sabato 29 settembre 2018
Oltre il sipario delle pagine
Chiamarla felicità è forse esagerato, ma non saprei trovare altra parola per meglio esprimere quella indefinita sensazione che si prova aprendo un libro.
Com'è che succede un simile portento?
Nella mia ormai onorevole carriera di lettore, alcune risposte me le sono date. Sono tante e diverse, ma la fondamentale credo sia questa: il libro mi pone davanti il più formidabile spazio di libertà interiore che si possa immaginare.
Il libro mi affranca da ogni vincolo fisico e mentale che devo affrontare-patire-subire-gestire nella realtà, spalancandomi di fronte una dimensione di pura potenzialità. Mi immerge nel più vivificante, liberatorio, gioioso “da-qui-in-avanti-ogni-cosa-può-essere”.
Attenzione che questo non accade solamente con i libri genericamente definibili “di fantasia”. Accade assolutamente con ogni libro, anche col più rigoroso tomo scientifico, o sociologico, o filosofico, e così via.
Perché il cuore vero, il nucleo dei nuclei che ogni volta ci interessa andare a cogliere fra le pagine, consiste nella purezza “svincolante” delle idee, essa stessa vero combustibile di libertà.
In un simile compito, il libro è paradossalmente aiutato dalla pochezza fisica dei suoi strumenti: un malloppetto di fogli di carta tenuti insieme, e una sequela di segni neri stampigliati sopra.
Questo armentario minimale continua ad averla vinta su concorrenti espressivi ben più agguerriti, come il cinema, sua sorella tv, la pittura, il teatro, la fotografia e altre forme della creatività.
Il motivo rimane sempre un po' lo stesso, è ancora una volta questione di “libertà incondizionata”: leggendo un libro, la colonna sonora me la auto-produco in mente, i colori li dipingo con l’immaginazione, i paesaggi me li creo su misura.
Un accenno infine alla forma. Non sarà un caso, se un libro aperto fra le mani, con le sue pagine spalancate, ci ricorda la sagoma di un abbraccio.
È possibile forse vederci un nesso col fatto che l'e-book, almeno per ora, non è riuscito ancora a scalfire in modo significativo il fascino del libro in carta e inchiostro?
Sia come sia, una cosa rimane: i libri non sono soltanto quella cosa capace di educarci, migliorarci, farci divertire, edificarci, consolarci. Sono anche tutto questo, per fortuna.
Ma soprattutto, leggiamo libri perché sono fonte sconfinata di libertà, e questo ci procura indescrivibili forme di gioia che in nessun altro “luogo” possiamo trovare.
giovedì 27 settembre 2018
Schiavi del godere
I buoni libri sono fecondi di riflessioni, e a questa pregiata regola non sfugge il classico saggio socio-psicologico di Herbert Marcuse, “Eros e civiltà” (1955-1966).
L’uomo, fin da quando poté definirsi tale, è sempre stato preso nel mezzo (come individuo e come specie) da due fondamentali principi: quello di realtà e quello di piacere.
Come nostra tendenza ideale, intima, se fosse possibile, ci tufferemmo fisico e mente nel godimento completo e assoluto. Mangiare, bere, gozzovigliare, far l’amore, ubriacarsi, drogarsi, scherzare sempre, dormire, giocare…immaginate tutto quello che nella vita tende al piacere…cosa ci impedisce di votarcisi completamente, senza risparmiare nemmeno un milligrammo di energia goduriosa?
Ce lo impedisce il fatto che dopo tre giorni (per i migliori quattro) ci autodistruggeremmo. Ecco allora che evolutivamente la nostra specie ha imparato ad edificarsi un antidoto per evitare di annientarsi con le proprie mani.
Questo paracadute è il principio di realtà, e si compone di senso del dovere, misura, senso di colpa, lungimiranza, prudenza, rispetto, laboriosità, impegno…sono tutti quegli ingredienti che rendono sì la vita meno gaudente, più faticosa, dura, difficile, ma ci consentono di poter continuare a chiamarla vita, anziché morte.
Ora, dopo secoli che principio di piacere e di realtà stavano nei loro rispettivi posti, cos'è successo con l'avvento della cosiddetta civiltà consumistica?
In una società che ha elevato la produttività a suo primario valore, facendo passare tale fondamentale obiettivo attraverso la macina del consumo, il piacere per forza di cose si è visto tramutato in dovere.
Per produrre di più, serve consumare sempre più, ma il consumo va sollecitato. La miglior molla di convincimento in quel senso la si può ritrovare in tutti quei meccanismi interiori che sono di pertinenza del principio di piacere: appetiti, desideri, voglie, golosità, bramosie, invidie persino.
Il martellamento pubblicitario è la dimensione principe in cui far crescere rigogliosa tutta quella messe di “solleticanti”.
Ci ritroviamo così con le carte in tavola alquanto sparigliate. Laddove il dovere si sforzava di arginare il piacere, ci accorgiamo che è il piacere a far strabordare il dovere.
Con gran rassegnazione, accettiamo la stramba sentenza: per poterci rettamente osservare nel profondo della coscienza e vederci qualcosa di “giusto”, sentendoci a posto, siamo stati condannati a godere.
E di tale stravolgimento dimensionale, non c'è più efficace immagine di quella del gioco d'azzardo statalizzato, non del tutto dissimile a una sorta di masturbazione praticata con guanto di carta vetrata.
domenica 23 settembre 2018
Coi sensi tesi
Con fremiti mi turba
una mosca “ronza”
che fa la furba
Mi agita non poco
dialogare
nel mio tono roco
Mi sconvolge il giorno
il minimo neo
sulle cose intorno
Basta una storta
ad un pensiero
che subito precipito
fuor di sentiero
Come un piccolo nuovo Kafka
l’ansia fa presto
a mettermisi in tasca
Mi appendo all’apprensione
come alla liana fa il gibbone
più che pensile
uomo “apprensile”
Sia privilegio
oppure condanna
non ci si orienta
nemmeno Arianna
Perché so scorgere
poi un bel fiore
laddove altri vede
solo passare le ore
Uno strano misto
di giglio-ginestra
in una maglietta
appesa alla finestra
Sento profumo
di glicine puro
anche attraverso
la durezza d’un muro
In un mondo solo fatto
di forza e prestanza
non troverò mai
per me una stanza
Rimango all'aperto
qui respiro la brezza
di una gentile
arrendevolezza
E in quattro rime storte
mi vengo a rifugiare
che le emozioni a gambe corte
un po' sappiano rabberciare
sabato 22 settembre 2018
Filastrocca a goccia sciocca
Nell'attimo stesso
In cui
Ci siamo detti
Pfui
Mi era sembrato
Che
Noi due già fossimo
Tre
Ci vuole poco a fare
Dei nostri sguardi un fiore
Prendere il mondo
Com'è
E riderci insieme
Pereppeppè
E dietro ai giochi
Di parole
Guardare poi sorgere
Il sole
Sotto le nuvole
Dei sé
Aprire un ombrello
Di ma
Ritornare leggeri
sui sospiri di ieri
Far rimare pascià
Con gonne di taffetà
E quel fremito di dirci
Parole sporche a non sfinirci
Sentir correre lungo la nuca
Un po' rude
L’infinito sintagma
“Donne nude”
Tornare due istanti bambini
Per scoreggiar cuoricini
E al fin non volerla mai finire
Col fare, col mare, col dire
Baciarsi di gusto i sorrisi
Nel bel kamasutra dei visi
Uniti e vicini per sempre
Fino a giovercoledì
Trentaquattro agostembre
giovedì 20 settembre 2018
Sfornata di Romanzotti
Ogni tanto mi fa piacere riprendere la buona usanza del “Romanzotto”, una particolare forma di romanzo (di mia “invenzione”) che si mantiene entro la massima lunghezza di otto parole, col solo “bonus” aggiuntivo di un titolo e di una descrizione del genere.
Ve ne propongo una nuova, lauta, dozzina:
Romanzotto 1
“Contrasti”
Il feticista alcolizzato rabbrividì sul pelo dell'acqua.
(Genere: Dramma doppio-sensuale)
Romanzotto 2
“Apocaliscia”
Il mare capovolto diventò cielo al mondo nuovo.
(Genere: Utopia salata)
Romanzotto 3
“E non era una lancetta…”
Stando sopra, lei godeva sull’ora di punta.
(Genere: Crono-Kamasutra)
Romanzotto 4
“Galateo fatale”
Miliardi di scarpe sommersero il grattacielo giapponese “Millepiedi”.
(Genere: Tragi-Commedia calzaturiera)
Romanzotto 5
“L’amore umido”
Fuori pioveva. Sotto le lenzuola trafficavano aliti caldi.
(Genere: Appannamento erotico)
Romanzotto 6
“Il buono, il brutto e il coyote”
Colpirono Wile sul ciglio del canyon: fiiiuuu…SBAMMM!
(Genere: Western cartonato)
Romanzotto 7
“Le avventure di un naso”
Seduta sul water, fantasticava praterie di odorosi lillà.
(Genere: Fantascienza dell’indicibile)
Romanzotto 8
“Passione e cardiologia”
Nel cuore della notte, il chirurgo operava amore.
(Genere: Sentimentale a corsie)
Romanzotto 9
“Terremotati temporali”
Il cronosincrotrone scoppiettò tutta la notte. Albeggiava verde.
(Genere: Viaggi nel tempo low-cost)
Romanzotto 10
“Frammenti di un discorso odoroso”
Una nuvoletta puzzolente li avvolse avvinghiati. Mistero erotico…
(Genere: Flato-Thriller unilaterale)
Romanzotto 11
“La minaccia di Matitus”
Gomme stridono nel vicolo: il “Cancellatore” in azione.
(Genere: Supereroi da edicola)
Romanzotto 12
“La solitudine fa per tre”
Pino Proverbioni sudava sette camice facendosi da sé.
(Genere: Nipotini di Onan alla conquista del mondo)
mercoledì 19 settembre 2018
martedì 18 settembre 2018
Follia (Asylum - 1996) - Patrick McGrath
Ho letto “Follia” (“Asylum” - 1996) di Patrick McGrath (Adelphi - € 12).
L’intensa storia raccontata da Patrick McGrath si posa su di una remotissima verità, forse antica come il mondo, ma che non manca mai di rinnovarsi nell’animo, riservando ancora e ancora, inedite forme di stupore, sotto le fattezze di travolgenti passioni.
Questa evidenza esistenziale è tanto semplice, quanto insospettatamente ben nascosta fra le pieghe del vivere.
Consiste in quel peculiare fenomeno, in virtù del quale la nostra realtà tende a nutrirsi in continuazione di intenzioni e valori opposti fra di loro.
Se volessimo azzardare una metafora un po' roboante, potremmo dire che la vita è un iceberg, tenuto a galla dalla propria più vasta porzione sommersa, composta nella sua sostanza di puro paradosso.
Ecco dunque il cuore di quanto McGrath ci racconta nel suo romanzo: la stesse componenti della nostra identità, quelle all’apparenza più vitali e votate alla gioia, ossia l'eros, il desiderio dell’altro, la propensione a fondersi con un “territorio interiore” altrui, visto come oasi di completamento intimo del sé, sono alimentate in gran parte dal contraddittorio combustibile dell’auto-distruttività.
La bellezza di leggere tanto, risiede anche nel privilegio concesso di poter associare poi idee pescate qua e là, dai più disparati ambiti.
In questo senso, non è naturalmente mia intenzione invadere campi della conoscenza entro i quali non dispongo delle dovute competenze.
Voglio solo condividere una semplice meraviglia da lettore, gustata lungo le pagine di “Follia”, ripensando a quanto scoperto nel frattempo in un altro testo dotato della medesima energia fascinatoria, seppur stavolta di natura saggistica.
Il brano che vi riporto di seguito curiosamente riassume alla perfezione l’essenza del romanzo di McGrath, ed è contenuto in “Eros e civiltà” (1955-1966) di Herbert Marcuse (Einaudi - € 22):
<<…Fenichel rilevò che Freud stesso aveva fatto un passo decisivo […] postulando una “energia spostabile, in sé neutrale, ma in grado di unire le proprie forze sia a un impulso erotico, sia a un impulso distruttivo” - all’istinto di vita o a quello di morte. Mai prima di allora la morte era stata compresa con tanta coerenza nell’istinto di vita; ma anche mai fino allora la morte si era tanto avvicinata all’Eros… […]…se il principio del Nirvana è il fondamento del principio del piacere, allora la necessità della morte appare in una luce completamente nuova. L’istinto della morte è necessità non fine a se stessa, ma presente solo per liberare da una tensione. La discesa verso la morte è una fuga inconscia dal dolore e dal bisogno. È un'espressione della lotta eterna contro la sofferenza e la repressione…>>.
Ecco, in queste parole del filosofo-sociologo tedesco, c'è già tutta l'essenza di “Follia”. Con una differenza non da poco, ossia che nella storia di McGrath, possiamo trovare ciò che soltanto la magia romanzesca è in grado di tradurre in parola scritta: il turbamento, la passionalità, l’inquietudine, il fascino dell’irrazionale, la rabbia per l’illogico, la pietà, la bellezza scaturita dalle fonti più inattese, e confezionata al meglio dalla felicissima penna di un narratore d'eccezione, capace di sostenere con grande maestria l'aspettativa del lettore sempre sul punto della massima tensione.
Il che, non di meno, rende assolutamente e ovviamente desiderabile la lettura di questa mirabolante storia, anche a chi già conoscesse per filo e per segno tutta la teoria di Freud e Marcuse.
venerdì 14 settembre 2018
Indi, vi duo
Non vale nulla, se non siamo come due mondi che si inglobano l’uno nell’altro di continuo, tu e io, contenuto che contiene un continente, di volta in volta, pelle del tuo mondo tramutante in epidermide del mio cielo…non serve a niente se non diventiamo la domanda che si risponde già chiedendo…rimane ben poco del non infondersi di fusione vitale oltre il limite corporale sino al nostro più profondo avamposto animale, e poi di ritorno, a vicenda fatti, spirito e persona nell’universale nostra risata buona...si erge soltanto il vuoto se non ci edifichiamo ciascuno del costruire altrui…si rimane inutilmente muti, pur nel profluvio di parole, se alla fine nell’affermare “io” non uscirà fuori dalle nostre bocche, all’unisono, la breve delicata sillaba che significa “tu”…
giovedì 13 settembre 2018
Il paradiso delle signore (1883) - Émile Zola
Ho letto “Il paradiso delle signore” (“Au Bonheur des Dames” - 1883) di Émile Zola (Edizione Mondadori - € 11).
Definirei quest'opera un capolavoro di arguzia narrativa e di sensibilità per l’arte romanzesca.
È una delle prime storie di finzione letteraria (se non la primissima) ad addentrarsi nelle dinamiche del moderno fenomeno consumistico.
L’aspetto di assoluto rilievo non risiede tuttavia nella particolare originalità della trama, che anzi segue percorsi abbastanza classici, soprattutto in ordine agli schemi del Romanticismo.
C'è la figura dello spregiudicato “avventuriero esistenziale”, Octave Mouret, che asservirà ai suoi voleri commerciali una città intera (attaccandola soprattutto sul suo versante femminile), grazie all’imperioso e, via via, sempre più ipertrofico grande magazzino della moda da lui creato (intitolato appunto, come il romanzo stesso, “Au Bonheur des Dames”).
A fargli da contraltare, ci pensa poi la giovane, e da principio miseranda, commessa Denise Baudu, che a colpi di purezza di cuore, darà la scalata a quel mastodontico moloch della vendita, riuscendo alla fine nella sua conquista, in molti e diversi sensi.
C'è tutto un panorama al contorno, fatto di sfacelo sociale e del fallimento di tante piccole imprese tradizionali fagocitate dal “mostruoso” nuovo che avanza.
Ci sono sentimenti che appassionano e intrecci amorosi vari (il principale dei quali avrete già intuito fra chi), ci sono tradimenti, miserie umane e nobili emozioni.
In più, il tutto viene raccontato con gran maestria, attenzione per il ritmo, nonché mirabile cura per il senso della sorpresa continua.
Ma come dicevo, il pregio del romanzo non sta in questi pur già preziosi ingredienti, bensì nel taglio prospettico dal quale Zola propone le vicende.
Avendo intuito, fin dagli albori del loro manifestarsi, che il consumo di massa e la conseguente mercificazione della realtà, sono fenomeni dotati di un’energia persuasiva scaturente in primo luogo nell’intimo dell’individuo (perché fanno leva su corde interiori ancestrali e profondissime), tutto viene presentato al lettore inducendolo ad assaporare “dall’interno” l’intera potenza ammaliante della nascente fascinazione collettiva.
Il consumo di massa è forse il più formidabile mezzo di controllo delle coscienze mai escogitato, ancor più efficace delle feroci dittature o delle burocrazie dalle kafkiane sottigliezze.
Zola lo vuol raccontare, immergendo chi legge la sua storia nel medesimo incantamento.
Ecco allora che la forza critica della sua posizione non deriva tanto da un atteggiamento banalmente moralistico, quanto dall’andare a toccare sul vivo il nervo scoperto delle contraddizioni in atto.
Alla fine ne risulta un paradossale effetto conclusivo di fondo: tutta la vicenda di per sé potrebbe profilarsi come ammantata di atmosfere positive.
Eppure, è di tutt’altro tono la persuasione effettiva che se ne trae. Si sente di aver assistito al minaccioso operare di un gran meccanismo totalizzante, in grado di manovrare (talvolta in termini tremendi) le vite delle persone, al di là di ogni loro immaginabile possibilità di controllo o perlomeno di autodifesa.
E se non è di estrema attualità tutto ciò, non saprei proprio dirvi quale altro argomento lo possa essere.
giovedì 6 settembre 2018
Altre intelligenze
Alla sommità della siepe del giardino, corre un robusto filo di ferro, messo lì ad intreccio nella rete proprio per sostenere la medesima.
Gettando uno sguardo più ravvicinato, si poteva scorgere un micro via vai percorrente a sua volta la lunghezza del filo. Era una movimentata teoria di formiche “traffichine”.
Con il tipico piglio laborioso degli insetti, si davano un gran daffare su quella piccola autostrada dei loro trambusti in miniatura.
“…Prego io, passi lei…circolare, circolare…pòti pòti…ma si figuri, concilia?...brum brum…fate largo a sua eminenza Turbo Formiconi Gt Sprint Eurodiesel Rhythm’n Blues…”…
Me ne stavo lì insomma a rimirare il sorprendente andirivieni, quando un paio di fulminee riflessione sono corse lungo il filo meditativo che regge la siepe dei miei formicolanti pensieri.
Primo: col cavolo che l’uomo è l’essere più intelligente espresso dalla realtà.
E secondo: sempre col cavolo che l’uomo sta mettendo a rischio l’esistenza della realtà stessa.
Incappiamo in generale in questi due pregiudizi, perché intendiamo l’intelligenza come un qualcosa di concentrato e solitamente personificato (o bestialificato) in un ente circoscritto.
Ma chi lo dice che il tutto non possa avere fisionomie del tutto inedite, molto più complesse ed estese, rispetto alle nostre possibilità di decodifica?
Esistono magari “forme di intelligenza diffuse” e organizzate in maniere del tutto avulse dagli schemi antropocentrici, e gli insiemi di formiche possono essere, fra queste, solo un esempio dei più banali.
Grandiosi e del tutto singolari conglomerati di atomi, non rilevabili come entità organizzate dalle nostre limitate capacità di consapevolezza del reale, stanno forse in questo momento operando meravigliosi portenti espressi in porzioni di reale magistralmente ordinati.
Probabilmente non saranno nemmeno atomi, bensì emanazioni della realtà che sfuggono alla nostra limitata considerazione.
Quello che dunque l’uomo ha in potere di distruggere, e rischia eventualmente di farlo, risulta essere solo quel circoscritto “quanto gnoseologico” a sua disposizione, e nulla più. Su tutto il resto, è fuori gioco.
Tagliato il ramo su cui sta seduto, non è che all’albero gliene fregherà più di tanto.
Tutto bene, tutto buono dunque, mi beavo bel bello io nei miei deliri…se non che, lungo la fila di formiche ne vedo una che si ferma e mi osserva incuriosita.
Poi, mi accorgo che solleva la piccola tenaglia in punta alla zampetta, e se la picchia in fronte a cucchiaio.
Non fosse stata della specie telepatica, non avrei mai capito…ma guarda caso era proprio di quelle, e mi stava dicendo niente meno che: “…Ma che minchia stai a dì?...”
mercoledì 5 settembre 2018
martedì 4 settembre 2018
Aquinuvolotto
Un aquinuvolotto imperioso si era impennato in cielo, un Tirannosaurus cloud di spumose zanne, un fiero gallo in bambagia acquea dalla coscia a cumulo nembo. Dava morsi vaporosi all’aria tersa di lassù, si era fatto largo a fiatate di luce e, come gas di scarico, una raggera dai cangianti bagliori sparpagliava sul passaggio, come il ventaglio di carte sciorinato in mano da un candido baro delle forme.
Dinnanzi a sé, solo un pascolo cotonato da brucare, sotto di sé, boschetti di nasi levati ad osservare, e bocche semi-dischiuse, scivolate in basso dallo stupore.
domenica 2 settembre 2018
Lasciar andare
“Lasciar andare”
(nell'immagine: il Sibardello, primo cugino del Goffruto)
*******
Lasciar andare
Come la mano ormai sciolta
Dalla stretta
Sa far fluire nel
Sentirsi ruscello a ogni metro
Dimentico di sé.
Praticare l’abbandono,
Disinnescato il ricordo,
Già fertile deposito di limo.
Non trattenere
Nell’illusione dell'identico
Per ben altre strade consolidabile.
Farsi abbraccio ciclico
Della propria non fissità,
Trottola mai ritrovata in cerca di perno.
L’inafferrabile soltanto
Si può stringere fra le dita,
Pugno di brezza nel mattino.
Eppure sapere come
Oltre la rotante
Impermanenza
Un più vasto involucro
Di girevole contrarietà
Tutto ammanta
Tutto contrappunta
Tutto volge al positivo,
Nella scorrevolezza
D’un'inapparente perpetuità.
sabato 1 settembre 2018
Il tallone di ferro (1908) - Jack London
Ho letto “Il tallone di ferro” (1908) di Jack London (Feltrinelli - € 9.50).
Romanzo che trabocca di energia vitalistica e passione sociale, tuttora attualissimo nelle tematiche, pur col centinaio e passa di anni ormai adagiati sopra le sue gloriose pagine.
La struttura narrativa è un vero gioco di specchi temporale.
Il racconto viene affidato alle parole dell’immaginifico diario scritto agli inizi del ‘900 dalla moglie di Ernest Everhard, eroe di un movimento di pensiero e azione di stampo socialista.
Gli eventi cruciali sviluppati attorno a tali protagonisti di fantasia sono ipotetici, ma precisamente situati in un contesto storico del tutto verosimile e congruente con l’epoca in oggetto.
La curiosità cronologica sta poi nel modo in cui London “media” il contatto fra il lettore e la storia, ossia tramite i commenti in nota di un altrettanto ipotetico osservatore, posizionato nel tempo circa sette secoli dopo i fatti esposti, nel 2600 circa dunque.
Il risultato, straniante ed efficace insieme, è in grado di rimarcare in maniera ancor più decisa l'attualità della questione principale affrontata: lo sfruttamento di una minoranza privilegiata di umanità ai danni della maggioranza di esclusi dal privilegio.
Essendo la problematica considerata col distacco di un lontano futuro (il 2600 d.C. appunto) in cui è ormai stata largamente risolta (lo si evince dal tono delle chiose in nota), ecco l’effetto particolare che ne consegue: anche noi lettori del terzo millennio, ancora pienamente e dolorosamente alle prese con una “oligarchizzazione” del mondo molto netta, ci sentiamo di colpo calati in un clima di arretratezza sociale rimarcata.
La nostra modernità rimane prepotentemente il medioevo di altri, che ci guardano da un migliore, lontano domani.
Al di là di questo, “Il tallone di ferro” è un romanzo che sorprende per quanto sia anticipatore o, se si vuole, per le influenze che possiamo vederci rispetto a tante espressioni artistiche posteriori.
Ci potrete ritrovare tanto Hemingway e per certi versi anche Fitzgerald. Ci sono le atmosfere dei film di Fritz Lang, “Metropolis” in primis, e più in generale i ritmi espressionisti del grande cinema muto dei primi decenni del ‘900.
Escludendo l’effetto risibile, personalmente ci ho assaporato in modo curioso anche i tempi di racconto delle comiche di Chaplin, Buster Keaton, Harold Lloyd, volti qui in chiave drammatica.
D’altra parte, se mi è concesso di chiudere con una battuta (che pur non c'entra nulla), il nome stesso del protagonista, Ernest Everhard, se considerato nel dettaglio, sortisce due risultati opposti.
Il primo, serio, ci ricorda che il nome di battesimo dell’eroe rivoluzionario per eccellenza, il “Che” Guevara, venne tratto dai suoi genitori proprio da quello del personaggio di London: Ernest, e dunque Ernesto.
Il secondo, più buffo, si verifica con la traduzione alla lettera del cognome, dove Everhard diventa un improbabile “Sempre duro”, anch’esso espressione, nella sua stranezza, del clima energetico e positivistico di cui sono spesso intrise le opere di Jack London.
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