Il Mercato delle Quattro Stagioni
E' un venerdì mattina trascorso distrattamente, con un risveglio nella più disperata delle arsure. Esco di casa casualmente, senza pensare che è proprio venerdì. Così mi tuffo in metropolitana, tra le solite decine di persone che si muovono sottoterra come laboriose ed instancabili formiche. Svolgo le mie commissioni, faccio un favore ad un'amica e mi incammino nuovamente verso casa.
Così, salendo le scale che conducono dalle viscere di Milano all'aria aperta, dove il rombo dei treni sotterranei lascia spazio ai clacson e allo stridere degli scambi di rotaie tramviarie, vengo investito da un brulicare incontenibile di persone. E' venerdì, è il giorno del mercato! Pian piano mi rendo conto dell'immensa distesa di bancarelle, furgoni, tendoni di fortuna allestiti con brillanti trovate, e nel mezzo una fiumana di persone. Donne anziane, ragazzini, coppie di perdigiorno innamorati, immersi tra tessuti e reggiseni, tra le voci roboanti dei venditori che espongono le loro merci che, pur in precario equilibrio, restano misteriosamente abbarbicate su spazi troppo piccoli per contenere una simile mole di prodotti. Poco più in là, verso la via principale, è un tripudio di colori e di odori. Il profumo degli agrumi e della verdura fresca si accompagna all'odore intenso degli incensi indiani, della porchetta arrostita ancora calda, dei primi meloni estivi spaccati a metà, così arancioni da fare invidia ad un sole che tramonta. Sembra di assistere ad un arcobaleno sceso in terra per miracolo, che si snoda e si frantuma in migliaia di piccole luci gialle, rosse, verdi, quelle dei frutti di stagione che spiccano ai lati della folla incalzante. Ed è curioso che, in una mattinata di marzo così beffardamente fredda, si possa assistere ad una simile pioggia di rumorosa, sonora allegria. Mescolandomi inaspettatamente a tutte quelle facce impegnate in una scelta meticolosa, ho avuto l'impressione di poter perdere da un momento all'altro i miei sensi, così sovraccaricati, il mio olfatto, la mia vista, il tatto. Per riprendere contatto con la realtà che pian piano mi sfugge, mi avvicino ad una bancarella e tocco un limone, tastandolo bene tra le dita, analizzandone la ruvidezza, esalandone la fragranza che richiama terre ben lontane da Milano, ben più calde e soleggiate, dove il mare lambisce la terra con la dolcezza di un tiepido abbraccio. La venditrice, una signora di mezz'età con un grembiule allacciato al collo, la pelle olivastra e gli occhi bovini, mi sorride bonariamente, e la mia unica risposta non può essere che comprare quei frutti sfavillanti. Almeno potrò dire di aver riportato in casa una fetta d'estate, agognata come le prime ciliegie, ma ancora acerba, come il succo di limone.