Cari amici viandanti per pensieri, non so se ve ne siete accorti, ma la foto con cui apro l’odierno articoletto ritrae un tizio a voi molto noto.
Come, non mi avete riconosciuto?
Mais oui, ces’t moi, it’s me, “…a són mè…”, “...sónghè ijè...”.
Sono io: quella vecchia pellaccia di un Gillipixel, ripreso ai tempi in cui aveva appena iniziato a zampettare in autonomia. Come si evince in maniera lampante dall’immagine (quella che avvinghio con strabiliante padronanza di mezzi è una mia vicinetta di casa dell'epoca), fin da allora si palesava già in tutta la sua evidenza l’agevole propensione alla “playboyosità” a me connaturata, attitudine che avrebbe di seguito contrassegnato tutto il successivo fluire dei miei anni. Peccato che col tempo, sarebbe intervenuto un fattore linguisticamente deprivante: il “play” sarebbe decaduto, perdendosi irrimediabilmente per strada, lasciando posto solo ad un’esclusiva “boyosità”. Ma prendendola per di qui, si andrebbe a finire tutto su un altro discorso.
La cosa che mi sono sempre domandato invece è un'altra: dove sono andati a finire i noi stessi del passato? D'accordo: ogni individuo è, in teoria, un essere unico, con una sua identità definita, tratti caratteriali precisi, personalità più meno stabilita, conclusa e “conchiusa”, e così via. Eppure, ogni individuo è al tempo stesso anche una sintesi di infiniti “sé”, un essere che per ogni secondo della vita vissuta è stato di volta in volta una persona nuova, gradualmente mutata in un fisico diverso e probabilmente anche in un animo mutato, attimo dopo attimo, sommatoria umana di infinitesimali diversificazioni accumulate per impercettibile stillicidio cronologico. Se non ci va di esagerare troppo, diciamo pure per ogni minuto, o per ogni ora, o per ogni giorno. Sta di fatto che ognuno cambia incessantemente, pur rimanendo continuamente se stesso.
Non è nient'altro che l'eterno mistero del tempo, considerato, se si vuole, da un gillipixevole punto di vista. Perché se è lecito, seppur piuttosto fantasioso ed utopico, interrogarsi su dove siano andati a finire i “noi stessi passati”, è altrettanto “sgangherevolmente” fascinoso domandarsi dove minchia se ne stiano rintanati in questo momento i noi stessi di domani.
In un interessantissimo articolo letto recentemente sull'inserto domenicale del “Sole 24 Ore”, a firma di Carlo Rovelli, si dice che il concetto di tempo di fatto scaturisce in noi da una limitazione, da una magagna, da una circoscritta capacità operativa insita nelle umane possibilità di prendere contezza del reale, di percepire la realtà intorno. Di fatto, il tempo preso “di per sè”, considerato come entità oggettivamente isolabile nei confini del reale, nessuno è mai riuscito “vederlo” o ad indicare “dove si trovi” effettivamente. Del tempo ne possiamo parlare solo “di seconda mano”, “per sentito dire”, esclusivamente in relazione a nostre esperienze: il sole ha fatto un certo tratto di cielo e diciamo che sono passate un tot di ore; le lancette hanno coperto un data porzione di cerchio, la sabbia è calata di una precisa quantità da una vaschetta all'altra della clessidra, e concordiamo sul fatto che è trascorso un determinato lasso di tempo, e via di questo passo. Però, come dice benissimo Carlo Rovelli: «...non vediamo mai “il vero tempo”. Vediamo solo oggetti che si muovono...».
Quando lo estrapoliamo completamente da un contesto di confronto e commisurazione “esperienziale”, riguardo al tempo non sappiamo più dire la benché minima lussureggiate e stra-beata fava. Considerando dunque questa strettissima parentela consustanziale che intercorre fra tempo (sempre a braccetto col suo cugino “spazio”) ed esperienza, giustamente fin dai tempi di Kant si cominciò a dire che il tempo e lo spazio sono categorie connaturate alle modalità specifiche di cui l'uomo dispone per poter ricevere input conoscitivi da quella fonte di dati che va sotto il nome di “realtà”. In parole povere, le nostre proprietà intellettive (da “intelligere”, “leggere dentro”...faccio un po' di ermeneutica campagnolesca...) sono impostate in modalità “spazio-temporale”, capiscono solo la lingua dello “spazio-tempo”.
Fin qui tutto bene, se ci accontentassimo di seguitare a fare il nido in ambito tardo-settecentesco, con le nostre belle parrucche bianche ben calcate sulle orecchie, ciprie a chili per coprire il fatto di essersi lavati poco, braghe al ginocchio e candide calze ad “impolpacciarci” il sembiante, e piena soddisfazione fiduciosa nutrita nei confronti del kantiano metro di misura del mondo.
Anche Kant si era arreso alla indimostrabilità dell'esistenza del tempo osservabile “di per sé”, isolabile nella sua oggettività. Non per questo tuttavia aveva smesso di aggrapparsi a quell'intuizione di fondo in grado di farci supporre, con un ragionevole margine di sicurezza, che il tempo da qualche parte deve pur esistere, anche se noi, da umani limitati, ne possiamo appurare l'effettività soltanto deducendola “di rimbalzo”, sulla base di “indizi terzi”.
A rimestare le carte in tavola, ci ha pensato tuttavia nel corso del '900 la fisica quantistica, la branca della scienza che ci ha condotto fin oltre le soglie dell'infinitamente piccolo. Rovelli cita una tesi sbalorditiva esposta nel 1967 da un fisico americano, Bryce DeWitt, secondo il quale, e ve la dico proprio nel linguaggio gillipixico più “bovinese” di cui sono capace, quando si comincia a confrontarsi con dimensioni spaziali infinitesimali, l'esistenza del tempo non sarebbe più necessario postularla. In parole ancor più semplici: il tempo nel microcosmo non serve, non sarebbe necessario al fine di spiegare la realtà per come essa si manifesta a quelle “ridottissi - missi - missi- missime” scale.
Un aspetto ancor più affascinante a corroborare la validità dello studio in questione, viene da un'equazione formulata a corredo della tesi da DeWitt, capace di descrivere matematicamente certi fenomeni infinitesimali facendo appunto a meno della variabile “t”. Nel “mini-micro-infinit-cosmo” in pratica i conti tornano anche senza il tempo.
Accogliendo il fluire di simili riflessioni ed abbandonandomi ad un senso di andar-per-spensieratezza assoluto, mi sono ritrovato poi a ricordare una bella storia di Isaac Asimov letta tempo addietro, che ben si riaggancia al mio assunto iniziale riguardo agli innumerevoli “sé” che ciascuno di noi si ritrova sparsi qua e là un po' lungo tutta la propria direttrice cronologica. L'azione si dipanava in un lontano futuro, ovviamente, e l'eroe di turno era l'agente di una sorta di polizia spazio-temporale che disponeva della possibilità di fare avanti ed indietro lungo il tempo, per andare a stanare in ogni epoca criminali e birbaccioni cosmici di ogni risma.
Il passaggio che mi lasciò dentro un fascino incredibile capitò nel punto del libro in cui, dopo un bel po' che la vicenda era bella e che inoltrata, al nostro caro agente girovago dimensionale, in una delle sue scorribande nel passato effettuate per motivi di lavoro, capitava di incontrare il sé stesso che era stato tempo prima, esattamente alla data in cui era stato catapultato per la sua missione.
Questo sbalorditivo intreccio fantascientifico mi fulminò letteralmente la fantasia. Tenetevi pronti e allacciate le cinture di sicurezza, perché ciò che leggerete fra poco rischia di farvi cappottare sulla vostra sedia per il superamento del muro del suono del surrealismo. Cosa credete infatti che ci avrei fatto io, con il “me stesso passato”, se mi fosse toccato in sorte d'incontrarlo in quei termini?
Sempre che l'incontro si fosse verificato (ma questo è talmente ovvio che quasi non andrebbe detto...) con un “me stesso passato” sufficientemente maturo e già in grado di comprendere il valore ed il senso di quanto sto per dire, ecco, io semplicemente, con quel “me stesso passato”, ci avrei fatto l'amore.
Piano nelle curve però, chiarisco una cosa. Non sto parlando di una mia repentina conversione alla tendenza omoerotica. Con tutto il rispetto per le tendenze sessuali di ciascuno, e con il massimo dispregio per qualsiasi atteggiamento omofobo immaginabile, non posso negare di essere nato eterosessuale. Mi è toccato di essere così e ne prendo serenamente atto, come andrebbe fatto verso la sessualità di ciascuno, sempre fatta salva la tutela, la salvaguardia, della libertà di tutti, “condicio sine qua non” per iniziare ogni tipo di discorso in merito.
Non è quello il punto dunque. E la motivazione nemmeno va ricercata nell'ambito della dimensione autoerotica. Niente di tutto questo. La molla del fare l'amore con un “se stesso passato” va invece ricercata tutta su di un piano “ipsoerotico”, dal latino “ipse, ipsa, ipsum” (nei tre generi maschile, femminile e neutro) che sta per “se stesso”, il “propriamente sé”.
Nell'autoerotismo c'è una persona sola, che scaturisce da una mente sola più un fisico solo (sempre ammesso e non concesso, che le due dimensioni siano separabili). In un ipotizzato e fanta-umanistico “ipsoerotismo”, ci sono invece due corpi e due menti che tuttavia al tempo stesso sono anche portatori delle rispettive unicità. E' la condizione perfetta del superamento della limitazione kantiana di percezione del tempo.
Due “se stessi” cronologicamente sfasabili e sfasati che si ritrovassero nell'eventualità di uno scambio d'intimità, darebbero vita alla perfezione del meccanismo amoroso. L'uno (o l'una) saprebbe perfettamente quello che l'altro (o l'altra) si aspetta di ricevere e di poter offrire. Ogni mossa sarebbe quella giusta, ogni gusto azzeccato, il tempismo rispettato al millesimo di secondo, l'intesa impeccabile.
Non “omo” dunque, l'attrazione fra omologhi; e nemmeno “auto”, dedizione fisica esclusiva ad un unico “sé”, bensì “ispso”, lo scambio sensuoso fra due “se stessi” scaturiti in romanzata e duplicata univocità da questa fantascientifica ipotesi “utopizzante”.
Si potrebbe obiettare che imboccando questo cammino, si perderebbero per strada fondamentali valori aggiunti, quali quello del corteggiamento, ad esempio, insieme al correlato piacere della sorpresa nello “scoprire” il diverso nell'altro. L'appunto potrebbe anche essere vero, ma non del tutto. Il “se stesso passato” è infatti anche per buona parte individuo dimenticato dal “se stesso attuale”, mentre si può dire che quest'ultimo rappresenti praticamente un'incognita per il primo. Il gioco della seduzione sarebbe in questo modo salvo, con il pregio ulteriore di non contemplare quasi mai l'opzione del rifiuto (salvo casi eccezionali di estremissima auto-disistima).
In questo senso si concreta allora l'odierno outing gillipixiano: eterosessuale, se considerato sotto risvolti del reale confezionati in carta da pacchi kantiana, tutti belli incasellati nella loro spazio-temporalità d'ordinanza; “ipsosessuale” invece, se proiettato nella “asimoviana” eventualità di uno “sparigliamento” del sé in una serie di molteplici “se stessi” scaturiti dallo rimescolio dell'immenso mazzo di carte dell'apparato cronologico.
So che i più staranno a questo punto pensando: «...Eccolo là! E' andato, ci siamo giocati il Gillipix. Stavolta è proprio partito via di melone senza più speranza.. Peccato, non era neanche un tizio così antipatico, finché è durato...».
Ma so anche che i migliori di voi, se ormai un po' vi conosco, cari amici viandanti per pensieri, tra una riflessione e l'altra di siffatto tenore, si saranno anche lasciati un momento andare, assestando bacini ed abbracci all'aria tutta intorno, nella malcelata speranza di riuscire ad abbrancare un qualche “sé” recente, rimasto per sbaglio impigliato e sospeso nelle maglie fantasiose di una spazio-temporalità adattata su misura della propria sete di fantastico.