Ho esitato a lungo prima di affrontare il tema del quale “avrei” voluto parlare oggi. La residua contorsione condizionale è dovuta al fatto che non sono ancora ben sicuro di cosa andrebbe detto (se mai qualcuno lo saprà…). L’episodio è abnorme, straziante, sfiora picchi di disumanità inenarrabili. Ne avrete sentito parlare tutti: la strage dei bimbi in quella scuola del Connecticut.
Di fronte ad overdose di efferatezza simili, in effetti, il silenzio, il rispetto per il dolore, la riflessione muta, l’astensione dal giudizio, dovrebbero essere le reazioni immediate più consone. A maggior ragione, dovrebbero esserle da parte di chi, come me, non è un esperto sociologo, psicologo, psichiatra e così via, e nemmeno un conoscitore sufficientemente profondo di fenomeni storici, o della realtà che ha fatto da sfondo alla tragedia. Il rischio di incappare nel classico proclama da “Bar sport” è troppo elevato, soprattutto in casi come questo.
Ma anche tenendo presente tutte queste precauzioni, non si può mai spegnere quella voce interiore di fondo, che spinge ad interrogarsi. Perché? Com’è possibile arrivare ad estremi di questo genere? C’è una qualche ragione rintracciabile, oppure tutto è dovuto solamente ad una deprivazione totale di senso, allo smarrimento di qualsiasi significato possibile, alla perdita definitiva di qualsivoglia motivazione che stia alla base dell’espressione “essere umano”?
Cercherò allora di portare solo alcuni spunti di riflessione senza pretesa, soprattutto avvalendomi dell’aiuto di “contributi” più autorevoli del mio.
Chi ha voce in capitolo, chi conta qualcosa, chi ha in mano le leve per poter influire sulla situazione, in forma di immediata risposta ha focalizzato, come “nemico sociale” più immediato, l’eccessiva facilità della diffusione delle armi negli Stati Uniti. Certo, questo è un aspetto molto importante, non lo si può negare, per molti versi le sue implicazioni sono gravissime. Ma paradossalmente, anche nella sua gravità estrema, rimane pur sempre una questione “di superficie”. Se gli Stati Uniti vogliono impegnarsi a superare davvero questa “magagna esistenziale” che covano in seno, è esattamente da lì che devono partire per impostare una riflessione: dal proprio seno, ossia, detto fuori di metafora, dalla loro anima comunitaria, dalla loro psicologia sociale, dalla loro interiorità collettiva.
Gli Stati Uniti sono la nazione che più di tutte, fra quelle cosiddette occidentali, si è votata alla causa della “rivoluzione tecnico-scientifica”. In misura quasi fideistica, viene da dire. Il punto nodale problematico risiede appunto nel fatto che l’identità degli Stati Uniti si è formata sulla base di una visione tecnica del mondo praticamente esclusivista. E’ sempre sbagliato generalizzare, ma tendenzialmente si può affermare che negli Stati Uniti la realtà sia intesa in preminenza come fatto tecnico, misurabile, quantificabile. Da qui si spiega, ad esempio, l’ipertrofica “economicizzazione” di quella società, l’elezione della quantificazione monetaria a guida esistenziale (ripeto: le generalizzazioni argomentative sono sempre pericolose, ma il dato a cui mi riferisco è una “realtà prevalente” sotto gli occhi di tutti, in quel Paese).
Quando Galileo Galilei, padre della scienza moderna, pronunciò la celeberrima frase assumibile come sintesi suprema del suo pensiero, ossia: «…la natura è scritta in linguaggio matematico…», non intendeva certo affermare che i numeri possono spiegare tutto. Galileo era ben conscio del fatto che al di fuori della “giurisdizione dei numeri” rimaneva tutta una sequela di questioni fondamentali riguardo alle quali la scienza non poteva pronunciarsi. Ecco, proprio su questo equivoco sembra invece poggiare la moderna “fede” nella tecnica, di cui gli Stati Uniti sono i massimi sostenitori: conta solo e soprattutto ciò che risulta quantitativo e misurabile. Il problema è che così concependo il mondo, rimangono scoperte tutte quelle altre questioni fondamentali, delle quali Galileo non si era potuto occupare, non per disinteresse, ma per riconosciuta limitatezza dell’ambito di pertinenza della scienza.
La questione si fa poi particolarmente spinosa sul piano dell’indagine dei valori psicologici. Se quello che conta sono soltanto gli aspetti quantitativi e misurabili della personalità dell’essere umano, si nega l’esistenza parallela di tutto un immenso ambito interiore che sfugge alla oggettivazione e alla quantificazione scientifica. Una “massa oscura e sommersa” la chiamerei, che è stata definita in varie maniere dalle diverse tradizioni di studio psicologiche (inconscio, Es, Id, e altre ancora che magari non conosco), un’entità particolarmente complessa e nascosta, a partire in primo luogo proprio dalla sua inafferrabilità e problematica “narrabilità”.
Illuminante in tal senso è il seguente passo, che introduco un po’ anche come punto della situazione del mio discorso:
«...Il razionalismo che scaturisce dalla scienza, oltre a essere uno dei fattori principali della “massificazione” dell’uomo, toglie alla vita individuale le sue basi e con ciò la sua dignità. In questo modo l’uomo ha perduto la sua individualità quale unità sociale ed è diventato un numero nella statistica di un’organizzazione. La sola parte che può ancora svolgere è quella di un’unità fungibile e infinitesimale. Viste dall'esterno e razionalmente, le cose stanno proprio così e, da tale punto di vista, diventa addirittura ridicolo parlare ancora del valore e del significato dell’individuo; anzi, non si riesce ad immaginare come mai si sia potuto assegnare tanta dignità alla singola vita umana, quando la verità del contrario è tanto palese...».
“Presente e futuro”
Carl Gustav Jung – 1957 (citato in: “La casa di psiche”, Umberto Galimberti – 2005)
Non a caso negli Stati Uniti si sono formate scuole psicologiche come il “comportamentismo” e il “cognitivismo”, che pongono proprio sull’atteggiamento tecnico le proprie basi conoscitive del fenomeno psichico. A riguardo del comportamentismo, leggo su Wikipedia:
«...La mente viene quindi considerata una sorta di black box, una scatola nera il cui funzionamento interno è inconoscibile e, per certi aspetti, irrilevante: quello che importa veramente per i comportamentisti è giungere ad un’approfondita comprensione empirica e sperimentale delle relazioni tra certi tipi di stimoli (ambientali) e certi tipi di risposte (comportamentali)...».
E ancora, ci spiega il filosofo Umberto Galimberti:
«...il cognitivismo [...] invita ad aggiustare le proprie idee e ridurre le proprie “dissonanze cognitive” in modo da armonizzarle all’ordinamento funzionale del mondo; il comportamentismo ad adeguare le proprie condotte, indipendentemente dai propri sentimenti e dalle proprie idee che, se difformi, sono tollerate solo se confinati nel privato e coltivati come tratto “originale” della propria identità, purché non abbiano ricadute pubbliche. Si viene così a creare quella situazione paradossale in cui l’”autenticità”, l”essere se stesso”, il “conoscere se stesso”, che l’antico oracolo di Delfi indicava come la via della salute dell’anima, diventa, nel regime della funzionalità dell’età della tecnica, qualcosa di patologico, come può esserlo l’esser centrati su di sé (self-centred), la scarsa capacità di adattamento (poor adaption), il complesso di inferiorità (inferiority complex). Quest’ultima patologia lascia intendere che è inferiore chi non è adattato, e quindi che “essere se stesso” e non rinunciare alla specificità della propria identità è una patologia...».
“La casa di psiche”
Umberto Galimberti – 2005
Anche se sono partito prendendo il discorso molto alla larga, non so se pure voi a questo punto, cari amici viandanti per pensieri, iniziate a sentire odore di affinità fra queste citazioni e la fattispecie del doloroso episodio dell’uccisione dei bimbi del Connecticut. Senza voler dedurre automatismi di causa-effetto eccessivamente semplificatori, si può tuttavia formulare la seguente ipotesi di riflessione: una società che nega, o ignora, il suo inconscio, ossia rinuncia ad indagare la genuinità più profonda del proprio essere (coi suoi lati problematici e contraddittori, anche), non fa altro che porre le basi affinché questo inconscio prima o poi esploda clamorosamente in manifestazioni incontrollate.
Ascoltiamo ancora Galimberti:
«...Se “alienazione” significa allontanamento […] dell’uomo da sé, forse non c’è alienazione più grande di quella che oggi l’uomo patisce sotto il potere incontrastato della scienza. Sembra infatti che la crisi del nostro tempo, a cui la fenomenologia e l’esistenzialismo tentano di reagire, consista proprio nel pericolo che l’uomo appartenga alla scienza più di quanto la scienza non appartenga all’uomo, e, da metodo escogitato dall’uomo per l’interpretazione della natura, la scienza assurga al livello di indiscusso a priori esistenziale in grado di decidere il modo umano di vivere e di pensare, e quindi, in senso profondo e crudelmente letterale, che l’uomo “perda la sua mente”...».
Lo stesso Sigmund Freud aveva già intuito il fenomeno:
«...ci sovrasta il pericolo di una condizione che potremmo definire “la miseria psicologica della massa”. Questo pericolo incombe maggiormente dove il legame sociale s’è stabilito soprattutto attraverso l’identificazione reciproca dei vari membri […] La presente condizione della civiltà americana potrebbe offrire una buona opportunità per studiare questo temuto male della civiltà...».
“Il disagio della civiltà”
Sigmund Freud -1929 (citato in: “La casa di psiche”, Umberto Galimberti – 2005)
E sempre affidandomi ad Umberto Galimberti, traggo una conclusione provvisoria al mio parziale discorso:
«...Come espressione più alta della civiltà della tecnica, l’America non è solo una nazione, ma la forma di una nuova antropologia, dove l’uomo non si riconosce se non come funzionario della razionalità tecnica. Nata per superare la distanza che intercorre tra il bisogno e la sua soddisfazione, nata per rendere presente l’assente, la tecnica, oggi, trattando ogni scopo come mezzo per uno scopo ulteriore, ha a tal punto dilatato la distanza da render presente solo l’assenza degli scopi ultimi, e la psiche umana, che era in grado di riconoscere se stessa all’interno di un orizzonte di senso, vive percorsa solamente dall’angoscia di sopprimere la distanza che la separa da quell’orizzonte che, nell’età della tecnica, appartiene solo al repertorio della sua memoria, di cui l’Europa forse, e ancora non si sa fino a quando, resta l’ultima debole custode...».
Insomma, cari amici viandanti per pensieri, alla fine non so se facevo meglio a starmene zitto, su questo tema, oppure se vi ho propinato solamente le ennesime chiacchiere da bar raffazzonate. Però, almeno una cosa me la riconoscerete: il bar in cui vado io, non si può certo dire che sia frequentato soltanto dai soliti quattro ubriaconi.