Non ci volevo andare, a scuola.
Non volevo andare a scuola dalle monache.
Ma non potevo oppormi.
Semplicemente, non era nelle mie possibilità, farlo.
E allora...
Una monaca alle spalle, una di fronte, a fianco di quella che, con fra le mani la lista degli alunni assegnatile, sarebbe diventata la maestra, di quell'anno e poi del successivo.
Quella mano sotto al mento, a tenermi su il viso era a dir poco, ad essere gentili, spiacevole.
Ed io non volevo stare lì.
Volevo tornare al mio mondo.
Così, quando, per prassi, ingenuamente, mi chiesero come mi chiamassi, mentii.
Usai quello che utilizzavo per giocare.
Un po' diverso da quello ufficiale, ma altrettanto vero, in un certo senso, solo che loro non potevano saperlo.
Me lo godetti il loro sconcerto, seria, impassibile, fiamma viva la speranza di essere rimandata a casa.
Ma poi feci un errore, un errore fatale: guardai davvero quella giovane, dai lunghi capelli castani, negli occhi, e vi lessi il panico che le aveva fatto tremare la voce nel dire: 'Qui c'è scritto un altro cognome.'.
'E' quello di mio padre.', mi scappò, in quel tentativo di confortarla che mi costò, pur nella perplessità generale di cui mi sentivo soddisfatta, l'ammissione in classe.
Era ottobre, ovviamente, non febbraio.