“Donna che cammina sulla sabbia” (1910) - Henry Tonks
Le muse di Kika si congedano per le vacanze agostane, dandovi appuntamento a settembre: di conseguenza, anche la mia rubrichetta abbinata, “Le muse di Kika van per pensieri”, vi saluta prima della pausa estiva. Sarà una puntata molto anomala: parlerò di arte in modo tangenziale, ma in qualche modo ne parlerò.
Il quadro scelto stavolta da Kika presenta infatti difficoltà insormontabili anche per il più scafato fra i detective fisiognomici. Si tratta infatti di “Donna che cammina sulla sabbia”, dipinto nel 1910 dal pittore inglese Henry Tonks (Solihull, 9 aprile 1862 – Chelsea, Londra, 8 gennaio 1937). Come si può vedere, la signora ritratta ha il volto praticamente indefinito, per cui non c’è margine per il mio consueto gioco di ricerca delle sosia. Da buon viandante per pensieri tuttavia, ho colto mentalmente al balzo questo fatto, per alcune riflessioni di circostanza. Più che del quadro e del suo autore, mi piacerebbe dunque discettare intorno a queste idee vaganti, incentrate soprattutto sul volto umano e sui suoi significati, e nate per contrasto, proprio dal fatto che nella presente opera una vera fisonomia non è descritta.
Osservando quadri di tutti i generi e di tutte le epoche, in modo particolare nelle occasioni di visita a mostre o musei vari, mi sono sempre auto-stupito con una considerazione un po’ stupida: il 90% dei quadri (la sparo così, tanto per indicare un’alta percentuale) è sempre incentrato sulla figura umana e in particolare sui volti. Lo so, constatazione più faloppa forse non si potrebbe fare, ma se ci pensate un attimo, essa non è priva di implicazioni interessanti.
E’ naturale e spontaneo che all’uomo interessi prima di tutto l’uomo, come soggetto-oggetto di ricerca, ma non dimentichiamo che nel mondo (anzi, nell’universo) sono presenti migliaia di altri soggetti all’apparenza potenzialmente molto più ricchi di intensità figurativa e adatti ad essere sviluppati in immagine. Come si spiega dunque questa “ossessione” ripetitiva ad occuparsi di corpi, ma soprattutto di volti, da parte degli artisti di tutte le epoche? Come mai certi autori devono la loro immensa fama al fatto di aver dipinto sempre lo stesso “oggetto”, fatto di pochissimi elementi, una bocca, due occhi, un naso, ecc.?
Basta pensare ad alcuni fatti. Il quadro forse più famoso al mondo ha il suo centro compositivo in un volto, quello della “Gioconda”. Giovanni Bellini, Antonello da Messina, Jean-Auguste Dominique Ingres, Amedeo Modigliani: li ricordiamo soprattutto per la loro maestria nel realizzare ritratti. Vincent Van Gogh ci ha lasciato un considerevole numero di autoritratti, molto tormentati, come da sua indole artistica, quasi che non fossero sufficienti tutti i paesaggi urbani e rurali (che pur ebbe modo di dipingere), per riuscire ad afferrare la complessità e l’infinita variabilità delle sfumature del mondo, tanto da sentire l’impellenza di andarle a indagare ulteriormente nella propria stessa figura e fisionomia.
A mio parere, una parziale spiegazione al fenomeno è la seguente: nonostante tutto quello che l’uomo ha scoperto nei secoli, con tutta la sua filosofia, la scienza e con ogni mezzo culturale possibile, il volto umano, da un punto di vista iconografico, rimane sempre l’elemento del reale in grado di esprimere il più grande mistero dell’universo. E l’arte si nutre di mistero, che è la sua vera e propria linfa vitale.
A livello di indecifrabilità, di indicibilità, di inafferrabilità, di fuggevolezza e sospensione significativa, non esiste nulla di più potente del volto umano. Per quanto un volto possa essere considerato anche dal punto di vista quantitativo e “normativo” della scienza e della ragione, esso riserverà sempre quello scarto, quel “quid” in grado di relegarci sempre un passo indietro rispetto ad una sua soddisfacente codificazione.
Consideriamo anche la letteratura, e come le più grandi opere di tutti i tempi diano ampio credito alla “valenza conoscitiva” dei volti. Un piccolo “esperimento” personale, mi ha confermato in pieno questo fatto. Ho provato a prestare attenzione, nel romanzo che attualmente sto leggendo, a questo particolare aspetto, ossia a come la “forza indagante” dei volti ricorra spesso nel corso della narrazione. Si dà il “caso” che il libro in questione sia anche un impareggiabile tomo, “L’uomo senza qualità” di Robert Musil, (Klagenfurt, 1880 - Ginevra, 1940), pubblicato, inconcluso e in parte anche postumo, tra il 1930 e il 1943.
A farci caso, è sorprendente notare le volte che i visi dei personaggi raccontanti, vengano chiamati in causa in virtù delle loro “proprietà indagatrici interiori”. Si tratta in certi casi solo di piccoli guizzi metaforici, in altri sono più profonde analisi, ma ogni volta si coglie il tentativo dello scrittore di afferrare l’indicibilità di certi stati interiori, attraverso l’energia espressiva dei visi. Riporto solo alcuni esempi.
Del personaggio Paul Arnheim, un industriale di mezza età con altissime velleità culturali, scrive Musil: «…la sua faccia certi giorni era giallo-grigia, floscia, stanca, vi si guardava dentro come in una camera dove il letto a mezzogiorno non è ancora stato rifatto…».
Oppure, cogliendo l’espressione di un altro carattere, in questo caso femminile, del romanzo, Agathe, lo scrittore sorprende quest’ultima intenta a sostenere un dialogo, con il volto dipinto da «…un sorriso acerbo come un buon vino secco…».
O ancora: il protagonista principale, Ulrich, ricorda un lontano aneddoto della sua adolescenza, quando su un tram venne folgorato dalla visione di una ragazzina che lo lasciò stupefatto per il grande senso di bellezza provato: «…Notai che i lineamenti della sua faccia seria erano più avanti degli anni e sembravano da grande; eppure non era il volto di una donna piccina bensì, senza alcun dubbio, quello di una bimba. E tuttavia la faccia infantile non era per nulla la prefigurazione immatura di una persona adulta. Pare che qualche volta a dodici anni il viso femminile sia già compiuto, formato anche spiritualmente di primo getto come i capolavori, cosicché ogni ritocco guasta soltanto l’originale…».
Di un altro personaggio dal carattere alquanto tetragono, abitudinario e formale, scrupoloso professore di una scuola media, Musil dice che «…incoraggiamento e allegria irradiavano dalla sua fronte sull’edificio scolastico a lui sottoposto…». Si potrebbero trovare ancora tanti esempi del genere, riguardanti l’«energia somatica» sprigionata dai visti, nel corso del romanzo. E questo “esperimento” potrebbe essere ripetuto anche su tanti altri romanzi: di sicuro se ne trarrebbero molti risultati interessanti.
In un altro episodio, sempre il personaggio di Agathe, dopo aver girovagato per le campagne intorno a Vienna in preda allo sconforto, s’imbatte in uno sconosciuto. Ecco come Musil ce lo presenta, in un continuo andirivieni descrittivo fra tratti somatici e tratti interiori: «…una corta barba bianca gli copriva il mento e le guance. Al di sotto dei baffi si potevano scorgere le labbra morbide, un po’ arrovesciate, in giovanile contrasto con i capelli già misti di grigio, come se il tempo le avesse dimenticate. Non era un volto facile da decifrare. […] la severità di quel viso non era intagliata in un legno duro, pareva piuttosto qualcosa di tenero che si fosse indurito a opera di piccole angustie quotidiane…».
In un altro episodio, sempre il personaggio di Agathe, dopo aver girovagato per le campagne intorno a Vienna in preda allo sconforto, s’imbatte in uno sconosciuto. Ecco come Musil ce lo presenta, in un continuo andirivieni descrittivo fra tratti somatici e tratti interiori: «…una corta barba bianca gli copriva il mento e le guance. Al di sotto dei baffi si potevano scorgere le labbra morbide, un po’ arrovesciate, in giovanile contrasto con i capelli già misti di grigio, come se il tempo le avesse dimenticate. Non era un volto facile da decifrare. […] la severità di quel viso non era intagliata in un legno duro, pareva piuttosto qualcosa di tenero che si fosse indurito a opera di piccole angustie quotidiane…».
Se dovessimo paragonare tutto l’insieme reale delle cose osservabili a un’immensa distesa di forze “iconografiche” distribuite con un loro diverso potenziale di “carica visiva”, potremmo annoverare le zone in cui compare un volto, come i punti più intensi del campo di forze in questione. Sarà forse per questo, che ogni volta che mi reco in un museo o a vedere una mostra d’arte, una volta scemato l’entusiasmo della curiosità iniziale, dopo la prima oretta di visita, il mio sguardo finisce immancabilmente per vagare alla ricerca dei visi degli altri visitatori, divenuti a quel punto molto più stimolanti e calamitanti interesse, che non le stesse opere esposte.
Ho parlato più di letteratura, invece che di pittura, andando così forse un po’ fuori dal seminato. Ma i moventi che spingono ad occuparsi di volti, non sono dissimili in entrambe le forme artistiche. In tutti e due i casi, c’è dietro la volontà di aprire una finestra sull’«infinito» rappresentato dalle profondità dell’interiorità umana. Perché per quanto si potrà mai esplorare la realtà, fino agli estremi lontanissimi degli spazi galattici più inoltrati, oppure, nel verso opposto, fino ai sempre più ristretti confini dell’infinitamente piccolo, non si riuscirà mai a trovare una dimensione più sconfinata, illimitata e complessa di quella offerta dall’intimo più profondo dell’animo umano. Del quale il volto rappresenta la via d’accesso privilegiata.
Si chiude qui anche questa puntata oltremodo anomala della nostra rubrichetta. Ora Kika ci aspetta sul suo blog, per mostrarci le sorprese modaiole create per l’occasione. Con questo per oggi è tutto: ci si ritrova settembre per altri appuntamenti con la moda, l’arte e le giocolerie fisiognomiche. Ciao, belle gioie!!!