di lavoro quotidiano della prima settimana che ho passato da sola, ora
mi sono stabilizzata su 10/12 ore. Ho ripreso ad uscire la sera – uscire, termine del vocabolario di bordo che indica l’azione di
salire le scale che portano al crew
bar – anche se la stagione dei crew
party, per me, si può dichiarare conclusa! Esco soprattutto per contrastare
la solitudine che mi accompagna da quando i miei compagnucci di merende mi
hanno lasciata al mio triste destino: solo un DTP può capire i drammi di un
altro DTP. Eva, se sei in ascolto sai di cosa parlo.
A parte questo, sono molto soddisfatta di come sto gestendo
la situazione, per ora non c’è stato nessun problema e sto imparando a gestire
il tempo in multitasking (so che non
mi credi, ma è la verità!). Ieri ho avuto persino il tempo di mettermi lo
smalto.
sabato 29 settembre 2012
centotrentaseiesimo giorno di imbarco, sullo sfondo il profilo disordinato di Barcellona dietro una cortina di pioggia
Telegrafica per temporanea intolleranza computer causa
sovraesposizione stop
Collega Eva sbarcata stop
Rimasta sola lavoro per due stop
Oggi 14,5 ore lavoro non-stop stop
Rimproverata per bad attitude da hostess insicura che piange
se non coccolata stop
Responsabilità adrenalina velocità mi piace stop
Buonanotte stop
sabato 22 settembre 2012
Centoventinovesimo giorno di imbarco – Marseille
È stata giustamente richiesta la mia presenza da queste
parti, ed eccomi qui. Mi rendo conto che con questa discontinuità narrativa vi
sarà difficile seguirni, perciò farò del mio meglio per farvi un breve
resoconto della settimana appena trascorsa.
Vi ho lasciati alle porte del Mediterraneo. Cadiz, Malaga,
Barcelona, Palma de Mallorca: si scrivono così, ma si leggono mare, Sole,
spiaggia, sangria, tapas, abbronzatura, chitarristi spagnoli per le strade,
profumo di sale, cocco e burro di cacao. Sole, soprattutto Sole, un Sole quasi
africano che, dopo mesi di pallida luce scandinava, è accecante per gli occhi e
per la mente. L’estate ritrovata ha agito come una droga sui membri dell’equipaggio,
provocando per 3 o 4 giorni una persistente e diffusa euforia, accompagnata da
un’epidemia di canti e danze ovunque possibile – il crew party (che il Cappellano organizza ogni settimana al fine di
scaricare l’energia in eccesso) è stato particolarmente selvaggio, culminato, con
mia grande soddisfazione, in un sorprendente giro di rock che ha scaldato gli
animi troppo a lungo esposti a salsa, bachata e danza kuduro.
(Curiosamente, mentre vi scrivo è appena iniziato l'autunno, il cui arrivo è passato completamente inosservato da queste parti)
Gli agenti atmosferici sono tra gli aspetti più interessanti
del viaggio per mare, specialmente se si ha la fortuna di attraversare diverse
latitudini (anche le longitudini hanno effetto sul tempo, ma quello cronologico, e per i marinai sono fonte di
equivoci o seccature). Dopo la meraviglia delle lente giornate infinite e del
tramonto infuocato di mezzanotte al largo della Norvegia, sono rimasta
letteralmente senza fiato immersa nella totale oscurità della notte atlantica
in Portogallo: buio, buio come non si può immaginare, così buio da non poter
distinguere il mare dal cielo; così buio che la luce prodotta dai fari della
nave è appena sufficiente a penetrarlo per qualche metro, per poi esserne
inesorabilmente inghiottita. Al di la della schiuma prodotta dal moto della
nave non vi è nulla, come se stessimo navigando nello spazio profondo, nel
vuoto, in un universo di velluto nero. Questo genere di buio non si trova dalle
nostre parti, o almeno, io non l’ho mai visto in Italia, nemmeno tra le colline
semideserte del piacentino o dell’appennino toscoemiliano, né più a sud, né al
mare, né in montagna, mai. È un buio che fa male agli occhi. Li apri, ma non
succede niente. Allora li sgrani ancora di più, inutilmente, roteandoli in modo
incontrollato alla ricerca di un oggetto dove posarli, come un assetato in cerca
di una fontana. Fa male agli occhi e da l’impressione di essere ciechi (o
almeno, quello che posso immaginare significhi essere ciechi). E ancora, tra le
meraviglie del cielo: ho visto una cometa incendiare letteralmente la volta
celeste e ho guardato il Sole tramontare; non un semplice tramonto, ho visto
effettivamente il Sole nell’azione di
tramontare – nel giro di pochissimi secondi, lo spicchio visibile della nostra
stella si rimpicciolisce sempre di più fino che l’orizzonte lo inghiotte del
tutto, così velocemente che non faccio in tempo a formulare nella mia testa il
pensiero compiuto – per diversi secondi lo stupore mi preclude il senso di
quello che sto vedendo.
Il ritorno in patria ha spezzato il ritmo del mio viaggio.
In parte perchè segna la fine del contratto di quasi tutti i
miei amici; in parte c’entra sicuramente la visita coniugale, foriera di
emozioni forti e contrastanti. In parte, poi, perché da questa settimana
facciamo solo minicrociere da 3, 4 o 5 giorni, un ritmo quasi insopportabile
per noi lavoratori, specialmente per la tipografia. Per finire, la prospettiva
del prossimo mese è per me delle più disperate. La mia collega sbarca il 28
novembre e non mandano nessuno a rimpiazzarla. Un rapido calcolo mi permette di
sommare i nostri orari, producendo una stima approssimativa per la mia giornata
lavorativa di 16-18 ore. Non mi metto nemmeno a calcolare la mia paga oraria:
credo che il dividendo non sia sufficiente a comprare un pacchetto di sigarette
da 10.
Le forti emozioni, gli addii, i ritrovamenti e la stanchezza,
alla lunga, sono un cocktail anestetizzante: arrivo alla fine della settimana
con un unico sentimento di accettazione e indifferenza, che non mi piace, ma
almeno mi protegge come una diga dal torrente di lacrime che minaccia di
sfondare gli argini.
venerdì 14 settembre 2012
centoventesimo giorno di navigazione, Lisbona
Meravigliosa città! Vista dall’alto sembra l’interno di un
geode, con gli edifici colorati cresciuti uno accanto all’altro occupando tutto
lo spazio disponibile, i tetti come le punte apparentemente disordinate dei cristalli,
a tratti l’aspetto un po’ scrostato delle città di porto – ma appena appena;
profumata, vitale – e soprattutto calda,
di un caldo secco figlio di un sole intenso come non ricordo di aver mai visto.
Sono colpita dall’intensità della luce; o forse è una mia impressione, vuoi
perché amo moltissimo questa città (e la bellezza sta negli occhi di chi
guarda), oppure perché, semplicemente, nel giro di 72 ore ho viaggiato dal Mare
del Nord all’Africa (o quasi). Ora che sono tornata a latitudini più
ragionevoli, i miei occhi fanno fatica ad adattarsi, come se bevessero ad un
cielo così profondamente azzurro per la prima volta.
Mi preparo. Domani, Cadiz: e poi, durante la notte passeremo
nuovamente Gibilterra, ma al contrario,
stavolta.
domenica 9 settembre 2012
centoquindicesimo giorno di imbarco - at sea. Delta X-ray
In una piccola città come questa, non succede mai molto: per
questo motivo ogni piccolo avvenimento viene avidamente masticato e rimasticato,
risuonando di bocca in bocca per molte ore; lo teniamo in vita il più a lungo
possibile perché ci strappi alla monotonia di un tempo che scivola via senza
lasciare traccia. Qui, infatti, non importano data e ora, è sempre lunedì
mattina. Distinguere nella memoria un giorno dall’altro è molto difficile;
così, quando accade qualcosa, l’avvenimento si imprime sulla linea del tempo
come una pietra miliare, dando volto e nome ad un giorno che andrebbe altrimenti
perso nell’anonimato della moltitudine.
Il giorno di oggi sarà sempre ricordato come il Giorno della
Falla.
Intorno all’una di oggi pomeriggio il tubo principale per l’approvvigionamento
dell’acqua si è rotto in circostanze misteriose, provocando un’emorragia idrica
interna che ha allagato i ponti c, b e a nella zona verticale 6, a prua della
nave, e causando diversi disagi fino al ponte 3. Dalle scale veniva giù acqua
come se fosse un torrente. Lo stato maggiore ha subito ordinato la chiusura
delle porte stagne e ha bloccato l’erogazione d’acqua al tubo ferito, per
permettere l’intervento dell’Armageddon
Team, che, altrimenti, sarebbe stato trascinato via dalla forza dell’acqua
che scorreva.
L’Armageddon Team è
composto dai Plumbers e dai Firemen, gente tosta piena di tatuaggi,
cicatrici e macchie di olio sulla tuta. Li ho soprannominati Armageddon Team perché se ne vanno sempre in giro per la nave in formazione, i
leader in testa, la squadra appena dietro, come guerrieri che hanno eletto i
propri capi tra pari, col passo elastico di Bruce Willis e della sua squadra di
trivellatori di asteroidi; sono loro che intervengono in caso di reale problema
(un problema, cioè, che non coinvolge menù, insalatine o polli con crisi di
identità). In genere non fanno gran che; e questo è un buon segno, perché
significa che non ci sono problemi. Il mio amico Chief Plumber sta spesso
a fumare allo smoking point giocando con una catenella, di
quelle che si trovano attaccate al tappo del lavandino, arrotolandola e
srotolandola intorno a un dito. Quando gioca con la sua catenella vuol dire che
va tutto bene. È ormai un codice consolidato, e se mi vede nei corridoi la tira
subito fuori per segnalarmi la normalità della situazione. È in generale molto
lento in tutti i suoi movimenti e trasmette un’aria di grande tranquillità,
nonostante la faccia da brutto ceffo che si ritrova. Oggi, l’ho visto correre. Correva
tutta la squadra – era quindi evidente che ci fosse un problema che richiedeva
l’intervento dell’Armageddon Team!
Niente paura: i nostri eroi hanno liquidato la questione nel
giro di mezzora, lasciando campo libero all’esercito dei Crew Steward che si sono
occupati dell’asciugatura (ci sono rimasta di sasso quando ho visto che
aspiravano l’acqua con gli aspirapolvere...).
Qualche ora dopo ho incontrato il mio amico Chief Plumber allo smoking point, tutto intento ad arrotolarsi la
catenella intorno al dito. Tutto a posto!
Mi ha raccontato del tubo e mi ha detto che quello che a me
sembrava un fiume in piena, era in realtà una cosa da nulla. In una lingua a
metà tra inglese, bulgaro e italiano, mi ha detto che “If the water comes from up, no interes! If it comes from down, then, uhhh!”
sabato 8 settembre 2012
centoquattordicesimo giorno di imbarco - goodbye my beloved magic copenhagen
da circa 5 ore siamo di nuovo in viaggio verso il mediterraneo. sono passati più di tre mesi da quando ho lasciato la terra natia, dove il mio corpo fanciullesco giacque, e sapere che presto tornerò in luoghi familiari, dove poter ordinare una pizza, comprare il mio dentifricio, o semplicemente non fare diecimila calcoli per capire quanti euro sto spendendo per un pacchetto di gomme, mi rilassa molto. ma la scandinavia mi mancherà, e copenhagen... beh, una storia d'amore non finisce per una mera questione chilometerica, e io mi sono innamorata di questa città, dei suoi profumi, dei suoi angoli, dei suoi caffè, le sue piazzette, i suoi colori, la musica che si sente dappertutto, la magia che sembra accadere non appena i suoi confini mi abbracciano.
a presto allora, mia amata! non dimenticarmi!
a proposito di amore, oggi eva ed io abbiamo ricevuto in ufficio un mazzo di fiori, anonimo. chi mai potrà essere stato? l'engine dpt? il ladro del cappello, per farsi perdonare? un ammiratore segreto? chissà se le prossime puntate sveleranno il mistero...
a presto allora, mia amata! non dimenticarmi!
a proposito di amore, oggi eva ed io abbiamo ricevuto in ufficio un mazzo di fiori, anonimo. chi mai potrà essere stato? l'engine dpt? il ladro del cappello, per farsi perdonare? un ammiratore segreto? chissà se le prossime puntate sveleranno il mistero...
venerdì 7 settembre 2012
Centotredicesimo giorno di imbarco, Oslo – Goodbye Norway
![]() | |
| A cavallo del fortunadrago con Manu e Mau (dietro l'obbiettivo) a spasso per la Norvegia |
Ultimo giorno in Norvegia, e, beffa del fato, oggi a Oslo c’erano
il Sole e una ventina abbondante di gradi. Eva ed io abbiamo salutato come si
conviene questo meraviglioso Paese, che ci ha fatto da rifugio per 3 mesi:
pranzo a base di salmone norvegese e sidro di pera, sedute al porto, ad un
delizioso tavolino proprio sul mare. Ora mi trovo di fronte ad un angoscioso
dilemma: non so decidere se preferisco il sidro di pera o quello di mela.
Domani dico arrivederci alla mia Copenhagen, dopodiché parte
la traversata che, nel giro di 10 giorni, ci riporterà in mari nostrani.
Il mistero del cappello scomparso – epilogo, ovvero:
♪ “the Hat came back, the
very next day”
L’aver ricostruito la vicenda del cappello per come poteva,
con ogni probabiltà, essere andata, mi aveva portavo a metà nella risoluzione
del caso. Non restava che ritrovare l’oggetto in questione: al riguardo avevo
fatto però tutto il possibile. Mi concessi una pausa ristoratrice al Crew Bar,
fiduciosa che i miei informatori avrebbero battuto i bassifondi della Città
Galleggiante fino all’ultimo vicolo puzzolente.
Il mattino seguente venne troppo presto. Mi diressi in
tipografia con gli occhi ancora a mezz’asta, in uno stato appena presentabile,
con la solita bozza e il solito thermos di caffè. Non feci in tempo a buttare
giù il primo sorso, che A., uno degli steward, si presentò con il mio cappello
vagabondo. Non volle dirmi dove l’avesse trovato, né io insistetti per saperlo:
come insegna il grande Holmes, meglio non indagare troppo sui metodi dei propri
informatori, se si desidera mantenerli. “I picked it from somebody’s head”, si
limitò a dire, lasciandomi nel dubbio de intendesse realmente somebody’s head o piuttosto some body’s head.
Così il circuito era chiuso, e il cappello era tornato nella
sua posizione originale, dopo aver percorso strade e vissuto avventure che, probabilmente,
non conosceremo mai. Restava solo una cosa da fare: D. non avrebbe affrontato
la Legge, ma il suo gesto non sarebbe rimasto impunito. Evitò il più a lungo
possibile di venire a trovarci, ma alla fine non potè più rimandare, e venne,
più silenzioso del solito, per raccogliere i suoi dannati flyers.
“Ah, D.,
you know what? The hat came back.”
“Really? How?”
“I told
some friend the whole story and one of them brought it back to me, after he found
it in the garbage area.”
“In the
garbage area?”
“In the
garbage area.”
Silenzio. Non
potevo perdere quell’occasione: era come giocare al gatto col topo.
“I think
that the thief realized we knew it was him, and decided to get rid of the hat. Because,
you know, we know who took it”.
“Yes?”
“Yes.”
La sua vocetta acuta si era fatta stridula, e dovette
accorgersene, perché tacque per parecchi secondi. Poi tastò di nuovo il
terreno.
“My wife
lost 3 pairs of shoes when she disembarked”
“Oh, but I didn’t lose it, did I?” ripresi, con gli occhi
piantati nei suoi.
D. tacque di nuovo e lasciò l’ufficio senza sapere più dove
guardare.
Poveretto. Non dev’essere piacevole sapere che d’ora in
avanti, ogni giorno, non perderò occasione di ricordargli la propria stupidità.
giovedì 6 settembre 2012
centododicesimo giorno di imbarco - il mistero del cappello scomparso
Tutto iniziò quando J. mi regalò un cappello da cowboy
scovato tra gli scarti di magazzino. Era un bel cappello, un po’ largo forse,
ma perfetto per le mie serate a tema. Quella sera avevo un sacco di lavoro. Al momento
del regalo la tipografia era gremita di gente – tutti volevano qualcosa da me,
e non riuscii nemmeno a trovare il tempo di sfilarlo dalla plastica trasparente
in cui era avvolto. Lo appoggiai su una mensola sopra la scrivania, tra i
dizionari e le pile di documenti da spulciare.
Terminate le incombenze della sera, lanciai in giro una rapida
occhiata e mi accorsi che non era venuto nessun a ritirare il materiale che
avevamo stampato per l’House Keeping.
Sfinita, senza più la forza di aspettare, lasciai la tipografia aperta e tornai
in cabina, dove mi addormentai quasi subito guardando l’ultimo episodio di una
saga famosa ai miei tempi, Ritorno al Futuro 3, abientato nel vecchio West dove
tutti indossavano cappelli come quello che si trovava sullo scaffale sopra la
mia scrivania, tra i dizionari e le pile di documenti, ancora avvolto nella plastica.
La mattina seguente entrai in ufficio alla solita ora, col solito
thermos di caffè bollente in una mano e la solita bozza del giornale del giorno
dopo nell’altra, non pronta ma rassegnata ad iniziare una nuova, faticosa
giornata. La tipografia era ancora deserta – sono la prima ad arrivare – e i
flyers per l’House Keeping erano stati portati via. Accesi la vecchia carretta
che fanno passare per computer e attesi, consumando la mia colazione in un
rilassato e prezioso silenzio. Non me ne ricordai che dopo alcuni minuti,
quando il caffè cominciava a fare effetto ripristinando le sinapsi tra le mie
cellule cerebrali: là dove avrebbe dovuto trovarsi il cappello, tra i dizionari
eccetera, si trovava invece un vuoto eloquente. Il cappello era sparito.
Per prima cosa mi feci prendere dallo sconforto che di norma
mi affligge quando perdo qualcosa, specialmente se di valore affettivo. La giornata
iniziava male. I miei due colleghi e compagni di sventura, E. e M., non ne
sapevano niente, e cominciammo a fare delle congetture. Dove poteva essere? Io ero
assolutamente certa di non averlo portato fuori dall’ufficio; d’altronde, chi
poteva essere entrato? Solo qualcuno con una ragione precisa per entrare. Nessuno
sapeva che l’ufficio non era chiuso a chiave, tranne l’House Keeping, per via
dei flyers da ritirare. Non volendo puntare il dito contro nessuno (e ritenendo
l’accusa troppo assurda per essere presa in considerazione) lasciai fluttuare l’ipotesi
qualche secondo fino a che non venne completamente risucchiata dai condotti di
riciclaggio dell’aria, per liquidare poi l’intera vicenda in favore di cose più
urgenti: la mia bozza, dimenticata sulla scrivania, gridava all’abbandono di
minore.
Ma non riuscivo a togliermi dalla testa la faccenda del
cappello. Chi mai poteva fare una cosa del genere? La tipografia non si trova
in un luogo di passaggio. La porta era chiusa, anche se non a chiave, e nessuno
avrebbe potuto passare lì davanti ed essere tentato di entrare per chissà che
misteriosa ragione. Non aveva senso. C’era un’unica possibilità: qualcuno era
entrato per cercare del materiale stampato, e, una volta dentro, aveva colto l’occasione
per rubare il cappello. Probabilmente l’aveva già notato la sera prima, nel
momento in cui J. me l’aveva portato. La plastica trasparente lo avvolgeva in
modo da non renderlo immediatamente riconoscibile, e bisognava sapere che cosa
ci fosse dentro – nessuno si sarebbe preso la briga e il rischio di ravanare in
un sacchetto senza conoscerne il contenuto.
Questi pensieri mi giravano ancora in testa quando D., Assistant House Keeping Manager,
comparve sulla soglia della tipografia, alla ricerca di altro materiale vomitato
nel frattempo dalle macchine fotostampatrici.
“Oh, D., you
know what happened tonight?”, cominciai, senza sfumatura di malizia, “somebody
stole my hat”.
Non feci in tempo a finire la frase che lo sguardo del mio
interlocutore scattò verso il luogo dove l’assenza del cappello troneggiava
eloquentemente, sullo scaffale, tra i dizionari e i documenti da spulciare. Ma io
non avevo indicato il luogo dove il cappello avrebbe dovuto trovarsi; D. doveva
per forza saperlo per conto suo, dalla sera prima, forse. Si tradì
definitivamente esibendosi, con un mezzo sorriso che lì per lì non riuscii a
decifrare, in una sequela di domande e ipotesi una più stupida dell’altra, di
che colore era il cappello? e di che tipo? e dov’era? forse l’avevano preso gli
ispettori della sicurezza?
D. non si era ancora chiuso la porta alle spalle, che io,
incrociando lo sguardo di E., capii che stavamo pensando la stessa cosa. I casi
erano due: o D. non aveva mai visto il cappello, e allora le sue domande
avrebbero avuto senso, ma non avrei saputo spiegare come mai avesse guardato
così chiaramente verso il famoso scaffale; oppure D. sapeva del cappello, ne
conosceva l’esatta ubicazione e di conseguenza anche l’aspetto, e sarebbero
state le sue domande a restare inspiegate. Conclusione: D. aveva preso il
cappello, oppure sapeva chi era stato, ed era stato presente al momento del
furto.
Incredibile. Tra tutte le persone a bordo, di D. non avrei
mai sospettato. Così... adulto, così
rispettabile, in una posizione di responsabilità, correre un rischio del genere
per un cappello da cowboy. L’ipotesi abbozzata quella mattina, uscita per il
condotto di riciclaggio dell’aria, era rientrata prepotentemente dalla porta,
scrollandomi di dosso la mia ingenua ottusità che tanto spesso veniva canzonata
dai miei colleghi: “Tu ti fidi sempre troppo!”. Ma santissimo il cielo. Stiamo parlando
di un cappello, non di una tiara di diamanti. E comunque, chiamatemi ingenua,
ma certe cose in testa non mi ci si ficcano proprio. Persino dopo che D. si era
tradito così palesemente, l’assurdità della situazione non cessava di
sorprendermi, soppiantando la tristezza per la perdita del regalo.
La giornata proseguì regolarmente. Badai a raccontare l’accaduto
ai miei amici più stretti – non avevo alcuna prova, ma almeno il mio gruppo doveva
sapere con chi abbiamo a che fare; la vita di bordo è un gioco a squadre. Il mio
spirito di competizione fa schifo, ma almeno compenso con quello di
solidarietà.
Finalmente, con il giornale ormai stampato e consegnato, i
flyers ritirati, gli archivi aggiornati e le carte in ordine, chiusi l’ufficio –
questa volta a chiave – mi concessi una lunga doccia ristoratrice e mi diressi
lentamente verso il Crew Bar. “Beer me up, Jeremy”, feci al barman che asciugava
un bicchiere con il suo canovaccio da barman. Lasciai che il liquido mi lavasse
la tensione della giornata, con i gomiti pesantemente appoggiati al bancone.
Qualche minuto dopo mi raggiunsero R. e A., due ragazzi
della Security, tipi in gamba,
indiani, molto tranquilli, due che non diresti mai che potrebbero fare i Security; al massimo i poliziotti di
quartiere, di quelli che aiutano le vecchiette ad attraversare la strada. Raccontai
loro brevemente la vicenda – omettendo il coinvolgimento di D. per mancanza di
prove – e A. mi rispose che sì, aveva visto un cappello da cowboy nella garbage
area, appoggiato sulle casse di legno affianco agli armadietti degli stewards! Mentre mi precipitavo a
controllare pensavo che D. doveva essersi accorto di essersi tradito, e per non
rischiare aveva abbandonato il cappello alla prima occasione disponibile. Ma una
volta giunta sul luogo del ritrovamento, non vidi nulla che assomigliasse al
mio cappello. Tornando indietro incrociai l’esercito dei Crew Stewards impegnati in un meeting informale in mezzo al
corridoio, con il loro capo R. intento alla perfetta esecuzione di una mossa di
break-dance, la testa sulla moquette e i piedi in aria in una posa plastica. Sono
loro che si occupano della manutenzione dell’area Crew, si intrufolano
ovunque, nelle cabine, nei corridoi, negli uffici; sanno sempre tutto. R. è
amico mio, non abbastanza da informarlo a proposito di D. ma abbastanza da
volermi aiutare. Uno dei suoi ragazzi, in effetti, aveva trovato un cappello da
cowboy nella spazzatura (per fortuna tra la carta e il legno). Ritenendolo troppo
bello per venir sminuzzato dal tritarifiuti e divenire cibo per pesci, l’aveva
raccolto dal bidone e appoggiato sulla famosa cassa di legno, affianco agli
armadietti, proprio dove A. mi disse di averlo visto. Mi accompagnò nuovamente
sul posto, ma il cappello, come già avevo notato, era nuovamente sparito.
Questa, finora, è la storia del cappello scomparso, che sta
passando di mano in mano per tutta la nave e forse potrebbe raccontare questa
storia da un altro punto di vista. Chissà se tornerà mai in possesso della sua
legittima proprietaria?
mercoledì 5 settembre 2012
centoundicesimo giorno di imbarco - Goodbye Bergen
![]() |
| Ufficio Picasso |
Tranquilli: ho avuto la meglio sulla tempesta. Altro che
Conrad. Non siamo nell’Oceano Indiano, non siamo su una bagnarola che trasporta
centinaia di clandestini cinesi, non siamo nell’800, ma anche noi abbiamo avuto
il nostro Tifone – o quasi – e ci stiamo preparando ad affrontarne un altro!
Anche stanotte, infatti, si prevede un bel charleston marinaro. Posso dire con
una punta di orgoglio che non soffro particolarmente il mal di mare – almeno da
questo punto di vista posso guardare da pari a pari i miei amici di macchina, i
plumbers, i firemen e quei pochi ufficiali con cui parlo volentieri. Più che
altro, il mare grosso mi fa dormire, muovendo la nave come se fosse la culla di
un bambino.
Qui potete avere un'idea di come fosse conciato il mio ufficio stamattina
(in foto e video). Le stampanti e le risme di carta bloccavano la porta
dall’interno, tanto che per entrare ho dovuto puntellarmi con i piedi sul muro
del corridoio su cui da il mio bunker, e spingere con la schiena. Poi ho
passato un’ora a rimettere tutto a posto.
A parte questo, ho dimenticato di raccontarvi due piccoli aggiornamenti
sulla vita di bordo.
Primo, molto importante, ho ricevuto un nuovo bigliettino
dal mio engine dpt, dice “Ogni giorno
sei sempre più bella – engine dpt”

Secondo, la mia cabin-mate
sta facendo il turno di notte, quindi da un paio di settimane ho la cabina
tutta per me dalle 10 di sera alle 8 del mattino. È molto piacevole, ma c’è un
prezzo da pagare. Durante tutto il giorno lei dorme. Inoltre l’altra notte si è
dimenticata il cellulare in cabina, con la sveglia puntata alle 5.30 del
mattino. Mi sono alzata, sono scesa dal trampolo che costituisce il mio
giaciglio, ho spento il cellulare, sono tornata a letto a fissare il soffitto
per un’ora, dopodiché mi sono vestita e sono andata a fare colazione, incazzata
come un’ape. Alle 7 e mezza sono uscita sul ponte aperto per fumarmi una
sigaretta e cercare di farmi contagiare dalla pace dei fiordi, e cosa mi becco?
La manovra di attracco. Lorenzo, ufficiale deputato a questo compito, se ne sta
di vedetta su una terrazzina di prua, tutto imbacuccato contro il freddo del
mattino norvegese, con la radio in mano, vigile come una mangusta osservando da
tutte le parti e gridando ordini a destra e a manca. Dal ponte di prua e di
poppa vengono lanciati a terra dei cavi che servono a trainare a riva le cime –
grosse come piccoli tronchi e probabilmente più pesanti, impregnate come sono
d’acqua, infatti ci vogliono 5 uomini per trasportarle e legarle a grossi perni
incassati nel terreno. Tutto questo mentre la nave è ancora in movimento,
lievissimo, con i motori che danno scosse delicate ma continue per aggiustare
la rotta e avvicinare il mostro galleggiante alla bachina quanto più possibile.
L’inerzia è una brutta bestia, e si sa; la forza più infida nel gioco
dell’universo. Ma non avevo mai concretamente riflettuto su quanto sia
difficile fermare un colosso come la nave su cui mi trovo ora. Farla partire,
certo, richiederà un gran dispendio di energia; ma fermarla, è ancora più
difficile, perchè la manovra dev’essere precisissima, nonostante il vento, le
onde e i kraken. Un colpetto indietro, un colpetto in avanti. Uno a destra –
no, troppo, uno a sinistra, un altro indietro. E così via per diversi minuti.
Intanto gli uomini a terra stanno issando le cime. Una volta assicurate, i
marinai di bordo iniziano a tirarle sempre di più fino a che sono tese al
massimo delle loro possibilità, e mano a mano che vengono tese rilasciano una
pioggia scrosciante, come un asciugamano strizzato. Alla fine la nave è più o
meno ferma e più o meno saldamente ancorata a riva grazie alla rete di cime. Si
può montare la passerella che copre la breve distanza che ancora la separa da
terra: non più di 3 metri, che ho percorso centinaia di volte senza pensare a
tutto il lavoro significano.martedì 4 settembre 2012
centodecimo giorno di imbarco, at sea
Mare grosso. Dagli oblò si vedono onde alte anche 10 metri o
più, ma lo spettacolo a cui assisto all’interno della nave è altrettanto
impressionante. Il mobilio ha preso vita; come in una parodia di un film
Disney, armadi e cassetti si aprono secondo la propria volontà, le stampanti
camminano, il getto della doccia sceglie tutti i percorsi possibili tranne
quello che lo porterebbe alla mia pelle, assecondando l’inclinazione
dell’orizzonte (o della nave, a seconda dei punti di vista); crewmembers e passeggeri girano come
ubriachi nei saloni semideserti, camminando storti come alberi cresciuti sulle
pendici di una montagna troppo ripida, o cozzando ora contro un muro, ora
contro l’altro. Tutto risuona: le pareti scricchiolano; gli ometti appendiabiti
dentro il guardaroba tintinnano l’uno contro l’altro; piatti e bicchieri
continuano a cadere con un gran fracasso, in armonia con tutto ciò che non è saldamente
fissato alle pareti. La nave stessa sembra mugghiare come una bestia. In questo
bizzarro concerto si fa notare il quasi totale silenzio dell’essere umano,
impegnato ad aprire la bocca il meno possibile per paura di quello che potrebbe
uscirne. La situazione stomacale della crew
è talmente disperata che uno di macchina è venuto a chiedermi se, per caso, non
avessi delle pillole contro il mal di mare: non so cosa sia più utile a rendere
l’idea della situazione, se il fatto che un marinaio mi chieda delle pillole contro
il mal di mare, o il fatto che in infermeria le abbiano finite!
A causa del maltempo abbiamo dovuto saltare la sosta di
oggi. Geiranger: un posto che con la sua gente, l’ambiente naturale e il bar
più carino d’Europa, mi ha fatto seriamente prendere in considerazione l’idea
di sbarcare e finire la stagione in questa landa sperduta della Norvegia. Un
luogo che passa dai 250 abitanti d’inverno ai 10 mila d’estate; pieno di
giovani che, nonostante l’apparente isolamento, sono intraprendenti, colti,
tolleranti, che conoscono e amano il posto che l’universo ha assegnato loro, e
non hanno nessuna voglia di andasene a vivere da un’altra parte. Geiranger è
rapidamente diventato uno dei miei luoghi preferiti. Mi incuriosisce
profondamente perché è diverso da qualunque cosa il mio paese abbia da offrirmi
e soprattutto perché ospita elementi che non pensavo potessero trovarsi insieme
nello stesso posto.
Questa è la mia ultima settimana in Norvegia, e oggi ero
pronta all’addio; invece non ho potuto salutare né la città né le mie amiche
che ci vivono e gestiscono il famoso bar.
Vorrà dire che dovrò tornare.
venerdì 31 agosto 2012
centoseiesimo giorno di imbarco, at sea
![]() |
| "The Golden Prison" - "Almeno..." |
A volte lavorare qui è veramente difficile. Non per il
lavoro in sè, ma per le condizioni in cui viene svolto. Ogni giorno stampiamo
il programma di navigazione (un quotidiano di 4 pagine che contiene tutte le
informazioni relative al giorno successivo) per 2900 persone, il 8 lingue; io
personalmente mi occupo di 6 lingue, italiano, inglese, francese, spagnolo,
portoghese e tedesco, mentre il russo e il giapponese sono di competenza dei
madrelingua – causa di forza maggiore. Non so bene come darvi l’idea della mole
di informazioni che vanno raccolte, tradotte ed impaginate ogni giorno. Raccolte
le info, faccio la bozza in italiano, che deve passare il controllo del famoso
DS e del Cruise Director; una volta finita, preparo le altre lingue, per
sottoporle infine al vaglio delle hostess madrelingua. Naturalmente, non tutti
i giorni devo fare 6 Today (questo il
titolo del quotidiano) da zero; di solito parte delle informazioni è già stata
tradotta o addirittura impaginata per la settimana precedente, quindi, quando
gli itinerari si ripetono, mi basta prendere il programma della crociera scorsa
e aggiornarlo.
Non sarebbe tanto male, se il computer non si bloccasse ogni
dieci minuti. A volte, dopo un intero pomeriggio di lavoro, il monitor decide
di spegnersi. Ma questo è il meno; credo che l’improvvisa sparizione dal
desktop di tutte le icone e di tutte le finestre aperte, compresi i file su cui
sto lavorando da ore – spesso tutti e sei contemporaneamente – mi abbia portaro
ragionevolmente vicina ad un esaurimento nervoso, le prime due o tre volte che
è capitato (dopodiché ho imparato a salvare tutto ogni 3 minuti). Lo stesso si
può dire per altri eventi misteriosi legati alle strabilianti performance dei
nostri computers: ad esempio, files che non vengono salvati nonostante
amorevoli cure e numerosi “salva con nome”. Oltre a questi eventi catastrofici,
si verificano continuamente piccoli ma fastidiosissimi intoppi dovuti all’età
dei computer o alla qualità dei materiali che usiamo. Ad esempio, il programma
di impaginazione ci mette un minuto e mezzo per avviarsi; il computer stesso,
almeno 5 minuti per accendersi; se faccio più di 20 o 30 fotocopie in fila, la
Ricoh si blocca e bisogna smontarla per togliere i frammenti di carta che
rimangono all’interno; usiamo una versione di Word troppo vecchia e 2 volte su
5 non leggiamo i documenti che ci mandano; e via dicendo. Questo per quanto
riguarda i materiali.
Poi c’è tutta la parte legata alla stupidità umana e al
fatto che in questa compagnia è abbastanza facile fare carriera – sospetto che
i migliori, appena trovano una strada che li porti via da qui, la prendano, col
risultato che una buona percentuale di graduati è composta da grandi teste di
cazzo.
Un grosso problema deriva dal fatto che le procedure
lasciano grande spazio all’interpretazione: per citare un vecchio pirata, “il
codice è più che altro una traccia”. Genova non desidera o non è in grado di
centralizzare il comando, per cui ogni nave è un mondo isolato e funziona in modo
diverso dalle altre. La decentralizzazione sarebbe una scelta vincente, se le
navi fossero guidate (metaforicamente) da gente in gamba, ma considerando che
le decisioni sono in mano alle suddette teste di cazzo, finisce che è persino
difficile stabilire cosa è importante e cosa non lo è; finisce per essere tutto
di importanza vitale, tutto uno stress, una calamità, tutto questione di vita o
di morte, per esempio: il menu riporta mezzopollo alla griglia con insalata,
mentre il cuoco servirà mezzopollo alla griglia con insalatina di stagione: “How
comes!?!”, come è possibile!?! Bisogna ristampare 2700 copie con la nuova
dicitura. L’esercitazione è alle 18.10 invece che, come da programma, “alle 18 circa”: non sia mai. E allora, riaccendi
il computer, riavvia il programma, dialoga con la stampante per convincerla a obbedire,
riprogramma le impostazioni di stampa che regolarmente vanno perse ogni volta,
e via dicendo; tutto per una stronzata, tutto perchè, quando la persona che
comanda non ha esperienza, controllo e prospettiva, si fa venire i capelli
bianchi per ogni cosa, e li fa venire anche a chi è così sfortunato da lavorare
per lui.
Con un armatore così assente, ti rendi conto di quanto tu
sia solo. Quello che succede in nave resta sulla nave; o sarebbe meglio dire,
di quello che succede in nave, a Genova non importa un fico secco, fino a che i
conti tornano. Se manca la carta igienica e il budget del mese è finito, cavoli
nostri (sto esagerando; la carta igienica non manca mai, tranne quando l’Omino
delle Cabine si dimentica di distribuirla. Ma il discorso vale per altri generi
di prima necessità quali, ad esempio, pasta, o limone, o inchiostro, o
sigarette, o carta, e via dicendo). Se ho un problema per il quale necessito l’aiuto
o la supervisione del mio corporate,
affari miei. Gli uffici di Genova non sanno assolutamente niente della vita di
bordo - e come potrebbero, quando nemmeno i capi sanno niente della vita del
loro equipaggio, visto che conducono una vita separata dalla nostra, in suite
con coperte in piuma d’oca, tra frullati di frutta fresca e aragoste al vapore,
mentre noi dividiamo un bagno in 4, mangiamo riso bollito tutti i giorni e
camminiamo su pavimenti sporchi tirandoci dietro nugoli di polvere vecchi di
settimane?
Qui c’è da sbrogliarsela con quello che abbiamo a bordo, che
si tratti di un guasto al motore o alla stampante, di un problema al satellite
o al consumo di pomodori, come anche di organizzazione e di rapporti
interpersonali. Inutile sperare in un aiuto da Genova, e in questa terra di
nessuno ciascuno cerca di cavarsela al meglio giocando il proprio vantaggio a
discapito degli altri; specialmente i capi dipartimento, cioè la piccola
nobiltà, sempre impegnati a lucidare le apparenze e a consolidare il proprio
prestigio. Se il ponte B è sporco, fa niente. L’importante è che “di sopra”
nessuno se ne accorga. Dire sempre “sì” e poi fare di testa propria. È molto
facile: ai capi, come a Genova, non importa nient’altro che ciò che appare ai
passeggeri.
lunedì 27 agosto 2012
centoduesimo giorno imbarco, Tallin - antico cantico medievale in onore del Banchetto di Milady
La canzone della tavola imbandita
Del
piatto, del coccio, della carne condita
Del
boccale e del cucchiaio
Dei
ghiotti frutti del granaio
| Benvenuti all'Olde Hansa, taverna medievale di Tallin. Niente da invidiare al Puledro Impennato, anche qui la servono in pinte. Direttamente in vasi di terracotta. |
Del formaggio e dell’arrosto
Del
sugo che cola sul segnaposto
Del
burro, del miele, della marmellata
E
delle pietanze a cui va accompagnata
![]() |
| Qui potete osservare Milady prima del Banchetto. Non ci sono foto di Milady dopo il Banchetto, non avevamo il grandangolo. |
Dei nasi che svaniscono dietro alla pinta
Dei
fori ormai inutili della cinta
Del
buco ventrale che sempre avanza
Per
fare spazio alla dolce pietanza
Della
pancia ormai pesante
Del
sonno grasso del viandante
E
della consorte del grasso oste
Che
grazie al viandante ci paga le imposte.
![]() |
| Arrivederci Tallin, grazie per averci accolti, e a presto. |
venerdì 24 agosto 2012
lunedì 20 agosto 2012
Novantacinquesimo giorno di navigazione, Stavanger
Ormai sapete che, quando dormo, nel mio cervello si
sviluppano trame degne del miglior regista che abbia mai imbracciato una
videocamera. Nel sogno, tutti i miei sensi sono all’opera: tocco, gusto, annuso
persino. Non vi dico che figata quella volta che ho sognato di mangiare il
risotto alla milanese!
Stanotte però ha fatto due sogni tra i più strani di sempre.
Nel primo, complice un’ambientazione da Signore degli Anelli, si scontravano
due tribù di orchi: una, quella dei Buoni, era “vegetariana” cioè non mangiava
carne di esseri umani o di altri orchi; l’altra invece era composta da
individui sadici e crudeli, che non esitavano a divorarsi l’un l’altro, se la
situazione lo permetteva, dediti alla guerra e alla violenza. Anche i buoni
erano guerrieri, e durantre il sogno si battevano contro i cattivi al limitare
di una foresta. Spade sguainate, scudi frantumati, una battaglia in piena
regola.
Il secondo sogno è stato ancora più bizzarro del primo.
Mi trovo nell’androne del palazzo dove abitavo da bambina,
un luogo che nei miei ricordi infantili è permeato di quiete, fresco, rumori
lontani, penombra, un pizzico di mistero, colori caldi impreziositi dai
riflessi dorati, verdi e blu delle decorazioni lucide e dei vetri colorati
delle finestre. Appeso al muro davanti a me c’è un grande specchio (che
attualmente si trova del bagno di casa mia a Milano, ma che è più vecchio di me
e fa parte dell’arredamento da quando sono nata). Accanto allo specchio ci sono
i miei genitori. Tutto sembra sospeso nel tempo. Dalle scale guardo verso lo
specchio, mentre mia madre lo sta coprendo con un lenzuolo bianchissimo,
bagnato, in modo che l’acqua faccia aderire la stoffa al vetro. Tutto qua. Non pensavo
e non provavo assolutamente nulla, io che nella vita reale non sono in grado di
smettere di pensare nemmeno se ci provo; in quel momento, la mia mente era
vuota, bianca come il lenzuolo.
È la prima volta che il cinema della mia mente produce un
film di nicchia surrealista...
venerdì 17 agosto 2012
Novantaduesimo giorno di navigazione, at sea
Rieccomi dopo molti giorni di assenza.
Il satellitare fa i capricci e va ad aggiungersi alla lunga
lista delle Cose Che Non Funzionano, rendendo l’aggiornamento del blog una
materia complicata (erano previste delle immagini per gli ultimi due post, ma
la connessione la pensa altrimenti); inoltre me la sto abbastanza spassando,
attività che rosicchia quasi tutto il mio tempo libero. Non ci sono grandi
novità, dopotutto; il lavoro procede con una monotonia rassicurante che mi
lascia il tempo di leggere, pensare, festeggiare e, se avanza qualcosina,
dormire un po’! In realtà dormire diventa sempre più difficile mano a mano che
festeggio, perché festeggiando stringo legami, legami che poi richiedono tempo
per approfondirsi; desidero passare più tempo possibile con le persone che mi
piacciono, specialmente considerato che le amicizie, qui, hanno una data di
scadenza.
La settimana che si conclude con oggi (qui le settimane
iniziano di sabato, che è il giorno di imbarco) non mi ha offerto grandi spunti
per un racconto, quindi; solo episodi di vita quotidiana che, come mi sto
accorgendo con una punta di preoccupazione, rientrano in quella che per me è
diventata la normalità. 3 mesi; è il tempo che ci vuole ad abituarsi a questa
vita. Il corpo ha preso i ritmi e si è adattato alla luce, all’aria, all’acqua;
le giornate di navigazione non mi pesano più, non sento quasi più l’esigenza
intransigente di scendere a terra, come all’inizio, specialmente se approdiamo
in porti che ho già visitato 5 o 6 volte – salvo poi percepire un gran senso di
sollievo e libertà (illusione!) quando qualcuno dei miei amici mi trascina a
terra, strappandomi al mio sonnellino pomeridiano. Comincio a capire cosa
volevano dire i miei colleghi quando mi spiegavano che questa vita è
assuefacente. Sostengono anche che, nonostante dopo 6 mesi di contratto non
vedi l’ora di sbarcare da questa prigione, una volta a terra ti manca. Non so
se sarà il mio caso; certo è che la capacità di adattamento che dimostriamo è
un aspetto davvero interessante della nostra natura. Io però non sono certa di
volermi adattare del tutto alla vita di bordo. Ci sono cose a cui sarebbe
meglio non adattarsi; ad esempio, la totale mancanza di rispetto della
compagnia, che ci munge come mucche da latte e non ci considera degni nemmeno
di un buon pasto. Ma è solo un esempio.
A proposito di pasto.
Dopo le feste, i crewmembers più nottambuli sono soliti
concludere la serata con una spedizione ninja in cucina o in panetteria per
fare incetta di focaccine. È vietato, naturalmente, ma questo non sembra aver
mai preoccupato nessuno. Purtroppo, questa settimana uno dei nostri non è stato
abbastanza ninja e si è fatto beccare dallo Chef, il Re del grande Galley
Kingdom. Il Re ha riportato la cosa, e siccome tra le fila più umili dello
stato maggiore è recentemente è imbarcato un nuovo Cerbero, l’assistente del DS
(il Direttore dei Servizi è resposabile food&beverage),
lo sfortunato crewmember si beccherà un warning;
ma questo è il meno. Temo che in futuro solo i più coraggiosi oseranno
avventurarsi nottetempo nel Galley Kingdom, anche se in una provincia sperduta
come quella della Panetteria; col risultato che ci sarà meno da mangiare per
tutti.
Già prima di imbarcare mi era giunta notizia dello stato di
fame perenne della ciurma. Durante il corso al CMA di Genova Pegli, ad esempio,
la mia compagna di stanza usava raccontarmi con nostalgia delle lasagne di sua
mamma; un collega cantava le lodi della pizza che aveva mangiato l’ultima sera
prima di partire, un altro si commuoveva al pensiero del filetto che lo
aspettava una volta tornato a casa. Mano a mano che incontravo nuove persone,
mi rendevo conto che c’era uno schema in questi episodi. I nuovi imbarchi non
parlavano mai di cibo (non sapevano ancora a cosa stavano andando incontro). I
naviganti con pochi contratti alle spalle, da uno a 5 anni, parlavano
continuamente di cibo. I veterani non ne parlavano quasi più.
Il punto è che i pasti della mensa superano per un soffio la
soglia della commestibilità; e cioè che è quasi gradevole ci viene propinato
tutti i giorni, un pasto dopo l’altro, fino a perdere ogni attrattiva.
I crewmembers hanno sempre fame. I commensali
– specialmente gli italiani – ricordano con rimpianto la cucina casalinga come
dannati in un girone dantesco. Rubare cibo dal Kingdom è quasi una forma di
ribellione, quel briciolo di ribellione travestito da bravata di cui ancora
sono capaci coloro che si sono abituati.
Iscriviti a:
Commenti (Atom)










