current adventure: "How to be a Grown Up"

current adventure: "How to be a Grown Up"
description: jack si avventura nella giungla metropolitana; chi può sapere a cosa va incontro?
goal: capire cosa fare della propria vita
status: in corso

martedì 13 novembre 2012

sabato 27 ottobre 2012

acquarello di un ritorno



Quando l’autostrada, immersa nel piatto acquitrino padano, ti ispira pace e pensieri profondi, e la barriera di Agrate ti fa scodinzolare come un cane che senta il rumore dei pmeumatici del padrone sul vialetto di casa; quando il cielo grigio pallido e la nebbia che si appiccica ai capelli ti fanno sobbalzare il cuore di gioia; quando persino la pioggerellinna insistente e il freddo umido ti sembrano confortanti, mentre fanno brillare le luci del traffico del venerdì sera come un albero di Natale; allora, cara mia, fattene una ragione. Sei milanese; nel corpo e nell’anima.
Ma lo sapevi. Lo sapevi. L’avevi intuito, soprendendo te stessa sull’orlo di una crisi di aggressività, mentre osservavi il Peruano Lento muoversi alla moviola; già lo sospettavi, nel fastidio di fronte alla disorganizzazione del processo decisionale nel team dell’ACD. Lo sapevi anche prima di partire, ma non volevi ammetterlo, e tentavi di smussare gli angoli di questa dura verità con il classico “ma-Milano-ha-i-suoi-angoli-di-bellezza”, tipico di chi la ama incondizionatamente ma non sa perché.

Ora basta. L’amore non vuole ragioni. L’ami, e non c’è su questa Terra peccato più grave che rifiutare l’amore. L’ami come si può amare un uomo bello ma ispido e trascurato, con un brutto carattere, con tanti difetti e contraddizioni, ma in fondo affidabile e capace di preziosi momenti di dolcezza, un amore di grandi sofferenze ma anche di grande rispetto e passione.

venerdì 26 ottobre 2012

centosessantaquattresimo giorno di imbarco



Milano (con tutto il suo contenuto) mi è mancata tutti i centosessantaquattro giorni in cui sono stata per mare, ma tra gli amici, i divertimenti e il grande impegno lavorativo, sono quasi sempre riuscita a tenere la nostalgia sotto controllo. Gli ultimi giorni sono stati diversi. Da quando il mio cervello ha realizzato che lo stavo riportando a casa, come un fiume che rompe una diga, immagini della mia città e delle persone che amo hanno cominciato a riversarsi davanti al mio sguardo; in modo che i miei occhi fisicamente trasmettessero al mio sistema nervoso le immagini degli interni della nave, ma il messaggio giungeva mixato con gli input provenienti dagli occhi dell’anima, come quando in TV mettono un numero di telefono in sovraimpressione.
In questo stato confusionale, aggravato dall’emozione degli ultimi abbracci, sono giunta al termine del mio viaggio.

In foto potete vedere l’enorme mole del bagaglio che mi riporto a casa, ma è nulla a confronto di quello che mi porto dentro!

Non so come ringraziarvi.
La vostra presenza famigliare e partecipe mi ha dato un grande conforto nei momenti difficili. Non solo: ha dato consistenza alle mie parole e ha permesso che un semplice racconto (che in fondo non è altro che una serie di caratteri allineati uno dopo l’altro) diventasse un reale veicolo di comunicazione, creatore di esperienza: proprio qui, a volte in pubblico, altre in privato (come nella vita reale) sono nate discussioni, pensieri, ci siamo scambiati affetto ed emozioni.
Il blog non è nulla; non è un vero diario di carta da passare ai nipoti, non è un libro, non è un bar dove chiaccherare davanti a un bicchiere di vino profumato; è solo una manciata di bits. Eppure, raccontarvi ed essere letta è stata un’esperienza altrettanto ricca e reale della nave.
Per questo vi ringrazio e non vi dimenticherò!

Domani ritorno.
Il blog non chiude (è aperto da quasi 6 anni), ma, come altre volte in passato, cambierà. Non so cosa mi riservi il futuro, ma spero di avervi ancora con me per la prossima avventura, grande o piccola che sia.




domenica 21 ottobre 2012

centocinquantanovesimo giorno di imbarco: "il mondo, in fondo, è lo stesso dovunque. Sono gli uomini che lo abitano a renderlo diverso"



Sto leggendo un libro che parla di un manipolo di marinai dell’antica Grecia. Partiti con la loro flotta da Troia in fiamme, volgono le prue verso casa per scoprire che non ne è rimasto più nulla; ovvero, le pietre, le strade e i palazzi sono ancora al loro posto, ma dopo 10 anni di lontananza, le loro mogli si sono trovate degli amanti, i loro genitori sono morti, i loro fratelli e gli amici periti in battaglia o dispersi in mare, insomma, più nulla appartiene loro, e loro non appartengono più a nulla. Allora proseguono il viaggio verso nuovi lidi e approdano – dopo varie disavventure – nella pianura Padana.

Mentre la Luminosa si allontana dal porto di Ajaccio, osservo le luci della città svanire lentamente inghiottite dalla notte. Penso a come potrei descrivervi la scena sorprendente che si apre davanti al mio sguardo: sorprendente perché la luce non si affievolisce gradualmente, come si aspettano i miei occhi; no, forma invece una specie di bolla luminosa che contiene la città, una bolla dai contorni piuttosto netti - come la corona intorno alla fiamma di una candela (molto più grande, naturalmente). Una nave, o è dentro alla bolla, o è fuori: per le luci del porto non esiste il crepuscolo. Il buio è una bestia incredibile che sembra divorare tutto, inghiottire tutto, con una profondità che toglie il fiato e che la luce artificiale non è in grado di tenere lontano, se non per un brevissimo tratto e – come una legione che difende una fortezza da un assedio – a costo di grandi sforzi. Ed è strano, perché le luci della città si vedono a grande distanza, eppure, poiché non hanno nulla su cui posarsi, non illuminano nulla: ed ecco il buio.
Io sono al sicuro, ho un posto dove tornare, e posso godermi questo spettacolo bello e terribile fino all’ora di andare a nanna. Penso a come devono essersi sentiti i marinai dell’antichità mentre lasciavano la “bolla di luce” del porto di turno per avventurarsi in mare aperto, con la pancia della nave che scivola pesantemente verso lo stomaco infinito della notte.

Sul fronte vita quotidiana, non ci sono grandi novità. Col mio sostituto va abbastanza bene, anche se segue ritmi di lavoro sudamericani (è peruviano); non so come potrà cavarsela nella frenesia delle mini crociere e del crossing transatlantico che lo aspetta, ma magari ha i suoi metodi, che io ancora non comprendo.
Ricevo molti meno regali, e non ho più ricevuto lettere d’amore, da quando è imbarcata la nuova hostess olandese, una stangona biondissima e gnocchissima che non lesina sull’ondeggiamento di ciglia e che ha incantato ricchi e poveri. Gli uomini le ronzano intorno come mosche al miele, letteralmente, dovunque lei si sposti è seguita da una scia di ammiratori che la raggiungono con un moto più o meno elastico e le aprono tutte le porte della nave, sperando di poterle aprire quelle delle loro cabine. Un paio di miei amici hanno passato diverse ore nel mio ufficio a parlarmi di lei e mi hanno investito della funzione di corriere per recapitare fiori e biglietti. Trovo tutto ciò divertente e irritante al tempo stesso. Il mio ego sgomita messo da parte, e le mie manie di protagonismo si indispettiscono a recapitare complimenti all’indirizzo altrui; ciononostante, lei è forte, onesta, simpatica, e – bisogna ammetterlo – bella che è un piacere guardarla, e questa situazione ha contribuito a stringere per me alcuni legami di complicità molto piacevoli. Due sono le cose che mi domando: come mai questo tipo di donna sembri innamorarsi sempre degli uomini sbagliati, e come sia possibile che gli uomini che le fanno la corte (almeno la maggior parte di loro) non abbiano alcun contatto con la realtà. Non per fare del classismo estetico, Quasimodo può certamente conquistare Esmeralda; ma prima deve salvarle la vita e sgominare un complotto nazionale (e anche allora, ci sono buone probabilità che la ragazza scelga comunque il bellone). Non è che le situazioni eroiche crescano sugli alberi...

venerdì 19 ottobre 2012

centocinquantasettesimo giorno di imbarco



Oggi è imbarcato il DTP che dovrà sostituirmi.
Raramente sono stata più felice di vedere qualcuno. Lui sa. E lo ha dimostrato ha pronunciando le parole segrete dell’Ordine dei Cavalieri Della Tipografia, cioè:

“Solo un DTP capisce un altro DTP”.

Il mio imbarco è ormai agli sgoccioli (metaforicamente; qui non è certo l’acqua a mancare).

La mia mente è talmente satura da non riuscire a cullare un pensiero che valga la pena di essere scritto, per un tempo sufficiente perché io mi accorga della sua esistenza.
Il blog e i suoi lettori mi mancano molto, ma dopo 12 ore di tap-tap-tap le mie dita si rifiutano di obbedire e le uniche posizioni che desiderano assumere sono quelle che le vedono strette attorno ad un bicchiere di vino, delicatamente appoggiate al filtro di una sigaretta, o meglio abbandonate mollemente al loro destino sul bordo del letto.

lunedì 8 ottobre 2012

centoquarantaseiesimo giorno di imbarco - pagine di diario sparse e svolazzanti



2 ottobre
Non ho proprio voglia di scrivere. Mi sto costringendo a forza a non spegnere il pc e aprire, invece, il libro che mi ammicca malizioso dal centro del letto e che tengo sotto controllo con la coda dell’occhio, perché non scappi. In questi giorni di bufera, i pochi minuti che riesco a leggere prima di andare a dormire sono come una promessa, un premio che allevia le mie fatiche trasportandomi lontano dai corridoi di ferro e dal rumore delle fotostampatrici, dalla nostalgia e dalla solitudine.

Il 95% dei miei amici è sbarcato, mettendo a nudo una consapevolezza che da tempo maturava ma che, nascosta dalle risate, dalle feste, dalle città sorprendenti che ho visitato e dagli affetti di cui mi sono circondata, non aveva trovato spazio per affiorare in superficie. Questa vita non fa per me.

Ora che Eva è tornata a casa, sto lavorando letteralmente per due persone: mi sono stabilizzata tre le 14 e le 16 ore. Non ho il tempo per chiaccherare con i colleghi che passano: ogni secondo è prezioso, le scadenze sono serrate, l’errore è dietro l’angolo, le cose da ricordare sono tante e richiedono una concentrazione quasi al di sopra delle mie ridotte capacità mentali. Ah, la concentrazione non è mai stata il mio forte, ma non è che posso permettermi di farmi distrarre da una farfalla in volo o dalla nuova puntata della mia sit com preferita. Primo, perché farfalle non ce ne sono, secondo, perché ogni minuto perso significa limare ulteriormente il mio già breve periodo di riposo giornaliero. I crew party sono un lontano ricordo, e l’altro ieri uno dei miei amici di macchina è venuto a portarmi la merenda solo per controllare che non mi fossi persa tra le risme di carta, visto che il mio sgabello al crew bar è ormai ricoperto da uno spesso strato di polvere. E di visitare città, non se ne parla; sono 4 giorni che non vedo la luce del sole. Letteralmente. Ieri ho messo i piedi a terra nel porto di Ibiza per il tempo di una sigaretta. Il cielo era coperto e pioveva, ma mi bruciavano gli occhi per il riverbero della luce. Non ho nemmeno il tempo di salire al ponte aperto a guardare fuori. Oggi non mi sono nemmeno messa la divisa, ho lavorato in tuta tutto il giorno. Non oso immaginare quale spettacolo di abbrutimento offra la mia figura, mentre si aggira per i corridoi con gli occhi arrossati, parlando tra sè e sè, bianca come un cencio, ad eccezione delle profonde occhiaie a prova di fondotinta, con in mano fogli, telefoni e l’inseparabile thermos di caffè.

3 ottobre
Nonostante la pessima risoluzione, potete apprendere da
questo inequivocabile cartellone che è illegale non gettare
rifiuti fuori bordo.

Non è che il lavoro non mi piaccia. Ci sono alcune cose che non mi piacciono, come in ogni lavoro; ma in generale non è male e, mi stupisco persino io, la responsabilità e la pressione quasi mi divertono. Ci sono volte in cui rischio di farmi prendere dal panico, e comunque sono sempre in attesa del momento in cui farò una clamorosa cazzata, ma ho scoperto con grande sorpresa che mi piace prendere decisioni e metterci la faccia. Quando avevo Eva, era lei la responsabile. Questo rendeva tutto molto più leggero per me, ma in qualche modo anche mi bloccava. Non so quante volte le avrò chiesto le cose più minute, chiedevo l’autorizzazione per tutto, mentre ora, anche quando si presentano situazioni che non ho mai visto prima, mi muovo molto più velocemente e con serenità. Ora che sono io stessa responsabile delle mie azioni e delle mie decisioni, ho meno paura di fare errori; inoltre, il mio cervello accorre sempre in mio aiuto, quando la situazione si fa disperata; il resto del tempo tende a sonnecchiare.

4 ottobre
Oggi ho litigato con un Primo Ufficiale di Ponte.
Mi sto impuntando su alcune cose che, anche se non produrranno benefici a lungo termine (ormai non mi illudo di questo), mi mettono leggermente al riparo dai capricci altrui e mi concedono anche qualche soddisfazione. Lo schema è il seguente: per la stampa del Today e dei menu, mi devono arrivare delle informazioni; dichiaro la dead-line e avviso che, se non le ricevo, stampo senza. Non è sempre possibile, ma qualche volta sì. Lo chef, il ponte, i capi dipartimento, all’inizio non capiscono che faccio sul serio, quando dico loro di no. No, non si può ristampare; no, ormai è tardi; no, oggi non posso, domani. Pensano che insistendo otterranno quello che vogliono, e qualche volta è così, ma spesso, invece, finisco per spuntarla. Oggi ad esempio è venuto il Foto Manager a chiedermi dei biglietti da visita, nel bel mezzo della bufera del pomeriggio, quando ho tutte le hostess in ufficio e gli omini dell’Housekeeping e il Front Desk e l’ACD che chiama e lo Chef che mi scrive e Erodil che chiede se può stampare e Madame che viene per i flyers. Non se ne parla...

I più difficili da addomesticare sono gli Ufficiali di Ponte (ci sono quelli di Ponte, quelli di Hotel e quelli di Macchina, i terzi sono gente molto più simpatica, con la tuta piena di macchie di grasso, anche se non disdegnano l’occasionale sfruttamento della gerarchia di bordo per ottenere favori).

Sul Today devo pubblicare, tra le altre cose, un bollettino meteorologico; ma farsi arrivare le informazioni meteo sembra un’impresa disperata. Basterebbe che mi abilitassero la connessione internet, me le procurerei da sola; ma la compagnia preferisce la strada più complicata. Il problema è che la procedura non specifica chi debba mandarmele, e nessuno si vuole sobbarcare l’onere; così ogni giorno dovevo rincorrere Tizio o Caio e pregarli di farmi sapere che tempo farà domani.  Oggi, per l’ennesima volta, questa benedette informazioni non volevano arrivare. Per l’ennesima volta i candidati meteorologi mi hanno fatto telefonare ai loro concorrenti una decina di volte, scaricando il barile e scaricandolo, al colmo della pigrizia, per procura (cioè usando me come operatore telefonico). Alla fine mi sono stufata di fare da segretaria a tutti quanti e ho inoltrato un’email all’Hotel Director, al Cruise Director, all’IT Officer e al Ponte di Comando, specificando che Buon pomeriggio, non avevo ancora ricevuto le informazioni meteo. Non sapevo di chi fosse la competenza, ma non avevo il tempo di star dietro alle loro discussioni. Che si mettessero d’accordo e mi comunicassero la decisione; e che, se avevano intenzione di fornire ai passeggeri il servizio meteo, mi mandassero le informazioni entro le 5 del pomeriggio, o sarei andata in stampa con quelle vecchie. E per i giorni a seguire, sarebbero dovute pervenite entro le 10 del mattino, o niente. Grazie e buon pomeriggio.

5 minuti dopo mi chiama un tizio del Ponte, che senza presentarsi mi inveisce contro con una ramanzina sul mio inappropriato comportamento, che non era compito loro e che non mi permettessi mai più di minacciare il Ponte. Dopo avergli chiesto nome e cognome (M.S.D.V., Primo Ufficiale di Ponte), gli ho detto che mi rincresceva moltissimo se il mio comportamento l’aveva fatto sentire minacciato, ma che naturalmente non potevo fermare la stampa perchè mi mancava il meteo, e che, come lui, mi auguravo che questa situazione non dovesse più ripetersi. Con una minaccia degna del peggior mafiosetto di quartiere, M.S.D.V. mi ha ripetuto che “NO, MEGLIO PER TE CHE NON RICAPITI” e mi mette giù il telefono. Cantami o diva della pallida Irene l’ira funesta. Beh, per farla breve, il mio capo, l’Hotel Director (visibilmente sopreso di scoprire il mio lato guerrafondaio), ha telefonato capo di M.S.D.V.,cioè il Comandante, e il risultato è che adesso il Ponte mi manda il meteo alla fine di ogni crociera per quella dopo. Ahah.

8 ottobre
Se in condizioni normali sono una internetomane incapace di ignorare la posta elettronica per più di 4 ore di fila, da quando Eva è sbarcata il mio pc giace quasi dimenticato in un angolo dell’armadio. 5 minuti fa ho aperto la mia email per la prima volta da giorni e mi sono spaventata. Ci vorranno settimane per rispondere a tutti adeguatamente, specialmente visto che il mio corpo si rifiuta di restare a lungo davanti a un computer anche durante il tempo libero!
Devo ammettere che, però, la situazione migliora di giorno in giorno. Dalle 16 ore di lavoro quotidiano della prima settimana che ho passato da sola, ora mi sono stabilizzata su 10/12 ore. Ho ripreso ad uscire la sera – uscire, termine del vocabolario di bordo che indica l’azione di salire le scale che portano al crew bar – anche se la stagione dei crew party, per me, si può dichiarare conclusa! Esco soprattutto per contrastare la solitudine che mi accompagna da quando i miei compagnucci di merende mi hanno lasciata al mio triste destino: solo un DTP può capire i drammi di un altro DTP. Eva, se sei in ascolto sai di cosa parlo.

A parte questo, sono molto soddisfatta di come sto gestendo la situazione, per ora non c’è stato nessun problema e sto imparando a gestire il tempo in multitasking (so che non mi credi, ma è la verità!). Ieri ho avuto persino il tempo di mettermi lo smalto.

sabato 29 settembre 2012

centotrentaseiesimo giorno di imbarco, sullo sfondo il profilo disordinato di Barcellona dietro una cortina di pioggia



Telegrafica per temporanea intolleranza computer causa sovraesposizione stop
Collega Eva sbarcata stop
Rimasta sola lavoro per due stop
Oggi 14,5 ore lavoro non-stop stop
Rimproverata per bad attitude da hostess insicura che piange se non coccolata stop
Responsabilità adrenalina velocità mi piace stop
Buonanotte stop

sabato 22 settembre 2012

Centoventinovesimo giorno di imbarco – Marseille


È stata giustamente richiesta la mia presenza da queste parti, ed eccomi qui. Mi rendo conto che con questa discontinuità narrativa vi sarà difficile seguirni, perciò farò del mio meglio per farvi un breve resoconto della settimana appena trascorsa.

Vi ho lasciati alle porte del Mediterraneo. Cadiz, Malaga, Barcelona, Palma de Mallorca: si scrivono così, ma si leggono mare, Sole, spiaggia, sangria, tapas, abbronzatura, chitarristi spagnoli per le strade, profumo di sale, cocco e burro di cacao. Sole, soprattutto Sole, un Sole quasi africano che, dopo mesi di pallida luce scandinava, è accecante per gli occhi e per la mente. L’estate ritrovata ha agito come una droga sui membri dell’equipaggio, provocando per 3 o 4 giorni una persistente e diffusa euforia, accompagnata da un’epidemia di canti e danze ovunque possibile – il crew party (che il Cappellano organizza ogni settimana al fine di scaricare l’energia in eccesso) è stato particolarmente selvaggio, culminato, con mia grande soddisfazione, in un sorprendente giro di rock che ha scaldato gli animi troppo a lungo esposti a salsa, bachata e danza kuduro. 

(Curiosamente, mentre vi scrivo è appena iniziato l'autunno, il cui arrivo è passato completamente inosservato da queste parti)

Gli agenti atmosferici sono tra gli aspetti più interessanti del viaggio per mare, specialmente se si ha la fortuna di attraversare diverse latitudini (anche le longitudini hanno effetto sul tempo, ma quello cronologico, e per i marinai sono fonte di equivoci o seccature). Dopo la meraviglia delle lente giornate infinite e del tramonto infuocato di mezzanotte al largo della Norvegia, sono rimasta letteralmente senza fiato immersa nella totale oscurità della notte atlantica in Portogallo: buio, buio come non si può immaginare, così buio da non poter distinguere il mare dal cielo; così buio che la luce prodotta dai fari della nave è appena sufficiente a penetrarlo per qualche metro, per poi esserne inesorabilmente inghiottita. Al di la della schiuma prodotta dal moto della nave non vi è nulla, come se stessimo navigando nello spazio profondo, nel vuoto, in un universo di velluto nero. Questo genere di buio non si trova dalle nostre parti, o almeno, io non l’ho mai visto in Italia, nemmeno tra le colline semideserte del piacentino o dell’appennino toscoemiliano, né più a sud, né al mare, né in montagna, mai. È un buio che fa male agli occhi. Li apri, ma non succede niente. Allora li sgrani ancora di più, inutilmente, roteandoli in modo incontrollato alla ricerca di un oggetto dove posarli, come un assetato in cerca di una fontana. Fa male agli occhi e da l’impressione di essere ciechi (o almeno, quello che posso immaginare significhi essere ciechi). E ancora, tra le meraviglie del cielo: ho visto una cometa incendiare letteralmente la volta celeste e ho guardato il Sole tramontare; non un semplice tramonto, ho visto effettivamente il Sole nell’azione di tramontare – nel giro di pochissimi secondi, lo spicchio visibile della nostra stella si rimpicciolisce sempre di più fino che l’orizzonte lo inghiotte del tutto, così velocemente che non faccio in tempo a formulare nella mia testa il pensiero compiuto – per diversi secondi lo stupore mi preclude il senso di quello che sto vedendo.
Un vecchio disegno che ho fatto per Katrine, tempo fa.
Come a lei, ho dovuto e dovrò dire addio a molte persone che
mi hanno accompagnato. Nel momento in cui ho realizzato
questa cosa in profondità, non ho potuto fare a meno di
allontanarmi un pochino da tutti. Con Eva ci ridiamo sopra:
"Non essere triste per quelli che vanno via", mi dice, "vanno
un posto migliore". "Sì, muoiono!" e giù risate a crepapelle.
Beh, dovete esserci, per coglierne l'ironia...


Il ritorno in patria ha spezzato il ritmo del mio viaggio.

In parte perchè segna la fine del contratto di quasi tutti i miei amici; in parte c’entra sicuramente la visita coniugale, foriera di emozioni forti e contrastanti. In parte, poi, perché da questa settimana facciamo solo minicrociere da 3, 4 o 5 giorni, un ritmo quasi insopportabile per noi lavoratori, specialmente per la tipografia. Per finire, la prospettiva del prossimo mese è per me delle più disperate. La mia collega sbarca il 28 novembre e non mandano nessuno a rimpiazzarla. Un rapido calcolo mi permette di sommare i nostri orari, producendo una stima approssimativa per la mia giornata lavorativa di 16-18 ore. Non mi metto nemmeno a calcolare la mia paga oraria: credo che il dividendo non sia sufficiente a comprare un pacchetto di sigarette da 10.

Le forti emozioni, gli addii, i ritrovamenti e la stanchezza, alla lunga, sono un cocktail anestetizzante: arrivo alla fine della settimana con un unico sentimento di accettazione e indifferenza, che non mi piace, ma almeno mi protegge come una diga dal torrente di lacrime che minaccia di sfondare gli argini.

venerdì 14 settembre 2012

centoventesimo giorno di navigazione, Lisbona


Meravigliosa città! Vista dall’alto sembra l’interno di un geode, con gli edifici colorati cresciuti uno accanto all’altro occupando tutto lo spazio disponibile, i tetti come le punte apparentemente disordinate dei cristalli, a tratti l’aspetto un po’ scrostato delle città di porto – ma appena appena; profumata, vitale – e soprattutto calda, di un caldo secco figlio di un sole intenso come non ricordo di aver mai visto. Sono colpita dall’intensità della luce; o forse è una mia impressione, vuoi perché amo moltissimo questa città (e la bellezza sta negli occhi di chi guarda), oppure perché, semplicemente, nel giro di 72 ore ho viaggiato dal Mare del Nord all’Africa (o quasi). Ora che sono tornata a latitudini più ragionevoli, i miei occhi fanno fatica ad adattarsi, come se bevessero ad un cielo così profondamente azzurro per la prima volta.

Mi preparo. Domani, Cadiz: e poi, durante la notte passeremo nuovamente Gibilterra, ma al contrario, stavolta.

domenica 9 settembre 2012

centoquindicesimo giorno di imbarco - at sea. Delta X-ray


In una piccola città come questa, non succede mai molto: per questo motivo ogni piccolo avvenimento viene avidamente masticato e rimasticato, risuonando di bocca in bocca per molte ore; lo teniamo in vita il più a lungo possibile perché ci strappi alla monotonia di un tempo che scivola via senza lasciare traccia. Qui, infatti, non importano data e ora, è sempre lunedì mattina. Distinguere nella memoria un giorno dall’altro è molto difficile; così, quando accade qualcosa, l’avvenimento si imprime sulla linea del tempo come una pietra miliare, dando volto e nome ad un giorno che andrebbe altrimenti perso nell’anonimato della moltitudine.

Il giorno di oggi sarà sempre ricordato come il Giorno della Falla.

Intorno all’una di oggi pomeriggio il tubo principale per l’approvvigionamento dell’acqua si è rotto in circostanze misteriose, provocando un’emorragia idrica interna che ha allagato i ponti c, b e a nella zona verticale 6, a prua della nave, e causando diversi disagi fino al ponte 3. Dalle scale veniva giù acqua come se fosse un torrente. Lo stato maggiore ha subito ordinato la chiusura delle porte stagne e ha bloccato l’erogazione d’acqua al tubo ferito, per permettere l’intervento dell’Armageddon Team, che, altrimenti, sarebbe stato trascinato via dalla forza dell’acqua che scorreva.

L’Armageddon Team è composto dai Plumbers e dai Firemen, gente tosta piena di tatuaggi, cicatrici e macchie di olio sulla tuta. Li ho soprannominati Armageddon Team perché se ne vanno sempre in giro per la nave in formazione, i leader in testa, la squadra appena dietro, come guerrieri che hanno eletto i propri capi tra pari, col passo elastico di Bruce Willis e della sua squadra di trivellatori di asteroidi; sono loro che intervengono in caso di reale problema (un problema, cioè, che non coinvolge menù, insalatine o polli con crisi di identità). In genere non fanno gran che; e questo è un buon segno, perché significa che non ci sono problemi. Il mio amico Chief Plumber sta spesso a fumare allo smoking point giocando con una catenella, di quelle che si trovano attaccate al tappo del lavandino, arrotolandola e srotolandola intorno a un dito. Quando gioca con la sua catenella vuol dire che va tutto bene. È ormai un codice consolidato, e se mi vede nei corridoi la tira subito fuori per segnalarmi la normalità della situazione. È in generale molto lento in tutti i suoi movimenti e trasmette un’aria di grande tranquillità, nonostante la faccia da brutto ceffo che si ritrova. Oggi, l’ho visto correre. Correva tutta la squadra – era quindi evidente che ci fosse un problema che richiedeva l’intervento dell’Armageddon Team!

Niente paura: i nostri eroi hanno liquidato la questione nel giro di mezzora, lasciando campo libero all’esercito dei Crew Steward che si sono occupati dell’asciugatura (ci sono rimasta di sasso quando ho visto che aspiravano l’acqua con gli aspirapolvere...).

Qualche ora dopo ho incontrato il mio amico Chief Plumber allo smoking point, tutto intento ad arrotolarsi la catenella intorno al dito. Tutto a posto!
Mi ha raccontato del tubo e mi ha detto che quello che a me sembrava un fiume in piena, era in realtà una cosa da nulla. In una lingua a metà tra inglese, bulgaro e italiano, mi ha detto che “If the water comes from up, no interes! If it comes from down, then, uhhh!”

sabato 8 settembre 2012

centoquattordicesimo giorno di imbarco - goodbye my beloved magic copenhagen

da circa 5 ore siamo di nuovo in viaggio verso il mediterraneo. sono passati più di tre mesi da quando ho lasciato la terra natia, dove il mio corpo fanciullesco giacque, e sapere che presto tornerò in luoghi familiari, dove poter ordinare una pizza, comprare il mio dentifricio, o semplicemente non fare diecimila calcoli per capire quanti euro sto spendendo per un pacchetto di gomme, mi rilassa molto. ma la scandinavia mi mancherà, e copenhagen... beh, una storia d'amore non finisce per una mera questione chilometerica, e io mi sono innamorata di questa città, dei suoi profumi, dei suoi angoli, dei suoi caffè, le sue piazzette, i suoi colori, la musica che si sente dappertutto, la magia che sembra accadere non appena i suoi confini mi abbracciano.

a presto allora, mia amata! non dimenticarmi!

a proposito di amore, oggi eva ed io abbiamo ricevuto in ufficio un mazzo di fiori, anonimo. chi mai potrà essere stato? l'engine dpt? il ladro del cappello, per farsi perdonare? un ammiratore segreto? chissà se le prossime puntate sveleranno il mistero...

venerdì 7 settembre 2012

Centotredicesimo giorno di imbarco, Oslo – Goodbye Norway

A cavallo del fortunadrago
con Manu e Mau (dietro l'obbiettivo)
a spasso per la Norvegia


Ultimo giorno in Norvegia, e, beffa del fato, oggi a Oslo c’erano il Sole e una ventina abbondante di gradi. Eva ed io abbiamo salutato come si conviene questo meraviglioso Paese, che ci ha fatto da rifugio per 3 mesi: pranzo a base di salmone norvegese e sidro di pera, sedute al porto, ad un delizioso tavolino proprio sul mare. Ora mi trovo di fronte ad un angoscioso dilemma: non so decidere se preferisco il sidro di pera o quello di mela.

Domani dico arrivederci alla mia Copenhagen, dopodiché parte la traversata che, nel giro di 10 giorni, ci riporterà in mari nostrani.

Il mistero del cappello scomparso – epilogo, ovvero:
♪ “the Hat came back, the very next day”

L’aver ricostruito la vicenda del cappello per come poteva, con ogni probabiltà, essere andata, mi aveva portavo a metà nella risoluzione del caso. Non restava che ritrovare l’oggetto in questione: al riguardo avevo fatto però tutto il possibile. Mi concessi una pausa ristoratrice al Crew Bar, fiduciosa che i miei informatori avrebbero battuto i bassifondi della Città Galleggiante fino all’ultimo vicolo puzzolente.

Il mattino seguente venne troppo presto. Mi diressi in tipografia con gli occhi ancora a mezz’asta, in uno stato appena presentabile, con la solita bozza e il solito thermos di caffè. Non feci in tempo a buttare giù il primo sorso, che A., uno degli steward, si presentò con il mio cappello vagabondo. Non volle dirmi dove l’avesse trovato, né io insistetti per saperlo: come insegna il grande Holmes, meglio non indagare troppo sui metodi dei propri informatori, se si desidera mantenerli. “I picked it from somebody’s head”, si limitò a dire, lasciandomi nel dubbio de intendesse realmente somebody’s head o piuttosto some body’s head.

Così il circuito era chiuso, e il cappello era tornato nella sua posizione originale, dopo aver percorso strade e vissuto avventure che, probabilmente, non conosceremo mai. Restava solo una cosa da fare: D. non avrebbe affrontato la Legge, ma il suo gesto non sarebbe rimasto impunito. Evitò il più a lungo possibile di venire a trovarci, ma alla fine non potè più rimandare, e venne, più silenzioso del solito, per raccogliere i suoi dannati flyers.

“Ah, D., you know what? The hat came back.”
“Really? How?”
“I told some friend the whole story and one of them brought it back to me, after he found it in the garbage area.”
“In the garbage area?”
“In the garbage area.”

Silenzio. Non potevo perdere quell’occasione: era come giocare al gatto col topo.  
“I think that the thief realized we knew it was him, and decided to get rid of the hat. Because, you know, we know who took it”.
“Yes?”
“Yes.”
La sua vocetta acuta si era fatta stridula, e dovette accorgersene, perché tacque per parecchi secondi. Poi tastò di nuovo il terreno.
“My wife lost 3 pairs of shoes when she disembarked”
“Oh, but I didn’t lose it, did I?” ripresi, con gli occhi piantati nei suoi.
D. tacque di nuovo e lasciò l’ufficio senza sapere più dove guardare.
Poveretto. Non dev’essere piacevole sapere che d’ora in avanti, ogni giorno, non perderò occasione di ricordargli la propria stupidità.

giovedì 6 settembre 2012

centododicesimo giorno di imbarco - il mistero del cappello scomparso


Tutto iniziò quando J. mi regalò un cappello da cowboy scovato tra gli scarti di magazzino. Era un bel cappello, un po’ largo forse, ma perfetto per le mie serate a tema. Quella sera avevo un sacco di lavoro. Al momento del regalo la tipografia era gremita di gente – tutti volevano qualcosa da me, e non riuscii nemmeno a trovare il tempo di sfilarlo dalla plastica trasparente in cui era avvolto. Lo appoggiai su una mensola sopra la scrivania, tra i dizionari e le pile di documenti da spulciare.
Terminate le incombenze della sera, lanciai in giro una rapida occhiata e mi accorsi che non era venuto nessun a ritirare il materiale che avevamo stampato per l’House Keeping. Sfinita, senza più la forza di aspettare, lasciai la tipografia aperta e tornai in cabina, dove mi addormentai quasi subito guardando l’ultimo episodio di una saga famosa ai miei tempi, Ritorno al Futuro 3, abientato nel vecchio West dove tutti indossavano cappelli come quello che si trovava sullo scaffale sopra la mia scrivania, tra i dizionari e le pile di documenti, ancora avvolto nella plastica.

La mattina seguente entrai in ufficio alla solita ora, col solito thermos di caffè bollente in una mano e la solita bozza del giornale del giorno dopo nell’altra, non pronta ma rassegnata ad iniziare una nuova, faticosa giornata. La tipografia era ancora deserta – sono la prima ad arrivare – e i flyers per l’House Keeping erano stati portati via. Accesi la vecchia carretta che fanno passare per computer e attesi, consumando la mia colazione in un rilassato e prezioso silenzio. Non me ne ricordai che dopo alcuni minuti, quando il caffè cominciava a fare effetto ripristinando le sinapsi tra le mie cellule cerebrali: là dove avrebbe dovuto trovarsi il cappello, tra i dizionari eccetera, si trovava invece un vuoto eloquente. Il cappello era sparito.

Per prima cosa mi feci prendere dallo sconforto che di norma mi affligge quando perdo qualcosa, specialmente se di valore affettivo. La giornata iniziava male. I miei due colleghi e compagni di sventura, E. e M., non ne sapevano niente, e cominciammo a fare delle congetture. Dove poteva essere? Io ero assolutamente certa di non averlo portato fuori dall’ufficio; d’altronde, chi poteva essere entrato? Solo qualcuno con una ragione precisa per entrare. Nessuno sapeva che l’ufficio non era chiuso a chiave, tranne l’House Keeping, per via dei flyers da ritirare. Non volendo puntare il dito contro nessuno (e ritenendo l’accusa troppo assurda per essere presa in considerazione) lasciai fluttuare l’ipotesi qualche secondo fino a che non venne completamente risucchiata dai condotti di riciclaggio dell’aria, per liquidare poi l’intera vicenda in favore di cose più urgenti: la mia bozza, dimenticata sulla scrivania, gridava all’abbandono di minore.

Ma non riuscivo a togliermi dalla testa la faccenda del cappello. Chi mai poteva fare una cosa del genere? La tipografia non si trova in un luogo di passaggio. La porta era chiusa, anche se non a chiave, e nessuno avrebbe potuto passare lì davanti ed essere tentato di entrare per chissà che misteriosa ragione. Non aveva senso. C’era un’unica possibilità: qualcuno era entrato per cercare del materiale stampato, e, una volta dentro, aveva colto l’occasione per rubare il cappello. Probabilmente l’aveva già notato la sera prima, nel momento in cui J. me l’aveva portato. La plastica trasparente lo avvolgeva in modo da non renderlo immediatamente riconoscibile, e bisognava sapere che cosa ci fosse dentro – nessuno si sarebbe preso la briga e il rischio di ravanare in un sacchetto senza conoscerne il contenuto.

Questi pensieri mi giravano ancora in testa quando D., Assistant House Keeping Manager, comparve sulla soglia della tipografia, alla ricerca di altro materiale vomitato nel frattempo dalle macchine fotostampatrici.
“Oh, D., you know what happened tonight?”, cominciai, senza sfumatura di malizia, “somebody stole my hat”.
Non feci in tempo a finire la frase che lo sguardo del mio interlocutore scattò verso il luogo dove l’assenza del cappello troneggiava eloquentemente, sullo scaffale, tra i dizionari e i documenti da spulciare. Ma io non avevo indicato il luogo dove il cappello avrebbe dovuto trovarsi; D. doveva per forza saperlo per conto suo, dalla sera prima, forse. Si tradì definitivamente esibendosi, con un mezzo sorriso che lì per lì non riuscii a decifrare, in una sequela di domande e ipotesi una più stupida dell’altra, di che colore era il cappello? e di che tipo? e dov’era? forse l’avevano preso gli ispettori della sicurezza?
D. non si era ancora chiuso la porta alle spalle, che io, incrociando lo sguardo di E., capii che stavamo pensando la stessa cosa. I casi erano due: o D. non aveva mai visto il cappello, e allora le sue domande avrebbero avuto senso, ma non avrei saputo spiegare come mai avesse guardato così chiaramente verso il famoso scaffale; oppure D. sapeva del cappello, ne conosceva l’esatta ubicazione e di conseguenza anche l’aspetto, e sarebbero state le sue domande a restare inspiegate. Conclusione: D. aveva preso il cappello, oppure sapeva chi era stato, ed era stato presente al momento del furto.

Incredibile. Tra tutte le persone a bordo, di D. non avrei mai sospettato. Così... adulto, così rispettabile, in una posizione di responsabilità, correre un rischio del genere per un cappello da cowboy. L’ipotesi abbozzata quella mattina, uscita per il condotto di riciclaggio dell’aria, era rientrata prepotentemente dalla porta, scrollandomi di dosso la mia ingenua ottusità che tanto spesso veniva canzonata dai miei colleghi: “Tu ti fidi sempre troppo!”. Ma santissimo il cielo. Stiamo parlando di un cappello, non di una tiara di diamanti. E comunque, chiamatemi ingenua, ma certe cose in testa non mi ci si ficcano proprio. Persino dopo che D. si era tradito così palesemente, l’assurdità della situazione non cessava di sorprendermi, soppiantando la tristezza per la perdita del regalo.

La giornata proseguì regolarmente. Badai a raccontare l’accaduto ai miei amici più stretti – non avevo alcuna prova, ma almeno il mio gruppo doveva sapere con chi abbiamo a che fare; la vita di bordo è un gioco a squadre. Il mio spirito di competizione fa schifo, ma almeno compenso con quello di solidarietà.

Finalmente, con il giornale ormai stampato e consegnato, i flyers ritirati, gli archivi aggiornati e le carte in ordine, chiusi l’ufficio – questa volta a chiave – mi concessi una lunga doccia ristoratrice e mi diressi lentamente verso il Crew Bar. “Beer me up, Jeremy”, feci al barman che asciugava un bicchiere con il suo canovaccio da barman. Lasciai che il liquido mi lavasse la tensione della giornata, con i gomiti pesantemente appoggiati al bancone.

Qualche minuto dopo mi raggiunsero R. e A., due ragazzi della Security, tipi in gamba, indiani, molto tranquilli, due che non diresti mai che potrebbero fare i Security; al massimo i poliziotti di quartiere, di quelli che aiutano le vecchiette ad attraversare la strada. Raccontai loro brevemente la vicenda – omettendo il coinvolgimento di D. per mancanza di prove – e A. mi rispose che sì, aveva visto un cappello da cowboy nella garbage area, appoggiato sulle casse di legno affianco agli armadietti degli stewards! Mentre mi precipitavo a controllare pensavo che D. doveva essersi accorto di essersi tradito, e per non rischiare aveva abbandonato il cappello alla prima occasione disponibile. Ma una volta giunta sul luogo del ritrovamento, non vidi nulla che assomigliasse al mio cappello. Tornando indietro incrociai l’esercito dei Crew Stewards impegnati in un meeting informale in mezzo al corridoio, con il loro capo R. intento alla perfetta esecuzione di una mossa di break-dance, la testa sulla moquette e i piedi in aria in una posa plastica. Sono loro che si occupano della manutenzione dell’area Crew,  si intrufolano ovunque, nelle cabine, nei corridoi, negli uffici; sanno sempre tutto. R. è amico mio, non abbastanza da informarlo a proposito di D. ma abbastanza da volermi aiutare. Uno dei suoi ragazzi, in effetti, aveva trovato un cappello da cowboy nella spazzatura (per fortuna tra la carta e il legno). Ritenendolo troppo bello per venir sminuzzato dal tritarifiuti e divenire cibo per pesci, l’aveva raccolto dal bidone e appoggiato sulla famosa cassa di legno, affianco agli armadietti, proprio dove A. mi disse di averlo visto. Mi accompagnò nuovamente sul posto, ma il cappello, come già avevo notato, era nuovamente sparito.
Questa, finora, è la storia del cappello scomparso, che sta passando di mano in mano per tutta la nave e forse potrebbe raccontare questa storia da un altro punto di vista. Chissà se tornerà mai in possesso della sua legittima proprietaria?

mercoledì 5 settembre 2012

centoundicesimo giorno di imbarco - Goodbye Bergen

Ufficio Picasso
 Tranquilli: ho avuto la meglio sulla tempesta. Altro che Conrad. Non siamo nell’Oceano Indiano, non siamo su una bagnarola che trasporta centinaia di clandestini cinesi, non siamo nell’800, ma anche noi abbiamo avuto il nostro Tifone – o quasi – e ci stiamo preparando ad affrontarne un altro! Anche stanotte, infatti, si prevede un bel charleston marinaro. Posso dire con una punta di orgoglio che non soffro particolarmente il mal di mare – almeno da questo punto di vista posso guardare da pari a pari i miei amici di macchina, i plumbers, i firemen e quei pochi ufficiali con cui parlo volentieri. Più che altro, il mare grosso mi fa dormire, muovendo la nave come se fosse la culla di un bambino.

Qui potete avere un'idea di come fosse conciato il mio ufficio stamattina (in foto e video). Le stampanti e le risme di carta bloccavano la porta dall’interno, tanto che per entrare ho dovuto puntellarmi con i piedi sul muro del corridoio su cui da il mio bunker, e spingere con la schiena. Poi ho passato un’ora a rimettere tutto a posto.

A parte questo, ho dimenticato di raccontarvi due piccoli aggiornamenti sulla vita di bordo.
Primo, molto importante, ho ricevuto un nuovo bigliettino dal mio engine dpt, dice “Ogni giorno sei sempre più bella – engine dpt

Secondo, la mia cabin-mate sta facendo il turno di notte, quindi da un paio di settimane ho la cabina tutta per me dalle 10 di sera alle 8 del mattino. È molto piacevole, ma c’è un prezzo da pagare. Durante tutto il giorno lei dorme. Inoltre l’altra notte si è dimenticata il cellulare in cabina, con la sveglia puntata alle 5.30 del mattino. Mi sono alzata, sono scesa dal trampolo che costituisce il mio giaciglio, ho spento il cellulare, sono tornata a letto a fissare il soffitto per un’ora, dopodiché mi sono vestita e sono andata a fare colazione, incazzata come un’ape. Alle 7 e mezza sono uscita sul ponte aperto per fumarmi una sigaretta e cercare di farmi contagiare dalla pace dei fiordi, e cosa mi becco? La manovra di attracco. Lorenzo, ufficiale deputato a questo compito, se ne sta di vedetta su una terrazzina di prua, tutto imbacuccato contro il freddo del mattino norvegese, con la radio in mano, vigile come una mangusta osservando da tutte le parti e gridando ordini a destra e a manca. Dal ponte di prua e di poppa vengono lanciati a terra dei cavi che servono a trainare a riva le cime – grosse come piccoli tronchi e probabilmente più pesanti, impregnate come sono d’acqua, infatti ci vogliono 5 uomini per trasportarle e legarle a grossi perni incassati nel terreno. Tutto questo mentre la nave è ancora in movimento, lievissimo, con i motori che danno scosse delicate ma continue per aggiustare la rotta e avvicinare il mostro galleggiante alla bachina quanto più possibile. L’inerzia è una brutta bestia, e si sa; la forza più infida nel gioco dell’universo. Ma non avevo mai concretamente riflettuto su quanto sia difficile fermare un colosso come la nave su cui mi trovo ora. Farla partire, certo, richiederà un gran dispendio di energia; ma fermarla, è ancora più difficile, perchè la manovra dev’essere precisissima, nonostante il vento, le onde e i kraken. Un colpetto indietro, un colpetto in avanti. Uno a destra – no, troppo, uno a sinistra, un altro indietro. E così via per diversi minuti. Intanto gli uomini a terra stanno issando le cime. Una volta assicurate, i marinai di bordo iniziano a tirarle sempre di più fino a che sono tese al massimo delle loro possibilità, e mano a mano che vengono tese rilasciano una pioggia scrosciante, come un asciugamano strizzato. Alla fine la nave è più o meno ferma e più o meno saldamente ancorata a riva grazie alla rete di cime. Si può montare la passerella che copre la breve distanza che ancora la separa da terra: non più di 3 metri, che ho percorso centinaia di volte senza pensare a tutto il lavoro significano.



martedì 4 settembre 2012

centodecimo giorno di imbarco, at sea


Mare grosso. Dagli oblò si vedono onde alte anche 10 metri o più, ma lo spettacolo a cui assisto all’interno della nave è altrettanto impressionante. Il mobilio ha preso vita; come in una parodia di un film Disney, armadi e cassetti si aprono secondo la propria volontà, le stampanti camminano, il getto della doccia sceglie tutti i percorsi possibili tranne quello che lo porterebbe alla mia pelle, assecondando l’inclinazione dell’orizzonte (o della nave, a seconda dei punti di vista); crewmembers e passeggeri girano come ubriachi nei saloni semideserti, camminando storti come alberi cresciuti sulle pendici di una montagna troppo ripida, o cozzando ora contro un muro, ora contro l’altro. Tutto risuona: le pareti scricchiolano; gli ometti appendiabiti dentro il guardaroba tintinnano l’uno contro l’altro; piatti e bicchieri continuano a cadere con un gran fracasso, in armonia con tutto ciò che non è saldamente fissato alle pareti. La nave stessa sembra mugghiare come una bestia. In questo bizzarro concerto si fa notare il quasi totale silenzio dell’essere umano, impegnato ad aprire la bocca il meno possibile per paura di quello che potrebbe uscirne. La situazione stomacale della crew è talmente disperata che uno di macchina è venuto a chiedermi se, per caso, non avessi delle pillole contro il mal di mare: non so cosa sia più utile a rendere l’idea della situazione, se il fatto che un marinaio mi chieda delle pillole contro il mal di mare, o il fatto che in infermeria le abbiano finite!

A causa del maltempo abbiamo dovuto saltare la sosta di oggi. Geiranger: un posto che con la sua gente, l’ambiente naturale e il bar più carino d’Europa, mi ha fatto seriamente prendere in considerazione l’idea di sbarcare e finire la stagione in questa landa sperduta della Norvegia. Un luogo che passa dai 250 abitanti d’inverno ai 10 mila d’estate; pieno di giovani che, nonostante l’apparente isolamento, sono intraprendenti, colti, tolleranti, che conoscono e amano il posto che l’universo ha assegnato loro, e non hanno nessuna voglia di andasene a vivere da un’altra parte. Geiranger è rapidamente diventato uno dei miei luoghi preferiti. Mi incuriosisce profondamente perché è diverso da qualunque cosa il mio paese abbia da offrirmi e soprattutto perché ospita elementi che non pensavo potessero trovarsi insieme nello stesso posto.
Questa è la mia ultima settimana in Norvegia, e oggi ero pronta all’addio; invece non ho potuto salutare né la città né le mie amiche che ci vivono e gestiscono il famoso bar.
Vorrà dire che dovrò tornare.

venerdì 31 agosto 2012

centoseiesimo giorno di imbarco, at sea

"The Golden Prison" - "Almeno..."

A volte lavorare qui è veramente difficile. Non per il lavoro in sè, ma per le condizioni in cui viene svolto. Ogni giorno stampiamo il programma di navigazione (un quotidiano di 4 pagine che contiene tutte le informazioni relative al giorno successivo) per 2900 persone, il 8 lingue; io personalmente mi occupo di 6 lingue, italiano, inglese, francese, spagnolo, portoghese e tedesco, mentre il russo e il giapponese sono di competenza dei madrelingua – causa di forza maggiore. Non so bene come darvi l’idea della mole di informazioni che vanno raccolte, tradotte ed impaginate ogni giorno. Raccolte le info, faccio la bozza in italiano, che deve passare il controllo del famoso DS e del Cruise Director; una volta finita, preparo le altre lingue, per sottoporle infine al vaglio delle hostess madrelingua. Naturalmente, non tutti i giorni devo fare 6 Today (questo il titolo del quotidiano) da zero; di solito parte delle informazioni è già stata tradotta o addirittura impaginata per la settimana precedente, quindi, quando gli itinerari si ripetono, mi basta prendere il programma della crociera scorsa e aggiornarlo.
Non sarebbe tanto male, se il computer non si bloccasse ogni dieci minuti. A volte, dopo un intero pomeriggio di lavoro, il monitor decide di spegnersi. Ma questo è il meno; credo che l’improvvisa sparizione dal desktop di tutte le icone e di tutte le finestre aperte, compresi i file su cui sto lavorando da ore – spesso tutti e sei contemporaneamente – mi abbia portaro ragionevolmente vicina ad un esaurimento nervoso, le prime due o tre volte che è capitato (dopodiché ho imparato a salvare tutto ogni 3 minuti). Lo stesso si può dire per altri eventi misteriosi legati alle strabilianti performance dei nostri computers: ad esempio, files che non vengono salvati nonostante amorevoli cure e numerosi “salva con nome”. Oltre a questi eventi catastrofici, si verificano continuamente piccoli ma fastidiosissimi intoppi dovuti all’età dei computer o alla qualità dei materiali che usiamo. Ad esempio, il programma di impaginazione ci mette un minuto e mezzo per avviarsi; il computer stesso, almeno 5 minuti per accendersi; se faccio più di 20 o 30 fotocopie in fila, la Ricoh si blocca e bisogna smontarla per togliere i frammenti di carta che rimangono all’interno; usiamo una versione di Word troppo vecchia e 2 volte su 5 non leggiamo i documenti che ci mandano; e via dicendo. Questo per quanto riguarda i materiali.

Poi c’è tutta la parte legata alla stupidità umana e al fatto che in questa compagnia è abbastanza facile fare carriera – sospetto che i migliori, appena trovano una strada che li porti via da qui, la prendano, col risultato che una buona percentuale di graduati è composta da grandi teste di cazzo.
Un grosso problema deriva dal fatto che le procedure lasciano grande spazio all’interpretazione: per citare un vecchio pirata, “il codice è più che altro una traccia”. Genova non desidera o non è in grado di centralizzare il comando, per cui ogni nave è un mondo isolato e funziona in modo diverso dalle altre. La decentralizzazione sarebbe una scelta vincente, se le navi fossero guidate (metaforicamente) da gente in gamba, ma considerando che le decisioni sono in mano alle suddette teste di cazzo, finisce che è persino difficile stabilire cosa è importante e cosa non lo è; finisce per essere tutto di importanza vitale, tutto uno stress, una calamità, tutto questione di vita o di morte, per esempio: il menu riporta mezzopollo alla griglia con insalata, mentre il cuoco servirà mezzopollo alla griglia con insalatina di stagione: “How comes!?!”, come è possibile!?! Bisogna ristampare 2700 copie con la nuova dicitura. L’esercitazione è alle 18.10 invece che, come da programma, “alle 18 circa”: non sia mai. E allora, riaccendi il computer, riavvia il programma, dialoga con la stampante per convincerla a obbedire, riprogramma le impostazioni di stampa che regolarmente vanno perse ogni volta, e via dicendo; tutto per una stronzata, tutto perchè, quando la persona che comanda non ha esperienza, controllo e prospettiva, si fa venire i capelli bianchi per ogni cosa, e li fa venire anche a chi è così sfortunato da lavorare per lui.

Con un armatore così assente, ti rendi conto di quanto tu sia solo. Quello che succede in nave resta sulla nave; o sarebbe meglio dire, di quello che succede in nave, a Genova non importa un fico secco, fino a che i conti tornano. Se manca la carta igienica e il budget del mese è finito, cavoli nostri (sto esagerando; la carta igienica non manca mai, tranne quando l’Omino delle Cabine si dimentica di distribuirla. Ma il discorso vale per altri generi di prima necessità quali, ad esempio, pasta, o limone, o inchiostro, o sigarette, o carta, e via dicendo). Se ho un problema per il quale necessito l’aiuto o la supervisione del mio corporate, affari miei. Gli uffici di Genova non sanno assolutamente niente della vita di bordo - e come potrebbero, quando nemmeno i capi sanno niente della vita del loro equipaggio, visto che conducono una vita separata dalla nostra, in suite con coperte in piuma d’oca, tra frullati di frutta fresca e aragoste al vapore, mentre noi dividiamo un bagno in 4, mangiamo riso bollito tutti i giorni e camminiamo su pavimenti sporchi tirandoci dietro nugoli di polvere vecchi di settimane?
Qui c’è da sbrogliarsela con quello che abbiamo a bordo, che si tratti di un guasto al motore o alla stampante, di un problema al satellite o al consumo di pomodori, come anche di organizzazione e di rapporti interpersonali. Inutile sperare in un aiuto da Genova, e in questa terra di nessuno ciascuno cerca di cavarsela al meglio giocando il proprio vantaggio a discapito degli altri; specialmente i capi dipartimento, cioè la piccola nobiltà, sempre impegnati a lucidare le apparenze e a consolidare il proprio prestigio. Se il ponte B è sporco, fa niente. L’importante è che “di sopra” nessuno se ne accorga. Dire sempre “sì” e poi fare di testa propria. È molto facile: ai capi, come a Genova, non importa nient’altro che ciò che appare ai passeggeri.


lunedì 27 agosto 2012

centoduesimo giorno imbarco, Tallin - antico cantico medievale in onore del Banchetto di Milady


La canzone della tavola imbandita
Del piatto, del coccio, della carne condita
Del boccale e del cucchiaio
Dei ghiotti frutti del granaio
Benvenuti all'Olde Hansa, taverna medievale di Tallin.
Niente da invidiare al Puledro Impennato, anche qui la servono in pinte.
Direttamente in vasi di terracotta.

 Del formaggio e dell’arrosto
Del sugo che cola sul segnaposto
Del burro, del miele, della marmellata
E delle pietanze a cui va accompagnata
Qui potete osservare Milady prima del Banchetto.
Non ci sono foto di Milady dopo il Banchetto,
non avevamo il grandangolo.

 Dei nasi che svaniscono dietro alla pinta
Dei fori ormai inutili della cinta
Del buco ventrale che sempre avanza
Per fare spazio alla dolce pietanza
Che ci importa se fuori imperversa il diluvio? Da bravi viandanti,
ci lasciamo scaldare dallo stufato di maiale e dal dolce alla mela...
e da tante altre leccornie che per ragioni di spazio non riportiamo qui.

Della pancia ormai pesante
Del sonno grasso del viandante
E della consorte del grasso oste
Che grazie al viandante ci paga le imposte.
 
Arrivederci Tallin, grazie per averci accolti, e a presto.



venerdì 24 agosto 2012

novantanovesimo giorno di navigazione - at sea

lettere d'amore ne ho già ricevute, ma mai da un intero dipartimento! grazie engine dpt! vvb!

lunedì 20 agosto 2012

Novantacinquesimo giorno di navigazione, Stavanger


Ormai sapete che, quando dormo, nel mio cervello si sviluppano trame degne del miglior regista che abbia mai imbracciato una videocamera. Nel sogno, tutti i miei sensi sono all’opera: tocco, gusto, annuso persino. Non vi dico che figata quella volta che ho sognato di mangiare il risotto alla milanese!

Stanotte però ha fatto due sogni tra i più strani di sempre. Nel primo, complice un’ambientazione da Signore degli Anelli, si scontravano due tribù di orchi: una, quella dei Buoni, era “vegetariana” cioè non mangiava carne di esseri umani o di altri orchi; l’altra invece era composta da individui sadici e crudeli, che non esitavano a divorarsi l’un l’altro, se la situazione lo permetteva, dediti alla guerra e alla violenza. Anche i buoni erano guerrieri, e durantre il sogno si battevano contro i cattivi al limitare di una foresta. Spade sguainate, scudi frantumati, una battaglia in piena regola.

Il secondo sogno è stato ancora più bizzarro del primo.
Mi trovo nell’androne del palazzo dove abitavo da bambina, un luogo che nei miei ricordi infantili è permeato di quiete, fresco, rumori lontani, penombra, un pizzico di mistero, colori caldi impreziositi dai riflessi dorati, verdi e blu delle decorazioni lucide e dei vetri colorati delle finestre. Appeso al muro davanti a me c’è un grande specchio (che attualmente si trova del bagno di casa mia a Milano, ma che è più vecchio di me e fa parte dell’arredamento da quando sono nata). Accanto allo specchio ci sono i miei genitori. Tutto sembra sospeso nel tempo. Dalle scale guardo verso lo specchio, mentre mia madre lo sta coprendo con un lenzuolo bianchissimo, bagnato, in modo che l’acqua faccia aderire la stoffa al vetro. Tutto qua. Non pensavo e non provavo assolutamente nulla, io che nella vita reale non sono in grado di smettere di pensare nemmeno se ci provo; in quel momento, la mia mente era vuota, bianca come il lenzuolo.

È la prima volta che il cinema della mia mente produce un film di nicchia surrealista...

venerdì 17 agosto 2012

Novantaduesimo giorno di navigazione, at sea


Rieccomi dopo molti giorni di assenza.
Il satellitare fa i capricci e va ad aggiungersi alla lunga lista delle Cose Che Non Funzionano, rendendo l’aggiornamento del blog una materia complicata (erano previste delle immagini per gli ultimi due post, ma la connessione la pensa altrimenti); inoltre me la sto abbastanza spassando, attività che rosicchia quasi tutto il mio tempo libero. Non ci sono grandi novità, dopotutto; il lavoro procede con una monotonia rassicurante che mi lascia il tempo di leggere, pensare, festeggiare e, se avanza qualcosina, dormire un po’! In realtà dormire diventa sempre più difficile mano a mano che festeggio, perché festeggiando stringo legami, legami che poi richiedono tempo per approfondirsi; desidero passare più tempo possibile con le persone che mi piacciono, specialmente considerato che le amicizie, qui, hanno una data di scadenza.

La settimana che si conclude con oggi (qui le settimane iniziano di sabato, che è il giorno di imbarco) non mi ha offerto grandi spunti per un racconto, quindi; solo episodi di vita quotidiana che, come mi sto accorgendo con una punta di preoccupazione, rientrano in quella che per me è diventata la normalità. 3 mesi; è il tempo che ci vuole ad abituarsi a questa vita. Il corpo ha preso i ritmi e si è adattato alla luce, all’aria, all’acqua; le giornate di navigazione non mi pesano più, non sento quasi più l’esigenza intransigente di scendere a terra, come all’inizio, specialmente se approdiamo in porti che ho già visitato 5 o 6 volte – salvo poi percepire un gran senso di sollievo e libertà (illusione!) quando qualcuno dei miei amici mi trascina a terra, strappandomi al mio sonnellino pomeridiano. Comincio a capire cosa volevano dire i miei colleghi quando mi spiegavano che questa vita è assuefacente. Sostengono anche che, nonostante dopo 6 mesi di contratto non vedi l’ora di sbarcare da questa prigione, una volta a terra ti manca. Non so se sarà il mio caso; certo è che la capacità di adattamento che dimostriamo è un aspetto davvero interessante della nostra natura. Io però non sono certa di volermi adattare del tutto alla vita di bordo. Ci sono cose a cui sarebbe meglio non adattarsi; ad esempio, la totale mancanza di rispetto della compagnia, che ci munge come mucche da latte e non ci considera degni nemmeno di un buon pasto. Ma è solo un esempio.

A proposito di pasto.
Dopo le feste, i crewmembers più nottambuli sono soliti concludere la serata con una spedizione ninja in cucina o in panetteria per fare incetta di focaccine. È vietato, naturalmente, ma questo non sembra aver mai preoccupato nessuno. Purtroppo, questa settimana uno dei nostri non è stato abbastanza ninja e si è fatto beccare dallo Chef, il Re del grande Galley Kingdom. Il Re ha riportato la cosa, e siccome tra le fila più umili dello stato maggiore è recentemente è imbarcato un nuovo Cerbero, l’assistente del DS (il Direttore dei Servizi è resposabile food&beverage), lo sfortunato crewmember si beccherà un warning; ma questo è il meno. Temo che in futuro solo i più coraggiosi oseranno avventurarsi nottetempo nel Galley Kingdom, anche se in una provincia sperduta come quella della Panetteria; col risultato che ci sarà meno da mangiare per tutti.

Già prima di imbarcare mi era giunta notizia dello stato di fame perenne della ciurma. Durante il corso al CMA di Genova Pegli, ad esempio, la mia compagna di stanza usava raccontarmi con nostalgia delle lasagne di sua mamma; un collega cantava le lodi della pizza che aveva mangiato l’ultima sera prima di partire, un altro si commuoveva al pensiero del filetto che lo aspettava una volta tornato a casa. Mano a mano che incontravo nuove persone, mi rendevo conto che c’era uno schema in questi episodi. I nuovi imbarchi non parlavano mai di cibo (non sapevano ancora a cosa stavano andando incontro). I naviganti con pochi contratti alle spalle, da uno a 5 anni, parlavano continuamente di cibo. I veterani non ne parlavano quasi più.

Il punto è che i pasti della mensa superano per un soffio la soglia della commestibilità; e cioè che è quasi gradevole ci viene propinato tutti i giorni, un pasto dopo l’altro, fino a perdere ogni attrattiva.
I crewmembers hanno sempre fame. I commensali – specialmente gli italiani – ricordano con rimpianto la cucina casalinga come dannati in un girone dantesco. Rubare cibo dal Kingdom è quasi una forma di ribellione, quel briciolo di ribellione travestito da bravata di cui ancora sono capaci coloro che si sono abituati.