"Un pensiero al giorno"
83 - "Vita da pendolieri"
La corriera per andare a scuola in città era un "microcosmo condensato" viaggiante. Se ripenso ai miei anni del liceo, mi rendo conto di ricordare due esperienze sovrapposte, ma in qualche modo differenziate. C'erano le ore trascorse sui banchi, e le ore di viaggio, un paio circa ogni giorno, tra andata e ritorno a casa, sul corrierone sgangherato di allora.
I tempi e i modi erano questi: sveglia alle 6 e 15, con fantozziano margine utile per prendere la corriera, di passaggio dalla piazza alle 6 e 40.
In quei venticinque minuti, dovevo farci stare dentro: presa di coscienza di essere di nuovo sveglio; recupero psicologico, a volte, da traumatico strascico di sogni agitati o adolescenzial-eroticonturbanti; abluzioni sprint in stile lavaggio felino; vestizione a tempo di record; colazione con la terribile zuppa di caffelatte e pane secco (nell'atavica convinzione di trarne l'energia utile per tutta la mattinata, mentre, dopo ben tre anni, compresi che l'unica cosa che mi dava era soltanto la nausea in corriera); infine, volatone in bici verso la fermata della corriera, dove magicamente arrivavo sempre con cinque minuti di anticipo, buoni per assaporare alcune sane boccate di "tedium vitae" propalato a pieni dialoghi nel buio, dal drappello di pendolari già in attesa del vetusto torpedone.
Tutte queste operazioni, calcolando anche il coordinamento di tempi e spazi con mio fratello, almeno nei primi anni in cui condividemmo quelle mini odissee scolastiche.
In piazza, le alternative erano due: o salire sulla corriera proveniente da un paio di paesi "a monte della linea", già satura di studentaglia e pendolame assortito; oppure, optare per la corriera locale, che si formava nella piccola frazione in riva al fiume, una sola fermata prima della piazza, ma sufficiente per riempirsi di astuti stateghi del sedile, disposti a sacrificare dieci minuti ulteriori di sonno, per andarsi ad accaparrare un posto.
Ma la filosofia familiare (dettata dall'esperienza di mio fratello) così recitava: meglio viaggio in piedi che dieci minuti di letto persi. Anche perché, nella corriera dei maghi dell'occupazione di posti, vigeva un clima di presa per il culo dilagante. Alcuni senatori studenteschi, e fini dicitori, sedevano sul fondo e applicavano il dileggio selvaggio verso le matricole dei primi anni, con veri e propri coretti di sarcasmo e creazione di crudeli (benché geniali) soprannomi, affibbiati agli individui socialmente più fragili.
Capite bene che sopportare una cosa del genere alle 6 e mezza del mattino, andava al di là delle possibilità di tolleranza, mie e di mio fratello. Per cui, vai di viaggio in piedi: trenta chilometri fino in città.
Nel mezzo del corridoio della corriera, stavo aggrappato ai corrimano, aderendo con un molleggio delle gambe alle curve e alle legnose frenate, e sfoggiavo il mio eskimo spelacchiato, fra gli sguardi uno po' snob delle ragazze dei paesi prima, sedute tutte ai lati, già in viaggio da vari minuti.
Fra loro c'era spesso anche una biondina dagli occhioni profondi. Con lei s'inaugurò persino un enigmatico gioco di sguardi, che dovette durare parecchi mesi, forse di diversi anni scolastici, ma senza mai pervenire a nessun scambio di parola, nella migliore tradizione del mio Charlie-Brownismo inveterato.
Solo una volta, in un viaggio di ritorno, quando i posti a sedere erano più abbondanti, mi capitò il miracoloso caso di potermi accomodare al suo fianco. E ricordo addirittura alcuni fugaci tocchi di ginocchio contro coscia, come fossero il tipo più conturbante di emozione al quale potessi ambire a quei tempi.
Il viaggio di rientro a casa, verso l'una, era in generale sempre più festoso e sollevato. Intanto, non faceva più buio fuori. E poi erano svaporate le tensioni scolastiche almeno per quel giorno, e fino a domani, sul versante pedagogico...vai a dar via il culo, va' là.
C'era spazio per qualche chiacchiera rilassata, si poteva stare seduti e ascoltare i racconti dei più facondi compagnoni, di solito i meno brillanti nell'iter di studi, i quali erano in grado di inanellare perle d'involontaria comicità, solo inserendo la "giusta" parola di troppo in una citazione dantesca, <<...Nel "bel" mezzo del cammin di nostra vita...>>, oppure di rovinare brani eterni del repertorio operistico, con la sola contaminazione di una lettera, <<..."e" la figlia dell'amo-o-re!...>>, mutandoli, con la geniale aggiunta di una sola "e", in canzoni da osteria seduta stante.
Per cinque anni è andata avanti questa storia. Col senno di poi, fu un bel sacrificio. Ma adesso, quei lontani episodi di eroica tenerezza quotidiana, li guardo anche un po' con nostalgia.
Ne avrei tanti da raccontare, ma ne cito uno per tutti, il più poetico forse. Una mattina, io e mio fratello pensavamo di essere in ritardo esagerato. M'ingolfai di zuppa a velocità supersonica, pur di non correre il rischio di perdere la corriera. Arrivammo in piazza, il buio era oltremodo intenso, non sembrava proprio quello dei giorni prima. Ma, cosa ancor più sospetta, non c'era nessuno alla fermata. Un'occhiata al campanile bastò a fugare ogni dubbio: ci eravamo alzati un'ora prima, per chissà quale inghippo "sveglistico". A quel punto, ad aspettare in piazza diventava lunga. Tornammo a casa, dove non ricordo bene se feci anche un micropisolo di attesa del vero orario, magari sognando la biondina dagli occhioni intensi.